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I “BIG FIVE” DELLE METEORITI

ABSTRACT

I “Big Five” delle meteoriti, come i celebri animali della savana africana, rappresentano i più grandi e affascinanti esemplari extraterrestri mai ritrovati sulla Terra. Tra questi spiccano le sideriti Hoba (Namibia, 60 t), Cape York (Groenlandia, 31 t), Campo del Cielo (Argentina, 30,8 t), Armanty (Cina, 28 t) e Bacubirito (Messico, 22 t). Composte principalmente da ferro e nichel, queste meteoriti resistono meglio all’ingresso atmosferico rispetto a quelle pietrose, come Chelyabinsk (2013). La loro storia, spesso intrecciata a miti locali, esplorazioni e musei internazionali, testimonia il costante legame tra il cielo e la Terra.

Introduzione

Elefante, Leone, Bufalo, Rino­ceronte e Leopardo, compongono i famosi Big Five della savana africana. Questa hit parade stilata all’epoca in cui si abbattevano per sport questi splendidi anima­li è rimasta in voga anche oggi, quando (per la gran parte dei casi), si mira solo con la foto­camera e non più con i fucili da caccia. Anche per le meteoriti esiste una classifica per i più grandi esemplari conosciuti, te­nendo conto che qualsiasi elenco è destinato nel tempo a modi­ficarsi. Infatti nuovi esemplari vengono trovati di tanto in tanto in zone impervie e inoltre, grandi meteoriti, possono cadere in qua­lunque momento, come ci ha ri­cordato nel 2013 quello di Chelya­binsk la cui onda d’urto causò molti danni e feriti (soprattutto a causa delle vetrate infrante) nell’omonima città russa.
Tra le centinaia di frammenti recuperati, il maggiore pesava 654 kg; un’inezia in confronto alle 9-10.000 tonnellate stimate del meteoroide originale, esploso a 30km di altezza. Chelyabinsk era però un meteorite pietroso; una condrite LL5 e questo tipo di rocce, offre una bassa resi­stenza alle vibrazioni ed agli stress meccanici all’ingresso in atmosfera. Ciò fa sì che queste tendano a frantumarsi, in molte piccole sezioni. Diverso è il caso delle meteoriti ferrose, che resi­stono assai meglio allo “scontro” e possono generare, anche nei casi di frammentazione, singole masse di molte tonnellate. Perciò quasi tutti i meteoriti più gran­di conosciuti sono sideriti, con l’importante eccezione di Jilin, la condrite H5 caduta in Cina nel 1976 che con una massa prin­cipale di 1,7 tonnellate è di gran lunga la condrite ordinaria singola più grande conosciuta.
Ma anche questo “gigante” tra le meteoriti pietrose sfigura vici­no alle grandi sideriti che com­pongono i nostri “big five”.


HOBA (NAMIBIA)


Nel Nord della Namibia, vi­cino alla città di Grootfontein1 si trova questo meteorite di 60 tonnellate (un tempo, prima di campionamenti, furti e vandali­smi sembra arrivasse a 66 ton­nellate). Venne scoperto per caso nel 1920 da un contadino che lo colpì con l’aratro, dissodando il terreno. E’ un “mattone” di ferro di 2,7×2,7×0,9 metri in un avvalla­mento del terreno circondato da un anfiteatro di muretti a secco. Si trova ancora nel punto del ritrovamento. È un tipo di side­rite assai raro; un Atassite, che contiene un tenore di nikel molto più alto delle altre ferrose. Nono­stante il suo aspetto “giovanile” (dovuto al clima estremamente secco) questo meteorite è caduto sul nostro pianeta circa 80.000 anni fa. È possibile che la forma, simile ad un sasso piatto, lo ab­bia aiutato a perdere velocità in modo meno traumatico, durante l’impatto con l’atmosfera. Il me­teorite avrebbe quindi rimbalzato più volte, come un sasso lanciato sulla superficie di un lago.

Il meteorite Hoba a Grootfontein in
Namibia massa 60t.


CAPE YORK (GROENLANDIA)

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L’articolo è pubblicato in COELUM 273 VERSIONE CARTACEA


Osservazioni astronomiche alla luce del giorno da Dome Argus, in Antartide

Il telescopio posizionato al sito Dome Argus dalla spedizione cinese. Dome A in Antartide. Crediti: Zhaohui Shang

Nell’estate australe del 2023-2024, un gruppo di astronomi cinesi ha compiuto un’impresa scientifica straordinaria: osservare le stelle… di giorno. Non in un osservatorio qualsiasi, ma nel luogo forse più remoto e promettente della Terra per l’astronomia: Dome Argus, noto anche come Dome A.

