Il pianeta WD 0806-661 b ruota intorno alla stella nana (A). Crediti: NASA
Nell’Universo post-stellare, là dove le stelle si spengono e restano come fioche nane bianche, può accadere qualcosa di straordinario: un pianeta sopravvive, e la sua atmosfera continua a raccontare la sua storia. È il caso di WD 0806-661 b, un esopianeta freddissimo, la cui atmosfera è stata studiata per la prima volta in dettaglio grazie alla straordinaria sensibilità del James Webb Space Telescope (JWST).
Il contesto: un campo ancora inesplorato
Gli esopianeti che orbitano attorno a nane bianche – le stelle giunte al termine del loro ciclo evolutivo – sono oggetti estremamente rari e difficili da osservare. La loro atmosfera, in particolare, rappresenta una sfida quasi impossibile per l’osservazione diretta. In questo contesto, WD 0806-661 b, scoperto da K. L. Luhman et al. nel 2011, rappresenta un caso eccezionale: un oggetto planetario a 2500 unità astronomiche dalla sua stella madre, con una temperatura stimata tra i 300 e i 345 K, simile a quella di un frigorifero.
Il ruolo cruciale del JWST
Lo studio, condotto da un team internazionale guidato da D. Barrado, H. Kühnle, Q. Changeat, B. E. Miles e altri, ha utilizzato lo spettrometro a bassa risoluzione MIRI-LRS (Mid-InfraRed Instrument – Low Resolution Spectrometer) a bordo del JWST, insieme all’Imager MIRI per misure fotometriche a 12.8, 15, 18 e 21 μm. I dati sono stati acquisiti nell’ambito del programma GTO 01276 (PI: Lagage), il 14 luglio 2023.
Un’atmosfera fatta di metano, acqua e ammoniaca
Attraverso un’elaborazione sofisticata dei dati e un’analisi di retrieval basata sul codice TauREx (Al-Refaie et al. 2021), gli scienziati sono riusciti a determinare la composizione atmosferica del pianeta. Sono state rilevate tre molecole chiave:
Metano (CH₄)
Ammoniaca (NH₃)
Vapore acqueo (H₂O)
Queste molecole definiscono una tipica atmosfera da “Giove freddo”, simile a quella dei giganti gassosi del Sistema Solare. I rapporti tra gli elementi principali mostrano un valore C/O = 0,34 ± 0,06 e N/O = 0,023 ± 0,004, in linea con altri oggetti della classe Y0, freddi e poco luminosi.
Nessuna nuvola… per ora
Nonostante il profilo temperatura-pressione del pianeta attraversi la curva di condensazione dell’acqua, l’analisi non ha rilevato la presenza di nubi di ghiaccio d’acqua o ammoniaca. Anche l’eventuale presenza di foschia o particelle opache è risultata trascurabile. Il modello privo di nuvole risulta quello statisticamente più solido.
Il mistero della massa e la chimica dell’ammoniaca
Una delle sorprese maggiori emerse dallo studio riguarda la massa del pianeta, stimata tra 0,45 e 1,75 masse gioviane: un valore significativamente più basso di quanto previsto dai modelli evolutivi, che la collocavano tra 6,3 e 9,4 MJ. Questo potrebbe significare che WD 0806-661 b è un oggetto giovane formatosi successivamente alla morte della stella madre. Una possibilità affascinante è che sia stato catturato gravitazionalmente dal sistema.
Altro elemento inaspettato è l’aumento dell’ammoniaca agli alti strati atmosferici, un comportamento che i modelli chimico-fisici faticano a spiegare. Si ipotizzano meccanismi dinamici non ancora compresi, come onde di gravità o convezione di tipo diabatica.
Una combinazione futura di osservazioni con lo strumento NIRSpec potrebbe fornire dati complementari sulle nubi e migliorare i vincoli su massa e composizione. I risultati ottenuti mettono in evidenza l’importanza di modelli atmosferici sempre più raffinati, che integrino anche scenari di formazione post-stellare.
Una nuova cometa sta attirando l’attenzione di astronomi professionisti e amatoriali: si tratta della C/2025 F2 (SWAN), scoperta di recente grazie alle immagini della camera SWAN (Solar Wind Anisotropies), montata a bordo della sonda SOHO, frutto della collaborazione tra NASA ed ESA. Prima di ricevere la designazione ufficiale dal Minor Planet Center (MPC), la cometa era conosciuta con il nome provvisorio SWAN25F.
Uno dei co-scopritori è l’astrofilo australiano Michael Mattiazzo, che aveva già individuato una cometa nel 2020 utilizzando lo stesso metodo, ovvero analizzando le immagini SWAN pubblicamente accessibili.
Dopo la conferma è stata “battezzata” C/2025 F2 SWAN.
L’ oggetto è molto promettente ed è già stato valutato tra l’ottava e la nona magnitudine. Il perielio è previsto il primo maggio, con un passaggio a circa 50 milioni di chilometri dal Sole. In quel momento la F2 SWAN potrebbe raggiungere la quinta magnitudine, forse la quarta, diventando teoricamente visibile ad occhio nudo. Le condizioni prospettiche però ben difficilmente permetteranno di avvistarla senza strumenti.
Di certo la cometa si renderà visibile in piccoli binocoli sotto cieli ideali. Attualmente l’oggetto si trova all’interno del Quadrato di Pegaso, mentre dal 13 aprile si trasferirà in Andromeda.
Occorre anche ricordare in questi giorni la luna disturba non poco le osservazioni e lo farà fino a dopo il 20 aprile. In questo periodo le sessioni andranno condotte poco prima del termine della notte astronomica.
Dal giorno 24, senza Luna, troveremo l’ “astro chiomato” in condizioni migliori dopo il tramonto tra le stelle del Triangolo, anche se sarà sempre più basso sull’orizzonte, tanto che a inizio maggio, quando avvicinerà le Pleiadi, non sarà facile rintracciarlo e successivamente impossibile.
Percorso della cometa C/2025 F2 SWAN dall’11 aprile al 05 maggio.
La C/2025 F2 SWAN arriva in un periodo poverissimo di comete luminose e vale senz’altro la pena fare qualche sacrificio per seguire il suo scomodo ma interessantissimo transito, che potrebbe riservare emozioni e sorprese.
Secondo il professor Paul Wiegert del dipartimento di fisica e astronomia della Western University (Canada), si ritiene che C/2025 F2 provenga dalla Nube di Oort, una regione remota del sistema solare popolata da miliardi di corpi ghiacciati, situata tra 2.000 e 5.000 unità astronomiche (AU) dal Sole.
La cometa è stata già fotografata da diversi astrofili, come Rolando Ligustri, che ha utilizzato un telescopio remoto nello Utah.
La cometa SWAN25F (c/2025 F2 SWAN), visibile in questa immagine, è stata fotografata dall’astrofilo Rolando Ligustri utilizzando un telescopio remoto situato nello Utah.
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Le Pleiadi (M45) tratte dall'archvio PhotoCoelum di Michele Bernardo.
Le Pleiadi, uno degli ammassi stellari aperti più noti e facilmente osservabili nel cielo notturno, non sono solo uno spettacolo per gli occhi. Secondo uno studio condotto da R. Liu et al. (2025), rappresentano anche un laboratorio ideale per comprendere i complessi meccanismi dinamici che regolano l’evoluzione interna degli ammassi stellari. Il lavoro, frutto della collaborazione tra diversi istituti tra cui la Chinese Academy of Sciences e l’Università di Peking, si concentra in particolare sulla distribuzione delle stelle binarie e su come esse vengano influenzate dalla dinamica gravitazionale interna del sistema.
Un ammasso giovane, ma già in fermento
Le Pleiadi contano oltre 1400 membri stellari (Lodieu et al. 2019; Hunt & Reffert 2023) e si trovano a una distanza di circa 135 parsec (circa 440 anni luce) dalla Terra. Nonostante siano relativamente giovani — circa 100 milioni di anni (Gossage et al. 2018; Niu et al. 2020) — mostrano già segni evidenti di segregazione in massa, cioè una tendenza delle stelle più massicce a spostarsi verso il centro dell’ammasso.
La particolarità di questo studio è l’attenzione riservata alle stelle binarie non risolte, ovvero sistemi di due stelle troppo vicine per essere distinte singolarmente con i normali strumenti ottici. Utilizzando i dati astrometrici di Gaia DR3 e fotometrici del catalogo 2MASS, i ricercatori hanno identificato oltre mille stelle della sequenza principale, classificandole come singole o binarie tramite un modello statistico avanzato.
Distribuzione delle stelle della sequenza principale (MS) nelle Pleiadi. Il colore indica la probabilità che una stella faccia parte di un sistema binario, mentre la dimensione dei simboli rappresenta la massa della stella. I cerchi pieni e tratteggiati indicano rispettivamente il raggio che racchiude metà della massa dell’ammasso (rh), secondo questo studio, e il raggio mareale (rt) riportato da J. Alfonso e A. García-Varela (2023).
Segregazione in massa e disgregazione delle binarie
I risultati mostrano che le stelle binarie tendono a essere più massicce rispetto alle stelle singole, confermando precedenti osservazioni (Bouy et al. 2015). Ma c’è di più: quando si analizza la distribuzione radiale — cioè la distanza dal centro dell’ammasso — emerge un quadro complesso. Le stelle più massicce, singole o binarie, si trovano prevalentemente nel nucleo centrale dell’ammasso, segno di una segregazione in massa in atto. Tuttavia, le binarie risultano distribuite in modo più disperso rispetto alle singole nella stessa fascia di massa.
Questo suggerisce che, nelle regioni centrali dell’ammasso, le interazioni dinamiche sono così intense da disgregare molte delle coppie binarie, soprattutto quelle composte da stelle meno massicce o con legami gravitazionali deboli. È una chiara firma del processo di disgregazione dinamica delle binarie, che si affianca alla segregazione in massa nel modellare la struttura dell’ammasso.
Diagramma colore–magnitudine delle stelle nella regione delle Pleiadi, basato sui dati fotometrici di Gaia. I punti grigi rappresentano le stelle di campo (cioè non appartenenti all’ammasso). I cerchi indicano le stelle della sequenza principale (MS) delle Pleiadi, con il colore che esprime il rapporto di massa tra i componenti nel caso di sistemi binari. Le linee rosse continua e tratteggiata mostrano rispettivamente le isocrone empiriche per stelle singole e per sistemi binari, derivate dalla Tabella 3 del Paper I.
La curva fb–R: un indicatore chiave
Uno degli strumenti chiave dell’analisi è la curva fb–R, che descrive la variazione della frazione di binarie (fb) in funzione della distanza dal centro (R). Il profilo osservato nelle Pleiadi è bimodale: la frequenza di stelle binarie è alta sia nel nucleo che nella periferia, mentre cala nelle zone intermedie.
Dividendo la popolazione in stelle di massa più bassa e più alta, emerge un doppio effetto:
Le stelle meno massicce mostrano un aumento della frequenza binaria con la distanza dal centro, coerente con il fatto che le coppie meno legate vengono facilmente disgregate nella regione centrale.
Le stelle più massicce, invece, mostrano una frequenza binaria più alta al centro. Questo è dovuto al fatto che le stelle più pesanti si spostano naturalmente verso il centro con l’evoluzione dinamica, portando con sé un’alta incidenza di sistemi binari.
Questo comportamento è stato previsto anche da simulazioni numeriche come quelle di Geller et al. (2013, 2015) e osservato in altri ammassi come NGC 1805 nella Grande Nube di Magellano (Li et al. 2013).
Nessun bisogno di un’origine “primordiale”
I ricercatori sottolineano che non è necessario ipotizzare che le Pleiadi siano nate con una concentrazione iniziale di binarie nel nucleo. I fenomeni osservati possono essere spiegati interamente come effetto dell’evoluzione dinamica interna, inclusa la formazione di nuove binarie attraverso interazioni a tre corpi (Converse & Stahler 2010) e il progressivo “indurimento” dei sistemi binari più stabili (Heggie 1975).
La vocazione del filosofo è di essere portatore del Tutto. Mentre gli altri si limitano a una specialità, a una parte, egli s’incarica della totalità. Dovrebbe conoscere […] le nozioni e le applicazioni degli altri uomini e specialmente degli esseri elitari, nella politica, nella religione, nelle tecniche e nelle arti; pensare a tutto, pensare il Tutto, ammesso che sia possibile… Poi, enucleare da questa ipotesi imperfetta una regola di vita, una saggezza… Naturalmente è un ideale irrealizzabile, soprattutto ai tempi nostri… Ma la filosofia viene definita da questa impossibilità. Jean Guitton
Indice dei contenuti
Abstract
La filosofia dovrebbe incaricarsi – perlomeno secondo il filosofo francese Jean Guitton – di pensare il tutto, di studiare la totalità. In ambito scientifico, la disciplina che ha lo stesso compito – certo con le dovute e innumerevoli differenze concernenti sia, genericamente, il concetto di “totalità”, sia gli approcci alle rispettive ricerche – è la cosmologia. Questa comunanza d’interessi, solo parziale ma significativa, ci spinge a ipotizzare che la filosofia, per realizzarsi pienamente, avrebbe bisogno della cosmologia, o almeno delle sue conoscenze più fondamentali riguardanti il cosmo fisico in cui siamo tutti noi immersi; al contempo, anche la cosmologia avrebbe bisogno della filosofia per approfondire il suo sguardo sull’universo. In questo articolo introdurrò brevemente solo questa seconda tesi, accennando poi al pensiero di uno dei suoi massimi interpreti: il filosofo e storico della scienza francese Jacques Merleau-Ponty.
Cenni a un approccio filosofico alla cosmologia
La cosmologia è la scienza che forse, più di ogni altra, ha bisogno della filosofia. Si pensi alla sua stessa tipica definizione: la cosmologia studia la struttura su larga scala dell’universo, dove con quest’ultimo termine s’intende tutto ciò che – in senso fisico – esiste, è esistito e per certi versi esisterà, pertanto l’universo è considerato come un sistema totale e unico, e con una sua storia. Si dice anche che la cosmologia studia l’universo come un tutto, o nel suo insieme, vale a dire essa non s’interessa direttamente dei corpi celesti (pianeti, stelle, galassie, e persino ammassi di galassie e superammassi) presenti nel cosmo, che del resto vivono a “piccole” scale rispetto alla “totalità”. Di questi corpi se ne occupa l’astronomia, osservandoli e descrivendone le proprietà, i raggruppamenti, i moti apparenti e reali, ecc., mentre l’astrofisica cerca di interpretare questi corpi e i fenomeni che li riguardano in termini di leggi fisiche note, che essa applica a modelli più o meno semplificati dei sistemi osservati. Invece, scopo principale dell’analisi della cosmologia è di ottenere una descrizione fisica coerente dell’universo nella sua interezza, dunque tentando di includere anche la sua parte inosservabile, tramite modelli che fanno uso di branche della fisica nota, modelli – si badi – di necessità estremamente semplificati, data l’enorme complessità del reale. Dunque la ricerca cosmologica spazia dalle leggi naturali, che permeano i corpi celesti in relazione al cosmo, alla sua struttura geometrica e topologica, dalle sue dimensioni spaziali e temporali alla sua formazione, evoluzione ed eventuale fine, inclusi ovviamente i fenomeni accaduti nel suo lontano passato che hanno dato luogo alla sua attuale conformazione.
È evidente la difficoltà di cogliere propriamente il significato dell’universo come un tutto, sia a livello spaziale (e topologico), sia temporale, sia nei suoi aspetti osservabili, sia nelle interconnessioni fra le sue parti. Del resto l’universo come un tutto non è certo dato dalla totalità degli oggetti, dei sottosistemi, dei processi ed eventi appartenenti all’universo osservabile. Quest’ultimo è soltanto una porzione di un sistema ovviamente più inclusivo che non è però “quantificabile” estendendo, fino a un limite a tutt’oggi del tutto imprecisato, il dominio dell’universo osservabile. Si ha bisogno, insomma, di un “salto” teorico; in altre parole, per rappresentare la composizione e la struttura dell’universo come un tutto bisogna costruirsi un sistema concettuale – il più comprensivo e globale possibile, che incarni la singola totalità integrata degli oggetti e dei processi fisici – che assuma la forma, come già detto, di un modello cosmologico. Un tale modello specifica, quindi, come l’universo come un tutto debba essere concepito, e come, a partire da questo, si possano poi comprendere anche i fenomeni nelle regioni relativamente più ristrette dell’universo osservabile.
Non è solo per mezzo, allora, dell’osservazione astronomica e dei dati che essa mette a disposizione che si può cogliere quel significato del concetto di “universo” al quale la cosmologia anela, ma è grazie all’adozione di un certo modello cosmologico, e quindi, in ultima istanza, alla nostra decisione di adottarne uno piuttosto che un altro. E il fatto importante, come sottolinea il filosofo Milton Munitz, è che “questa decisione si basa in fondo su una visione filosofica del ruolo epistemologico svolto da tali modelli cosmologici” (1990, p. 154)2. Ovviamente, la validità di un modello cosmologico è valutata soprattutto sulla base di evidenze e “riscontri fisici” riguardanti: osservazioni e misurazioni di oggetti e strutture cosmiche, analogie con altri sistemi fisici “minori”, concetti e modelli matematici e geometrici, leggi fisiche ed equazioni riguardanti aspetti “locali” dell’universo, e così via. Però, il cuore epistemologico e, più generalmente filosofico, di quella scelta rimane. Per giunta, data l’impossibilità di manipolare l’universo, di variarne le condizioni iniziali, di riprodurne le altissime energie protagoniste di alcune sue fasi, di analizzarne l’evoluzione da altre posizioni spaziali e in altre epoche temporali e, quindi, di “vedere” le sue prime fasi o le sue più lontane distanze, insomma data l’impossibilità di rendere la cosmologia una scienza direttamente sperimentale, risulta inevitabile il bisogno di affidarsi a delle scelte filosofiche che se da una parte certo contribuiscono, in maniera più o meno significativa, a dar forma alle nostre teorie cosmologiche e ai loro modelli, dall’altra influenzano anche la “genuinità” della nostra comprensione dell’universo. Si pensi al cosiddetto principio cosmologico, che asserisce l’omogeneità e l’isotropia spaziale del nostro universo a larga scala (cioè l’assenza, rispettivamente, di punti e direzioni particolari), o al principio copernicano, nel quale si sostiene che non siamo osservatori privilegiati (nessun luogo nell’universo è in una posizione “speciale”).
Da questi principi discende una ben precisa metrica per la struttura geometrica a larga scala dell’universo (aperta comunque a configurazioni topologiche diverse). Tali principi sono assunzioni ormai quasi date per scontate nella cosmologia standard, ed è naturale, sia perché i riscontri empirici a loro favore hanno assunto un ruolo consistente con il corpus teorico sottostante ai modelli, sia perché in fondo, senza di essi, l’impresa scientifica cosmologica risulterebbe difficilissima se non impossibile. Si pensi, infatti, al principio copernicano: se non valesse, ossia se noi fossimo in una posizione particolare, come potremmo continuare a fare affermazioni sulla globalità dell’universo sapendo che da altri punti di osservazione (per noi inesplorabili) lo scenario potrebbe drasticamente essere diverso? Eppure, quei principi non sono affatto verità sacrosante, i riscontri empirici e le osservazioni non sono per niente in grado di porre una qualche parola definitiva sulla loro validità, e infatti non è raro trovare dei cosmologi che si cimentano con l’analisi di universi in cui essi non valgono.
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Un team internazionale propone un’inedita combinazione di materiali terrestri e lunari per costruire pannelli solari direttamente sulla Luna. La soluzione, basata sull’utilizzo del regolite e di celle in perovskite, potrebbe rivoluzionare la produzione energetica delle future basi spaziali, combinando leggerezza, efficienza e protezione dalle radiazioni.
Con la missione Artemis 3 prevista per il 2026 e l’ambizioso progetto della Lunar Gateway, la possibilità di costruire una base lunare stabile non è più fantascienza. Tuttavia, per garantire la sopravvivenza umana nello spazio in modo sostenibile, la produzione di energia sulla Luna diventa una sfida cruciale. Attualmente, i pannelli solari impiegati nelle missioni spaziali, basati su semiconduttori III-V a multigiunzione, offrono un’ottima efficienza ma un rapporto potenza/massa ancora limitato. La soluzione potrebbe arrivare dalla Terra e… dalla Luna stessa.
Un gruppo di ricercatori guidato da Tobias Kirchartz, Sebastian Lang e colleghi, appartenenti al Forschungszentrum Jülich e alla Technische Universität Berlin, ha presentato un approccio innovativo: utilizzare il regolite lunare per realizzare pannelli solari in loco, integrando celle solari a base di perovskite depositate su “moonglass”, un vetro ottenuto proprio dal suolo lunare.
Energia dalla Luna, con la Luna
Il regolite lunare, abbondante e facilmente accessibile, può essere fuso tramite forni solari per creare lastre vetrose di protezione (moonglass), che fungono da substrato per le celle fotovoltaiche. Le perovskiti, semiconduttori emergenti noti per la loro efficienza e facilità di lavorazione, possono essere depositate su questi vetri con tecniche a bassa temperatura (<150°C), utilizzando quantità minime di materiale terrestre.
Secondo i ricercatori, questo metodo permette di raggiungere rapporti potenza/massa fino a 50.000 W/kg, un ordine di grandezza superiore rispetto alle soluzioni attuali. «Il nostro approccio ibrido ISRU (In-Situ Resource Utilization) è altamente realizzabile e facilmente scalabile nel prossimo futuro», affermano gli autori.
Il regolite simulato TUBS-T, prodotto alla TU Berlin, imita le caratteristiche dei terreni dell’altopiano lunare, ricchi di anortosite. Fuso in laboratorio a 1.550°C, ha generato un vetro trasparente, sufficientemente resistente e con una trasmittanza compatibile con l’assorbimento delle celle in perovskite (∼1.5 eV). Sebbene meno trasparente del vetro terrestre standard, il moonglass si è dimostrato efficace nel limitare la degradazione da radiazioni.
Celle in perovskite: prestazioni e resistenza oltre le aspettative
Le celle fotovoltaiche realizzate direttamente su moonglass hanno mostrato una qualità ottica e strutturale comparabile con quelle costruite su vetro convenzionale. Con configurazioni opache standard, l’efficienza ha raggiunto l’8,5% sotto condizioni di luce lunare (AM0), mentre configurazioni più avanzate, con contatti trasparenti in IZO (indium zinc oxide), hanno superato il 12%.
Una simulazione con moonglass sottile (0,1 mm) suggerisce che si potrebbero superare PCE del 21%, rendendo queste celle tra le più performanti mai proposte per applicazioni lunari.
Un’inaspettata resistenza alle radiazioni
Uno dei risultati più sorprendenti riguarda la tolleranza alle radiazioni. Durante test condotti con protoni ad alta energia (68 MeV), i dispositivi costruiti su moonglass hanno mantenuto il 96% dell’efficienza iniziale. Questa resilienza è stata attribuita alla presenza di ferro nel vetro lunare, che agisce come “spugna elettronica” simile al cerio nei vetri spaziali, impedendo la formazione di centri di colore che normalmente degradano le prestazioni dei vetri irradiati.
«Questa straordinaria resistenza del moonglass alle radiazioni – in combinazione con la tolleranza delle perovskiti – rappresenta un fattore chiave per l’affidabilità a lungo termine dei pannelli solari lunari», scrivono i ricercatori.
Meglio delle celle in silicio?
La produzione di celle in silicio direttamente sulla Luna, ipotizzata da decenni, resta un obiettivo complesso. Richiede processi ad alta temperatura, raffinazione spinta del silicio fino a livelli di purezza <1 ppb, e infrastrutture metallurgiche avanzate. In confronto, la fabbricazione di celle in perovskite su moonglass risulta di gran lunga più semplice, meno energivora e adatta a condizioni di bassa gravità.
Una via concreta per alimentare le basi lunari
Con un impianto produttivo compatto da circa 3 tonnellate, il team stima di poter produrre sul suolo lunare una capacità fotovoltaica di oltre 3 MW, sufficiente per sostenere una base abitata da circa 200 astronauti, basandosi sui consumi dell’ISS.
In conclusione, questa ricerca apre una strada concreta alla produzione energetica autonoma sulla Luna, essenziale per le future colonie spaziali. Combinando innovazione nei materiali, utilizzo di risorse locali e strategie ingegneristiche sostenibili, i pannelli solari in perovskite su moonglass si candidano come la tecnologia più promettente per illuminare il futuro lunare dell’umanità.
NOAA inaugura una nuova era dell’osservazione solare e del monitoraggio delle tempeste geomagnetiche con il primo coronografo moderno per la previsione del meteo spaziale.
Dal 25 febbraio 2025, chiunque può osservare quasi in tempo reale l’attività della corona solare grazie alle immagini trasmesse dal nuovo coronografo CCOR-1 (Compact Coronagraph), montato a bordo del satellite GOES-19 della NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). Le immagini, aggiornate ogni 15 minuti, sono pubblicamente disponibili sul sito del Space Weather Prediction Center (SWPC) e archiviate, dal 7 marzo, presso il National Centers for Environmental Information (NCEI).
Un Occhio Sulla Corona del Sole
Il CCOR-1 è progettato per monitorare costantemente la corona solare, ovvero lo strato più esterno e rarefatto dell’atmosfera del Sole, dove si originano fenomeni violenti come le espulsioni di massa coronale (CME). Queste gigantesche nubi di plasma, proiettate nello spazio interplanetario, possono raggiungere la Terra e interagire con il campo magnetico terrestre, generando tempeste geomagnetiche in grado di disturbare sistemi elettrici, comunicazioni radio, reti GPS e satelliti.
Con il CCOR-1, la NOAA inaugura il primo coronografo moderno pensato specificamente per la previsione operativa del meteo spaziale. Rispetto agli strumenti precedenti (come il LASCO a bordo del Solar and Heliospheric Observatory, SOHO), il nuovo coronografo fornisce aggiornamenti in tempi molto più rapidi — ogni 15 minuti — e in maniera continua.
Il video ripreso dallo strumento CCOR-1, mostra la corona solare. La dimensione del Sole è indicata dal piccolo cerchio vuoto al centro dell’immagine, mentre un disco scuro, circa quattro volte più grande, blocca la luce diretta della nostra stella. Questo accorgimento consente di osservare le strutture più deboli e delicate della corona, come le espulsioni di massa coronale (CME), che appaiono come nuvole luminose e filamentose di plasma che si allontanano dal disco centrale.