Situato nel cuore del Plateau Antartico, a oltre 4.000 metri di quota, Dome Argus è il punto più elevato della calotta glaciale antartica, e uno dei luoghi più freddi e secchi del pianeta. Proprio per queste sue caratteristiche estreme, rappresenta un sito eccezionale per l’osservazione del cielo notturno nelle bande dell’ottico e dell’infrarosso vicino (NIR). Ma finora nessuno aveva mai misurato quanto il cielo fosse “buio” durante il giorno, in estate, quando il Sole non tramonta mai.

Un piccolo telescopio per un grande esperimento

L’esperimento, condotto da un team dell’Osservatorio Astronomico di Shanghai dell’Accademia Cinese delle Scienze (Shanghai Astronomical Observatory), si è avvalso di un telescopio compatto da 150 mm di apertura, installato in cima a una piattaforma alta tre metri sopra la superficie ghiacciata.

Lo strumento era dotato di una fotocamera NIR con sensore Sony InGaAs, sensibile alla luce nel range 400–1800 nm, e di un filtro centrato sulla banda J dell’infrarosso (attorno ai 1250 nm). Il filtro è stato progettato dal Nanjing Institute of Astronomical Optics & Technology (link).

L’apparato è stato trasportato a Dome Argus dalla 40ª spedizione antartica cinese, e ha operato per otto giorni in condizioni atmosferiche ideali: cielo sempre sereno e una stabilità dell’aria praticamente senza paragoni.

La base di ricerca Davis.
Base di ricerca Mawson.

Stelle visibili anche con il Sole alto

Le osservazioni si sono concentrate su stelle brillanti visibili nel vicino infrarosso, una banda in cui la luce solare viene diffusa molto meno rispetto al visibile. Grazie a brevi esposizioni (circa 0,3 secondi), il telescopio ha rilevato stelle fino alla magnitudine J=5,3. Combinando 500 immagini brevi in una tecnica di “stacking”, è stato possibile scendere fino alla magnitudine J=10,06, ben visibile anche con il Sole sopra l’orizzonte.

Le misure di luminosità del cielo al mezzogiorno antartico – con il Sole a 27° sopra l’orizzonte – indicano un valore di circa 5,2 mag/arcsec² nella banda J, che si riduce a 5,8 intorno alla mezzanotte locale, quando il Sole scende a circa 10° sull’orizzonte.

Per fare un paragone: questi valori sono molto vicini (solo leggermente più luminosi) a quelli registrati durante il giorno in cima al monte Haleakalā, alle Hawaii – uno dei migliori osservatori astronomici in uso. E Dome Argus non aveva nemmeno un cupolino per schermare la luce solare riflessa dalla neve!

Il futuro dell’astronomia continua anche di giorno

Questi risultati aprono la strada a una nuova frontiera: l’osservazione continua, 24 ore su 24, di eventi luminosi transitori nel cielo australe. Supernove, esplosioni di raggi gamma, stelle variabili e persino detriti spaziali in orbita bassa possono essere monitorati da Dome Argus anche durante l’estate antartica, grazie alla relativa “oscurità” del cielo nell’infrarosso.

Il sito è perfetto anche per l’osservazione di oggetti in orbita terrestre: oltre l’80% dei detriti spaziali passa sopra Dome A almeno una volta per ogni orbita. In futuro, è previsto l’utilizzo di telescopi di classe 1 metro, che miglioreranno ulteriormente la sensibilità e permetteranno osservazioni più profonde e precise. Alcuni di questi strumenti potrebbero anche essere equipaggiati per la misurazione laser di precisione delle orbite dei satelliti – una tecnologia chiamata Satellite Laser Ranging (SLR).

Un laboratorio naturale unico al mondo

Le condizioni uniche di Dome Argus – assenza di inquinamento luminoso, atmosfera estremamente stabile e un’altissima percentuale di giorni sereni – ne fanno uno dei luoghi più promettenti per l’astronomia del futuro. Proprio grazie alla sua posizione (80°22′ S, 77°22′ E), la volta celeste australe rimane osservabile tutto l’anno, senza alternanza tra giorno e notte come avviene altrove.

La stazione metereologica del sito Dome Argus.

Gli autori e i centri coinvolti

Il progetto è stato guidato da ricercatori del Shanghai Astronomical Observatory, in collaborazione con il Nanjing Institute of Astronomical Optics & Technology e con il supporto logistico della spedizione antartica cinese. I dati astronomici sono stati calibrati usando il catalogo stellare 2MASS, e i risultati contribuiscono anche a studi sulla sicurezza spaziale, come quelli del China Space Debris Research Project.


Dove si trova Dome Argus (Dome A)

Dome A si trova nel punto più alto del Plateau Antartico, a circa 4.093 metri sul livello del mare, su una calotta di ghiaccio spessa oltre 3.000 metri. La sua posizione isolata, su una dorsale lunga 60 km, lo rende uno dei luoghi meno esplorati del pianeta.

Coordinate: 80°22′ S, 77°22′ E
Temperatura record: -82,5 °C nel luglio 2005
Clima: aria secca, assenza di vento forte, cielo sereno oltre l’80% del tempo

Un’importante stazione meteorologica automatica è stata installata nel 2005 da una collaborazione australiana-cinese. Questa raccoglie dati fondamentali per comprendere le condizioni ambientali estreme del sito, misurando temperatura, vento, pressione atmosferica, umidità e radiazione solare.

Dome A potrebbe essere il luogo più freddo della Terra: anche se il record appartiene ufficialmente alla stazione russa di Vostok, Dome A si trova a un’altitudine ancora maggiore e resta un serio candidato per future misurazioni da primato.

 

Fonte: Z. Li et al., 2024 (studio completo su Dome A)

 

Alla ricerca di una “ExoVenere”

Questa illustrazione artistica raffigura una regione di Venere che potrebbe presentare vulcanismo attivo e subduzione, dove la superficie sprofonda nel mantello. Le rocce in primo piano mostrano materiali poveri di ferro, forse analoghi ai continenti granitici della Terra. La missione VERITAS metterà alla prova queste interpretazioni. Crediti: NASA/JPL-Caltech/Peter Rubin

Un team di ricercatori dell’Università della California a Riverside e del Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory ha avanzato una proposta affascinante e concreta: utilizzare un osservatorio spaziale per osservare direttamente le “ExoVenere”, pianeti rocciosi simili a Venere che orbitano attorno ad altre stelle. Lo studio è stato condotto da Stephen R. Kane, Emma L. Miles e Colby M. Ostberg (University of California, Riverside) insieme a Noam R. Izenberg (Johns Hopkins APL).

Il ruolo di Venere nella ricerca della vita

Comprendere l’abitabilità dei pianeti è una delle grandi sfide dell’astrobiologia. E se la Terra rappresenta l’esempio ideale di mondo abitabile, Venere ne è l’estremo opposto: un pianeta della stessa dimensione e composizione, ma con un’atmosfera soffocante, dominata da anidride carbonica e nuvole di acido solforico, in preda a un effetto serra incontrollato.

Studiare Venere non è solo utile per capire come sia arrivata a questo stato, ma anche per individuare le condizioni che possono rendere inabitabile un pianeta simile alla Terra. Ecco perché le missioni future come VERITAS, DAVINCI della NASA, e EnVision dell’ESA, avranno un ruolo centrale nel fornirci dati chiave per costruire modelli di evoluzione atmosferica applicabili anche agli esopianeti.

Un catalogo in crescita di mondi rocciosi caldi

Grazie a missioni come TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite), gli scienziati hanno già identificato centinaia di potenziali “ExoVenere”: pianeti rocciosi, di dimensioni simili alla Terra, che orbitano molto vicino alla loro stella, in una regione nota come Venus Zone (VZ). Al marzo 2024, sono almeno 334 i candidati identificati, ma si stima che il numero crescerà rapidamente man mano che verranno confermati oltre 7000 candidati.

Poiché i pianeti della VZ ricevono un’intensa radiazione stellare, sono più facili da osservare rispetto ai loro simili più freddi. Inoltre, se presentano temperature elevate, tendono a riflettere più luce e quindi a risultare più visibili per gli strumenti astronomici.

illustrazione della grande Corona Quetzalpetlatl, situata nell’emisfero sud di Venere, raffigura un vulcanismo attivo e una zona di subduzione, dove la crosta in primo piano sprofonda nell’interno del pianeta.
NASA/JPL-Caltech/Peter Rubin

L’Habitable Worlds Observatory: il futuro è già in cantiere

Tra le raccomandazioni del decennale sondaggio dell’Astronomy and Astrophysics Decadal Survey del 2020 figura una missione rivoluzionaria: il Habitable Worlds Observatory (HWO). Questo futuro telescopio spaziale avrà lo scopo di osservare direttamente pianeti rocciosi potenzialmente abitabili attorno a stelle simili al Sole.