Previsioni Migliori per Proteggere Infrastrutture e Tecnologie
Le immagini di CCOR-1 rappresentano una fonte primaria di dati per le previsioni meteorologiche spaziali del SWPC. Grazie a queste osservazioni, è possibile prevedere l’arrivo di tempeste geomagnetiche con uno o tre giorni di anticipo, dando così il tempo necessario agli operatori di prendere contromisure fondamentali per la sicurezza di infrastrutture critiche, come le reti elettriche o le comunicazioni satellitari.
Le informazioni derivate da CCOR-1 sono già utilizzate da numerosi settori: dall’aviazione commerciale alla navigazione di precisione per l’agricoltura, fino all’esplorazione petrolifera e alla difesa nazionale. L’importanza di questi dati è cresciuta soprattutto alla luce dei numerosi eventi registrati negli ultimi mesi, inclusa la potente tempesta geomagnetica del 10 ottobre 2024, documentata in dettaglio proprio da CCOR-1.
Un’Icona del Sole: Come Funziona il Coronografo
Nelle immagini del CCOR-1, il Sole appare come un piccolo cerchio vuoto al centro, circondato da una schermatura nera che blocca la luce diretta della nostra stella. Questo permette di osservare le strutture più deboli, come le CME, che appaiono come nuvole di plasma luminose e filamentose che si espandono all’esterno.
Curiosità: due volte al giorno, un intenso lampo attraversa le immagini. Si tratta della Terra che “photobomba” il campo visivo dello strumento, riflettendo la luce del Sole attraverso oceani e nuvole — un fenomeno chiamato earthshine. Anche la Luna fa la sua comparsa quotidiana, passando attraverso l’inquadratura, anch’essa riflettendo la luce solare.
Il Futuro: CCOR-2 e L’Osservazione dallo Spazio Profondo
Il satellite GOES-19 entrerà ufficialmente in servizio come GOES-East il 4 aprile 2025, ma già oggi il CCOR-1 è operativo in via preliminare. In parallelo, NOAA lancerà un coronografo gemello, CCOR-2, a bordo della missione SWFO-L1 (Space Weather Follow On – Lagrange 1). Questo strumento sarà posizionato nel punto lagrangiano L1, a circa un milione di chilometri dalla Terra, offrendo una seconda prospettiva costante del Sole. Insieme, CCOR-1 e CCOR-2 garantiranno continuità e ridondanza delle osservazioni, anche in caso di guasti.
Dove vedere le immagini in diretta del Sole?
Tutti possono consultare le immagini aggiornate e le animazioni delle ultime 24 ore sul sito ufficiale dello SWPC.
Inoltre, l’archivio completo delle osservazioni CCOR-1 (e presto anche CCOR-2) è disponibile presso la sezione dedicata al meteo spaziale del NCEI.
In occasione del 35° anniversario del telescopio spaziale Hubble, lanciato nel 1990 come progetto congiunto NASA/ESA, l’Agenzia Spaziale Europea dà il via alle celebrazioni con una nuova e spettacolare immagine dell’ammasso stellare NGC 346, uno dei più attivi laboratori di formazione stellare nelle vicinanze della Via Lattea.
Questa immagine inaugurale fa parte di una serie celebrativa che riunisce alcune delle più iconiche osservazioni realizzate da Hubble, aggiornate grazie a nuove tecniche di elaborazione e a dati più recenti. L’obiettivo è quello di riproporre al pubblico meraviglie cosmiche già conosciute, ma ora ancora più dettagliate e suggestive.
NGC 346: una fucina di stelle nella Piccola Nube di Magellano
Protagonista di questa prima immagine è NGC 346, un giovane ammasso stellare situato nella Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea distante circa 200.000 anni luce nella costellazione del Tucano. Nonostante fosse già stato immortalato più volte da Hubble, questa nuova versione è la prima a combinare osservazioni a diverse lunghezze d’onda – infrarosso, ottico e ultravioletto – offrendo una visione senza precedenti della regione.
NGC 346 ospita più di 2500 stelle neonate, molte delle quali estremamente massicce e luminose. Nell’immagine si distinguono per la loro intensa luce blu, mentre la nube rosa incandescente e le scie scure serpeggianti indicano la presenza di polveri residue dal processo di formazione stellare.
Un ammasso stellare immerso in una nebulosa. Sullo sfondo si estendono sottili nubi di gas di colore azzurro pallido, che in alcuni punti si addensano e assumono tonalità rosate. Al centro dell’immagine, un gruppo compatto di stelle blu molto luminose illumina la nebulosa circostante. Attorno all’ammasso, si curvano ampi archi di polveri dense, situati sia davanti che dietro le stelle, compressi dalla loro intensa radiazione. Al di là delle nubi nebulose, si intravedono numerose stelle arancioni più distanti. Crediti: ESA/Hubble & NASA, A. Nota, P. Massey, E. Sabbi, C. Murray, M. Zamani (ESA/Hubble)
Una finestra sull’universo primordiale
La Piccola Nube di Magellano presenta una composizione chimica povera di elementi più pesanti dell’elio, i cosiddetti “metalli” in gergo astronomico. Questa caratteristica la rende simile all’universo primordiale, fornendo un’opportunità unica per studiare come avveniva la formazione stellare nelle epoche più remote della storia cosmica.
Grazie all’eccezionale risoluzione del telescopio Hubble, i ricercatori hanno potuto tracciare il moto delle stelle di NGC 346, osservando due set di dati a distanza di 11 anni. I risultati hanno rivelato che le stelle si stanno muovendo a spirale verso il centro dell’ammasso, guidate da un flusso di gas che dall’esterno alimenta la nascita di nuove stelle nel cuore della nube turbolenta.
Gli scultori di N66
L’energia sprigionata dalle giovani stelle di NGC 346 non solo alimenta la formazione stellare, ma modella attivamente l’ambiente circostante. I venti stellari e le radiazioni ultraviolette scavati nel gas residuo della nebulosa stanno creando una grande cavità all’interno della nube, come veri e propri “scultori cosmici”.
La nebulosa che circonda l’ammasso è denominata N66 ed è la più brillante regione H II (pronunciata “acca due”) della Piccola Nube di Magellano. Queste regioni sono nubi di idrogeno ionizzato illuminate da stelle giovani e calde. La presenza stessa di N66 testimonia la giovane età di NGC 346: le regioni H II infatti brillano solo per pochi milioni di anni, il tempo di vita delle stelle massicce che le alimentano.
Programmi di osservazione e cooperazione internazionale
Questa nuova immagine è il risultato della combinazione di più campagne osservative condotte nel corso degli anni, in particolare i programmi #10248 (PI: Antonella Nota), #12940 (PI: Phillip Massey), #13680 (PI: Elena Sabbi), #15891 e #17118 (entrambi guidati da Claire Murray).
Il telescopio spaziale Hubble continua a rappresentare uno degli strumenti più preziosi per l’astronomia moderna, frutto della cooperazione tra l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e la NASA. A 35 anni dal lancio, Hubble continua a stupire il mondo con immagini straordinarie e scoperte fondamentali sulla nascita e l’evoluzione dell’universo.
Una porzione di spazio profondo è popolata da numerose galassie di forme diverse e colori che vanno dal blu al bianco fino all’arancione, insieme ad alcune stelle vicine. Sulla sinistra, un piccolo riquadro mostra un ingrandimento di una minuscola zona dell’immagine. Al centro di questo riquadro si vede un puntino rosso, evidenziato da linee e contrassegnato con la scritta “Redshift (z)=13”, che indica la sua straordinaria distanza dalla Terra. Si tratta della galassia JADES-GS-z13-1, una delle più lontane mai osservate. Due galassie molto più grandi, visibili nella stessa area, sono indicate con “z=0.63” e “z=0.70”, valori che corrispondono a distanze molto inferiori rispetto a GS-z13-1. Crediti: ESA/Webb, NASA, STScI, CSA, JADES Collaboration, Brant Robertson (University of California Santa Cruz), Ben Johnson (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics), Sandro Tacchella (University of Cambridge), Phill Cargile (CfA), Joris Witstok, Peter Jakobsen, Alyssa Pagan (STScI), Mahdi Zamani (ESA/Webb)
A 330 milioni di anni dal Big Bang, la galassia JADES-GS-z13-1 sorprende gli astronomi con un segnale luminoso impossibile da spiegare con le teorie attuali.
Un nuovo studio pubblicato su Nature ha svelato una scoperta che sta facendo discutere la comunità scientifica internazionale: il James Webb Space Telescope ha individuato un segnale luminoso proveniente da una galassia così remota e antica che, secondo le attuali teorie cosmologiche, non avrebbe dovuto essere visibile.
La protagonista di questa scoperta è JADES-GS-z13-1, una galassia osservata com’era appena 330 milioni di anni dopo il Big Bang, in un’epoca in cui l’universo era ancora avvolto da una densa nebbia di idrogeno neutro. Eppure, da questo remoto angolo dello spazio, gli strumenti di Webb hanno rilevato un’emissione sorprendentemente intensa di Lyman-α, una caratteristica luce prodotta dagli atomi di idrogeno. Un evento che, in teoria, non avrebbe dovuto essere possibile.
Subito dopo il Big Bang, l’universo era una sorta di nebbia densa composta da atomi di idrogeno neutro, opachi alla radiazione ultravioletta. Solo centinaia di milioni di anni dopo, con la nascita delle prime stelle e galassie, la luce ultravioletta iniziò a “ionizzare” questi atomi, rendendo lo spazio trasparente alla luce: fu la cosiddetta epoca della reionizzazione.
Tuttavia, JADES-GS-z13-1 appare molto prima che questo processo fosse completo. “È come se un faro potentissimo riuscisse a bucare una fitta nebbia molto prima del previsto”, spiega Kevin Hainline dell’Università dell’Arizona, membro del team.
Una luce che non doveva esserci
Una piccola area ingrandita dello spazio profondo. Sono visibili numerose galassie di forme diverse, la maggior parte molto piccole, ma due appaiono grandi e brillanti. Al centro dell’immagine, un minuscolo puntino rosso: è la galassia GS-z13-1, estremamente lontana. A sinistra dell’immagine si vedono due linee luminose, chiamate spike di diffrazione, artefatti visivi causati dalla presenza di una stella brillante poco fuori campo. Crediti:ESA/Webb, NASA, STScI, CSA, JADES Collaboration, Brant Robertson (University of California Santa Cruz), Ben Johnson (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics), Sandro Tacchella (University of Cambridge), Phill Cargile (CfA), Joris Witstok, Peter Jakobsen, Alyssa Pagan (STScI), Mahdi Zamani (ESA/Webb)
Il team, guidato da Joris Witstok (Università di Cambridge e Cosmic Dawn Center di Copenaghen), ha osservato la galassia con lo spettrografo NIRSpec di Webb, confermandone la distanza estrema con un redshift di 13.0. Ma il vero colpo di scena è arrivato con l’osservazione di quella inaspettata linea di emissione di Lyman-α, chiara e intensa.
“Secondo i modelli attuali, quella luce non avrebbe dovuto attraversare la nebbia cosmica così presto nella storia dell’universo”, afferma Roberto Maiolino, co-autore dello studio e professore a Cambridge e University College London. “Eppure, è lì, ben visibile.”
Come ha fatto questa luce a farsi strada tra il gas neutro che avvolgeva l’universo primordiale? Gli scienziati stanno considerando due possibili spiegazioni. La prima ipotesi è che la galassia sia circondata da una “bolla” di idrogeno ionizzato, prodotta da stelle di primissima generazione, estremamente massicce, calde e luminose — molto diverse da quelle che vediamo oggi.
La seconda possibilità è ancora più affascinante: un nucleo galattico attivo (AGN), alimentato da uno dei primi buchi neri supermassicci dell’universo, potrebbe aver generato l’energia necessaria a ionizzare l’ambiente circostante.
La scoperta è parte del JADES (JWST Advanced Deep Extragalactic Survey), uno dei programmi chiave del telescopio Webb, che si sta rivelando una macchina del tempo impareggiabile per esplorare l’universo primordiale. Grazie alla sua sensibilità all’infrarosso, Webb riesce a scrutare più lontano – e più indietro nel tempo – di qualsiasi altro strumento mai costruito.
“Con Hubble sapevamo che avremmo potuto vedere galassie sempre più distanti”, ricorda Peter Jakobsen, già scienziato del progetto NIRSpec. “Ma ciò che Webb sta rivelando sulla natura delle prime stelle e buchi neri va ben oltre le aspettative.”
I “Big Five” delle meteoriti, come i celebri animali della savana africana, rappresentano i più grandi e affascinanti esemplari extraterrestri mai ritrovati sulla Terra. Tra questi spiccano le sideriti Hoba (Namibia, 60 t), Cape York (Groenlandia, 31 t), Campo del Cielo (Argentina, 30,8 t), Armanty (Cina, 28 t) e Bacubirito (Messico, 22 t). Composte principalmente da ferro e nichel, queste meteoriti resistono meglio all’ingresso atmosferico rispetto a quelle pietrose, come Chelyabinsk (2013). La loro storia, spesso intrecciata a miti locali, esplorazioni e musei internazionali, testimonia il costante legame tra il cielo e la Terra.
Introduzione
Elefante, Leone, Bufalo, Rinoceronte e Leopardo, compongono i famosi Big Five della savana africana. Questa hit parade stilata all’epoca in cui si abbattevano per sport questi splendidi animali è rimasta in voga anche oggi, quando (per la gran parte dei casi), si mira solo con la fotocamera e non più con i fucili da caccia. Anche per le meteoriti esiste una classifica per i più grandi esemplari conosciuti, tenendo conto che qualsiasi elenco è destinato nel tempo a modificarsi. Infatti nuovi esemplari vengono trovati di tanto in tanto in zone impervie e inoltre, grandi meteoriti, possono cadere in qualunque momento, come ci ha ricordato nel 2013 quello di Chelyabinsk la cui onda d’urto causò molti danni e feriti (soprattutto a causa delle vetrate infrante) nell’omonima città russa. Tra le centinaia di frammenti recuperati, il maggiore pesava 654 kg; un’inezia in confronto alle 9-10.000 tonnellate stimate del meteoroide originale, esploso a 30km di altezza. Chelyabinsk era però un meteorite pietroso; una condrite LL5 e questo tipo di rocce, offre una bassa resistenza alle vibrazioni ed agli stress meccanici all’ingresso in atmosfera. Ciò fa sì che queste tendano a frantumarsi, in molte piccole sezioni. Diverso è il caso delle meteoriti ferrose, che resistono assai meglio allo “scontro” e possono generare, anche nei casi di frammentazione, singole masse di molte tonnellate. Perciò quasi tutti i meteoriti più grandi conosciuti sono sideriti, con l’importante eccezione di Jilin, la condrite H5 caduta in Cina nel 1976 che con una massa principale di 1,7 tonnellate è di gran lunga la condrite ordinaria singola più grande conosciuta. Ma anche questo “gigante” tra le meteoriti pietrose sfigura vicino alle grandi sideriti che compongono i nostri “big five”.
HOBA (NAMIBIA)
Nel Nord della Namibia, vicino alla città di Grootfontein1 si trova questo meteorite di 60 tonnellate (un tempo, prima di campionamenti, furti e vandalismi sembra arrivasse a 66 tonnellate). Venne scoperto per caso nel 1920 da un contadino che lo colpì con l’aratro, dissodando il terreno. E’ un “mattone” di ferro di 2,7×2,7×0,9 metri in un avvallamento del terreno circondato da un anfiteatro di muretti a secco. Si trova ancora nel punto del ritrovamento. È un tipo di siderite assai raro; un Atassite, che contiene un tenore di nikel molto più alto delle altre ferrose. Nonostante il suo aspetto “giovanile” (dovuto al clima estremamente secco) questo meteorite è caduto sul nostro pianeta circa 80.000 anni fa. È possibile che la forma, simile ad un sasso piatto, lo abbia aiutato a perdere velocità in modo meno traumatico, durante l’impatto con l’atmosfera. Il meteorite avrebbe quindi rimbalzato più volte, come un sasso lanciato sulla superficie di un lago.
Il meteorite Hoba a Grootfontein in Namibia massa 60t.
CAPE YORK (GROENLANDIA)
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Il telescopio posizionato al sito Dome Argus dalla spedizione cinese. Dome A in Antartide. Crediti: Zhaohui Shang
Nell’estate australe del 2023-2024, un gruppo di astronomi cinesi ha compiuto un’impresa scientifica straordinaria: osservare le stelle… di giorno. Non in un osservatorio qualsiasi, ma nel luogo forse più remoto e promettente della Terra per l’astronomia: Dome Argus, noto anche come Dome A.
Situato nel cuore del Plateau Antartico, a oltre 4.000 metri di quota, Dome Argus è il punto più elevato della calotta glaciale antartica, e uno dei luoghi più freddi e secchi del pianeta. Proprio per queste sue caratteristiche estreme, rappresenta un sito eccezionale per l’osservazione del cielo notturno nelle bande dell’ottico e dell’infrarosso vicino (NIR). Ma finora nessuno aveva mai misurato quanto il cielo fosse “buio” durante il giorno, in estate, quando il Sole non tramonta mai.
Un piccolo telescopio per un grande esperimento
L’esperimento, condotto da un team dell’Osservatorio Astronomico di Shanghai dell’Accademia Cinese delle Scienze (Shanghai Astronomical Observatory), si è avvalso di un telescopio compatto da 150 mm di apertura, installato in cima a una piattaforma alta tre metri sopra la superficie ghiacciata.
Lo strumento era dotato di una fotocamera NIR con sensore Sony InGaAs, sensibile alla luce nel range 400–1800 nm, e di un filtro centrato sulla banda J dell’infrarosso (attorno ai 1250 nm). Il filtro è stato progettato dal Nanjing Institute of Astronomical Optics & Technology (link).
L’apparato è stato trasportato a Dome Argus dalla 40ª spedizione antartica cinese, e ha operato per otto giorni in condizioni atmosferiche ideali: cielo sempre sereno e una stabilità dell’aria praticamente senza paragoni.
La base di ricerca Davis.Base di ricerca Mawson.
Stelle visibili anche con il Sole alto
Le osservazioni si sono concentrate su stelle brillanti visibili nel vicino infrarosso, una banda in cui la luce solare viene diffusa molto meno rispetto al visibile. Grazie a brevi esposizioni (circa 0,3 secondi), il telescopio ha rilevato stelle fino alla magnitudine J=5,3. Combinando 500 immagini brevi in una tecnica di “stacking”, è stato possibile scendere fino alla magnitudine J=10,06, ben visibile anche con il Sole sopra l’orizzonte.
Le misure di luminosità del cielo al mezzogiorno antartico – con il Sole a 27° sopra l’orizzonte – indicano un valore di circa 5,2 mag/arcsec² nella banda J, che si riduce a 5,8 intorno alla mezzanotte locale, quando il Sole scende a circa 10° sull’orizzonte.
Per fare un paragone: questi valori sono molto vicini (solo leggermente più luminosi) a quelli registrati durante il giorno in cima al monte Haleakalā, alle Hawaii – uno dei migliori osservatori astronomici in uso. E Dome Argus non aveva nemmeno un cupolino per schermare la luce solare riflessa dalla neve!
Il futuro dell’astronomia continua anche di giorno
Questi risultati aprono la strada a una nuova frontiera: l’osservazione continua, 24 ore su 24, di eventi luminosi transitori nel cielo australe. Supernove, esplosioni di raggi gamma, stelle variabili e persino detriti spaziali in orbita bassa possono essere monitorati da Dome Argus anche durante l’estate antartica, grazie alla relativa “oscurità” del cielo nell’infrarosso.
Il sito è perfetto anche per l’osservazione di oggetti in orbita terrestre: oltre l’80% dei detriti spaziali passa sopra Dome A almeno una volta per ogni orbita. In futuro, è previsto l’utilizzo di telescopi di classe 1 metro, che miglioreranno ulteriormente la sensibilità e permetteranno osservazioni più profonde e precise. Alcuni di questi strumenti potrebbero anche essere equipaggiati per la misurazione laser di precisione delle orbite dei satelliti – una tecnologia chiamata Satellite Laser Ranging (SLR).
Un laboratorio naturale unico al mondo
Le condizioni uniche di Dome Argus – assenza di inquinamento luminoso, atmosfera estremamente stabile e un’altissima percentuale di giorni sereni – ne fanno uno dei luoghi più promettenti per l’astronomia del futuro. Proprio grazie alla sua posizione (80°22′ S, 77°22′ E), la volta celeste australe rimane osservabile tutto l’anno, senza alternanza tra giorno e notte come avviene altrove.
Dome A si trova nel punto più alto del Plateau Antartico, a circa 4.093 metri sul livello del mare, su una calotta di ghiaccio spessa oltre 3.000 metri. La sua posizione isolata, su una dorsale lunga 60 km, lo rende uno dei luoghi meno esplorati del pianeta.
Coordinate: 80°22′ S, 77°22′ E Temperatura record: -82,5 °C nel luglio 2005 Clima: aria secca, assenza di vento forte, cielo sereno oltre l’80% del tempo
Un’importante stazione meteorologica automatica è stata installata nel 2005 da una collaborazione australiana-cinese. Questa raccoglie dati fondamentali per comprendere le condizioni ambientali estreme del sito, misurando temperatura, vento, pressione atmosferica, umidità e radiazione solare.
Dome A potrebbe essere il luogo più freddo della Terra: anche se il record appartiene ufficialmente alla stazione russa di Vostok, Dome A si trova a un’altitudine ancora maggiore e resta un serio candidato per future misurazioni da primato.
Fonte: Z. Li et al., 2024 (studio completo su Dome A)
Questa illustrazione artistica raffigura una regione di Venere che potrebbe presentare vulcanismo attivo e subduzione, dove la superficie sprofonda nel mantello. Le rocce in primo piano mostrano materiali poveri di ferro, forse analoghi ai continenti granitici della Terra. La missione VERITAS metterà alla prova queste interpretazioni.
Crediti: NASA/JPL-Caltech/Peter Rubin
Un team di ricercatori dell’Università della California a Riverside e del Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory ha avanzato una proposta affascinante e concreta: utilizzare un osservatorio spaziale per osservare direttamente le “ExoVenere”, pianeti rocciosi simili a Venere che orbitano attorno ad altre stelle. Lo studio è stato condotto da Stephen R. Kane, Emma L. Miles e Colby M. Ostberg (University of California, Riverside) insieme a Noam R. Izenberg (Johns Hopkins APL).
Il ruolo di Venere nella ricerca della vita
Comprendere l’abitabilità dei pianeti è una delle grandi sfide dell’astrobiologia. E se la Terra rappresenta l’esempio ideale di mondo abitabile, Venere ne è l’estremo opposto: un pianeta della stessa dimensione e composizione, ma con un’atmosfera soffocante, dominata da anidride carbonica e nuvole di acido solforico, in preda a un effetto serra incontrollato.
Studiare Venere non è solo utile per capire come sia arrivata a questo stato, ma anche per individuare le condizioni che possono rendere inabitabile un pianeta simile alla Terra. Ecco perché le missioni future come VERITAS, DAVINCI della NASA, e EnVision dell’ESA, avranno un ruolo centrale nel fornirci dati chiave per costruire modelli di evoluzione atmosferica applicabili anche agli esopianeti.
Un catalogo in crescita di mondi rocciosi caldi
Grazie a missioni come TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite), gli scienziati hanno già identificato centinaia di potenziali “ExoVenere”: pianeti rocciosi, di dimensioni simili alla Terra, che orbitano molto vicino alla loro stella, in una regione nota come Venus Zone (VZ). Al marzo 2024, sono almeno 334 i candidati identificati, ma si stima che il numero crescerà rapidamente man mano che verranno confermati oltre 7000 candidati.
Poiché i pianeti della VZ ricevono un’intensa radiazione stellare, sono più facili da osservare rispetto ai loro simili più freddi. Inoltre, se presentano temperature elevate, tendono a riflettere più luce e quindi a risultare più visibili per gli strumenti astronomici.
illustrazione della grande Corona Quetzalpetlatl, situata nell’emisfero sud di Venere, raffigura un vulcanismo attivo e una zona di subduzione, dove la crosta in primo piano sprofonda nell’interno del pianeta. NASA/JPL-Caltech/Peter Rubin
L’Habitable Worlds Observatory: il futuro è già in cantiere
Tra le raccomandazioni del decennale sondaggio dell’Astronomy and Astrophysics Decadal Survey del 2020 figura una missione rivoluzionaria: il Habitable Worlds Observatory (HWO). Questo futuro telescopio spaziale avrà lo scopo di osservare direttamente pianeti rocciosi potenzialmente abitabili attorno a stelle simili al Sole.
Ma c’è di più: HWO sarà anche in grado di identificare pianeti simili a Venere. L’osservazione diretta permetterà di analizzare lo spettro riflesso della luce dei pianeti, una tecnica più sensibile delle osservazioni in trasmissione per atmosfere dense e nuvolose. In particolare, sarà possibile cercare firme chimiche come il biossido di zolfo (SO₂), che potrebbe indicare attività vulcanica, oppure atmosfere dominate da anidride carbonica con nubi di acido solforico, segni distintivi di un ambiente inabitabile ma ricco di informazioni.
Una sinergia tra scienza planetaria e astronomia
Un aspetto chiave di questo approccio è l’integrazione tra le conoscenze acquisite all’interno del Sistema Solare e l’analisi degli esopianeti. Poiché non potremo mai visitare fisicamente questi mondi lontani, dovremo affidarci a modelli basati sui dati raccolti da pianeti come Venere e la Terra per interpretare ciò che vediamo.
Il lavoro dei ricercatori americani sottolinea proprio questo punto: finché non comprenderemo appieno i processi che hanno trasformato Venere in un inferno inabitabile, resterà difficile valutare il reale potenziale di altri mondi rocciosi scoperti attorno a stelle lontane.
Conclusioni
Studiare le ExoVenere non significa solo comprendere mondi alieni, ma anche fare luce su ciò che rende la Terra così speciale. L’osservazione di questi pianeti caldi e irrequieti potrà rivelarci quanto siano frequenti le condizioni estreme e quanto siano rari gli ambienti temperati.