Ma c’è di più: HWO sarà anche in grado di identificare pianeti simili a Venere. L’osservazione diretta permetterà di analizzare lo spettro riflesso della luce dei pianeti, una tecnica più sensibile delle osservazioni in trasmissione per atmosfere dense e nuvolose. In particolare, sarà possibile cercare firme chimiche come il biossido di zolfo (SO₂), che potrebbe indicare attività vulcanica, oppure atmosfere dominate da anidride carbonica con nubi di acido solforico, segni distintivi di un ambiente inabitabile ma ricco di informazioni.

Una sinergia tra scienza planetaria e astronomia

Un aspetto chiave di questo approccio è l’integrazione tra le conoscenze acquisite all’interno del Sistema Solare e l’analisi degli esopianeti. Poiché non potremo mai visitare fisicamente questi mondi lontani, dovremo affidarci a modelli basati sui dati raccolti da pianeti come Venere e la Terra per interpretare ciò che vediamo.

Il lavoro dei ricercatori americani sottolinea proprio questo punto: finché non comprenderemo appieno i processi che hanno trasformato Venere in un inferno inabitabile, resterà difficile valutare il reale potenziale di altri mondi rocciosi scoperti attorno a stelle lontane.

Conclusioni

Studiare le ExoVenere non significa solo comprendere mondi alieni, ma anche fare luce su ciò che rende la Terra così speciale. L’osservazione di questi pianeti caldi e irrequieti potrà rivelarci quanto siano frequenti le condizioni estreme e quanto siano rari gli ambienti temperati.

Grazie all’Habitable Worlds Observatory, e con il supporto delle missioni dirette verso Venere, la scienza è pronta a compiere un nuovo passo nella comprensione della diversità planetaria. E chissà: tra le centinaia di ExoVenere già individuate, potremmo trovare un giorno anche un mondo che ci racconti una storia diversa da quella di Venere — una storia dove un destino infernale è stato evitato.

Fonte: Studio

MEZZOCIELO La Rivoluzione nell’Osservazione

a cura di Silvio di Rosa

Indice dei contenuti

ABSTRACT

Fino al 1609, qualsiasi tipologia di azione investigativa del cielo è stata condotta unicamente mediante l’uso degli occhi, pertanto ne risultava fortemente limitata in termini di magnificazione e potere risoluti­vo. L’impiego del cannocchiale (de facto un telescopio rifrattore) come strumento per l’indagine astronomi­ca, rappresenta una vera e propria rivoluzione: da quel momento, l’u­manità ha sempre migliorato i suoi mezzi di osservazione, sia mediante lo sviluppo di design innovativi per i propri strumenti ottici, sia introdu­cendo materiali ed ottiche di fattura sempre più raffinate. In poco più di 400 anni, si è passati dal cannoc­chiale di Galileo, avente pochi centi­metri di diametro, fino ai telescopi odierni, i più estesi dei quali hanno, attualmente, diametro dell’ordine dei 10 metri (come il Gran Telescopio Canarias), con progetti di strumenti ottici fino ai 39 metri (ci si riferisce, a tal proposito, all’europeo Extremely Large Telescope, la cui prima luce dovrebbe avvenire nel 2027).
In effetti, l’estensione di un telesco­pio per l’osservazione del cielo, quan­tificata mediante il diametro della sua apertura, è un parametro impor­tante in quanto influenza la quantità di luce entrante nel sistema ottico in un certo periodo di tempo, ossia la magnitudine limite degli oggetti osservabili e la risoluzione ottenibi­le. Non è, tuttavia, il solo parametro da tenere in considerazione. Ugual­mente significativo per valutare le prestazioni di uno strumento per l’indagine astronomica è il campo di vista, o Field of View (FoV), ossia l’area di cielo osservabile tramite lo strumento stesso. Questa superficie è, in genere, quantificata mediante l’angolo solido sotteso dalla stessa e si misura in gradi quadrati o in steradianti. I più grandi telescopi on-ground per lo svolgimento di survey astronomiche non superano, in ge­nere, poche decine di gradi quadrati: se si pensa che l’intera volta celeste osservabile da un qualsiasi sito sulla Terra, approssimata ad una semi­sfera, sottende un angolo solido di circa 21.000 gradi quadrati, se ne deduce come i telescopi debbano essere puntati in continuazione per portare, all’interno del proprio FoV, gli oggetti di interesse. Questo implica, come intuibile, un notevole consumo di tempo e risorse.
E se si disponesse di un sistema ot­tico avente un campo di vista dello stesso ordine di grandezza di quello che caratterizza la volta celeste, os­sia 10.000 gradi quadrati, con un’a­pertura di dimensioni relativamente grandi, ad esempio 1 metro?
In questo caso, non si avrebbe ne­cessità di alcun puntamento per l’in­dividuazione di sorgenti astronomi­che e astrofisiche e si disporrebbe, al contempo, di uno strumento con elevata area di raccolta dei fotoni. Proprio questa è l’idea alla base di un telescopio innovativo, chiamato con ispirazione, “MezzoCielo”.