Grazie all’Habitable Worlds Observatory, e con il supporto delle missioni dirette verso Venere, la scienza è pronta a compiere un nuovo passo nella comprensione della diversità planetaria. E chissà: tra le centinaia di ExoVenere già individuate, potremmo trovare un giorno anche un mondo che ci racconti una storia diversa da quella di Venere — una storia dove un destino infernale è stato evitato.
Fino al 1609, qualsiasi tipologia di azione investigativa del cielo è stata condotta unicamente mediante l’uso degli occhi, pertanto ne risultava fortemente limitata in termini di magnificazione e potere risolutivo. L’impiego del cannocchiale (de facto un telescopio rifrattore) come strumento per l’indagine astronomica, rappresenta una vera e propria rivoluzione: da quel momento, l’umanità ha sempre migliorato i suoi mezzi di osservazione, sia mediante lo sviluppo di design innovativi per i propri strumenti ottici, sia introducendo materiali ed ottiche di fattura sempre più raffinate. In poco più di 400 anni, si è passati dal cannocchiale di Galileo, avente pochi centimetri di diametro, fino ai telescopi odierni, i più estesi dei quali hanno, attualmente, diametro dell’ordine dei 10 metri (come il Gran Telescopio Canarias), con progetti di strumenti ottici fino ai 39 metri (ci si riferisce, a tal proposito, all’europeo Extremely Large Telescope, la cui prima luce dovrebbe avvenire nel 2027). In effetti, l’estensione di un telescopio per l’osservazione del cielo, quantificata mediante il diametro della sua apertura, è un parametro importante in quanto influenza la quantità di luce entrante nel sistema ottico in un certo periodo di tempo, ossia la magnitudine limite degli oggetti osservabili e la risoluzione ottenibile. Non è, tuttavia, il solo parametro da tenere in considerazione. Ugualmente significativo per valutare le prestazioni di uno strumento per l’indagine astronomica è il campo di vista, o Field of View (FoV), ossia l’area di cielo osservabile tramite lo strumento stesso. Questa superficie è, in genere, quantificata mediante l’angolo solido sotteso dalla stessa e si misura in gradi quadrati o in steradianti. I più grandi telescopi on-ground per lo svolgimento di survey astronomiche non superano, in genere, poche decine di gradi quadrati: se si pensa che l’intera volta celeste osservabile da un qualsiasi sito sulla Terra, approssimata ad una semisfera, sottende un angolo solido di circa 21.000 gradi quadrati, se ne deduce come i telescopi debbano essere puntati in continuazione per portare, all’interno del proprio FoV, gli oggetti di interesse. Questo implica, come intuibile, un notevole consumo di tempo e risorse. E se si disponesse di un sistema ottico avente un campo di vista dello stesso ordine di grandezza di quello che caratterizza la volta celeste, ossia 10.000 gradi quadrati, con un’apertura di dimensioni relativamente grandi, ad esempio 1 metro? In questo caso, non si avrebbe necessità di alcun puntamento per l’individuazione di sorgenti astronomiche e astrofisiche e si disporrebbe, al contempo, di uno strumento con elevata area di raccolta dei fotoni. Proprio questa è l’idea alla base di un telescopio innovativo, chiamato con ispirazione, “MezzoCielo”.
Introduzione
Da qualche decennio, l’astronomia vive una fase caratterizzata da emozionanti scoperte ed intense trasformazioni: un esempio è offerto dalla nascita e dallo sviluppo della cosiddetta “astronomia multi-messaggera”, la quale si propone di studiare una sorgente (o un evento) analizzando in maniera coordinata le informazioni ricavabili dai segnali astrofisici che la caratterizzano, comprendenti, tra gli altri, radiazione elettromagnetica e onde gravitazionali. Numerose sono anche le sfide che l’astronomia moderna è chiamata ad affrontare. L’inquinamento rientra sicuramente in questa categoria, ma quando si parla di inquinamento in ambito astronomico, non si intende solo quello luminoso: l’abbandono nelle orbite terrestri, in particolare in quelle basse o Low Earth Orbits (LEOs), di oggetti artificiali, quali satelliti a fine vita operativa, stadi di lanciatori, propellente e così via ha dato origine ad un nuovo tipo di pollution, costituito da una nutrita popolazione di space debris o detriti spaziali. Questi detriti spaziano in un ampio range di dimensioni e orbite di collocamento e, pertanto, velocità: un “censimento” operato dall’Agenzia Spaziale Europea e reperibile nel “ESA’s Space Environment Report” del 2023 indica chiaramente che i debris orbitanti attorno al nostro pianeta con dimensione superiore a 10 cm (e fino all’ordine del metro) sono almeno 32.000, distribuiti in maniera non uniforme tra le diverse orbite, essendo la maggior parte di essi, attorno alle 20.000 unità, collocati nelle orbite basse, fino a 2.000 km dal suolo. Diversi milioni sarebbero invece i detriti con dimensione minore di 1-10 cm e gli oggetti più estesi non ancora tracciati. E, con la costruzione in orbita (pianificata o attualmente in atto) di numerose costellazioni di satelliti, la previsione per il futuro prossimo è quella di un incremento sostanziale del numero dei debris. I detriti rappresentano un problema di sempre maggiore serietà per due motivi principali: il primo è legato alla capacità della maggior parte di essi di riflettere la radiazione elettromagnetica solare e quindi di interferire con le osservazioni astronomiche condotte da terra. Il secondo deriva dalla loro elevata velocità (inversamente proporzionale alla dimensione dell’orbita) e quindi dall’energia cinetica che li caratterizza: per fissare le idee, si consideri che l’energia cinetica di un oggetto di 10 g che si muova in orbita LEO alla velocità (tipica) di 7 km/s corrisponde approssimativamente a quella associata ad una autovettura di medie dimensioni (1500 kg) che si muova a circa 65 km/h. L’impatto con un tale oggetto sarebbe potenzialmente distruttivo per qualunque satellite o velivolo non adeguatamente schermato, con annessa produzione a cascata di ulteriori debris. Immediata è la considerazione che una tale situazione, protratta sufficientemente a lungo, potrebbe dar luogo ad un ambiente spaziale così ostile da impedire l’accesso dell’umanità alle orbite esterne, con notevoli danni, oltre che per la ricerca astronomica condotta con telescopi space-based, anche per l’intera società.
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Grazie alle più avanzate simulazioni cosmologiche, un team internazionale guidato da Lucio Mayer dell’Università di Zurigo ha esplorato i processi di formazione stellare nelle galassie primordiali che popolavano l’Universo a meno di 700 milioni di anni dal Big Bang. Il lavoro, realizzato tramite la simulazione ad altissima risoluzione Massive Black PS, ha mostrato come, in regioni molto dense dell’Universo primordiale, le galassie ricche di gas abbiano dato vita a dischi compatti che, a causa di instabilità gravitazionali, si sono frammentati in densi ammassi stellari.
Le simulazioni, che raggiungono una risoluzione spaziale di appena 2 parsec, sono tra le più accurate mai realizzate nel campo della cosmologia computazionale. Questi modelli hanno rivelato che le galassie coinvolte — incluse due compagne di massa inferiore — generano dischi di gas auto-gravitanti larghi meno di 500 parsec, che si frammentano in clump (grumi) massicci. Questi clump evolvono rapidamente in ammassi stellari compatti, con masse comprese tra 10⁵ e 10⁸ M⊙ e densità superiori a 10⁵ M⊙/pc².
Sorprendentemente, gli ammassi più piccoli presentano una stretta analogia con quelli scoperti di recente dal James Webb Space Telescope (JWST) nel sistema gravitazionalmente amplificato Cosmic Gems, situato a redshift z = 10.2. L’esistenza di tali oggetti era già stata ipotizzata, ma questa simulazione ne dimostra per la prima volta la formazione realistica all’interno di galassie a dischi altamente instabili.
Una nascita turbolenta
Il cuore della scoperta risiede nel meccanismo della frammentazione del disco di gas, regolato da un parametro noto come criterio di Toomre, che valuta la stabilità di un disco galattico rispetto al collasso gravitazionale. Nelle simulazioni, le condizioni sono ideali: dischi molto densi, ricchi di gas e soggetti a turbolenze compressive che favoriscono la formazione di grumi.
I risultati si allineano con la cosiddetta “Feedback-Free Burst” (FFB) theory proposta da Avishai Dekel (Università Ebraica di Gerusalemme), secondo cui, nelle prime epoche cosmiche, il gas riesce a formare stelle in modo estremamente efficiente prima che il feedback delle supernove riesca a interrompere il processo.
Una pioggia di buchi neri
Le simulazioni suggeriscono che la densità incredibilmente alta degli ammassi stellari possa favorire la formazione di buchi neri intermedi (IMBH). Secondo modelli recenti (Fujii et al., 2024), questi oggetti nascono attraverso fusioni stellari in ambienti ultra-densi, raggiungendo masse fino a 10⁵ M⊙. Successivamente, gli IMBH migrano verso il centro della galassia fondendosi tra loro e con un eventuale buco nero centrale preesistente, dando origine a un buco nero supermassiccio (SMBH) di almeno 10⁷ M⊙.
Questo meccanismo spiegherebbe l’osservazione, sempre da parte di JWST, di buchi neri sovramassicci (più massivi del previsto rispetto alla loro galassia ospite) già a redshift z > 6, come mostrato nei lavori di Y. Harikane, R. Maiolino, M. A. Stone e M. Yue.
Le simulazioni: uno zoom nel tempo
Il progetto utilizza il codice Gasoline2 e nasce come un’evoluzione del progetto MassiveBlack (guidato da Tiziana Di Matteo e Yu Feng presso la Carnegie Mellon University). Il volume simulato è uno dei più densi conosciuti, rappresentando un picco di 4–5σ nella distribuzione di densità cosmica. Le simulazioni seguono un periodo di soli 6 milioni di anni, ma con dettaglio senza precedenti: ogni clump, ogni formazione stellare, ogni frammento di gas è modellato con precisione pari a circa 2,4×10³ M⊙.
Anche galassie relativamente piccole, come il “Halo 47”, mostrano una straordinaria efficienza nella formazione di ammassi. In questi ambienti, oltre il 30% della massa stellare si concentra in ammassi compatti, un valore straordinariamente alto rispetto alle galassie odierne. Il destino finale di questi oggetti è spesso la fusione al centro galattico, contribuendo alla crescita dei buchi neri centrali.
Uno scenario multiplo per la nascita degli SMBH
Le simulazioni evidenziano due canali principali per la crescita dei buchi neri supermassicci:
Accrescimento e fusione di IMBH generati all’interno degli ammassi ultracompatti, prevalente nelle galassie di massa media o bassa.
Collasso diretto gravitazionale (“dark collapse”) in galassie molto più massicce, in cui il buco nero nasce già con massa 10⁷ M⊙ da una super-stella instabile, come proposto da L. Zwick e L. Mayer.
Entrambi i meccanismi forniscono una spiegazione convincente per la varietà di SMBH già presenti meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang.
Il quadro che emerge da queste simulazioni, supportato da dati JWST, offre una visione coerente e affascinante della formazione delle prime strutture cosmiche. In ambienti densi, le galassie sembrano favorire una modalità esplosiva ed efficiente di formazione stellare, che non solo dà origine a stelle e ammassi, ma anche ai semi dei colossali buchi neri che oggi popolano i nuclei delle galassie.
Un evento culturale dedicato all’archeoastronomia avrà luogo venerdì 4 aprile 2025, alle ore 17, alle Fabbriche Chiaramontane in Via S. Francesco d’Assisi 1, ad Agrigento. Intitolato “L’importanza dell’archeoastronomia nelle recenti scoperte: dal cielo dell’Egitto a quello della Sicilia preistorica e di Akrágas“, l’incontro rappresenta un’opportunità unica per esplorare le connessioni tra il cielo antico e le strutture sacre delle civiltà passate, con particolare focus sulle recenti scoperte riguardanti la città di Akrágas e i suoi Templi della Collina.
L’evento, promosso dalle associazioni A.N.D.E., Fidapa e Inner Wheel di Agrigento, vedrà la partecipazione di esperti di rilievo nel campo dell’archeoastronomia. Pietro Di Martino, docente ordinario di Astronomia, aprirà l’incontro con una conferenza dal titolo “Ferro e fuoco dal cielo nell’antico Egitto“, esplorando l’importanza del cielo nella cultura egizia. A seguire, l’astrofisico Carmelo Falco discuterà della “ricostruzione del cielo antico al tempo di Akragas“, concentrandosi sul periodo VI-V secolo a.C.
Andrea Orlando, presidente dell’Istituto di Archeoastronomia Siciliana, parlerà su “L’archeoastronomia nella Sicilia preistorica“, approfondendo le connessioni tra i cieli antichi e i siti preistorici siciliani. Infine, Maria Luisa Zagretti, dottore di ricerca in archeologia, presenterà una relazione sui “Dati archeoastronomici e aspetti topografici desumibili dalla ricostruzione del cielo antico di Akragas“, mettendo in luce come le scoperte recenti abbiano rivelato nuove conoscenze sul sito di Akrágas.
L’incontro sarà coordinato e moderato da Molisella Lattanzi, direttrice di Coelum Astronomia, e offrirà ai partecipanti l’opportunità di approfondire il rapporto tra il cielo e le culture dell’antichità, creando un dialogo interdisciplinare affascinante tra scienza e storia.
L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti. Non perdere l’opportunità di partecipare a questo affascinante viaggio tra cielo, storia e archeologia!
Il Sole a disco intero in H-Alpha - 3 novembre 2024
Telescopio: SkyWatcher 70mm Refractor (1000mm focal length)
Filtro: Coronado SolarMax 40mm Filter
Camera: ZWO ASI 174 MM Camera Mosaico di 4 pannelli
CREDITS: Alessandro Carrozzi
Il 25° ciclo solare ha preso il via nel 2019 e, contro ogni previsione, ha sorpreso gli scienziati con un’intensità inaspettata. Cosa regola questi cicli e perché alcuni si comportano in modo anomalo? Dalle macchie solari alla dinamo magnetica, l’articolo esplora i misteri del Sole, svelando come il suo ritmo influenzi non solo l’astronomia, ma anche la nostra tecnologia e il futuro dell’esplorazione spaziale.
Dicembre 2019 ha rappresentato l’inizio del Ciclo Solare numero 25 ed attualmente la nostra stella si ritrova nel momento di massima attività magnetica, rispettando in buona sostanza la periodicità caratteristica di questo fenomeno, che è approssimativamente di undici anni.
Cosa determina questo susseguirsi di cicli periodici e cosa succede durante questi undici anni?
Il protagonista indiscusso di questo fenomeno è il campo magnetico, generato dal processo della dinamo solare. Possiamo immaginare questo campo magnetico in una ideale situazione di “partenza” (come appunto quella di dicembre 2019) in una ordinata configurazione polare, che ricorda quella tipica del campo magnetico terrestre, con le linee di forza che escono da un polo e rientrano nell’altro. La struttura fisica del Sole però è quella di un plasma e quindi ben diversa dalla struttura di un pianeta. Sulle linee del campo magnetico agiscono sia la rotazione differenziale, per la quale il plasma all’equatore ruota più velocemente rispetto ai poli, sia i moti ascensionali convettivi. La rotazione differenziale modifica il campo magnetico portandolo dalla configurazione poloidale ad una toroidale. I tubi di flusso del campo toroidale sono trascinati in fotosfera dai moti convettivi e possono emergere così come strutture magnetiche sotto forma di coppie di macchie solari scure1 (accompagnate però anche da strutture brillanti), che aumentano di numero e di area superficiale. Dopo il massimo di attività inizia
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Un nuovo studio internazionale mette alla prova la stabilità delle leggi fondamentali della fisica osservando la galassia di Andromeda. A condurre la ricerca un team di astrofisici guidato da Renzhi Su, in collaborazione con Tao An, Stephen J. Curran, Michael P. Busch, Minfeng Gu e Di Li, provenienti da diverse istituzioni di primo piano, tra cui l’Osservatorio Astronomico di Shanghai (Shanghai Astronomical Observatory) e l’Accademia delle Scienze cinese (Chinese Academy of Sciences).
Le costanti della fisica sono davvero “costanti”?
Una delle grandi domande della fisica moderna è se le cosiddette costanti fondamentali, come la costante di struttura fine o il rapporto tra la massa del protone e quella dell’elettrone, siano davvero immutabili. Alcune teorie avanzate, come la teoria delle stringhe o la gravità quantistica, ipotizzano che queste costanti possano variare nel tempo o nello spazio, seppur in modo minimo.
Confermare o smentire queste variazioni può aiutarci a capire meglio l’universo e, forse, a fare luce sulla natura quantistica della gravità, ancora oggi una delle grandi incognite della fisica teorica.
Uno sguardo indietro di 2,5 milioni di anni
Per testare questa ipotesi, il team ha puntato i radiotelescopi verso una delle nostre galassie vicine: Andromeda (M31), distante da noi circa 2,5 milioni di anni luce. Significa che la luce (e le onde radio) che riceviamo oggi da quella galassia ci mostrano com’era 2,5 milioni di anni fa.
Utilizzando il Green Bank Telescope negli Stati Uniti, gli scienziati hanno osservato con altissima precisione le emissioni radio di due molecole molto comuni nello spazio: l’idrogeno neutro (H I) e l’ossidrile (OH). Le loro frequenze di emissione sono note con estrema precisione in laboratorio, quindi eventuali differenze osservate nel passato avrebbero potuto rivelare variazioni nelle costanti fisiche.
Risultato? Le costanti restano costanti
Dopo decine di ore di osservazione e una lunga analisi statistica, il team ha potuto concludere che non ci sono segni evidenti di variazione nelle costanti fondamentali. Le eventuali differenze sono talmente piccole da essere entro i margini di errore, con precisioni fino a una parte su un milione.
In particolare, gli scienziati hanno verificato che:
Il rapporto tra le costanti analizzate non è cambiato significativamente in 2,5 milioni di anni.
Le possibili variazioni, se esistono, sono inferiori a quanto previsto da alcune teorie alternative.
Un ponte tra esperimenti terrestri e l’universo primordiale
Fino ad oggi, i test sulla stabilità delle costanti erano stati condotti in laboratorio (su scale di anni) o guardando l’universo lontanissimo (fino a 13 miliardi di anni nel passato). Ma mancava un tassello importante: i tempi intermedi, come quelli delle dinamiche galattiche, cioè milioni di anni. Questo studio riempie proprio quel vuoto, offrendo un nuovo punto di riferimento nella ricerca.
L’approccio usato dal team – osservazioni simultanee di righe spettrali diverse nella stessa zona di una galassia – si è rivelato particolarmente potente per ridurre gli errori sistematici e aumentare l’affidabilità dei risultati. E con l’arrivo di strumenti ancora più sensibili, come il futuro Square Kilometre Array (SKA Observatory), sarà possibile estendere questi test ad altre galassie e tempi ancora più remoti.
Una galassia quasi invisibile, scoperta per caso nel progetto IAC Stripe 82 Legacy, sta mettendo in discussione uno dei pilastri della cosmologia moderna: la materia oscura fredda. Si chiama Nube, ed è una galassia nana estremamente diffusa e piatta, con caratteristiche così peculiari da non poter essere spiegate dai modelli standard.
Le osservazioni, realizzate con il Green Bank Telescope da 100 metri e il Gran Telescopio Canarias da 10,4 metri, hanno rivelato che Nube possiede una massa stellare di circa 3,9 × 10⁸ masse solari, e una massa dinamica molto più grande, circa 2,6 × 10¹⁰ masse solari, entro un raggio di 20,7 kiloparsec (M. Montes et al., 2024). Tuttavia, ciò che colpisce è la sua densità stellare superficiale sorprendentemente bassa (circa 2 masse solari per parsec quadrato), molto inferiore rispetto a qualsiasi altra galassia nana conosciuta.
Anche l’estensione di Nube è insolita: il suo raggio effettivo supera quello di molte galassie ultradiffuse (UDG), pur avendo una massa stellare simile. Inoltre, la galassia si trova in una posizione relativamente isolata, a circa 435 kpc dal suo probabile alone ospite, UGC 929, e non mostra segni di interazioni gravitazionali forti, come distorsioni mareali. Questo rende ancora più difficile spiegarne l’origine con il modello standard di materia oscura fredda (CDM).
Una nuova ipotesi: la materia oscura “sfocata”
Un gruppo di ricercatori guidato da Y. M. Yang et al. (2024) ha esplorato un’alternativa: la fuzzy dark matter (FDM), o materia oscura “sfocata”. Si tratta di una forma teorica di materia oscura composta da particelle ultraleggere (massa ≈ 10⁻²³ eV), che si comportano come onde su scale galattiche. Queste onde creano fluttuazioni nel campo gravitazionale, capaci di “scaldare” dinamicamente le stelle e distribuirle in modo più diffuso.
Utilizzando simulazioni numeriche evolute per oltre 10 miliardi di anni – l’età stimata di Nube – il team ha ricreato l’effetto del riscaldamento dinamico causato dalla FDM. Per farlo, hanno usato la tecnica di decomposizione in autostati quantistici per costruire il profilo iniziale dell’alone FDM e fatto evolvere il sistema con il software PyUltraLight (F. Edwards et al., 2018), basato sulle equazioni di Schrödinger–Poisson.
Le simulazioni hanno mostrato che, con un profilo coerente con la massa dinamica di Nube, la distribuzione stellare simulata riproduce sorprendentemente bene i dati osservativi, soprattutto nel Modello-1, che utilizza un valore di massa della particella di FDM di 10⁻²³ eV.
I risultati rafforzano l’ipotesi che la FDM possa essere responsabile della struttura estrema di Nube. Secondo gli autori, molte galassie isolate e povere di materia ordinaria non sono abbastanza vecchie da mostrare lo stesso effetto: il riscaldamento richiede tempo. Nube, invece, potrebbe essere il banco di prova ideale.
Studi precedenti avevano già suggerito una massa simile per le particelle di FDM per spiegare fenomeni come le curve di rotazione delle galassie nane o la distribuzione dei globuli in Fornax. Tuttavia, alcuni vincoli provenienti da osservazioni come la foresta Lyman-α o le funzioni di massa delle sottostrutture sembrano richiedere masse maggiori, anche se sono ancora oggetto di dibattito.
La distribuzione anomala delle stelle in Nube potrebbe essere la prima firma osservativa concreta della FDM. Se confermata, questa teoria rivoluzionerebbe la nostra comprensione della materia oscura e dell’evoluzione delle galassie.
I ricercatori sottolineano che future osservazioni – soprattutto in regioni ancora troppo deboli per essere rilevate – potrebbero confermare la presenza di stelle spinte oltre i 13 kpc da un centro galattico che si comporta come un “solitone” oscillante. Questo permetterebbe di testare in modo definitivo la validità della FDM come candidata alla materia oscura.
Il progetto ASTRI (Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana) rappresenta un’importante innovazione nell’astronomia dei raggi gamma, con particolare attenzione alla radiazione Cherenkov ad alta energia. Ispirato dalle idee pionieristiche di Guido Horn d’Arturo, il progetto impiega telescopi con specchi a struttura segmentata per studiare le particelle cosmiche ad altissime energie. ASTRI si inserisce nel contesto più ampio dell’osservatorio CTAO, mirando a esplorare energie tra 1 TeV e 100 TeV, e si distingue per l’uso di telescopi di piccole dimensioni in grado di osservare le docce di particelle prodotte da fotoni gamma estremamente energetici. Con il suo design avanzato, che include il sistema ottico Schwarzschild-Couder e fotocamere al silicio, ASTRI si prefigge di risolvere enigmi astrofisici come l’eccesso di raggi gamma dal centro galattico e la ricerca di “PeVatrons” — oggetti capaci di accelerare particelle fino a energie petaelettronvolt. Inoltre, ASTRI si inserisce in un contesto internazionale di ricerca multimessaggera, collaborando con progetti come MAGIC e LHAASO, e contribuendo a una comprensione più profonda dei fenomeni astrofisici estremi e della materia oscura. Il progetto, che prosegue la tradizione italiana nell’astrofisica, offre una nuova finestra sul cosmo, con il futuro osservatorio di Tenerife pronto a svelare nuovi segreti dell’Universo.
Quando si guarda con attenzione il James Webb Space Telescope, la prima cosa che colpisce è la struttura modulare del suo grande specchio primario, suddiviso in segmenti esagonali. Dietro questa soluzione ingegnosa esiste una vicenda affascinante che ha come protagonista Guido Horn d’Arturo, personalità essenziale nello sviluppo di alcune tra le idee più avanzate dell’astrofisica osservativa attuale. Fu infatti egli che, negli anni Trenta, ebbe l’intuizione di suddividere i grandi specchi monolitici per telescopi in superfici tassellate, rendendo possibile la realizzazione di grandi aree riflettenti riducendo i costi. Non è un caso che il suo nome sia ben conosciuto dagli studiosi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), impegnati oggi nel progetto ASTRI, acronimo di “Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana”: delle spettacolari superfici a specchio di grande dimensione specificatamente progettate per raccogliere e per studiare la radiazione Cherenkov nell’ultravioletto e visibile generata dall’interazione dei raggi gamma provenienti dalle profondità cosmiche e i raggi cosmici stessi.
Nel 2017, la camera Cherenkov montata sul primo telescopio prototipale del progetto, installato nel sito di Serra La Nave sull’Etna, presso Catania, ottenne la sua prima luce. Il telescopio fu significativamente chiamato “ASTRI Horn” in omaggio a Horn d’Arturo, essendo lo specchio primario a struttura segmentata come quella concepita nel 1935. Nel 2022 è stato completato sul vulcano Teide, a Tenerife, ASTRI-1, il primo telescopio dei nove previsti per il sito osservativo. Ma di cosa si tratta esattamente quando parliamo di ASTRI? E quali obiettivi scientifici si prefigge questo nuovo esperimento, pensato per indagare i fenomeni più energetici del cosmo grazie al rilevamento della radiazione Cherenkov?
L’apertura di una nuova finestra sul cosmo ad alta energia
La radiazione Cherenkov, scoperta a metà degli anni Trenta da Pavel Cherenkov (1909-1990), si manifesta quando una particella carica viaggia in un mezzo denso (per esempio l’atmosfera) a una velocità di fase superiore a quella consentita alla luce nello stesso mezzo. Questo curioso effetto è responsabile, ad esempio, del bagliore bluastro che si nota nei reattori delle centrali nucleari, quando una particella beta (cioè un elettrone) è rilasciata a velocità relativistica nelle vasche di raffreddamento: si crea quindi una sorta di analogo elettromagnetico del “bang” supersonico dei jet militari. Infatti, quando la particella supera il “muro” della velocità della luce nel mezzo, si produce esattamente lo stesso cono d’onda equivalente al cono di Mach prodotto quando un aereo o un proiettile supera il muro del suono. L’effetto Cherenkov che osserva ASTRI però è diverso, ed è prodotto da fotoni gamma ad altissima energia (nella regione del teraelettronvolt) che giungono sulla Terra e impattano contro gli atomi della nostra atmosfera, creando sciami di coppie elettrone-positrone in grado di indurre l’emissione di una grande quantità di fotoni Cherenkov. I telescopi di questo tipo (specificatamente quelli del progetto CTAO) possono registrare anche l’arrivo di raggi cosmici: in questo caso, le particelle adroniche (in gran parte protoni e, talvolta, nuclei atomici) hanno una interazione con l’atmosfera più complessa, che comporta anche la produzione di altre particelle come pioni e muoni. In entrambi i casi, grazie all’effetto Cherenkov, vengono prodotti bagliori bluastri di forma caratteristica, di fatto non percepibili dall’occhio umano: sono fenomeni di brevissima durata anche dell’ordine di nanosecondi o alcune decine di nanosecondi al massimo. È un processo tanto spettacolare quanto effimero e, per decenni, la sua fugacità ha reso estremamente complesso l’utilizzo della tecnica Cherenkov in atmosfera per lo studio dei raggi gamma di origine celeste e dei raggi cosmici che giungono sul nostro pianeta.
Progetti come ad esempio MAGIC, CTAO (Cherenkov Telescope Array Observatory) e, appunto, ASTRI, stanno aprendo nuovi scenari osservativi grazie a telescopi con specchi primari molto grandi e fotocamere rapidissime, in grado di “catturare” questi istanti di luce e decifrarne i segreti. Il processo chiave consiste nell’analisi dettagliata dell’immagine della cascata di particelle che si sviluppa quando un raggio cosmico o gamma interagisce con le molecole atmosferiche. Sebbene il fenomeno avvenga in pochi miliardesimi di secondo, la sua forma conica e la distribuzione dei fotoni Cherenkov conservano informazioni preziose sull’energia e sulla natura dell’oggetto che ha innescato lo sciame. Studiando la geometria e l’intensità del bagliore, il tasso di fotoni emessi, la durata e la forma della curva di emissione, diventa possibile ricostruire con precisione le caratteristiche dell’impulso cosmico originario.
Cascata elettromagnetica prodotta dall’impatto di un raggio cosmico con l’atmosfera credit ASPERA Novapix L. Bret
Un progetto complementare a CTAO
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Che serata, che emozione! Finalmente tra poco inizia la grande festa di Halloween organizzata dalla regina Cassiopea, l’evento mondano di fine estate di cui si parla su tutti i giornalini di gossip da settimane.
Cassiopea, regina di tutte le regine, la grande Cassiopea, bellissima, potentissima, famosissima… ma che, in realtà, dovete sapere, è anche annoiatissima! Tutto il giorno sta seduta sul suo trono a guardarsi nello specchio. Tutto il giorno non fa niente altro che attendere di tornare a testa in su, perché che fastidio stare girata sottosopra per ore e ore! Che noia… e che mal di testa!
“Basta con questo noioso girotondo!” Ha gridato stizzita una mattina che si era svegliata con una terribile emicrania. “Basta! Basta! Basta! Anche io mi voglio divertire!” Ed è stato così che, per spezzare la noia, la regina Cassiopea ha voluto organizzare una grandiosa festa di Halloween nella sua reggia, lassù sopra le nuvole, in mezzo alle stelle. Per l’occasione ha addobbato il suo castello personalmente con chili di ragnatele di zucchero, fumi pazzeschi e nebbie spettrali, suoni lugubri e musiche da brivido e tante tante zucche! Con le zucche ha deciso di illuminare il viale di accesso alla reggia, perché tutte le costellazioni sono invitate alla festa e il cielo rimarrà sgombro di stelle. Cassiopea ha deciso che per una sera vuole dimenticare gli affanni e ballare, e divertirsi, così ha invitato tutti quanti.
Naturalmente ci sono suo marito, il re Cefeo, e la loro figlia, la principessa Andromeda, e poi quel fusto di Ercole, Orione il super bello, i giovani palestrati Gemelli, quella smorfiosa della Vergine, l’eroe Perseo che porterà la fidanzata, Medusa dallo sguardo pietrificante, le sette sorelle Pleiadi, il cavallo Pegaso, l’Auriga sul carro di fuoco, il Bifolco (o Bovaro) con le Orse (Orsa Maggiore e Orsa Minore)… e, ospiti d’eccezione, i terrificanti mostri del cielo: l’Idra dalle cento teste, il mostro marino Balena, il velenoso Scorpione e il feroce Drago.
Tutti gli ospiti sono rigorosamente vestiti in maschera per l’occasione! La bella Cassiopea è vestita da strega, con tanto di cappello a punta e l’immancabile specchio in mano! Che festa incredibile, ci sono proprio tutti! Si, tutti quelli che appartengono a qualche costellazione, ma… Gatto nero, Ragno e Pipistrello? Non sono stati invitati!
Infatti, non hanno costellazione, quindi niente festa! E i tre si sono davvero offesi, proprio loro che sono l’anima di Halloween non possono partecipare al grande evento. Impossibile!
“Vendetta, tremenda vendetta!” sibila tra i denti Gatto nero col pelo tutto ritto dalla rabbia, mentre Ragno, che è un tipo un po’ strano, sbava lanciando fili di ragnatele dappertutto mentre borbotta parole incomprensibili, e Pipistrello svolazza a zig zag in tutte le direzioni in preda all’agitazione senza smettere di fischiare e sibilare…
Mentre la festa impazza e la musica a tutto volume si sente in tutta la Galassia, i tre decidono di andare al bar per bere qualcosa che li aiuti a digerire l’offesa. Sono lì che confabulano tra un sorso e l’altro del cocktail “Pozione stregata di Halloween”, parlottando e complottando, e così, dopo un po’, forse con la mente annebbiata dall’alcol, escogitano uno scherzetto per quell’antipatica regina del piffero che non li ha invitati: ruberanno tutte le zucche che Cassiopea ha disposto lungo il viale di accesso alla sua reggia e le faranno sparire!
Dovranno rimanere tutti al buio, allora sì che avranno una bella paura, una paura da morire! Che bello scherzetto! I tre, compiaciuti e barcollanti, vanno nel garage a prendere il Grande Carro e si mettono all’opera raccogliendo tutte le zucche sparse per il cielo. Passano le ore e ad un certo punto sorge la Luna, una bella luna piena che sale splendente e radiosa nel cielo, ma… qualcosa non va… le stelle sono sparite! “Ohibò! Dove sono andate?” si chiede la luna guardandosi intorno nel buio più assoluto di una notte senza stelle. Senza capire e sentendosi un po’ sola, si ricorda che è la notte di Halloween, così decide di andare a cercare qualcosa che illumini il cielo. Rovistando in soffitta, trova dei vecchi fantasmini, zucche, pipistrelli e ragni di una passata festa.
Sono tutti cosparsi di brillantini, possono fare al caso suo. Comincia a lanciarli nel cielo, ma non viene un bell’effetto… Per forza! Le stelle, nel cielo, non sono messe senza un ordine, ci sono le costellazioni e ognuna ha il suo posto ben preciso!
Così comincia a posizionare nel cielo le figurine secondo disegni ben precisi, i disegni delle costellazioni di Halloween, ed ecco che appaiono Gatto nero, Ragno, Fantasma, Pipistrello: che magia il cielo finalmente è illuminato!
I nostri amici, rimasti esclusi dalla festa, stravolti dalla fatica spingono il Grande Carro sempre più pesante per la quantità di zucche raccolte, quando improvvisamente vedono apparire le nuove costellazioni, ed è tale la meraviglia che la loro rabbia si dissolve. Anche Cassiopea vede le nuove costellazioni apparire nel cielo e invita i tre amici ad unirsi alla festa.
Adesso sì che la festa è una vera festa! Buon Halloween a tutti.
Testo di Laura Saba
Illustrazioni di Guido Marchesini
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C’era una volta una strega che abitava nel bosco incantato…
La strega si chiamava Estrella.
A Estrella piaceva abitare nel suo bosco magico, pieno di grandi fiori profumati che chiamava per nome e, di notte, pieno di stelle: con loro parlava e faceva lunghe chiacchierate sul trascorrere del tempo, sulla Terra che gira come una trottola e sul Sole che brucia come un forno per il pane.
Di giorno, la strega, nel suo pentolone preparava le pozioni magiche come le “gocce che profumano i fiori come fossero torte e biscotti”, la “polvere simpatica: per attaccare le punte delle stelle quando si rompono”, le “caramelle trasmutanti ai mille gusti: quando le mangi, diventi un rospo, un ragno, un corvo…” ; ma soprattutto amava profondamente i suoi gatti. Ne aveva tre: Biscottino, una gattona color albicocca, pigra e dormigliona; Camillo, un maschio tenerone, color grigio cenere, cacciatore e giramondo; e Ombra, la più piccola, tutta nera, furba come un leprotto ma monella come un bambino.
Un giorno, mentre lavorava ad una pozione magica per guarire le stelle quando hanno mal di testa e perdono lo scintillio, dal cielo cominciarono a cadere dei bigliettini colorati: all’inizio solo qualcuno, poi sempre più fitti, a centinaia, come una pioggia colorata. La strega raccolse un bigliettino, poi un altro e un altro ancora. Tutti riportavano lo stesso messaggio: “Estrella!!! Nel cielo una gran confusione, le costellazioni si azzuffano, si spintonano e si tirano i capelli! Vieni subito!” Firmato: le stelle.
Estrella prese allora la sua scopa volante, chiamò i gatti, li sistemò nel carrellino e partì alla volta del cielo, puntando la stella del Nord e controllando la strada sulla mappa siderale che teneva ben stretta in mano. Non voleva perdersi, aveva fretta di arrivare dalle sue amiche stelle per aiutarle a risolvere la situazione.
Il viaggio fu un po’ lungo, la Via Lattea era trafficata a quell’ora di punta e a causa del fondo sconnesso, i gatti traballavano nel carrellino e brontolavano per gli scossoni.
Arrivata nel cielo, Estrella restò di stucco! Vide le costellazioni tutte aggrovigliate in una rissa furibonda e dalla confusione che facevano non si capiva niente.
Le stelle erano disperate, nessuna trovava più il suo posto, nessuna sapeva quando doveva apparire nel cielo e quando tramontare. La tranquillità delle notti stellate sembrava persa per sempre. Ma qual è il problema, si chiese Estrella. Sembra che per colpa delle nuvole che avevano oscurato il cielo per diverse notti di seguito, le costellazioni avessero smarrito il loro posto e adesso volessero essere presenti sulla volta celeste tutte insieme nello stesso momento, cosa che non è proprio possibile.
Questo è davvero un grosso pasticcio pensò la strega, come si fa a riportare l’ordine?
A Estrella serviva un consiglio, così convocò in assemblea le Quattro Stagioni mandando i suoi gatti ai confini del mondo perché consegnassero la richiesta di aiuto. Le Stagioni sono sagge, governano la Terra da tanto tanto tempo, certamente potranno aiutare Estrella a trovare una soluzione.
Primavera, Estate, Autunno e Inverno si presentarono all’istante e, dopo una lunga consultazione con la strega, decisero di suddividere le costellazioni in quattro gruppi. Ogni Stagione si mise a capo di un gruppo di costellazioni che avrebbero potuto splendere nel cielo nel periodo dell’anno corrispondente alla presenza di quella Stagione, sulla Terra. Così, a rotazione, sarebbero state tutte visibili.
A Estrella sembrò una buona soluzione e, felice di avere riportato l’ordine, salutò le amiche stelle e si preparò a fare ritorno a casa. Ma le stelle ebbero un’altra richiesta per la strega prima della sua partenza: volevano infatti che qualcuno vegliasse sulle costellazioni, affinchè non accadesse mai più un altro pasticcio.
Estrella ripartì con questo pensiero in testa…
Estrella era con i suoi amati gatti che le si strusciavano alle gambe, di nuovo nella tranquillità del suo bosco, e girava, girava il romaiolone nel pentolone mentre pensava a chi potesse essere in grado di tenere sotto controllo le costellazioni. Mentre era distratta dai suoi pensieri, la pozione cominciò a bollire, a fare le bolle come la polenta, finché una bolla più grossa delle altre, del colore bianco giallognolo, salì verso l’alto. Sgocciolando e dondolando andò a piazzarsi nel mezzo del cielo. “Guarda che bella bolla!”, pensò Estrella, mentre la osservava ondeggiare verso l’alto.
Evviva, applaudirono le stelle, vedendo arrivare la grossa bolla traballante. Ecco chi potrà sorvegliare sulla pace del cielo: una Luna piena, bianca e luminosa, che porta gioia nel cielo e sogni a tutti i bambini.
Testo di Laura Saba
Illustrazioni di Guido Marchesini
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Dal numero 272 di Coelum Astronomia prende il via una nuova serie di buffe avventure animalesche dedicate ai più piccoli. L’autrice è una conoscenza di Coelum, Laura Saba, che torna a parlare di astronomia con un linguaggio semplice e divertente. Le puntate sono a volte pubblicate su Coelum cartaceo altre online, per queste ultime è sempre disponibile la funzione stampa oppure “salva in pdf”.
Presentazione
Prima di essere chiamato da Zeus tra le stelle, GattoBuio per molti anni ha prestato servizio come sorvegliante del cortile dell’Istituto per Geometri G. Salvemini di Firenze. Non si conoscono di preciso le sue origini, molto probabilmente è nato in qualche giardino limitrofo alla scuola e poi si è spostato nel grande e tranquillo cortile lontano dalla strada. Lì ha stretto amicizia col custode e con la bibliotecaria dell’istituto scolastico che gli portavano da mangiare tutti i giorni e controllavano che stesse bene. La mattina, il gatto, con la sua discreta presenza, sorvegliava l’ingresso degli studenti nell’edificio scolastico, tenendosi a debita distanza dagli zaini, dalle scarpe da ginnastica che andavano di fretta e da spintoni involontari. Alle 14.00, al suono dell’ultima campanella, ne controllava la regolare uscita, accompagnando i ritardatari fino fuori dal cancello. In cambio di quell’incarico di responsabilità, sapeva che poteva contare su due pasti al giorno, tutti i giorni, festivi compresi.
Alle volte, durante l’inverno, se faceva particolarmente freddo, andava ospite per una notte o due, in casa della signora del civico 25, che, rimasta sola e in là con l’età, era sempre contenta di avere compagnia. Ma GattoBuio non era tipo da appartamento, lui era nato libero e dopo poco se ne tornava per strada e nel suo cortile tranquillo dietro la palestra della scuola, a respirare la sua amata libertà, che fosse freddo polare o caldo africano.
Molti anni dopo, quando GattoBuio era sicuramente già in età di pensione, anche se continuava a presidiare con regolarità ingresso e uscita degli studenti, durante un inverno particolarmente rigido, si buscò un brutto raffreddore, cominciò a tossire e a respirare con fatica.
Allarmati dalle sue condizioni di salute, noi dipendenti del Museo adiacente alla scuola, in accordo con il custode e la bibliotecaria, decidemmo di portarlo dal veterinario.
“Questo gatto è vecchietto e ha bisogno di dormire al coperto, non può più fare la vita da randagio per la strada!” Sentenziò il dottore. E così GattoBuio fu accolto nel Museo, dove è stato curato per il raffreddore, coccolato, ha trovato una cuccia calda e cibo. Contento della nuova sistemazione, ha cambiato mansione ed è diventato ‘aiuto segretario’ con tanto di autorizzazione alla libera circolazione in tutte le stanze al piano degli uffici. I giorni lavorativi li passava acciambellato su qualche scrivania tra la tastiera e il monitor del computer o sul davanzale della finestra al sole.
@ Guido Marchesini
Nel fine settimana, a Museo chiuso, scendeva le scale dagli uffici alle cantine e andava in perlustrazione tra gli scatoloni polverosi del deposito degli strumenti e delle carte antiche, annusando dappertutto e uscendo poi tutto pieno di fili di ragnatele appiccicati ai baffi, al naso e alle orecchie, polveroso come uno straccetto, ma soddisfatto delle sue meticolose esplorazioni.
Il nome GattoBuio se lo è conquistato proprio quando lo cercavamo nelle stanze della cantina, perché essendo tutto nero, non c’era modo di vederlo fino a che lui decideva che era ora di tornare in ufficio ad occupazioni più pulite e professionali.
Durante un’estate molto molto calda, GattoBuio non stava affatto bene ed eravamo tutti davvero tanto preoccupati per la sua salute. Sapevamo che un giorno ci avrebbe lasciati, ma eravamo troppo affezionati per accettare la separazione. Per fortuna anche nei momenti più tristi possono accadere cose straordinarie. Ed è stato così, che mentre GattoBuio chiudeva gli occhi, una piccola pioggia di polvere di stelle è caduta dal cielo e si è posata sulla sua pelliccia color buio, rendendolo magico e donandogli una nuova vita.
Adesso ha una bella cesta sul margine della Via Lattea dove può riposare indisturbato, in caso di necessità aiuta Zeus nella gestione delle questioni di stelle e costellazioni, se ne va a suo piacimento a zonzo per il cielo a trovare i suoi amici pianeti e la stella Polare e presiede la rubrica ‘AstroRacconti dalle stelle’ che vengono pubblicati sulla rivista Coelum Astronomia.
Gli AstroRacconti sono brevi favole che arrivano dalle stelle, in cui elementi astronomici e mitologia si incontrano, si intrecciano, al fine di trasmettere curiosità scientifiche sul cielo in compagnia di eroi, eroine, dei, dee, animali fantastici e delle loro avventure.
Il 30 marzo 2025 segna una data storica per l’industria spaziale europea: il razzo Spectrum di Isar Aerospace ha completato con successo il suo primo volo di prova, diventando il primo veicolo orbitale a decollare dall’Europa continentale. Il decollo è avvenuto dallo Andøya Spaceport in Norvegia, un’area strategica che si è rivelata cruciale per questo evento senza precedenti.
Alle 12:30 PM CEST, il razzo Spectrum ha acceso il suo primo stadio, decollando verso lo spazio. In soli 30 secondi di volo, il veicolo ha raggiunto gli obiettivi prefissati, consentendo agli ingegneri di raccogliere dati fondamentali per il futuro sviluppo delle missioni spaziali. Dopo il volo, il razzo è stato terminato a T+30 secondi e ha effettuato un atterraggio controllato in mare, grazie a precise procedure di sicurezza.
Il volo di prova, pur avendo una durata di soli 30 secondi, rappresenta un traguardo fondamentale per l’accesso europeo allo spazio. Per la prima volta, un razzo orbitale è stato lanciato con successo da un sito europeo, dimostrando le capacità tecniche e logistiche di questo nuovo spazioporto. Il successo dell’operazione è una testimonianza della crescente competitività dell’Europa nel settore spaziale e dell’impegno verso una maggiore indipendenza nel lancio di satelliti.
Il lancio non solo ha testato il razzo Spectrum, ma ha anche permesso di raccogliere un’importante quantità di dati di volo. Questi saranno analizzati nei prossimi giorni per perfezionare i sistemi del razzo e prepararli per missioni future. Sebbene il volo abbia avuto una durata breve, l’esperienza acquisita è destinata a giocare un ruolo cruciale nel miglioramento dei lanci successivi e nell’espansione delle capacità di lancio satellitare.
La rampa di lancio rimane intatta, il futuro è già in produzione
Un altro aspetto significativo dell’evento è che la rampa di lancio dello Andøya Spaceport è rimasta intatta e pronta per nuovi lanci. Nonostante il breve volo del razzo, l’infrastruttura ha dimostrato di essere all’altezza delle sfide di un lancio orbitale. Attualmente, i razzi per i voli n. 2 e n. 3 sono già in fase di produzione, con il prossimo obiettivo di rendere operativo il razzo per lanci su larga scala.
La Norvegia ha giocato un ruolo chiave in questa realizzazione, essendo stata il paese ospitante del Andøya Spaceport. La missione ha ricevuto il sostegno della Norwegian Civil Aviation Authority (NCAA), che ha concesso la licenza di operatore di lancio per il primo volo di prova orbitale. Inoltre, la Norwegian Space Agency (NOSA) ha siglato un contratto con Isar Aerospace per il lancio di satelliti nell’ambito del programma Arctic Ocean Surveillance (AOS), segnando una nuova collaborazione internazionale.
La sequenza degli scatti del lancio è a cura di Ezio Cairoli che ha immortalato l’evento in diretta domenica 30 marzo dallo spazio porto di Andøya.
Il razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliIl razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliIl razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliIl razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliIl razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio Cairoli
Immagine ottenuta con una reflex APSC applicata ad un rifrattore apocromatico 102/820. Come filtro per attenuare la luce solare ho usato un prisma di Herschel autocostruito. Crediti: Cristian Fattinnanzi.
L’eclissi parziale di Sole del 29 marzo 2025 è passata, lasciando dietro di sé dei crucci ma anche molte immagini nonostante il meteo avverso che ha caratterizzato gran parte del territorio italiano. L’evento, atteso dagli appassionati di astronomia e da molti divulgatori impegnati con le scuole, è stato comunque seguito con grande partecipazione: tra nuvole, pioggerella e aperture improvvise, in tanti sono riusciti a catturare il momento in cui la Luna ha oscurato parzialmente il disco solare.
Tra i tanti che hanno documentato il fenomeno, anche Lorenzo Busilacchi, che ha seguito l’eclissi dal Margine Rosso, in Sardegna. “Sino all’ultimo pensavo di non riprendere l’eclissi parziale, causa vento e qualche pioggerellina occasionale“, racconta. E invece, proprio nell’ultima ora utile, approfittando di una finestra di sereno, è riuscito a realizzare un suggestivo video in 4K. Le riprese sono state effettuate con una Nikon P1000 dotata di filtro solare a luce bianca, montata su una Skywatcher GTI con inseguimento solare attivo.
Hai fotografato l’eclissi? Carica la tua immagine su PhotoCoelum e mostrala a tutta la community!
Ormai superato il Novilunio del 29 Marzo, la fase di Luna crescente appena iniziata si inoltra nei primi giorni del nuovo mese toccando alle ore 04:15 del 5 Aprile la fase di Primo Quarto ma a -8° sotto l’orizzonte, in attesa di sorgere alle ore 11:53. Basterà attendere le ore serali e col nostro satellite in fase di 7,3 giorni, a prescindere da meteo, seeing e da tutte le variabili che potenzialmente potrebbero guastare la serata, ci ritroveremo nelle migliori condizioni per interessanti osservazioni, anche con piccoli strumenti, di un’infinità di strutture geologiche a nostra disposizione dal piccolo craterino fino ai grandi bacini da impatto, antichissime e profonde voragini ormai ricolme di detriti e materiale lavico solidificato che con la scura colorazione delle rocce basaltiche creano un evidente contrasto rispetto agli altipiani, rendendo immediatamente individuabili le aree dei mari Nectaris, Fecunditatis, Crisium, Tranquillitatis e Serenitatis oltre ai marginali Smythii e Marginis al confine con l’altro emisfero. Inoltre nella medesima serata la zona di massima librazione si troverà in prossimità del bacino da impatto meglio noto come mare Australe nel settore sudest della Luna e suddiviso fra i due emisferi.
Il procedere della fase crescente, alle ore 02:22 del 13 Aprile, porterà il nostro satellite in Luna Piena ad una distanza di 402895 km dalla Terra, diametro apparente 29.66’ e con un’altezza sull’orizzonte di +33°. Se in Primo Quarto abbiamo osservato le scure aree dei grandi bacini da impatto, in questo caso, con la completa illuminazione del disco lunare, sarà possibile notare come il mare Frigoris esteso immediatamente a nord di Imbrium presenti una colorazione decisamente più chiara, così come una parte dell’adiacente Lacus Somniorum. Un’ulteriore annotazione riguarda la zona di massima librazione che nel caso specifico si troverà in prossimità della regione polare settentrionale (N-NE cratere Meton), ma ancora più interessante sarà nelle successive serate/nottate quando il fenomeno della librazione scorrerà lungo tutta la regione polare fino al settore nordovest, imperdibile occasione per vedere “che cosa c’è dall’altra parte….”.
Dal Plenilunio appena visto ripartirà la fase calante che alle ore 03:36 del 21 Aprile porterà il nostro satellite in Ultimo Quarto ad un’altezza sull’orizzonte di +3°55’ dopo essere sorto alle ore 03:08. Per chi intendesse portare il telescopio sul balcone in orario notturno mi permetto di suggerire che in prossimità dell’equatore lunare vi sono due vaste strutture crateriformi quasi adiacenti fra loro ma nettamente differenti: si tratta di Grimaldi, diametro 222 km, profondo 4900 mt con una platea ricoperta da rocce basaltiche decisamente scure, e da Riccioli di 146 km di diametro con pareti alte 4700 mt. Quest’ultimo cratere presenta una platea molto più chiara rispetto al vicino Grimaldi e con una zona di scuri basalti di limitata estensione a nord. Entrambe le strutture si trovano pochi gradi a sud dell’equatore ed a breve distanza dal bordo occidentale dell’Oceanus Procellarum.
La fase calante terminerà alle ore 21:31 del 27 Aprile col Novilunio con l’emisfero rivolto verso il nostro pianeta completamente in ombra, mentre sarà perfettamente illuminato dalla luce solare l’emisfero opposto. Da qui, come succede da oltre 4,5 miliardi di anni, ripartirà un nuovo ciclo lunare fino a chiudere questo mese con la Luna in fase di 3 giorni che la sera del 30 Aprile (a +23° alle 21:30) avrà la zona di massima librazione in prossimità del mare Australe (area intorno al cratere Lyot), ottima occasione per chiudere in bellezza in attesa del prossimo mese.
Congiunzioni e Occultazioni Notevoli
La seconda parte dell’articolo di Francesco Badalotti, dedicato alla Luna di Aprile, con la descrizione delle Congiunzioni e Occultazioni notevoli, le Falci Lunari, e la tabella delle effemeridi è disponibile per i lettori abbonati alla versione digitale o al cartaceo.