Introduzione

Da qualche decennio, l’astronomia vive una fase caratterizzata da emozionanti scoperte ed intense trasformazioni: un esempio è offerto dalla nascita e dallo sviluppo della cosiddetta “astronomia multi-messaggera”, la quale si propone di studiare una sorgente (o un evento) analizzando in maniera coordinata le informazioni ricavabili dai segnali astrofisici che la caratterizzano, comprendenti, tra gli altri, radiazione elettromagnetica e onde gravitazionali.
Numerose sono anche le sfide che l’astronomia moderna è chiamata ad affrontare. L’inquinamento rientra sicuramente in questa categoria, ma quando si parla di inquinamento in ambito astronomico, non si intende solo quello luminoso: l’abbandono nelle orbite terrestri, in particolare in quelle basse o Low Earth Orbits (LEOs), di oggetti artificiali, quali satelliti a fine vita operativa, stadi di lanciatori, propellente e così via ha dato origine ad un nuovo tipo di pollution, costituito da una nutrita popolazione di space debris o detriti spaziali. Questi detriti spaziano in un ampio range di dimensioni e orbite di collocamento e, pertanto, velocità: un “censimento” operato dall’Agenzia Spaziale Europea e reperibile nel “ESA’s Space Environment Report” del 2023 indica chiaramente che i debris orbitanti attorno al nostro pianeta con dimensione superiore a 10 cm (e fino all’ordine del metro) sono almeno 32.000, distribuiti in maniera non uniforme tra le diverse orbite, essendo la maggior parte di essi, attorno alle 20.000 unità, collocati nelle orbite basse, fino a 2.000 km dal suolo. Diversi milioni sarebbero invece i detriti con dimensione minore di 1-10 cm e gli oggetti più estesi non ancora tracciati. E, con la costruzione in orbita (pianificata o attualmente in atto) di numerose costellazioni di satelliti, la previsione per il futuro prossimo è quella di un incremento sostanziale del numero dei debris.
I detriti rappresentano un problema di sempre maggiore serietà per due motivi principali: il primo è legato alla capacità della maggior parte di essi di riflettere la radiazione elettromagnetica solare e quindi di interferire con le osservazioni astronomiche condotte da terra. Il secondo deriva dalla loro elevata velocità (inversamente proporzionale alla dimensione dell’orbita) e quindi dall’energia cinetica che li caratterizza: per fissare le idee, si consideri che l’energia cinetica di un oggetto di 10 g che si muova in orbita LEO alla velocità (tipica) di 7 km/s corrisponde approssimativamente a quella associata ad una autovettura di medie dimensioni (1500 kg) che si muova a circa 65 km/h. L’impatto con un tale oggetto sarebbe potenzialmente distruttivo per qualunque satellite o velivolo non adeguatamente schermato, con annessa produzione a cascata di ulteriori debris. Immediata è la considerazione che una tale situazione, protratta sufficientemente a lungo, potrebbe dar luogo ad un ambiente spaziale così ostile da impedire l’accesso dell’umanità alle orbite esterne, con notevoli danni, oltre che per la ricerca astronomica condotta con telescopi space-based, anche per l’intera società.