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La Luna del Mese di Aprile è pubblicata in Coelum 273
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Sebbene il Sole sia una stella gigantesca, nel cielo appare come un piccolo disco luminoso. Ma quanto è grande esattamente questo disco? Calcolare il diametro apparente del Sole o della Luna è un esercizio semplice e affascinante, che unisce osservazione astronomica, matematica e un pizzico di curiosità scientifica. È un’attività perfetta anche per le scuole, perché aiuta a sviluppare il pensiero critico, la capacità di misurazione e la comprensione delle proporzioni tra oggetti celesti e le loro distanze dalla Terra. E soprattutto, insegna a guardare il cielo con occhi più attenti e consapevoli.
Partiamo dal Sole e consideriamo i seguenti dati:
Distanza media Sole-Terra DST = 150.000.000 km
Diametro Sole d = 1.392.700 km ovvero r = 696.350 km
Vediamo come calcolare l’angolo θ/2
Per definizione abbiamo:
Quindi:
Da qui:
Riassumendo, il diametro apparente del Sole è 0,52°.
Possiamo applicare gli stessi calcoli per ottenere il diametro apparente della Luna, considerando che
Distanza Luna-Terra DLT = 384.400 km
Diametro Luna d = 3.474,8 km ovvero r = 1.742,4 km
Avremo:
Da qui:
Questo è il valore medio, ma possiamo calcolare anche il diametro apparente della Luna in perigeo e in apogeo.
Diametro angolare della Luna in perigeo: applicando lo stesso procedimento, otteniamo:
Diametro angolare della Luna in apogeo: applicando lo stesso procedimento, otteniamo:
per cui
Analogamente, per avere un quadro ancora più completo potremmo calcolare il diametro apparente del Sole quando la Terra si trova in perielio e in afelio, ottenendo rispettivamente 0,54° e 0,52°.
Ricordiamo il 29 marzo eclissi parziale di Sole. Articolo completo qui
Immagine orizzontale suddivisa in due pannelli.
A sinistra, Nettuno osservato dal telescopio spaziale Hubble: un disco blu inclinato di circa 25 gradi verso sinistra. Si notano macchie bianche in corrispondenza delle ore 7 e poco sopra le ore 5 (seguendo un quadrante immaginario).
A destra, una vista complementare del pianeta ottenuta combinando dati di Hubble e del James Webb. Nettuno appare come una sfera blu dalle molte sfumature. Le stesse macchie bianche sono visibili nelle stesse posizioni dell’immagine a sinistra, ma se ne aggiungono altre al centro e nella parte superiore del pianeta. Lungo il lato destro si distinguono anche macchie ciano distribuite verticalmente: la parte superiore di queste aree appare più trasparente rispetto a quella inferiore.
Crediti immagine:
NASA, ESA, CSA, STScI, Heidi Hammel (AURA), Henrik Melin (Northumbria University), Leigh Fletcher (University of Leicester), Stefanie Milam (NASA-GSFC)
Per la prima volta, il telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA) ha catturato un’attività aurorale luminosa su Nettuno. Le aurore si formano quando particelle energetiche, spesso provenienti dal Sole, restano intrappolate nel campo magnetico di un pianeta e collidono con l’alta atmosfera, sprigionando luce.
In passato, gli astronomi avevano raccolto solo indizi della presenza di aurore su Nettuno, mentre erano già state osservate su Giove, Saturno e Urano. Ora, grazie alla sensibilità nel vicino infrarosso dello strumento NIRSpec di Webb, utilizzato nel giugno 2023, questo tassello mancante è stato finalmente rivelato.
Immagine orizzontale suddivisa in due pannelli. A sinistra, Nettuno osservato dal telescopio spaziale Hubble: un disco blu inclinato di circa 25 gradi verso sinistra. Si notano macchie bianche in corrispondenza delle ore 7 e poco sopra le ore 5 (seguendo un quadrante immaginario). A destra, una vista complementare del pianeta ottenuta combinando dati di Hubble e del James Webb. Nettuno appare come una sfera blu dalle molte sfumature. Le stesse macchie bianche sono visibili nelle stesse posizioni dell’immagine a sinistra, ma se ne aggiungono altre al centro e nella parte superiore del pianeta. Lungo il lato destro si distinguono anche macchie ciano distribuite verticalmente: la parte superiore di queste aree appare più trasparente rispetto a quella inferiore. Crediti immagine: NASA, ESA, CSA, STScI, Heidi Hammel (AURA), Henrik Melin (Northumbria University), Leigh Fletcher (University of Leicester), Stefanie Milam (NASA-GSFC)
Le immagini mostrano le aurore come macchie ciano a latitudini medie — una disposizione insolita, dovuta al campo magnetico di Nettuno, inclinato di 47° rispetto all’asse di rotazione. Questo comportamento anomalo era già stato scoperto da Voyager 2 nel 1989.
Oltre all’immagine, Webb ha fornito uno spettro dell’atmosfera superiore del pianeta, rivelando una linea di emissione molto marcata dell’H3+, un segno caratteristico delle aurore. I dati hanno anche permesso di misurare, per la prima volta dal flyby di Voyager 2, la temperatura della ionosfera di Nettuno, risultata sorprendentemente più fredda di quanto previsto — una possibile spiegazione per cui le aurore erano rimaste invisibili finora.
Questa scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, apre una nuova finestra nello studio dei pianeti giganti ghiacciati. Il team scientifico prevede ora di monitorare Nettuno durante un intero ciclo solare, nella speranza di chiarire l’origine del suo bizzarro campo magnetico.
Il 2025 ci ha regalato un mese di marzo ricco di eventi astronomici: dopo il lunistizio maggiore settentrionale e meridionale del 7 e del 22, rispettivamente, il 29 marzo il Sole e la Luna a braccetto ci offriranno lo spettacolo di un’eclissi solare che, seppur parziale, animerà l’entusiasmo di tutti gli appassionati. Immaginiamo di essere in una stanza illuminata da una lampada e che qualcuno ci passi davanti. In quel momento, ovviamente, la luce si affievolirà e vedremo un’ombra proiettarsi nella nostra direzione, fino a quando la persona non si sarà spostata. A seconda di come si posiziona, il nostro “disturbatore” potrebbe oscurare completamente o solo parzialmente la lampada. Se nel frattempo siamo noi metterci in un’altra posizione, potremmo intravedere nuovamente la lampada o parte di essa. La lampada potrebbe essere il Sole e la persona che vi passa davanti la Luna: abbiamo simulato un’eclissi solare! In termini pratici, si verifica un’eclissi solare quando la Luna si interpone tra la Terra e il Sole, coprendo quest’ultimo parzialmente o totalmente e facendo sì che venga proiettato un cono d’ombra sulla Terra.
Fig. 1 – Schema di un’eclissi totale di Sole. L’immagine non è in scala
Un’eclissi totale è possibile solo perché il diametro apparente del Sole e quello della Luna, per una pura casualità, coincidono e sono pari a circa mezzo grado. Le motivazioni sono intuitivamente chiare se consideriamo che il Sole è 400 volte più grande della Luna, ma è anche 400 volte più distante! Per calcolare il diametro apparente del Sole e della Luna in maniera più accurata, si veda il paragrafo di approfondimento. Questo significa che se i due corpi sono perfettamente allineati, i loro dischi si sovrappongono. È chiaro che in un’eclissi di Sole la disposizione dei tre corpi celesti è analoga a quella di una Luna nuova. Allora, ci potremmo chiedere: “Perché non abbiamo un’eclissi di Sole in occasione di ciascun novilunio?”. La risposta sta nel fatto che il piano orbitale della Luna è inclinato di circa 5,14° rispetto a quello dell’eclittica, ovvero del percorso che la Terra compie intorno al Sole durante la sua rivoluzione (o del moto apparente del Sole visto dalla Terra). Pertanto, in occasione del novilunio, potremo avere un’eclissi di Sole solo al verificarsi di determinate condizioni aggiuntive.
Fig. 2 – Il piano orbitale della Luna è inclinato di circa 5,14° rispetto all’eclittica. Nella figura l’inclinazione è enfatizzata.
I due piani orbitali, come si può vedere nella figura 2, si intersecano esclusivamente in due punti, detti nodi. Quando la Luna è in corrispondenza di uno dei due nodi, allora in quel punto i due piani orbitali risultano allineati, e siamo a buon punto per un’eclissi solare. Tuttavia, come abbiamo visto sopra, è necessario che il nostro satellite sia anche in fase di novilunio. E ancora non è sufficiente…
Fig. 3 – Affinché possa aver luogo un’eclissi solare totale, è necessario che la Luna sia compresa tra i punti A e B.
Terza condizione, che si evince dalla Figura 3, è che la Luna deve trovarsi compresa tra i punti A e B, altrimenti non verrà proiettato alcun cono d’ombra sulla Terra. Riassumendo, condizioni necessarie e sufficienti affinché si possa avere un’eclissi di Sole sono tre: ⦁ La Luna deve trovarsi in corrispondenza di uno dei nodi ⦁ La Luna deve essere nella fase di novilunio ⦁ La distanza della Luna dal nodo non deve essere superiore a 17° da una parte o dall’altra
Indice dei contenuti
Che tipi di eclissi possiamo avere?
Nelle figure di cui sopra abbiamo mostrato la situazione senz’altro più affascinante di un’eclissi totale, in cui il disco solare risulta completamente nascosto dalla Luna per un certo periodo di tempo. Dalla Figura 1 si evince come la regione della Terra che rientra nel cono d’ombra vedrà il Sole completamente eclissato, mentre l’area circostante sarà in penombra. Il cono d’ombra e quello di penombra si sposteranno con il trascorrere del tempo, rendendo il fenomeno visibile in punti diversi della Terra in momenti differenti. Questa è un’eclissi totale. Se la Luna è soltanto in prossimità di un nodo, e non in una posizione centrale come nella Figura 1, non coprirà completamente il disco solare perché i piani orbitali non sono perfettamente allineati e avremo un’eclissi solare parziale, la situazione in cui ci troveremo il 29 marzo. Con un’eclissi di penombra, mostrata nella Figura 4, invece la Terra entra solo nel cono di penombra e non nel cono d’ombra prodotto dalla Luna. Ciò che si vede in questo caso è soltanto un abbassamento non significativo della luminosità del Sole.
Fig. 4 – Eclissi di penombra
Per comprendere cos’è, invece, un’eclissi anulare, ricordiamo che la distanza media tra Terra e Luna è di 384.400 km. Si parla di distanza media perché la Luna percorre un’orbita ellittica intorno alla Terra, che occupa uno dei fuochi. Pertanto, la Luna oscillerà tra una distanza minima (perigeo) di 363.300 km e una distanza massima (apogeo) di 405.500 km (la media di questi due valori è appunto 384.400 km). Ferme restando le condizioni di cui sopra per un’eclissi totale, quando la Luna si trova in apogeo il suo diametro angolare è leggermente inferiore, ovvero 0,48°, rispetto al Sole. Questo significa che il disco della Luna non coprirà completamente quello del Sole, lasciando tutto intorno una corona sporgente. Stiamo assistendo alla cosiddetta eclissi anulare, che diventerà la sola tipologia possibile di eclissi totale solare quando la Luna si sarà allontanata dalla Terra di una quantità sufficiente.
Dove sarà visibile l’eclissi del 29 marzo?
Si tratterà di un’eclissi caratterizzata da un’ampia visibilità: le aree interessate sono l’America nord-orientale e sud-orientale, l’Europa centrale e settentrionale, l’Africa occidentale, l’Asia settentrionale, l’Artide, e parte della Russia. Da notare che in USA e nell’est del Canada il sole sorgerà già parzialmente eclissato, garantendo uno spettacolo sicuramente inusuale. L’Italia meridionale sarà particolarmente svantaggiata: Napoli si trova alla latitudine limite, sotto la quale il fenomeno non sarà visibile. Nella città partenopea, avremo una magnitudine di eclissi pari a 0,0232; in Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia purtroppo non ci sarà alcun accenno del fenomeno. La città tra quelle italiana che potrà raccontare di aver goduto dell’eclissi migliore è Aosta, con una magnitudine di eclissi pari a 12,54. La tabella seguente, ordinata per ora di inizio, elenca per ciascuna delle città elencate gli orari di inizio, centralità e fine dell’eclissi, la magnitudine di eclissi e la percentuale di oscuramento.
Città
Ora inizio
Centralità
Mag.
% oscuramento
Ora fine
AN
11:36
12:07
0,894
3,21%
12:38
AO
11:17
12:02
0,224
12,54%
12:49
BO
11:28
12:05
0,1405
6,27%
12:43
CA
11:24
11:53
0,816
2,80%
12:23
CB
11:47
12:05
0,0301
0,63%
12:24
FI
11:28
12:04
0,1285
5,50%
12:41
GE
11:21
12:02
0,177
8,82%
12:44
AQ
11:38
12:05
0,0672
2,10%
12:32
MI
11:21
12:04
0,1916
9,90%
12:48
NA
11:47
12:03
0,0232
0,43%
12:20
PD
11:29
12:08
0,1489
6,83%
12:46
PG
11:33
12:05
0,0979
3,67%
12:37
RM
11:35
12:03
0,0733
2,39%
12:31
TO
11:17
12:02
0,2081
11,18%
12:47
TN
11:27
12:08
0,1727
8,50%
12:49
UD
11:33
12:10
0,1405
6,27%
12:48
VE
11:31
12:08
0,1424
6,40%
12:46
Fig. 5 – Il percorso nell’eclissi attraverso il globo
Fig. 6 – Il momento della centralità ad AostaFig. 7 – Il momento della centralità a Napoli
Terminologia
La magnitudine di eclissi indica la frazione di diametro del disco solare che viene coperta dalla Luna nel momento centrale. Un valore pari a 0 indica l’assenza di eclissi, mentre numeri maggiori o uguali a 1 indicano un’eclissi totale. A Napoli ad esempio, la magnitudine di eclissi sarà di 0,0232: significa che se il diametro del Sole è pari a 1.392.700 km, di esso ne verranno oscurati 32.310,64 km. Il valore della magnitudine è direttamente proporzionale alla durata dell’eclissi. Questo valore viene si presta a interpretazioni erronee. Infatti, in alcuni prospetti riepilogativi viene confuso con la percentuale di oscuramento del disco solare che, come vediamo nella Tabella 1, è differente. Altro errore da non fare è confonderla con la magnitudine di un oggetto celeste, ovvero con la misura della sua luminosità.
Come osservare un’eclissi di Sole
Sebbene durante un’eclissi solare la nostra stella sia parzialmente o totalmente oscurata, la quantità di radiazioni che arrivano all’occhio sono insostenibili, ed è elevato il rischio di una retinopatia attinica che danneggia irreversibilmente coni e bastoncelli, senza che si percepisca immediatamente una condizione dolorosa. Il Sole, anche in eclissi, non va mai osservato senza le dovute protezioni, a maggior ragione se usiamo uno strumento come un binocolo o un telescopio. Sono da bandire, in maniera assoluta, gli occhiali da sole, le vecchie pellicole fotografiche, le lastre radiografiche, i vetri offuscati con la fiamma di una candela e perfino i vetrini da saldatore, a meno che non abbiano un fattore di oscuramento di almeno 12 din. Il modo più sicuro per la visione è l’utilizzo di appositi occhialini, realizzati in Astrosolar o con altri filtri analoghi certificati per l’osservazione del Sole, che tagliano oltre il 99,999 della radiazione solare. Stesso discorso se vogliamo usare strumentazione osservativa. In questo caso, il rischio non è solo quello di danneggiare lo strumento (ad esempio, l’oculare, il sensore della fotocamera, ecc.): un binocolo o un telescopio concentrano i raggi solari in direzione dell’occhio, aumentando in maniera drammatica il rischio di danni permanenti. Possiamo proteggere i nostri occhi e la nostra strumentazione usando filtri acquistati già pronti oppure autocostruiti usando una pellicola in Astrosolar o analoghi. Se ci piace dedicarci al bricolage, è importante prestare attenzione alla realizzazione, accertandoci che non ci siano dei punti di passaggio della luce. E prima di ogni uso, verificare sempre che il filtro sia integro!
Vediamo adesso come sfruttare al meglio la nostra strumentazione per l’eclissi del 29 marzo, e facendo tesoro degli insegnamenti e dell’esperienza per gli eventi futuri. Alla luce, e mi si perdoni il gioco di parole, di quanto detto prima, si dà per scontato, anche laddove non precisato esplicitamente, che si farà uso di adeguati filtri.
Occhialini in Astrosolar e analoghi: tornano utili per osservare senza altra strumentazione il fenomeno, ma solo in quelle località dove la magnitudine di eclissi è elevata. Ad Aosta avremo una percezione sufficiente dell’eclissi anche con gli occhialini, mentre a Napoli sicuramente no.
Binocoli: già con un classico 10×50 riusciremo a goderci lo spettacolo, a patto di usare un cavalletto, così da avere una buona stabilità di visione. Se poi siete i fortunati possessori di un 25×100 montato su un cavalletto con testa di precisione a tre vie, come nel mio caso, il divertimento sarà assicurato. Vi ricordo che un binocolo, a differenza di un telescopio, offre una visione binoculare, e dunque stereoscopica: l’esperienza diventa immersiva e coinvolgente, più che con un telescopio!
Fotocamera: anche in questo caso, è importante usare un cavalletto adeguato, che riduca le vibrazioni e garantisca stabilità. Vi consiglio di usare un dispositivo di scatto automatico, in maniera da poter avere un elevato numero di fotografie da montare in un timelapse, senza un intervento continuo da parte vostra, che potrete continuare a osservare il cielo.
Telescopio: un basso ingrandimento ci consentirà di avere un quadro d’insieme del Sole, mentre con ingrandimenti più spinti potremo cogliere i dettagli dell’eclissi, specialmente nel momento del primo contatto. Attenzione a smontare il cercatore, a meno che non sia dotato anch’esso di filtro, per evitare che voi o altri possiate anche involontariamente usarlo.
Smart telescope: il vantaggio di questi strumenti è la loro autonomia. Potrete impostare un video o un timelapse e intanto dedicarvi ad altri tipi di osservazioni, senza ulteriore intervento da parte vostra, con risultati paragonabili o superiori a una buona fotocamera.
Una considerazione importante: il filtro solare va montato davanti a monte dell’ottica, e non all’oculare, per un motivo molto semplice. Se non filtriamo la luce a monte, la radiazione solare arriverà all’oculare già amplificata, danneggiando lo strumento e rischiando di provocare danni ai nostri occhi! Il filtro che monterete sullo strumento osservativo vi renderà molto difficile puntare agevolmente il Sole: non vedrete assolutamente nulla fin quando il disco solare non sarà nell’oculare! Individuare il Sole spesso è una vera e propria impresa. Per quanto mi riguarda, con un telescopio manuale (ad esempio, il mio Dobson) riesco a trovare più facilmente un oggetto del cielo profondo (di notte, ovviamente), in quanto posso usare le stelle e le costellazioni come riferimento, che il Sole. E, quindi, come risolvere la questione? Dobbiamo fare attenzione all’ombra che lo strumento osservativo proietta a Terra man mano che tentiamo di puntare il Sole alla cieca (!): quando essa avrà raggiunto la sua dimensione minima, siamo orientati verso il Sole! Con un oculare a basso ingrandimento, quasi certamente ritroveremo il disco solare nel campo; qualche piccolo affinamento e potremo poi usare un oculare più spinto, se così ci piace!
Nel numero 273 di Coelum Astronomia lo speciale dedicato al 25° ciclo solare a cura di Valentina Penza.
Nella serata del 24 marzo 2025, i cieli italiani — e di gran parte dell’Europa — sono stati attraversati da una visione a dir poco mozzafiato: una spirale luminosa, apparsa intorno alle 21:00, ha lasciato senza parole migliaia di osservatori. Ma niente paura: non si è trattato di un evento misterioso, bensì della spettacolare “passivazione” del secondo stadio del razzo Falcon 9 di SpaceX, lanciato da Cape Canaveral alle 18:48 per la missione NROL-69.
La passivazione è una manovra tecnica, necessaria per liberare il razzo dal carburante residuo prima del rientro atmosferico. Il risultato, quando avviene ad alta quota e in condizioni favorevoli, è una vera e propria “danza cosmica”, visibile a occhio nudo da vaste aree del pianeta.
Vi presentiamo il suggestivo contributo video realizzato da Samuele Pinna, che ha ripreso l’intero fenomeno in altissima qualità. Un documento raro e affascinante, da non perdere.
Nel 2023 era già stato segnalato un altro avvistamento nei cieli dell’Alaska QUI
L’espansione accelerata dell’universo, scoperta alla fine degli anni ’90 (Riess et al., 1998; Perlmutter et al., 1999), continua a rappresentare uno dei più grandi enigmi della cosmologia moderna. Per affrontare questo mistero, un consorzio internazionale di ricercatori ha recentemente presentato le Discovery Simulations, una nuova coppia di simulazioni cosmologiche ad alta risoluzione sviluppate per approfondire la natura dell’energia oscura.
Il lavoro, guidato da ricercatori del Argonne National Laboratory (anl.gov) e del Dark Energy Spectroscopic Instrument (desi.lbl.gov), offre un banco di prova senza precedenti per testare modelli cosmologici alternativi. Le simulazioni sono state realizzate utilizzando il codice HACC (Hardware/Hybrid Accelerated Cosmology Code), ottimizzato per i supercomputer più potenti attualmente disponibili.
Due universi a confronto
Le Discovery Simulations consistono in due modelli evolutivi dell’universo, costruiti con condizioni iniziali identiche ma con parametri cosmologici differenti. Una simulazione segue il classico modello ΛCDM, in cui l’energia oscura è rappresentata da una costante cosmologica. L’altra esplora un modello più dinamico, w₀wₐCDM, dove l’energia oscura evolve nel tempo secondo una precisa equazione di stato, come suggerito dai recenti risultati del primo anno di osservazioni del DESI (DESI Collaboration et al., 2024).
Ogni simulazione ha elaborato 6720³ particelle in un volume cubico di 1,5 gigaparsec (circa 4,9 miliardi di anni luce per lato), con una risoluzione in massa di circa 4×10⁸ masse solari. L’operazione si è svolta su Aurora, il supercomputer exascale basato su GPU dell’Argonne Leadership Computing Facility, impiegando 960 nodi e oltre 5700 GPU in un tempo straordinariamente breve: circa due giorni per simulazione.
Confronto visivo di una piccola regione nelle simulazioni a z = 0. A sinistra: modello ΛCDM; a destra: modello w₀wₐCDM. Le differenze tra i due scenari cosmologici sono sottili, ma comunque visibili quando si osservano i dettagli più fini della struttura. Questo confronto evidenzia quanto sia difficile, nella cosiddetta “cosmologia di precisione”, ottenere misure cosmologiche in grado di rilevare anche i più piccoli cambiamenti nella formazione delle strutture dell’universo. È disponibile anche un breve video che mostra l’evoluzione temporale di una piccola porzione dello spazio simulato.
Una mappa dettagliata dell’evoluzione cosmica
Grazie a queste simulazioni, i ricercatori hanno potuto analizzare con precisione le differenze tra i due modelli cosmologici in vari aspetti fondamentali: lo spettro di potenza della materia, la funzione di massa degli aloni di materia oscura e i tassi di accrescimento di massa degli stessi.
I risultati mostrano che il modello w₀wₐCDM genera differenze quantificabili rispetto a ΛCDM, con variazioni fino al 5–10% nella distribuzione della materia su larga scala, e fino al 20% nella frequenza di aloni massicci a determinate epoche cosmiche. Sebbene queste discrepanze possano sembrare contenute, esse offrono importanti spunti per migliorare la precisione degli strumenti di analisi cosmologica.
Influenza della cosmologia w₀wₐCDM sullo spettro di potenza della materia. In alto: confronto degli spettri di potenza della materia ottenuti nelle due simulazioni: linea continua per il modello ΛCDM, linea tratteggiata per il modello w₀wₐCDM, mostrati a tre diverse epoche cosmiche: z = 0 (colore blu), z = 0.5 (rosa) e z = 1 (rosso). In basso: differenza percentuale tra gli spettri di potenza delle due simulazioni a ciascun redshift, cioè quanto i due modelli divergono nella distribuzione della materia su varie scale spaziali.
Galassie simulate e formazione stellare
Un altro punto di forza delle Discovery Simulations è la possibilità di associare alle strutture simulate delle popolazioni galattiche plausibili. Utilizzando modelli innovativi come Diffstarpop (GitHub link), i ricercatori hanno generato galassie sintetiche basate sull’accrescimento di massa degli aloni, esplorando così come la cosmologia influenza la storia della formazione stellare.
I dati indicano che, nei modelli con energia oscura variabile, le galassie formano stelle con una leggera riduzione del tasso di formazione, specialmente agli alti redshift (z > 1). Questo effetto, sebbene modesto (∼2–4%), potrebbe diventare rilevante in studi statistici su larga scala, come quelli previsti da future survey del cielo.
Un patrimonio pubblico per la comunità scientifica
Le simulazioni non sono solo uno strumento teorico, ma un patrimonio messo a disposizione della comunità: i cataloghi degli aloni di materia oscura a tre epoche cosmiche (z = 1.0, 0.5, 0) sono pubblicamente accessibili attraverso l’HACC Simulation Data Portal, utilizzando un account Globus. L’importanza di queste simulazioni risiede nella loro capacità di accompagnare i dati osservativi con un supporto teorico all’avanguardia. Con missioni come Euclid, LSST e il Nancy Grace Roman Space Telescope pronte a esplorare l’universo con una precisione senza precedenti, strumenti come le Discovery Simulations saranno essenziali per interpretare i segnali cosmologici più sottili.
Gli autori, tra cui N. Padmanabhan, M. White, K. Heitmann e J. Alarcón, concludono auspicando che queste simulazioni rappresentino la base per futuri cataloghi galattici sintetici e per l’analisi di statistiche cosmologiche di ordine superiore, in grado di distinguere tra modelli di energia oscura oggi ancora in competizione.
La galassia a spirale J2345−0449 ospita un buco nero supermassiccio che genera getti radio lunghi oltre un megaparsec, un fatto rarissimo per una spirale. Priva di bulge classico, mostra una struttura regolare e una formazione stellare centrale soppressa, probabilmente a causa del feedback dell’AGN. Un caso unico per studiare l’evoluzione galattica.