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Alle origini dei buchi neri supermassicci

Grazie alle più avanzate simulazioni cosmologiche, un team internazionale guidato da Lucio Mayer dell’Università di Zurigo ha esplorato i processi di formazione stellare nelle galassie primordiali che popolavano l’Universo a meno di 700 milioni di anni dal Big Bang. Il lavoro, realizzato tramite la simulazione ad altissima risoluzione Massive Black PS, ha mostrato come, in regioni molto dense dell’Universo primordiale, le galassie ricche di gas abbiano dato vita a dischi compatti che, a causa di instabilità gravitazionali, si sono frammentati in densi ammassi stellari.

Le simulazioni, che raggiungono una risoluzione spaziale di appena 2 parsec, sono tra le più accurate mai realizzate nel campo della cosmologia computazionale. Questi modelli hanno rivelato che le galassie coinvolte — incluse due compagne di massa inferiore — generano dischi di gas auto-gravitanti larghi meno di 500 parsec, che si frammentano in clump (grumi) massicci. Questi clump evolvono rapidamente in ammassi stellari compatti, con masse comprese tra 10⁵ e 10⁸ M⊙ e densità superiori a 10⁵ M⊙/pc².

Sorprendentemente, gli ammassi più piccoli presentano una stretta analogia con quelli scoperti di recente dal James Webb Space Telescope (JWST) nel sistema gravitazionalmente amplificato Cosmic Gems, situato a redshift z = 10.2. L’esistenza di tali oggetti era già stata ipotizzata, ma questa simulazione ne dimostra per la prima volta la formazione realistica all’interno di galassie a dischi altamente instabili.

Una nascita turbolenta

Il cuore della scoperta risiede nel meccanismo della frammentazione del disco di gas, regolato da un parametro noto come criterio di Toomre, che valuta la stabilità di un disco galattico rispetto al collasso gravitazionale. Nelle simulazioni, le condizioni sono ideali: dischi molto densi, ricchi di gas e soggetti a turbolenze compressive che favoriscono la formazione di grumi.

I risultati si allineano con la cosiddetta “Feedback-Free Burst” (FFB) theory proposta da Avishai Dekel (Università Ebraica di Gerusalemme), secondo cui, nelle prime epoche cosmiche, il gas riesce a formare stelle in modo estremamente efficiente prima che il feedback delle supernove riesca a interrompere il processo.

Una pioggia di buchi neri

Le simulazioni suggeriscono che la densità incredibilmente alta degli ammassi stellari possa favorire la formazione di buchi neri intermedi (IMBH). Secondo modelli recenti (Fujii et al., 2024), questi oggetti nascono attraverso fusioni stellari in ambienti ultra-densi, raggiungendo masse fino a 10⁵ M⊙. Successivamente, gli IMBH migrano verso il centro della galassia fondendosi tra loro e con un eventuale buco nero centrale preesistente, dando origine a un buco nero supermassiccio (SMBH) di almeno 10⁷ M⊙.

Questo meccanismo spiegherebbe l’osservazione, sempre da parte di JWST, di buchi neri sovramassicci (più massivi del previsto rispetto alla loro galassia ospite) già a redshift z > 6, come mostrato nei lavori di Y. Harikane, R. Maiolino, M. A. Stone e M. Yue.

Le simulazioni: uno zoom nel tempo

Il progetto utilizza il codice Gasoline2 e nasce come un’evoluzione del progetto MassiveBlack (guidato da Tiziana Di Matteo e Yu Feng presso la Carnegie Mellon University). Il volume simulato è uno dei più densi conosciuti, rappresentando un picco di 4–5σ nella distribuzione di densità cosmica. Le simulazioni seguono un periodo di soli 6 milioni di anni, ma con dettaglio senza precedenti: ogni clump, ogni formazione stellare, ogni frammento di gas è modellato con precisione pari a circa 2,4×10³ M⊙.

Anche galassie relativamente piccole, come il “Halo 47”, mostrano una straordinaria efficienza nella formazione di ammassi. In questi ambienti, oltre il 30% della massa stellare si concentra in ammassi compatti, un valore straordinariamente alto rispetto alle galassie odierne. Il destino finale di questi oggetti è spesso la fusione al centro galattico, contribuendo alla crescita dei buchi neri centrali.

Uno scenario multiplo per la nascita degli SMBH

Le simulazioni evidenziano due canali principali per la crescita dei buchi neri supermassicci:

  1. Accrescimento e fusione di IMBH generati all’interno degli ammassi ultracompatti, prevalente nelle galassie di massa media o bassa.
  2. Collasso diretto gravitazionale (“dark collapse”) in galassie molto più massicce, in cui il buco nero nasce già con massa 10⁷ M⊙ da una super-stella instabile, come proposto da L. Zwick e L. Mayer.