Nel vasto panorama dell’Universo, alcune galassie brillano non solo per la loro luce, ma per la loro capacità di sfidare le regole della cosmologia. È il caso di 2MASX J23453268−0449256, nota anche come J2345−0449, una galassia a spirale estremamente massiccia e rapida nella rotazione, che ha catturato l’attenzione degli astronomi per un fatto davvero eccezionale: la presenza di getti radio colossali, estesi su scala megaparsec (oltre 3 milioni di anni luce), una caratteristica tipica delle galassie ellittiche e non delle spirali.
Immagine radio a 323 MHz della galassia J2345−0449 ottenuta con il radiotelescopio GMRT Questa immagine mostra la sorgente radio gigante associata alla galassia a spirale J2345−0449, osservata alla frequenza di 323 MHz con il Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT). I dati rivelano un’emissione radio di ampiezza eccezionale, che si estende ben oltre i confini della galassia visibile. Tra gli aspetti più sorprendenti, spicca la presenza – rarissima – di due coppie concentriche di lobi radio, una interna e una esterna, generate dai getti emessi dal buco nero centrale. I lobi più interni si estendono per circa 387 mila anni luce (circa 387 kpc), mentre quelli più esterni raggiungono una lunghezza di circa 1,6 milioni di anni luce (circa 1,6 Mpc), rendendo questa una delle più grandi sorgenti radio conosciute associate a una galassia spirale. Il centro attivo della galassia, cioè il nucleo dell’AGN (Nucleo Galattico Attivo), è chiaramente rilevato come una sorgente compatta nel cuore dell’immagine. Il contorno bianco tratteggiato mostra il profilo della galassia nella luce visibile, ingrandito di circa 4 volte per facilitarne la visione. La barra di scala indica una distanza di 500 kpc, utile per apprezzare l’enorme estensione dell’emissione radio. Nell’immagine in dettaglio (riquadro in basso a sinistra) è visibile un ingrandimento dei lobi interni, ottenuto con il Very Large Array (VLA) alla frequenza di 4.8 GHz. Qui si osserva una morfologia tipica delle sorgenti di tipo FR-II (Fanaroff & Riley, 1974): i lobi sono luminosi ai bordi e alimentati da getti collimati provenienti dal nucleo galattico. I lobi esterni, invece, appaiono più filamentosi e diffusi, e potrebbero rappresentare resti fossili di un’attività radio passata, ormai spenta da milioni di anni. Le curve di livello (contorni) rappresentano i livelli di intensità dell’emissione radio, a partire da valori molto deboli (−0.1 mJy/beam) fino ai livelli più intensi (3.2 mJy/beam). La seconda barra di scala, nel riquadro, indica 50 kpc, a confronto con le dimensioni della galassia visibile.
Un’identità sorprendente
Osservata grazie ai potenti strumenti del Telescopio Spaziale Hubble (HST) e con dati raccolti in varie lunghezze d’onda – dalla luce ultravioletta all’infrarosso – J2345−0449 è stata analizzata in dettaglio da un team internazionale di ricercatori, tra cui Bagchi et al. (2014), Walker et al. (2015) e Drevet Mulard et al. (2023). L’indagine ha rivelato che questa galassia non possiede un rigonfiamento centrale classico (bulge), ma un pseudo-bulge, cioè una struttura più piatta e disciforme, tipica di una formazione “tranquilla”, non dovuta a fusioni galattiche violente.
Questa immagine composita della galassia J2345−0449 è stata ottenuta combinando osservazioni in tre bande diverse effettuate con la camera WFC3 del Telescopio Spaziale Hubble (HST): due bande nel visibile (F438W e F814W) e una nell’infrarosso (F160W). Le singole immagini sono state sovrapposte e calibrate in intensità per riprodurre una colorazione quanto più naturale possibile. Nell’immagine si notano chiaramente scure strisce di polvere che si avvolgono a spirale e piccole regioni compatte di formazione stellare, localizzate soprattutto nelle zone più esterne del disco galattico. L’immagine copre un’area di circa 50 x 50 arcosecondi, con il nord in alto e l’est a sinistra.
Una macchina cosmica di grande massa
Grazie all’elevata risoluzione dell’Hubble, con una scala di circa 100 parsec, è stato possibile distinguere nel centro della galassia anche una piccola barra nucleare e un anello di risonanza, tracciati con precisione millimetrica. La struttura, che ricorda un orologio cosmico, è incastonata in un disco stellare ben ordinato, privo di segni di interazioni recenti o di detriti mareali. Questo suggerisce che J2345−0449 abbia avuto una evoluzione secolare, ovvero graduale e interna, senza fusioni con altre galassie.
La massa stellare totale è stimata in circa 4 × 10¹¹ masse solari, mentre la velocità di rotazione raggiunge i 430 km/s, uno dei valori più alti osservati in una galassia spirale. Tali numeri pongono J2345−0449 tra le galassie più massicce e dinamicamente stabili conosciute nel nostro Universo locale.
I giganti silenziosi dell’Universo
Ma ciò che rende J2345−0449 davvero straordinaria è la presenza di due coppie di lobi radio, visibili grazie alle osservazioni del Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT) e del Very Large Array (VLA). I lobi esterni si estendono per oltre 1,6 Mpc, mentre quelli interni – più giovani e attivi – coprono circa 400 kpc. Questi getti, alimentati da un buco nero supermassiccio (SMBH) centrale, hanno un asse quasi perpendicolare al disco stellare della galassia, un fatto raro che sfida le teorie classiche secondo cui solo le galassie ellittiche, con grandi bulge centrali, possono ospitare getti radio così estesi.
Immagine in scala di grigi della regione più interna della galassia J2345−0449 Questa immagine mostra il cuore della galassia, evidenziando la differenza (residuo) tra l’immagine reale ottenuta con il Telescopio Spaziale Hubble (HST) e il modello migliore ricostruito dagli astronomi (in questo caso, il modello A elaborato con il software GALFIT). Nel pannello a sinistra è visibile l’immagine nella banda H (infrarosso), mentre nel pannello a destra si vede quella nella banda I (vicino infrarosso/visibile). Le frecce indicano la presenza di una piccola barra nucleare e di un anello di risonanza formato da stelle, strutture dinamiche situate nel centro della galassia. Da notare che l’immagine nella banda I è più influenzata dalla polvere interstellare, che oscura la luce visibile, in particolare nella zona scura attorno alla barra nucleare, che appare “vuota” proprio a causa di questa estinzione della luce.
Stelle che non nascono più
Una delle scoperte più interessanti è il rallentamento della formazione stellare nella regione centrale della galassia. Sebbene il gas caldo del suo alone – rilevato tramite osservazioni ai raggi X con i telescopi Chandra e XMM-Newton – si raffreddi, non si formano nuove stelle. Questa “quiescenza” sembra essere il risultato del feedback dell’AGN (nucleo galattico attivo): l’energia emessa dal buco nero, sotto forma di getti e radiazione, riscalda o espelle il gas, rendendolo inutilizzabile per la nascita stellare.
Secondo i modelli teorici, questi processi di feedback sono una delle cause principali della fine della formazione stellare nelle galassie massive, ma nel caso di J2345−0449 l’assenza di una fusione recente e la struttura a disco ben conservata rendono il caso ancora più interessante e raro.
Una galassia verde nel cuore
Sebbene la formazione stellare sia ridotta, la galassia non è completamente “spenta”. Le osservazioni nel vicino e lontano ultravioletto (UV), effettuate dal telescopio GALEX, indicano la presenza di giovani stelle nelle zone più esterne del disco. Tuttavia, nel centro della galassia si trovano popolazioni stellari molto vecchie, con età superiori ai 10 miliardi di anni. Questo colloca J2345−0449 nella cosiddetta “green valley” – una fase intermedia tra le galassie attive (blu) e quelle passive (rosse) – come riportato anche da Salim et al. (2016).
Il buco nero che sfida le regole
Nonostante l’assenza di un bulge classico, J2345−0449 ospita un buco nero supermassiccio stimato in oltre 10⁹ masse solari – una massa paragonabile a quella dei buchi neri nelle galassie ellittiche più grandi. Questo suggerisce un percorso di crescita alternativo, guidato non da fusioni, ma da processi interni e da un lento afflusso di gas. L’AGN della galassia rientra nella categoria delle radio-galassie a bassa eccitazione (LERG), alimentate da flussi di accrescimento deboli ma sufficienti a sostenere la produzione di getti potenti.
Una fabbrica di getti radio
La domanda centrale diventa allora: come può una galassia così diversa dalle radio-galassie classiche produrre getti tanto impressionanti? I modelli teorici ipotizzano che il meccanismo alla base sia magnetoidrodinamico, in cui il buco nero agisce come una dinamo cosmica, lanciando materia ad altissima velocità lungo i poli. La stabilità dell’asse dei getti, che non mostra segni di precessione, suggerisce che il buco nero agisca come un giroscopio cosmico, con spin elevato e ben allineato con il disco di accrescimento.
Un laboratorio cosmico per l’astrofisica
J2345−0449 si presenta così come un laboratorio naturale eccezionale per studiare l’evoluzione delle galassie massive e il ruolo del feedback da AGN. La sua configurazione isolata, la struttura a disco regolare, il pseudo-bulge, i getti radio colossali e l’assenza di eventi di fusione recente la rendono un oggetto unico per comprendere i meccanismi di regolazione della formazione stellare e dell’accrescimento dei buchi neri.
Prospettive future
Per rispondere ai molti interrogativi ancora aperti, saranno necessari studi futuri ad alta risoluzione, in particolare per determinare con precisione la massa, lo spin e la geometria del campo magnetico del buco nero centrale. L’uso di strumenti di prossima generazione, come il James Webb Space Telescope (JWST) o lo Square Kilometre Array (SKA), potrà fornire nuovi indizi cruciali.
Nel frattempo, J2345−0449 resta una galassia fuori dagli schemi, capace di mettere in discussione alcune delle più consolidate teorie sull’origine e l’evoluzione delle strutture cosmiche.
Verso un’Europa più forte, sostenibile e protagonista nello spazio globale
L’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha pubblicato ufficialmente la sua nuova strategia di lungo termine: ESA Strategy 2040, un documento ambizioso che definisce le linee guida e gli obiettivi chiave per affrontare le sfide e cogliere le opportunità del settore spaziale da oggi fino al 2040.
La strategia, presentata dal Direttore Generale Josef Aschbacher, si propone come “documento vivo”, destinato ad aggiornarsi in base alle esigenze future dell’Europa e dei suoi Stati membri. Essa rappresenta l’evoluzione del percorso già tracciato con l’Agenda 2025, con l’obiettivo di trasformare ESA in un’agenzia più agile, efficiente e allineata alle priorità globali e continentali.
Cinque grandi obiettivi per il futuro dello spazio europeo
La visione dell’ESA si articola attorno a cinque obiettivi strategici principali, ciascuno dei quali comprende azioni concrete e obiettivi misurabili:
🔵 1. Proteggere il nostro Pianeta e il Clima ESA investirà in tecnologie e missioni per contrastare il cambiamento climatico, monitorare l’ambiente e promuovere una economia spaziale circolare priva di detriti. Obiettivi chiave:
Creare “gemelli digitali” della Terra per simulazioni avanzate.
Promuovere standard globali per la sostenibilità spaziale.
Rafforzare le capacità europee in ambito space weather e difesa planetaria.
🟠 2. Esplorare e Scoprire L’ESA continuerà a guidare la ricerca scientifica spaziale, sviluppando missioni di frontiera e partecipando attivamente alla nuova era di esplorazione lunare e marziana. Tra le missioni in programma: Euclid, Juice, Plato, LISA, EnVision, e la futura esplorazione di Encelado. Focus:
Rafforzare la presenza europea in orbita terrestre bassa (LEO).
Costruire infrastrutture lunari per comunicazione e navigazione.
Preparare la tecnologia per le future missioni umane su Marte.
🟡 3. Rafforzare l’autonomia e la resilienza europea Con l’obiettivo di rendere l’Europa indipendente nell’accesso e nella mobilità nello spazio, ESA svilupperà sistemi di trasporto spaziale autonomi e soluzioni per la gestione delle crisi terrestri. Azioni previste:
Lanciatrici riutilizzabili e sistemi per servizi in orbita.
Infrastrutture per telecomunicazioni sicure e navigazione precisa.
Tecnologie quantistiche per comunicazioni e localizzazione.
🟢 4. Promuovere crescita e competitività ESA vuole stimolare l’innovazione e rendere l’Europa un polo commerciale globale nel settore spaziale. Iniziative:
Investimenti in tecnologie d’avanguardia (propulsione verde, habitat spaziali, VLEO).
Supporto a startup e PMI per accedere ai mercati.
Rafforzamento del ruolo europeo come attrattore di investimenti privati.
🔴 5. Ispirare l’Europa L’obiettivo finale è coinvolgere cittadini, giovani e istituzioni in un ecosistema spaziale europeo più coeso e partecipativo. Attività previste:
Programmi educativi e inclusivi per la prossima generazione.
Iniziative per la diversità, l’equità e la rappresentanza.
Collaborazioni diplomatiche internazionali attraverso la “space diplomacy”.
Uno strumento per il futuro dell’Europa
La Strategia 2040 sarà la base per le decisioni strategiche dei prossimi decenni, compresi i lavori preparatori per il Consiglio ministeriale dell’ESA previsto a novembre 2025, dove si discuteranno le risorse e i progetti futuri. L’attuazione sarà seguita da un aggiornamento continuo del piano a lungo termine dell’Agenzia.
«Lo spazio è diventato un pilastro fondamentale per la sicurezza, l’economia, la ricerca e la resilienza delle società moderne – ha dichiarato Aschbacher –. Con questa strategia, vogliamo fare in modo che l’Europa non resti spettatrice, ma protagonista della corsa allo spazio del XXI secolo.»
Il documento di sintesii è disponibile a questo LINK
Per approfondire scarica il documento completo QUI
Nel prossimo decennio, una nuova generazione di telescopi terrestri estremamente grandi — i cosiddetti ELTs, Extremely Large Telescopes — sarà in grado di indagare per la prima volta la presenza di atmosfere abitabili e segnali di vita su pianeti extrasolari rocciosi che non transitano davanti alla loro stella. Questa rivoluzione si avvicina grazie all’uso di strumentazione ad altissimo contrasto e risoluzione spettrale, combinando tecniche avanzate di imaging coronografico e spettroscopia ad alta dispersione.
Uno studio pubblicato su The Planetary Science Journal da un team internazionale di ricercatori guidato da Meadows et al. mostra come questi strumenti possano rilevare firme molecolari indicative della presenza di vita, anche in mondi potenzialmente privi di transiti visibili. Tra i pianeti più promettenti analizzati spicca Proxima Centauri b, situato a soli 1,3 parsec dalla Terra.
Alla ricerca della vita con la luce riflessa
Finora, la maggior parte delle informazioni sulle atmosfere dei pianeti extrasolari è arrivata da osservazioni di transiti, come quelli del sistema TRAPPIST-1, studiato anche dal telescopio spaziale James Webb (JWST). Tuttavia, molti pianeti potenzialmente abitabili non transitano davanti alla loro stella dal nostro punto di vista: è il caso di Proxima b, GJ 1061 d e Teegarden’s Star c, tutti entro i 5 parsec dalla Terra.
Per superare questo limite, gli ELTs utilizzeranno un approccio detto High-Dispersion Coronagraphy (HDC), che unisce un coronografo per oscurare la luce stellare e uno spettrografo ad altissima risoluzione. Progetti come RISTRETTO sull’ESO Very Large Telescope e strumenti futuri come ANDES sul European Extremely Large Telescope (E-ELT), il TMT (Thirty Meter Telescope) e il Giant Magellan Telescope (GMT) saranno fondamentali.
Atmosfere simulabili, firme chimiche rilevabili
Usando una pipeline aggiornata chiamata SPECTR, gli autori hanno simulato osservazioni di vari tipi di atmosfere su pianeti rocciosi e sub-nettuniani orbitanti stelle di tipo M (piccole e fredde), come nel caso di Proxima b. Hanno analizzato atmosfere modellate sulla Terra moderna, l’Archeano (circa 3,5 miliardi di anni fa), scenari abiologici con possibili “falsi positivi” e mondi sub-nettuniani con spesse atmosfere di idrogeno.
Tra le molecole considerate: ossigeno (O₂), metano (CH₄), anidride carbonica (CO₂), vapore acqueo (H₂O), monossido di carbonio (CO) e ammoniaca (NH₃).
I risultati: segnali rivelabili in poche ore
Nel caso più favorevole, quello di Proxima b, la simulazione suggerisce che sia possibile:
escludere un’atmosfera sub-nettuniana in meno di un’ora di osservazione;
rilevare coppie di gas in disequilibrio chimico (O₂/CH₄ o CO₂/CH₄), che sono considerate potenziali biosignature, in circa 10 ore;
distinguere pianeti abitati da quelli abiologici, osservando gas come CO e H₂O che forniscono contesto ambientale.
Per esempio, l’acqua può essere rilevata nel vicino infrarosso (0.9 μm) in circa 1 ora, mentre l’ossigeno o il metano possono richiedere da 10 a 100 ore, a seconda delle condizioni e della strumentazione.
I falsi positivi e come evitarli
Alcuni gas, come l’ossigeno, possono accumularsi anche in assenza di vita. Lo studio ha quindi analizzato scenari alternativi, come pianeti che hanno perso gli oceani o hanno un’attività vulcanica intensa. In questi casi, gas come CO diventano indicatori utili per distinguere un mondo realmente abitato da uno che lo imita chimicamente.
Ad esempio, una combinazione di alta presenza di metano e monossido di carbonio può indicare processi vulcanici, non biologici. Al contrario, l’assenza di CO in presenza di CH₄ e CO₂ rafforza l’ipotesi biologica.
Un protocollo per la ricerca della vita
Gli autori propongono un protocollo osservativo efficace:
Escludere un’atmosfera sub-nettuniana cercando molecole come NH₃;
Verificare la presenza di acqua, per valutare l’abitabilità;
Cercare biosignature, come le coppie O₂/CH₄ o CO₂/CH₄;
Individuare gas discriminanti, come il monossido di carbonio, per riconoscere falsi positivi.
Verso una nuova era dell’astrobiologia
Lo studio evidenzia come l’osservazione da Terra, grazie agli ELTs, permetterà di caratterizzare in dettaglio le atmosfere di pianeti potenzialmente abitabili, anche quelli che non transitano. L’obiettivo finale: cercare la vita.
In conclusione, se Proxima b possiede un’atmosfera terrestre, potremmo identificare la presenza di gas legati alla vita in meno di 10 ore di osservazione. Una scoperta che segnerebbe l’inizio di una nuova era per l’astronomia e per la ricerca di mondi abitabili oltre il nostro.
La struttura dell’ELT supera i 50 metri di altezza, e l’apertura del tetto è larga ben 41 metri. Per salire a piedi, percorrendo scale e passerelle dall’ingresso fino alla sommità della cupola dell’ELT, servono circa 30 minuti. Altro che palestra… Crediti: ESO/G. Vecchia
Mappa celeste dei due campi osservativi utilizzati per questa indagine, in relazione alla posizione di Saturno (indicato con rettangoli grigi).
Sono riportate tutte le osservazioni relative a 5 delle 64 nuove lune scoperte (indicate con cerchi), insieme alla miglior traiettoria orbitale calcolata per ciascuna (linee tratteggiate).
Nota dell’autore (BJG): questo sottoinsieme di dati mette in evidenza le difficoltà nel collegare le osservazioni delle lune su un arco di più anni.
Nota tecnica: l’apparente "incompletezza" delle orbite (cioè il fatto che non sembrino chiudersi perfettamente) è dovuta al fatto che le posizioni osservate sono proiettate dal punto di vista della Terra in movimento, e non da un sistema di riferimento centrato su Saturno.
Una ricerca internazionale condotta da Edward Ashton (Institute of Astronomy and Astrophysics, Academia Sinica, Taiwan), insieme a Brett Gladman (University of British Columbia, Canada), Mike Alexandersen (Center for Astrophysics | Harvard & Smithsonian, USA) e Jean-Marc Petit (Institut UTINAM, Université de Franche-Comté, Francia), ha individuato ben 64 nuovi satelliti irregolari intorno a Saturno. Le osservazioni sono state effettuate tra il 2019 e il 2021 grazie al Canada-France-Hawaii Telescope (CFHT), e i risultati, presentati nel 2025, stanno riscrivendo la nostra comprensione del sistema lunare saturniano.
Lune regolari e irregolari: che differenza c’è?
Le lune “regolari”, come Titano, si sono formate attorno a Saturno e seguono orbite circolari e ben allineate con l’equatore del pianeta. Al contrario, le “lune irregolari” sono oggetti catturati da Saturno in epoche remote, provenienti probabilmente dalla fascia di Kuiper o dalla regione dei pianeti giganti. Le loro orbite sono ellittiche, inclinate, e molte sono addirittura retrograde, cioè orbitano in senso opposto alla rotazione di Saturno.
La prima luna irregolare di Saturno, Febe, fu scoperta nel 1898. Da allora, solo due grandi campagne osservative avevano incrementato il numero delle lune irregolari conosciute: una all’inizio degli anni 2000 e una tra il 2004 e il 2007. Grazie a queste indagini, entro il 2019 si contavano 58 lune irregolari attorno a Saturno. Oggi, grazie al nuovo studio, quel numero è più che raddoppiato.
Una popolazione in gran parte retrograda
Il dato che più ha colpito i ricercatori è che la maggior parte delle nuove lune scoperte ha orbite retrograde. In particolare, è stato identificato un sottogruppo, chiamato Mundilfari, in cui abbondano i satelliti di piccole dimensioni (inferiori a 4 km di diametro) rispetto a quelli più grandi. Questo gruppo si estende su un’inclinazione orbitale tra 157 e 172 gradi rispetto al piano dell’eclittica.
Questa distribuzione così particolare suggerisce un’origine violenta: “La pendenza molto ripida della distribuzione delle dimensioni delle lune del gruppo Mundilfari indica una frantumazione recente,” spiega Ashton, facendo riferimento a un evento di collisione catastrofica avvenuto forse negli ultimi miliardi di anni. Il gruppo prende il nome dalla sua luna più grande, Mundilfari, e sarebbe l’esito di un impatto che ha frammentato un oggetto più grande.
Mappa celeste dei due campi osservativi utilizzati per questa indagine, in relazione alla posizione di Saturno (indicato con rettangoli grigi). Sono riportate tutte le osservazioni relative a 5 delle 64 nuove lune scoperte (indicate con cerchi), insieme alla miglior traiettoria orbitale calcolata per ciascuna (linee tratteggiate). Nota dell’autore (BJG): questo sottoinsieme di dati mette in evidenza le difficoltà nel collegare le osservazioni delle lune su un arco di più anni. Nota tecnica: l’apparente “incompletezza” delle orbite (cioè il fatto che non sembrino chiudersi perfettamente) è dovuta al fatto che le posizioni osservate sono proiettate dal punto di vista della Terra in movimento, e non da un sistema di riferimento centrato su Saturno.
Come sono state trovate queste lune?
Il team ha utilizzato la tecnica dello “shift and stack”, che consente di sommare immagini sequenziali per rilevare oggetti in movimento estremamente deboli. Le osservazioni si sono concentrate su due aree del cielo attorno a Saturno, ripetute in varie opposizioni (ossia i periodi migliori per osservare il pianeta dalla Terra) nel 2019, 2020 e 2021.
In totale, sono stati rilevati oltre 120 oggetti in movimento coerente con le orbite saturniane. Di questi, 64 sono stati confermati come nuove lune. Per altre 50+ non è stato possibile determinare orbite precise a causa di un numero insufficiente di rilevamenti.
Una parte delle lune scoperte in questo studio era già stata osservata tra il 2004 e il 2007 dal telescopio giapponese Subaru, ma non erano mai state confermate fino ad ora. Il Minor Planet Center è riuscito a collegare 42 delle nuove lune a quelle osservazioni passate, attribuendo loro ufficialmente l’anno di scoperta.
Collane di lune: le “famiglie collisionarie”
Analizzando i parametri orbitali delle lune scoperte, i ricercatori hanno individuato delle “famiglie” di satelliti con caratteristiche simili, che suggeriscono un’origine comune. Oltre al gruppo Mundilfari, si distinguono altri sottogruppi:
Il gruppo Gallico (orbitanti in senso diretto) mostra una concentrazione attorno alla luna Albiorix, suggerendo una frammentazione antica.
Il gruppo Inuit si divide in due sottogruppi attorno a Kiviuq e Siarnaq, entrambi probabili resti di collisioni passate.
Tra i retrogradi, spiccano anche il gruppo Kari e il gruppo Phoebe, quest’ultimo dominato dalla luna più grande e scura, Phoebe.
Ma è il gruppo Mundilfari a destare il maggior interesse. La distribuzione delle dimensioni dei suoi membri segue una legge di potenza con indice q ≈ 6, molto più ripida di quella delle altre famiglie (che si attestano tra q ≈ 2 e 3.5). Questo significa che, rispetto ad altri gruppi, il Mundilfari ha una quantità insolitamente alta di lune piccole, segno di una rottura violenta e relativamente recente.
Distribuzione delle dimensioni nei diversi gruppi e sottogruppi delle lune irregolari di Saturno. Nel grafico sono state aggiunte due linee di riferimento: una tratteggiata che rappresenta una distribuzione tipica di frammenti in equilibrio collisionale (con indice q = 3,5) e una linea tratteggiata lunga che mostra una pendenza simile a quella osservata per il sottogruppo Mundilfari (con q = 6). I membri del gruppo Norse con inclinazioni inferiori a 151 gradi non sono rappresentati nel grafico.
Una collisione recente?
Per testare l’ipotesi dell’impatto, i ricercatori hanno simulato un’esplosione orbitale di un oggetto progenitore, generando migliaia di frammenti con una velocità di espulsione di 200 m/s. Il risultato? La distribuzione orbitale dei frammenti riproduce bene quella osservata tra i membri del gruppo Mundilfari.
“Se la nostra interpretazione è corretta,” spiegano gli autori, “allora il gruppo Mundilfari rappresenta le tracce visibili di una collisione cosmica che ha avuto luogo non molto tempo fa, su scala astronomica.”
C’è però una complicazione: la dispersione orbitale del gruppo è piuttosto ampia, forse più di quanto ci si aspetterebbe da un’unica collisione. Questo apre la possibilità che ci siano stati più impatti, o che alcuni membri non siano direttamente legati all’evento principale.
In questo grafico, ogni punto rappresenta una luna retrograda, ovvero una luna che orbita attorno a Saturno in senso opposto rispetto alla rotazione del pianeta. I colori aiutano a distinguere i vari sottogruppi: Rosso: lune appartenenti al sottogruppo di Phoebe Magenta: lune del sottogruppo di Mundilfari Blu: lune del sottogruppo di Kari Azzurro chiaro: lune con inclinazioni inferiori a 151 gradi, dette “low-i” Due lune classificate nel sottogruppo Phoebe ma che potrebbero appartenere al gruppo Mundilfari sono indicate con un pallino magenta aggiuntivo, suggerendo che potrebbero essere stati erroneamente attribuiti al gruppo sbagliato.
Lune blu?
Un altro indizio interessante è il colore. Le misurazioni precedenti indicano che Mundilfari ha una tonalità insolitamente blu, simile solo a quella della luna Phoebe. Se anche altri membri del gruppo avessero colori simili, questo rafforzerebbe l’idea di un’origine comune. Purtroppo, al momento mancano dati fotometrici completi per la maggior parte delle nuove lune.
Elenco delle lune irregolari di Saturno, con indicazione dei seguenti parametri orbitali:
AU: Astronomical Unit – distanza media dal pianeta
Asse semi-maggiore (a): la distanza media dal pianeta, espressa in unità astronomiche (au) o milioni di chilometri
Eccentricità (e): quanto l’orbita è ellittica (0 = orbita perfettamente circolare)
Inclinazione (i): l’angolo tra il piano dell’orbita della luna e il piano dell’eclittica, in gradi
Periodo orbitale (P): il tempo impiegato dalla luna per completare un’orbita attorno a Saturno, in giorni
Magnitudine assoluta nella banda V (HV): una misura della luminosità intrinseca della luna
Gruppo: la famiglia dinamica principale a cui la luna appartiene
Sottogruppo: un’eventuale suddivisione più specifica all’interno del gruppo
I valori orbitali sono tratti dal database del Jet Propulsion Laboratory (JPL), mentre le magnitudini HV provengono dal Minor Planet Center (MPC).
Tutte le inclinazioni sono riferite al piano dell’eclittica, ad eccezione di quella di Phoebe, che è calcolata rispetto al piano di Laplace (il piano medio attorno a cui oscillano le orbite dei satelliti nel tempo).
Denominazione
AU
a
e
i
P
HV
Gruppo
Sottogruppo
S/2007 S 8
0.1140
17.05
0.49
36.2
836.9
15.97
Gallic
Albiorix
Bebhionn (37)
0.1138
17.03
0.482
37.4
834.9
14.99
Gallic
Albiorix
S/2004 S 24
0.1560
23.34
0.071
37.4
1341.3
15.98
Gallic
–
Sat LX
0.1140
17.06
0.485
38.6
837.8
15.83
Gallic
Albiorix
Tarvos (21)
0.1218
18.22
0.528
38.6
926.4
13.04
Gallic
Albiorix
S/2006 S 12
0.1308
19.57
0.542
38.6
1035.1
16.2
Gallic
Albiorix
Erriapus (28)
0.1170
17.51
0.462
38.7
871.1
13.71
Gallic
Albiorix
Albiorix (26)
0.1092
16.33
0.47
38.9
783.5
11.17
Gallic
Albiorix
S/2020 S 4
0.1219
18.24
0.495
40.1
926.9
17.01
Gallic
Albiorix
S/2019 S 6
0.1214
18.11
0.120
46.4
919.7
15.73
Inuit
Siarnaq
S/2020 S 3
0.1207
18.05
0.144
46.1
908.0
16.38
Inuit
Siarnaq
S/2019 S 14
0.1193
17.85
0.172
46.2
893.1
16.32
Inuit
Siarnaq
Paaliaq (20)
0.1003
15.00
0.384
47.1
687.1
11.71
Inuit
–
S/2005 S 4
0.0757
11.32
0.315
48
450.2
15.69
Inuit
Kiviuq
S/2004 S 31
0.1170
17.50
0.159
48.1
866.1
15.63
Inuit
Siarnaq
S/2020 S 5
0.1229
18.39
0.22
48.2
933.9
16.59
Inuit
Siarnaq
S/2020 S 1
0.0758
11.34
0.337
48.2
451.1
15.92
Inuit
Kiviuq
Siarnaq (29)
0.1195
17.88
0.311
48.2
895.9
10.61
Inuit
Siarnaq
Kiviuq (24)
0.0756
11.31
0.182
48.9
449.1
12.67
Inuit
Kiviuq
Ijiraq (22)
0.0758
11.34
0.353
49.2
451.5
13.27
Inuit
Kiviuq
S/2019 S 1
0.0752
11.25
0.384
49.5
445.5
15.32
Inuit
Kiviuq
Tarqeq (52)
0.1186
17.75
0.119
49.7
885.0
14.82
Inuit
Siarnaq
Bestla (39)
0.1360
20.34
0.461
136.3
1087.5
14.61
Norse
–
Narvi (31)
0.1289
19.29
0.449
143.7
1003.8
14.52
Norse
–
S/2019 S 11
0.1381
20.66
0.513
144.6
1115.0
16.25
Norse
–
Skathi (27)
0.1041
15.58
0.265
149.7
728.1
14.41
Norse
–
Hyrrokkin (44)
0.1226
18.34
0.331
150.3
931.9
14.34
Norse
–
S/2019 S 19
0.1541
23.05
0.458
151.8
1318.0
16.51
Norse
Kari
Kari (45)
0.1473
22.03
0.482
153
1231.0
14.49
Norse
Kari
S/2004 S 21
0.1545
23.12
0.394
153.2
1325.4
16.21
Norse
Kari
S/2004 S 36
0.1566
23.43
0.625
153.3
1352.9
16.11
Norse
Kari
S/2004 S 45
0.1316
19.69
0.551
154
1038.7
15.97
Norse
Kari
Geirrod (66)
0.1488
22.26
0.539
154.4
1251.1
15.89
Norse
Kari
S/2019 S 18
0.1547
23.14
0.509
154.6
1327.1
16.56
Norse
Kari
S/2019 S 17
0.1519
22.72
0.546
155.5
1291.4
15.86
Norse
Kari
S/2006 S 1
0.1253
18.75
0.105
156.0
964.1
15.65
Norse
Kari
S/2019 S 20
0.1583
23.68
0.354
156.1
1375.4
16.73
Norse
Kari
S/2006 S 3
0.1427
21.35
0.432
156.1
1174.8
15.65
Norse
Kari
S/2019 S 15
0.1416
21.19
0.257
157.7
1161.5
16.59
Norse
Mundilfari
Farbauti (40)
0.1356
20.29
0.248
157.7
1087.3
15.75
Norse
Mundilfari
S/2004 S 37
0.1066
15.94
0.447
158.2
754.5
15.92
Norse
Mundilfari
S/2007 S 5
0.1059
15.84
0.104
158.4
746.9
16.23
Norse
Mundilfari
Skoll (47)
0.1178
17.63
0.47
158.4
878.4
15.41
Norse
Mundilfari
Bergelmir (38)
0.1288
19.27
0.144
158.7
1005.6
15.16
Norse
Mundilfari
Thiazzi (63)
0.1576
23.58
0.511
158.8
1366.7
15.91
Norse
Mundilfari
S/2019 S 5
0.1275
19.08
0.215
158.8
990.4
16.65
Norse
Mundilfari
Beli (61)
0.1384
20.70
0.087
158.9
1121.8
16.09
Norse
Mundilfari
S/2007 S 9
0.1348
20.17
0.36
159.3
1078.1
16.06
Norse
Mundilfari
S/2019 S 9
0.1361
20.36
0.433
159.5
1093.1
16.27
Norse
Mundilfari
S/2004 S 49
0.1497
22.40
0.453
159.7
1264.3
15.97
Norse
Mundilfari
Gunnlod (62)
0.1413
21.14
0.251
160.4
1158.0
15.57
Norse
Mundilfari
S/2004 S 47
0.1073
16.05
0.291
160.9
762.5
16.29
Norse
Mundilfari
S/2006 S 15
0.1457
21.80
0.117
161.1
1214.0
16.22
Norse
Mundilfari
S/2020 S 7
0.1163
17.40
0.5
161.5
861.7
16.79
Norse
Mundilfari
S/2020 S 9
0.1700
25.43
0.531
161.4
1535.0
16.02
Norse
Mundilfari
S/2006 S 10
0.1269
18.98
0.151
161.6
983.1
16.43
Norse
Mundilfari
S/2020 S 8
0.1469
21.97
0.252
161.8
1228.1
16.41
Norse
Mundilfari
S/2004 S 48
0.1480
22.14
0.374
161.9
1242.4
15.95
Norse
Mundilfari
S/2019 S 16
0.1555
23.27
0.25
162
1341.2
16.68
Norse
Mundilfari
S/2006 S 13
0.1334
19.95
0.313
162
1060.6
16.05
Norse
Mundilfari
S/2004 S 53
0.1556
23.28
0.24
162.6
1342.4
16.16
Norse
Mundilfari
Jarnsaxa (50)
0.1289
19.28
0.219
163
1006.9
15.62
Norse
Mundilfari
Gridr (54)
0.1287
19.25
0.187
163.9
1004.8
15.77
Norse
Mundilfari
S/2019 S 10
0.1384
20.71
0.249
163.9
1123.0
16.66
Norse
Mundilfari
S/2004 S 50
0.1494
22.35
0.45
164
1260.4
16.4
Norse
Mundilfari
S/2006 S 16
0.1452
21.72
0.204
164.1
1207.5
16.54
Norse
Mundilfari
Hati (43)
0.1317
19.70
0.375
164.1
1040.3
15.45
Norse
Mundilfari
Fenrir (41)
0.1493
22.33
0.136
164.3
1260.3
15.89
Norse
Mundilfari
S/2004 S 12
0.1324
19.80
0.337
164.7
1048.6
15.91
Norse
Mundilfari
S/2004 S 7
0.1426
21.33
0.511
164.9
1173.9
15.56
Norse
Mundilfari
Eggther (59)
0.1326
19.84
0.157
165
1052.3
15.39
Norse
Mundilfari
S/2004 S 52
0.1768
26.45
0.292
165.3
1634.0
16.5
Norse
Mundilfari
S/2020 S 10
0.1692
25.31
0.295
165.6
1527.2
16.86
Norse
Mundilfari
S/2004 S 41
0.1210
18.10
0.3
165.7
914.6
16.31
Norse
Mundilfari
S/2004 S 42
0.1219
18.24
0.158
165.7
925.9
16.11
Norse
Mundilfari
S/2004 S 39
0.1551
23.20
0.101
165.9
1336.2
16.14
Norse
Mundilfari
S/2007 S 6
0.1239
18.54
0.169
166.5
949.5
16.36
Norse
Mundilfari
S/2006 S 14
0.1408
21.06
0.06
166.7
1152.7
16.5
Norse
Mundilfari
Aegir (36)
0.1381
20.66
0.255
166.9
1119.3
15.51
Norse
Mundilfari
Loge (46)
0.1532
22.92
0.192
166.9
1311.8
15.36
Norse
Mundilfari
S/2020 S 6
0.1422
21.27
0.481
166.9
1168.9
16.55
Norse
Mundilfari
S/2019 S 3
0.1142
17.08
0.249
166.9
837.7
16.22
Norse
Mundilfari
S/2019 S 12
0.1397
20.90
0.476
167.1
1138.8
16.33
Norse
Mundilfari
S/2004 S 44
0.1305
19.52
0.129
167.7
1026.2
15.82
Norse
Mundilfari
S/2004 S 17
0.1317
19.70
0.162
167.9
1040.9
15.95
Norse
Mundilfari
S/2004 S 28
0.1462
21.87
0.159
167.9
1220.7
15.77
Norse
Mundilfari
Sat LXIV
0.1614
24.15
0.279
168.3
1420.8
16.15
Norse
Mundilfari
Surtur (48)
0.1521
22.75
0.449
168.3
1296.5
15.77
Norse
Mundilfari
Mundilfari (25)
0.1243
18.59
0.21
168.4
952.9
14.57
Norse
Mundilfari
S/2006 S 17
0.1496
22.38
0.425
168.7
1264.6
16.01
Norse
Mundilfari
S/2004 S 13
0.1233
18.45
0.265
169
942.6
16.25
Norse
Mundilfari
S/2007 S 7
0.1065
15.93
0.217
169.2
754.3
16.24
Norse
Mundilfari
S/2004 S 40
0.1075
16.08
0.297
169.2
764.6
16.28
Norse
Mundilfari
S/2005 S 5
0.1428
21.37
0.588
169.5
1177.8
16.36
Norse
Mundilfari
S/2006 S 18
0.1421
22.76
0.131
169.5
1298.4
16.1
Norse
Mundilfari
Fornjot (42)
0.1667
24.94
0.214
169.5
1494.0
15.12
Norse
Mundilfari
S/2019 S 4
0.1201
17.96
0.409
170.1
904.3
16.46
Norse
Mundilfari
S/2020 S 2
0.1195
17.87
0.152
170.7
897.6
16.89
Norse
Mundilfari
S/2004 S 43
0.1266
18.94
0.432
171.1
980.1
16.34
Norse
Mundilfari
S/2004 S 51
0.1685
25.21
0.201
171.2
1519.4
16.13
Norse
Mundilfari
S/2019 S 21
0.1767
26.44
0.155
171.9
1636.3
16.18
Norse
Mundilfari
S/2019 S 8
0.1356
20.28
0.311
172.8
1088.7
16.28
Norse
Phoebe
Sat LVIII
0.1745
26.10
0.148
172.9
1603.9
15.7
Norse
Phoebe
S/2006 S 9
0.0963
14.41
0.248
173
647.9
16.48
Norse
Phoebe
Ymir (19)
0.1535
22.96
0.337
173.1
1315.2
12.41
Norse
Phoebe
S/2006 S 20
0.0882
13.19
0.206
173.1
567.3
15.75
Norse
Phoebe
S/2019 S 2
0.1107
16.56
0.279
173.3
799.8
16.49
Norse
Phoebe
Greip (51)
0.1229
18.38
0.317
173.4
937.0
15.33
Norse
Phoebe
S/2006 S 11
0.1318
19.71
0.144
174.1
1042.3
16.47
Norse
Phoebe
S/2007 S 2
0.1066
15.94
0.232
174.1
754.9
15.59
Norse
Phoebe
S/2019 S 7
0.1349
20.18
0.232
174.2
1080.3
16.29
Norse
Phoebe
Gerd (57)
0.1400
20.95
0.517
174.4
1143.0
15.87
Norse
Phoebe
Thrymr (30)
0.1359
20.33
0.467
174.8
1091.8
14.33
Norse
Phoebe
Suttungr (23)
0.1296
19.39
0.116
175
1016.7
14.55
Norse
Phoebe
Phoebe (9)
0.0864
12.93
0.164
175.2
550.3
6.73
Norse
Phoebe
S/2006 S 19
0.1591
23.80
0.467
175.5
1389.3
16.07
Norse
Phoebe
S/2007 S 3
0.1304
19.51
0.162
175.6
1026.4
15.74
Norse
Phoebe
Skrymir (56)
0.1434
21.45
0.437
175.6
1185.1
15.62
Norse
Phoebe
S/2004 S 46
0.1371
20.51
0.249
177.2
1107.6
16.4
Norse
Phoebe
S/2019 S 13
0.1402
20.97
0.318
177.3
1144.9
16.68
Norse
Phoebe
Angrboda (55)
0.1376
20.59
0.216
177.4
1114.1
16.17
Norse
Phoebe
Alvaldi (65)
0.1471
22.00
0.238
177.4
1232.2
15.62
Norse
Phoebe
Un nuovo capitolo per Saturno
Il sistema di Saturno si conferma sempre più complesso e affascinante. Grazie a questo studio, firmato da un team internazionale guidato da Edward Ashton, possiamo guardare con occhi nuovi al balletto orbitale delle lune più misteriose del nostro Sistema Solare. E chissà: forse dietro l’oscurità delle lune retrograde si nascondono ancora altre storie di violenza cosmica e formazione planetaria.
L’immagine mostra la posizione della Luna in vari momenti della giornata, poco dopo l’alba all’1:46 e poco prima del tramonto alle 10:09 della Luna. La simulazione fa riferimento alle coordinate di osservazione di Napoli (40°50′49.20″ N 14°15′54.00″ E.)
Il 7 marzo abbiamo assistito a un interessante fenomeno astronomico, che ha coinvolto la Luna: il lunistizio maggiore settentrionale. Si tratta solo della prima parte di un fenomeno che si è concluso stamane, 22 marzo, con il lunistizio maggiore meridionale.
Per comprendere meglio di cosa si tratta, analizziamo anzitutto il termine: “lunistizio” deriva dalla combinazione di Luna con la locuzione latina “sistere”, che significa “fermarsi”, ovvero “Luna che si ferma”. Questa parola, poco diffusa, ci richiama alla mente un concetto più familiare: il solstizio (da Sole e sistere, “Sole che si ferma”). Naturalmente, ciò non implica che Luna e Sole fermino il loro moto apparente sulla volta celeste: piuttosto, la loro declinazione raggiunge un valore massimo o minimo, “si ferma” e poi inizia a variare nella direzione opposta.
Ed è proprio dal concetto di solstizio partiremo per rendere più agevole la comprensione del lunistizio.
Durante l’anno, ossia nel tempo che la Terra impiega per compiere una rivoluzione completa intorno al Sole, hanno luogo due solstizi: il solstizio estivo il 21 giugno e quello invernale il 21 dicembre.
A differenza delle altre stelle, che possiamo considerare fisse, il Sole non ha una declinazione fissa. A causa dell’inclinazione dell’asse terrestre di circa 23,5° rispetto alla perpendicolare al piano dell’eclittica, la declinazione del Sole nel corso dell’anno oscilla tra -23,5° e +23,5°. Il minimo e il massimo vengono raggiunti in corrispondenza del solstizio invernale e di quello estivo, rispettivamente.
Il grafico evidenza la posizione in cui sorgono Sole e Luna in corrispondenza dei solstizi, degli equinozi e dei lunistizi maggiori.
Consideriamo un altro aspetto importante. Spesso si afferma che il Sole (come la Luna) sorge a Est e tramonta a Ovest, ma si tratta di una imprecisione: in realtà, dovremmo parlare di orizzonte est e orizzonte ovest. Il Sole sorge a est e tramonta a ovest soltanto durante gli equinozi. Nel resto dell’anno, il punto di levata si sposta progressivamente verso nord o verso sud.
Un fenomeno analogo riguarda la Luna, il cui moto è tuttavia molto più complesso di quello del Sole: non solo ruota intorno alla Terra ma contemporaneamente si muove attorno al Sole. Ricordiamo che la Luna completa un’orbita intera intorno alla Terra in un mese siderale, pari a 27,32166 giorni. Durante questo periodo, il punto in cui la Luna sorge (e tramonta) varia continuamente: quando sorge nel suo punto più settentrionale in assoluto, descrive sulla volta celeste un arco più ampio e raggiunge la sua declinazione massima assoluta. Allo stesso modo, quando due settimane dopo sorge nel suo punto più meridionale in assoluto, la declinazione nel punto di culmine sarà la minima assoluta.
Mentre i due solstizi avvengono nell’arco di un anno, per la Luna i due lunistizi avvengono ogni 27 giorni. Il punto di levata della Luna nel corso tempo si sposta sempre di più verso nord e verso sud, alternandosi, e la declinazione aumenta (in valore assoluto). In questo intervallo di tempo, i due momenti in cui la Luna sorge più a nord e più a sud rispetto agli altri giorni definiscono rispettivamente il lunistizio settentrionale e quello meridionale. Quindi, nel corso di ciascun periodo orbitale della Luna (mese siderale) hanno luogo due lunistizi, a distanza di circa 14 giorni, così come durante ciascun periodo orbitale della Terra (anno) si verificano i due solstizi.
Il piano orbitale della Luna è inclinato di 5,14° rispetto al piano dell’eclittica. Ciò implica che gli estremi dell’intervallo di declinazione massima della Luna siano di +28,64° (+23,5°+5,14°) e -28,64° (–23,5°-5,14°). Questi valori, i punti estremi assoluti che possono essere raggiunti, definiscono i lunistizi maggiori.
Considerando la complessità dei moti lunari, i due lunistizi maggiori si verificano solo ogni 18,6 anni. A metà “strada”, tuttavia, si assiste ai lunistizi minori, durante i quali la declinazione della Luna è compresa tra -18,36° (-23,5°+5,14°) e +18,36° (+23,5°-5,14).
Il grafico mostra l’andamento della declinazione della Luna durante nel corso del mese di marzo. È evidente il picco massimo di circa +28° il 7 marzo, in occasione del lunistizio maggiore settentrionale, e l’equivalente picco minimo di circa -28° con il lunistizio maggiore meridionale. NOTA: per definizione la declinazione non dipende dal luogo di osservazione (coordinate equatoriali), a differenza dell’altezza (coordinate alt-azimutali).
Cosa è accaduto all’alba del 22 marzo?
Dopo il Lunistizio maggiore settentrionale del 7 marzo, abbiamo assistito a quello meridionale: la Luna è sorta nel punto più meridionale degli ultimi 18,6 anni raggiungendo la declinazione di -28,64° e tramontando percorrendo un arco molto basso. La Luna ha raggiunto al culmine la declinazione più bassa degli ultimi 18,6 anni, ovvero dallo stesso luogo di osservazione non è mai vista così bassa negli ultimi due decenni, e dovremo attendere altrettanto perché l’evento si ripeta!
L’immagine mostra la posizione della Luna in vari momenti della giornata, poco dopo l’alba all’1:46 e poco prima del tramonto alle 10:09 della Luna. La simulazione fa riferimento alle coordinate di osservazione di Napoli (40°50′49.20″ N 14°15′54.00″ E.)
La Luna, con i suoi 22,09 giorni trascorsi dal novilunio, era illuminata per il 53,9% (gibbosa calante).
la Cina si prepara a lanciare la missione Tianwen-2 nel 2025, con l’obiettivo di esplorare 2016 HO3 (469219 Kamo’oalewa), un asteroide di piccole dimensioni ma di grande interesse scientifico.
Perché 2016 HO3?
2016 HO3 è il quasi-satellite più vicino e stabile della Terra, il che lo rende un obiettivo perfetto per le missioni di esplorazione. La missione Tianwen-2 prevede un’operazione complessa di esplorazione ravvicinata, atterraggio e prelievo di campioni, con l’obiettivo di riportare sulla Terra materiale che potrebbe fornire informazioni cruciali sulla formazione degli asteroidi e sulla loro composizione. Inoltre, la missione studierà anche la cometa della fascia principale 311P, realizzando una doppia esplorazione con un solo lancio.
Uno dei principali ostacoli nell’esplorazione di 2016 HO3 è la sua scarsa luminosità, che rende difficile determinarne la composizione e la struttura. Per affrontare questa sfida, gli scienziati hanno sviluppato tecniche avanzate di analisi spettroscopica e intelligenza artificiale per ottenere dati più precisi.
Orbita dell’asteroide 2016 HO3 intorno alla Terra. L’asteroide viene considerato quasi un mini satellite. Credit: NASA
L’Intelligenza Artificiale nella Classificazione degli Asteroidi
Un team di ricercatori ha sviluppato una piattaforma innovativa basata su reti neurali profonde con meccanismo di attenzione Transformer, capace di analizzare in modo avanzato la composizione degli asteroidi. La piattaforma comprende tre modelli principali:
ASC-Net, per la classificazione spettrale degli asteroidi, con un’accuratezza del 94,58% per quattro classi e del 95,69% per undici classi.
AAE-Net, per la stima dell’albedo (la quantità di luce riflessa dalla superficie), con un errore medio assoluto di 0,0308 per gli asteroidi di tipo S.
AE-Trans, una rete specializzata nell’analisi della composizione chimica, che ha ottenuto un errore medio di 0,1759 nella stima dell’abbondanza degli elementi.
Questi algoritmi avanzati permettono di superare i limiti dei metodi tradizionali, fornendo una classificazione e un’analisi più dettagliata anche per asteroidi mai studiati in precedenza.
Test su Asteroidi Noti
Per verificare l’affidabilità della piattaforma, i ricercatori l’hanno testata su sei asteroidi già noti:
Ceres (1) e Bennu (101955), entrambi classificati correttamente come asteroidi di tipo C.
Itokawa (25143) e Eros (433), riconosciuti come asteroidi di tipo S con un’accuratezza superiore all’84%.
Kalliope (22) e Angelina (64), identificati come asteroidi di tipo X.
I risultati hanno confermato l’affidabilità del sistema, dimostrando la sua capacità di effettuare analisi accurate anche su dati mai visti prima.
Implicazioni per il Futuro
Se la missione Tianwen-2 avrà successo, non solo ci fornirà nuove informazioni su 2016 HO3, ma potrà anche aprire la strada a future missioni di estrazione mineraria dagli asteroidi, offrendo opportunità concrete per lo sfruttamento delle risorse spaziali e lo sviluppo di nuove tecnologie per l’esplorazione interplanetaria.
Per approfondire lo studio originale: IOP Science.
Un nuovo studio ad opera degli autori Armaan V. Goyal e Songhu Wang dell’Università di Yale, pubblicato su The Astronomical Journal e in collaborazione con le missioni spaziali Kepler, K2 e TESS, suggerisce una nuova catalogazione per i pianeti con periodi ultra corti.
Introduzione: un nuovo sguardo ai pianeti con periodo ultra-corto
Gli Ultra-Short-Period Planets (USPs), o pianeti ultra-corti periodo, sono mondi estremamente vicini alla loro stella madre, completando un’intera orbita in meno di 24 ore. Tradizionalmente, gli astronomi hanno utilizzato questo valore come confine per distinguere gli USPs dagli altri pianeti con periodi più lunghi. Tuttavia, una nuova ricerca di Armaan V. Goyal e Songhu Wang, pubblicata su The Astronomical Journal, suggerisce che questa soglia potrebbe essere arbitraria e propone una classificazione più basata sui dati.
Architetture orbitali dei 49 sistemi di pianeti ultra-corti periodo (USP) considerati in questo studio. Le dimensioni dei marcatori nella figura corrispondono al raggio dei pianeti. I marcatori pieni rappresentano oggetti confermati all’interno del NASA Exoplanet Archive (NEA) (R. L. Akeson et al. 2013), mentre i marcatori vuoti si riferiscono a candidati individuati dalle missioni Kepler (J. J. Lissauer et al. 2024), TESS (dal catalogo aggiornato TESS Input Catalog di K. G. Stassun et al. 2019) o dal database dei candidati del programma K2 (R. L. Akeson et al. 2013). Dall’analisi emerge che gli USPs (in rosso) sono quasi esclusivamente più piccoli di 2 raggi terrestri (2R⊕) e tendono a mostrare ampie separazioni orbitali rispetto ai loro pianeti compagni non-USP (in nero).
Lo studio: analisi di centinaia di sistemi planetari
I ricercatori hanno analizzato 376 sistemi planetari scoperti grazie alle missioni spaziali della NASA Kepler, K2 e TESS, che hanno identificato migliaia di esopianeti (pianeti al di fuori del nostro Sistema Solare). L’obiettivo era verificare se esistano limiti naturali nei periodi orbitali degli USPs, piuttosto che basarsi su un valore scelto in modo arbitrario.
Dai dati emerge che gli USPs tendono ad essere più piccoli rispetto ai pianeti con periodi leggermente più lunghi. Inoltre, sono spesso isolati, nel senso che non hanno compagni planetari molto vicini. La loro separazione architettonica all’interno dei sistemi suggerisce una possibile origine ed evoluzione diversa rispetto agli altri pianeti a corto periodo.
Le nuove soglie proposte: non solo 1 giorno, ma anche 2
L’analisi statistica di Goyal e Wang ha evidenziato due confini naturali:
1 giorno: questo valore corrisponde a un cambiamento significativo nelle dimensioni dei pianeti. Quelli con periodi inferiori a 24 ore sono più piccoli, probabilmente a causa della perdita di materiale dovuta alla forte radiazione stellare.
2 giorni: oltre questa soglia, i pianeti non mostrano più la tendenza all’isolamento. Ciò significa che i pianeti con periodi compresi tra 1 e 2 giorni potrebbero rappresentare una classe intermedia, definita dagli autori come “proto-USPs”.
Questa scoperta suggerisce che i pianeti con orbite di 1-2 giorni potrebbero essere una fase di transizione tra i pianeti più vicini e quelli leggermente più distanti, con possibili implicazioni sulla loro formazione ed evoluzione.
Perché gli USPs sono così piccoli e isolati?
Gli autori propongono diversi scenari per spiegare la natura degli USPs:
Perdita di massa per evaporazione: la vicinanza estrema alla stella provoca temperature elevatissime, sufficienti a far evaporare gli strati più esterni del pianeta, riducendone le dimensioni nel tempo.
Migrazione orbitale: alcuni USPs potrebbero essersi formati più lontano dalla stella e successivamente essere migrati verso l’interno a causa di interazioni gravitazionali con altri pianeti.
Tidal decay (decadimento mareale): le forze gravitazionali della stella potrebbero aver influenzato lentamente l’orbita di questi pianeti, portandoli sempre più vicini.
Implicazioni e futuro della ricerca
Questi risultati offrono una nuova prospettiva sulla classificazione degli esopianeti e suggeriscono che l’attuale confine di 1 giorno potrebbe non essere sufficiente a descrivere la diversità dei pianeti ultra-corti periodo. La scoperta di un possibile confine a 2 giorni invita a riconsiderare i modelli di formazione ed evoluzione di questi mondi estremi.
Le future missioni spaziali, come il telescopio spaziale James Webb (JWST), potranno fornire ulteriori dettagli sulla composizione e l’atmosfera degli USPs, confermando o modificando le teorie attuali.
In conclusione, questo studio di Goyal e Wang non solo ridefinisce il modo in cui classifichiamo gli USPs, ma apre nuove strade per comprendere come i pianeti si evolvono in ambienti estremi. Una scoperta che ci avvicina sempre di più alla comprensione della straordinaria varietà di mondi che popolano la nostra galassia.
Questa immagine mostra la posizione esatta nel cielo notturno della galassia **JADES-GS-z14-0**, un minuscolo punto luminoso nella costellazione della Fornace. Ad oggi, è la galassia confermata più distante che conosciamo. La sua luce ha viaggiato per **13,4 miliardi di anni** prima di raggiungerci, offrendoci uno sguardo sulle condizioni dell’Universo quando aveva appena **300 milioni di anni**.
Nel riquadro dell’immagine è visibile un primo piano di questa galassia primordiale, catturato con l’**Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA)**. L’ingrandimento è sovrapposto a un'immagine ottenuta con il **Telescopio Spaziale James Webb** (NASA/ESA/CSA).
Quando due gruppi di ricerca hanno studiato questa galassia con **ALMA**, gestito dall'**ESO** e dai suoi partner internazionali, hanno fatto una scoperta inaspettata: il **suo spettro mostrava la presenza di ossigeno**. Si tratta della rilevazione di ossigeno più distante mai effettuata, un risultato che sfida le nostre conoscenze sulla formazione delle galassie nell’Universo primordiale. La presenza di elementi pesanti come l'ossigeno suggerisce che queste galassie primordiali si siano **evolute molto più rapidamente di quanto pensassimo**. È come **trovare un adolescente dove ci si aspetterebbe solo neonati**.
**Crediti:**
ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).
L’Universo primordiale continua a stupirci. Gli astronomi hanno recentemente ottenuto nuove osservazioni della galassia JADES-GS-z14-0, un oggetto celeste che risale a soli 300 milioni di anni dopo il Big Bang. Questa galassia, la più lontana mai confermata fino ad oggi, offre uno sguardo prezioso sulle prime fasi della formazione delle strutture cosmiche.
Grazie alle osservazioni del telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), gli scienziati hanno potuto identificare con estrema precisione la distanza di GS-z14, ottenendo un redshift di z = 14.1793 ± 0.0007. Ciò rappresenta un miglioramento di ben 180 volte rispetto alle precedenti stime effettuate con il telescopio spaziale James Webb (JWST).
Una delle scoperte più sorprendenti riguarda la presenza di ossigeno ionizzato nella galassia. Questa rilevazione non solo conferma la sua esistenza, ma dimostra che anche nelle prime fasi dell’Universo si erano già formati elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, indicando una rapida evoluzione chimica.
Una Misurazione Straordinariamente Precisa
L’ossigeno rilevato in JADES-GS-z14-0 non è solo un’indicazione della sua composizione chimica, ma ha anche permesso agli astronomi di calcolare con un’incredibile precisione la sua distanza.
“La rilevazione con ALMA ha permesso di misurare la distanza di questa galassia con un margine di errore dello 0,005 percento. È una precisione straordinaria, paragonabile all’accuratezza di una misura al centimetro su una distanza di un chilometro”, spiega Eleonora Parlanti, dottoranda presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e autrice dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics.
Questa precisione aiuta gli scienziati a comprendere meglio le proprietà delle galassie lontane e a migliorare le nostre teorie sulla loro evoluzione.
Un Profilo Unico tra le Galassie Primordiali
JADES-GS-z14-0 si distingue per una serie di caratteristiche insolite rispetto ad altre galassie dell’epoca primordiale:
È sorprendentemente luminosa: la sua magnitudine ultravioletta è MUV = −20.81 ± 0.16, rendendola la seconda galassia più brillante oltre z > 8, superata solo da GN-z11.
Ha una struttura estesa e diffusa: a differenza di molte altre galassie giovani che appaiono compatte, GS-z14 è distribuita su un’area più ampia. Questo indica che la sua luce proviene da una popolazione stellare diffusa e non da un buco nero attivo.
È più ricca di elementi pesanti del previsto: nonostante la giovane età dell’Universo in cui si trova, ha già una certa quantità di ossigeno e carbonio, suggerendo una formazione stellare molto rapida.
Non mostra segni di polvere cosmica: le osservazioni ALMA non hanno rilevato alcuna emissione significativa di polvere, sollevando domande su come e quando questa componente sia comparsa nelle galassie primordiali.
La Scoperta dell’Ossigeno e la Conferma della Galassia
La chiave della conferma di JADES-GS-z14-0 è stata la rilevazione della riga di emissione dell’ossigeno ionizzato [OIII] a 88 micron con ALMA. Questa linea è stata rilevata con una certezza del 6.6σ, il che significa che la scoperta è altamente affidabile.
Questa nuova misurazione ha anche confermato una precedente rilevazione fatta dal telescopio JWST. JWST aveva individuato un possibile segnale di emissione del doppietto CIII]1907,1909 (ioni di carbonio), ma con una certezza minore di 3.6σ. Il fatto che il redshift misurato con ALMA coincida con quello stimato tramite il carbonio rafforza enormemente l’affidabilità della scoperta.
L’ossigeno ionizzato è particolarmente importante perché indica la presenza di regioni HII, nuvole di gas ionizzato attorno a stelle giovani e calde. Questo suggerisce che GS-z14 stia attraversando un’intensa fase di formazione stellare.
L’immagine mostra nel riquadro JADES-GS-z14-0, la galassia più distante conosciuta fino ad oggi, osservata con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). I due spettri riportati derivano da analisi indipendenti dei dati di ALMA condotte da due gruppi di astronomi. Entrambi hanno identificato una linea di emissione dell’ossigeno, rendendola la rilevazione più lontana di questo elemento, risalente a un’epoca in cui l’Universo aveva solo 300 milioni di anni. Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).
Cosa Significa la Mancanza di Polvere?
Uno degli aspetti più sorprendenti di JADES-GS-z14-0 è l’assenza di polvere cosmica. Le osservazioni ALMA hanno stabilito un limite superiore alla quantità di polvere, suggerendo che questa rappresenti meno dello 0.2% della massa totale delle stelle della galassia.
Ci sono diverse possibili spiegazioni per questa scoperta:
La polvere potrebbe non essersi ancora formata in grandi quantità. In molte galassie giovani, la polvere viene prodotta principalmente dalle supernovae e dalle stelle morenti, ma GS-z14 potrebbe essere ancora troppo giovane perché questo processo abbia avuto un impatto significativo.
La polvere potrebbe essere stata espulsa da venti stellari intensi. Se la galassia sta formando stelle a un ritmo molto alto, potrebbe generare venti così forti da spazzare via la polvere, lasciandola più “trasparente” rispetto ad altre galassie simili.
Forse la polvere è distribuita in modo molto ampio e non concentrata nella regione osservata. Se la polvere fosse sparsa su una grande area, potrebbe risultare più difficile da individuare con ALMA.
Questa mancanza di polvere suggerisce che, all’epoca di JADES-GS-z14-0, i processi di formazione della polvere nell’Universo fossero ancora in fase iniziale.
Le Implicazioni della Scoperta
La scoperta di JADES-GS-z14-0 ha importanti implicazioni per l’astronomia e la cosmologia:
1. Le prime galassie si sono formate più rapidamente del previsto?
L’elevata quantità di ossigeno suggerisce che JADES-GS-z14-0 abbia attraversato un periodo di formazione stellare estremamente rapido. Questo contrasta con alcune teorie che prevedevano una crescita più lenta delle prime galassie.
2. L’assenza di polvere cambia il nostro modello dell’Universo primordiale?
Molte osservazioni a redshift inferiori hanno mostrato abbondanza di polvere nelle galassie antiche. JADES-GS-z14-0 suggerisce che la polvere non fosse ancora diffusa nell’Universo così presto nella sua storia.
3. ALMA e JWST sono strumenti complementari per esplorare l’Universo primordiale.
La combinazione di dati di ALMA e JWST si è rivelata fondamentale per confermare questa galassia e studiarne le caratteristiche. Questo dimostra che, per esplorare l’Universo primordiale, non basta un solo telescopio, ma è necessario combinare osservazioni in diverse lunghezze d’onda.
Questa immagine mostra la posizione esatta nel cielo notturno della galassia **JADES-GS-z14-0**, un minuscolo punto luminoso nella costellazione della Fornace. Ad oggi, è la galassia confermata più distante che conosciamo. La sua luce ha viaggiato per **13,4 miliardi di anni** prima di raggiungerci, offrendoci uno sguardo sulle condizioni dell’Universo quando aveva appena **300 milioni di anni**. Nel riquadro dell’immagine è visibile un primo piano di questa galassia primordiale, catturato con l’**Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA)**. L’ingrandimento è sovrapposto a un’immagine ottenuta con il **Telescopio Spaziale James Webb** (NASA/ESA/CSA). Quando due gruppi di ricerca hanno studiato questa galassia con **ALMA**, gestito dall’**ESO** e dai suoi partner internazionali, hanno fatto una scoperta inaspettata: il **suo spettro mostrava la presenza di ossigeno**. Si tratta della rilevazione di ossigeno più distante mai effettuata, un risultato che sfida le nostre conoscenze sulla formazione delle galassie nell’Universo primordiale. La presenza di elementi pesanti come l’ossigeno suggerisce che queste galassie primordiali si siano **evolute molto più rapidamente di quanto pensassimo**. È come **trovare un adolescente dove ci si aspetterebbe solo neonati**. **Crediti:** ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).
JADES-GS-z14-0 è una delle scoperte più straordinarie degli ultimi anni. Questa galassia sfida le nostre teorie sulla formazione dell’Universo primordiale, mostrando una sorprendente abbondanza di ossigeno e l’assenza di polvere.
Grazie alla precisione senza precedenti delle osservazioni ALMA, gli scienziati hanno confermato che GS-z14 è la galassia più lontana mai osservata con un margine di errore incredibilmente ridotto. Questa scoperta segna un passo fondamentale nello studio delle prime fasi dell’evoluzione cosmica, offrendo una finestra unica sul passato più remoto dell’Universo.
Questa immagine mostra un ingrandimento del campo profondo nord di Euclid, con la Nebulosa Occhio di Gatto al centro, a circa 3.000 anni luce di distanza. Conosciuta anche come NGC 6543, questa nebulosa rappresenta un "fossile visivo" delle dinamiche e dell'evoluzione finale di una stella morente. La stella in fase di morte sta infatti espellendo i suoi strati esterni colorati.
Descrizione immagine: La Nebulosa Occhio di Gatto occupa la posizione centrale in un mare scintillante di stelle e galassie. Al centro della nebulosa si trova un punto, il nucleo della stella morente. Attorno ad essa si estendono strati e anelli complessi e colorati di gas e polvere che sono stati espulsi dalla stella nel corso del tempo. Più lontano, si vedono fili e macchie di gas e polvere di varie forme e dimensioni, che danno l'impressione di frammenti di un palloncino esploso, congelati intorno al punto di esplosione. Sullo sfondo, milioni di galassie popolano l'immagine. Numerose stelle brillanti con picchi di diffrazione distintivi sono chiaramente visibili.
CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell'immagine a cura di J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi.
Il 19 marzo 2025, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha rilasciato il primo lotto di dati provenienti dalla missione Euclid, una delle missioni spaziali più ambiziose dedicate allo studio dell’Universo. In particolare, i dati includono una panoramica dei “deep fields” (campi profondi), aree del cielo osservate in dettaglio che rivelano centinaia di migliaia di galassie in varie forme e dimensioni. Questi dati offrono uno spunto sulle forze invisibili che plasmano l’Universo.
Euclid sta mappando una vasta area del cielo, e il rilascio iniziale copre 63,1 gradi quadrati, equivalenti a oltre 300 volte l’area della Luna piena. Con una sola settimana di osservazioni, il telescopio ha già individuato 26 milioni di galassie, molte delle quali si trovano fino a 10,5 miliardi di anni luce di distanza. I campi profondi includono anche quasar luminosi, che si trovano ancora più lontano, e galassie in formazione. A lungo termine, Euclid osservando queste regioni centinaia di volte, produrrà un atlante cosmico che coprirà un terzo dell’intero cielo.
Valeria Pettorino, scienziata del progetto Euclid per l’ESA, ha commentato: “È impressionante come una sola osservazione delle aree profonde abbia già fornito una grande quantità di dati utilizzabili in astronomia, dalle forme delle galassie, ai cluster, alla formazione stellare e altro ancora.“
Euclid è equipaggiato con due strumenti principali: l’Imaging ad Alta Risoluzione Visibile (VIS) e lo Spettrometro e Fotometro Infrarosso a Vicino (NISP). Questi strumenti permettono di studiare la distribuzione, la forma e le distanze delle galassie con un dettaglio senza precedenti. L’obiettivo finale di Euclid è mappare la struttura su larga scala dell’Universo, compreso il misterioso web cosmico, costituito da filamenti di materia ordinaria e oscura che attraversano lo spazio.
L’importanza di Euclid si estende anche al ruolo che l’intelligenza artificiale (AI) e la scienza dei cittadini stanno giocando nell’analisi dei dati. Grazie all’uso di algoritmi avanzati di AI e a un impegno globale di migliaia di volontari, Euclid è riuscito a classificare oltre 380.000 galassie, analizzando le loro caratteristiche come braccia a spirale e barre centrali. Mike Walmsley, scienziato del Consorzio Euclid presso l’Università di Toronto, ha dichiarato: “Stiamo vivendo un momento decisivo per affrontare i grandi sondaggi in astronomia. L’AI è fondamentale per sfruttare pienamente i vasti dati di Euclid.“
Questa immagine mostra esempi di galassie di diverse forme, tutte catturate da Euclid durante le sue prime osservazioni delle aree dei Deep Field. Come parte del rilascio dei dati, è stato pubblicato un catalogo dettagliato di oltre 380.000 galassie, classificate in base a caratteristiche come le braccia a spirale, le barre centrali e le code di marea, che indicano galassie in fase di fusione. Descrizione immagine: Un collage di 9 righe per 5 colonne contenente galassie di forme molto diverse, viste da diverse angolazioni. Ad esempio, la prima colonna mostra cinque galassie viste di lato, che appaiono sottili come una matita. Le galassie della seconda colonna hanno un aspetto più sfocato e diffuso. Le colonne centrali presentano galassie a spirale viste frontalmente, con molteplici forme e densità di stelle. Le ultime due colonne includono galassie interagenti o galassie con braccia a spirale o code di marea insolite. CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell’immagine a cura di M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre.
Euclid ha anche iniziato a raccogliere dati su un fenomeno noto come lente gravitazionale, che si verifica quando la luce proveniente da galassie distanti viene distorta dalla materia oscura e ordinaria. Questa distorsione può creare effetti spettacolari come gli anelli di Einstein. Con l’ausilio di modelli AI e scienza dei cittadini, Euclid ha già identificato 500 candidati di lente gravitazionale forte, quasi tutti precedentemente sconosciuti.
Questa immagine mostra esempi di lenti gravitazionali catturate da Euclid durante le sue prime osservazioni delle aree dei Deep Field. Grazie a un primo monitoraggio tramite modelli di intelligenza artificiale, seguito da un’analisi tramite scienza dei cittadini, convalidata da esperti e modellata, è stato creato un primo catalogo contenente 500 candidati di lenti gravitazionali forti tra galassie, quasi tutti precedentemente sconosciuti. Questo tipo di lente gravitazionale si verifica quando una galassia in primo piano e il suo alone di materia oscura agiscono come una lente, distorcendo l’immagine di una galassia sullo sfondo lungo la linea di vista verso Euclid. Con l’ausilio di questi modelli, Euclid prevede di catturare circa 7.000 candidati nel grande rilascio dei dati cosmologici previsto per la fine del 2026, e circa 100.000 lenti gravitazionali forti tra galassie entro la fine della missione, circa 100 volte in più rispetto a quanto conosciuto attualmente. Descrizione immagine: Un collage di 14 righe per 8 colonne contenente esempi di lenti gravitazionali. Ogni esempio mostra un centro brillante con sbavature di stelle disposte in un arco o in più archi intorno ad esso, a causa della luce che viaggia verso Euclid da galassie distanti, piegata e distorta dalla materia ordinaria e oscura in primo piano. In alcuni casi rari, la distorsione forma un anello completo, creando un cosiddetto “Anello di Einstein”. CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell’immagine a cura di M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre.
NB:In Coelum Astronomia 273 l’articolo completo dedicato alla ricerca di lenti gravitazione grazie all’uso di Euclid, dell’intelligenza artificiale e della science citizen. Articolo a cura di Crescenzo Tortora.
Clotilde Laigle, scienziata del Consorzio Euclid e esperta di elaborazione dati presso l’Istituto di Astrofisica di Parigi, ha aggiunto: “Il pieno potenziale di Euclid per imparare di più sulla materia oscura e sull’energia oscura sarà raggiunto solo al termine dell’intero sondaggio. Tuttavia, la quantità di dati rilasciati finora ci offre una visione unica sull’organizzazione delle galassie su larga scala.“
Euclid è il risultato di una collaborazione internazionale, con il coinvolgimento di oltre 2000 scienziati provenienti da 300 istituti in 15 paesi europei, oltre a Stati Uniti, Canada e Giappone. Il consorzio Euclid ha progettato e gestito gli strumenti scientifici, mentre NASA ha contribuito con i rilevatori del NISP.
Il lander Blue Ghost di Firefly ha catturato un'immagine al tramonto, con la Terra visibile all'orizzonte.
Crediti: Firefly Aerospace.
Grande successo per l’azienda americana Firefly Aerospace che con il suo lander Blue Ghost diventa la prima realtà completamente privata a completare una missione sulla Luna.
Il Lancio
Il 15 gennaio 2025, la missione ha avuto inizio con il decollo del razzo Falcon 9 di SpaceX dal Kennedy Space Center. Dopo la separazione dal veicolo di lancio, il lander Blue Ghost ha stabilito il contatto con il centro di controllo missione di Firefly Aerospace a Cedar Park, Texas. Nei giorni successivi, ha eseguito le manovre orbitali necessarie per uscire dall’orbita terrestre e iniziare il suo viaggio verso la Luna.
Blue Ghost posizionato nello SpaceX Falcon 9. Credit: SpaceX
Gli Obiettivi della Missione
Blue Ghost Mission 1, finanziata principalmente dalla NASA nell’ambito del programma Commercial Lunar Payload Services (CLPS), aveva il compito di trasportare e operare dieci payload scientifici sulla superficie lunare. Tra gli esperimenti principali vi erano il Lunar GNSS Receiver Experiment (LuGRE), sviluppato in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana, il Lunar Instrumentation for Subsurface Thermal Exploration (LISTER) della Texas Tech University e il Lunar Magnetotelluric Sounder (LMS) dello Southwest Research Institute. Inoltre, Blue Ghost ha testato la tecnologia Lunar PlanetVac di Honeybee Robotics per la raccolta e analisi del suolo lunare.
Firefly’s Blue Ghost cattura la Terra (Palla Blu) approsimativamente a 6,700 km di distanza il 23 gennaio 2025. Credit: Firefly Aerospace
L’Attività sulla Luna
Dopo un viaggio di circa sei settimane, Blue Ghost ha eseguito un atterraggio morbido nella regione del Mare Crisium il 2 marzo 2025. Durante le prime ore sulla superficie lunare, il lander ha attivato i suoi strumenti scientifici e ha trasmesso le prime immagini del sito di atterraggio. Tra i risultati più significativi, la missione ha catturato immagini spettacolari della Terra all’orizzonte, ha assistito a un’eclissi solare dalla superficie lunare e ha registrato la variazione di temperatura durante il fenomeno, con valori che oscillavano tra 40°C e -170°C.
Le operazioni scientifiche si sono protratte per oltre due settimane, durante le quali il lander ha completato tutte le sue attività previste, compreso lo studio dell’interazione delle polveri lunari con i gas di scarico dei motori tramite il sistema SCALPSS della NASA. Inoltre, ha contribuito a migliorare la comprensione della geologia lunare con il deployment degli elettrodi del Lunar Magnetotelluric Sounder.
Blue Ghost ha anche avuto l’opportunità di osservare un’eclissi solare totale dalla Luna, mentre dalla Terra lo stesso evento è stato visto come un’eclissi lunare. Questo ha rappresentato un momento storico per la missione, dato che nessuna compagnia commerciale aveva mai condotto un’osservazione di questo tipo direttamente dalla superficie lunare.
Firefly Aerospace si è distinta come la prima azienda privata a realizzare con successo un atterraggio morbido sulla Luna senza incidenti, un traguardo che non era stato raggiunto da altre compagnie nei tentativi precedenti. Finora, solo cinque nazioni – Stati Uniti, Russia, Cina, India e Giappone – avevano ottenuto un simile successo.
Il Tramonto della Missione
Man mano che il Sole scendeva all’orizzonte lunare, Blue Ghost ha iniziato a prepararsi alla fase conclusiva della missione. Il 16 marzo 2025, poco dopo l’inizio della notte lunare, il lander ha trasmesso il suo ultimo segnale, stabilendo un nuovo record per la durata operativa di una missione commerciale sulla Luna con 346 ore di attività continua in condizioni di luce diurna e oltre cinque ore di operazioni nel buio lunare. Il CEO di Firefly Aerospace, Jason Kim, ha annunciato il completamento della missione con un messaggio emozionante, sottolineando come “il Ghost vivrà nei nostri cuori e nelle nostre menti per il viaggio straordinario che ci ha fatto compiere”.
Le ultime immagini del tramonto lunare catturate dal lander saranno pubblicate da Firefly Aerospace nei giorni successivi alla fine della missione. Nel frattempo, l’azienda ha già iniziato a lavorare al suo prossimo lander lunare, con l’obiettivo di eseguire almeno un atterraggio sulla Luna all’anno.
Con la conclusione della missione, Firefly Aerospace ha consolidato il proprio ruolo nell’esplorazione spaziale commerciale, dimostrando la fattibilità di missioni lunari con lander autonomi in supporto a futuri programmi di esplorazione, come Artemis. Questo storico traguardo apre la strada a nuove opportunità per la ricerca scientifica e lo sviluppo di tecnologie per l’esplorazione del nostro satellite naturale e, in prospettiva, di Marte.
Il lander lunare Blue Ghost di Firefly ha catturato un’immagine della sua ombra sulla superficie della Luna, con la formazione vulcanica Mons Latreille visibile nella parte superiore destra. Crediti: Firefly Aerospace
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