Entrambi i meccanismi forniscono una spiegazione convincente per la varietà di SMBH già presenti meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang.

Il quadro che emerge da queste simulazioni, supportato da dati JWST, offre una visione coerente e affascinante della formazione delle prime strutture cosmiche. In ambienti densi, le galassie sembrano favorire una modalità esplosiva ed efficiente di formazione stellare, che non solo dà origine a stelle e ammassi, ma anche ai semi dei colossali buchi neri che oggi popolano i nuclei delle galassie.

Fonte: The Astrophysical Journal Letters

Ad Agrigento un viaggio tra Egitto, Sicilia e Akrágas: Incontro alle Fabbriche Chiaramontane

Un evento culturale dedicato all’archeoastronomia avrà luogo venerdì 4 aprile 2025, alle ore 17, alle Fabbriche Chiaramontane in Via S. Francesco d’Assisi 1, ad Agrigento. Intitolato “L’importanza dell’archeoastronomia nelle recenti scoperte: dal cielo dell’Egitto a quello della Sicilia preistorica e di Akrágas“, l’incontro rappresenta un’opportunità unica per esplorare le connessioni tra il cielo antico e le strutture sacre delle civiltà passate, con particolare focus sulle recenti scoperte riguardanti la città di Akrágas e i suoi Templi della Collina.

L’evento, promosso dalle associazioni A.N.D.E.Fidapa e Inner Wheel di Agrigento, vedrà la partecipazione di esperti di rilievo nel campo dell’archeoastronomia. Pietro Di Martino, docente ordinario di Astronomia, aprirà l’incontro con una conferenza dal titolo “Ferro e fuoco dal cielo nell’antico Egitto“, esplorando l’importanza del cielo nella cultura egizia. A seguire, l’astrofisico Carmelo Falco discuterà della “ricostruzione del cielo antico al tempo di Akragas“, concentrandosi sul periodo VI-V secolo a.C.

Andrea Orlando, presidente dell’Istituto di Archeoastronomia Siciliana, parlerà su “L’archeoastronomia nella Sicilia preistorica“, approfondendo le connessioni tra i cieli antichi e i siti preistorici siciliani. Infine, Maria Luisa Zagretti, dottore di ricerca in archeologia, presenterà una relazione sui “Dati archeoastronomici e aspetti topografici desumibili dalla ricostruzione del cielo antico di Akragas“, mettendo in luce come le scoperte recenti abbiano rivelato nuove conoscenze sul sito di Akrágas.

L’incontro sarà coordinato e moderato da Molisella Lattanzi, direttrice di Coelum Astronomia, e offrirà ai partecipanti l’opportunità di approfondire il rapporto tra il cielo e le culture dell’antichità, creando un dialogo interdisciplinare affascinante tra scienza e storia.

L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti. Non perdere l’opportunità di partecipare a questo affascinante viaggio tra cielo, storia e archeologia!

IL SOLE E LO STRANO CASO DEL 25° CICLO SOLARE

Il Sole a disco intero in H-Alpha - 3 novembre 2024 Telescopio: SkyWatcher 70mm Refractor (1000mm focal length) Filtro: Coronado SolarMax 40mm Filter Camera: ZWO ASI 174 MM Camera Mosaico di 4 pannelli CREDITS: Alessandro Carrozzi

Il 25° ciclo solare ha preso il via nel 2019 e, contro ogni previsione, ha sorpreso gli scienziati con un’intensità inaspettata.
Cosa regola questi cicli e perché alcuni si comportano in modo anomalo? Dalle macchie solari alla dinamo magnetica, l’articolo esplora i misteri del Sole, svelando come il suo ritmo influenzi non solo l’astronomia, ma anche la nostra tecnologia e il futuro dell’esplorazione spaziale.

Dicembre 2019 ha rappresentato l’inizio del Ciclo Solare numero 25 ed attual­mente la nostra stella si ritrova nel momento di massima attività magnetica, rispettando in buona sostanza la periodicità caratteristica di questo fenome­no, che è approssimativamente di undici anni.

Cosa determina questo susseguirsi di cicli periodici e cosa succede durante questi undici anni?

Il protagonista indiscusso di questo fenomeno è il campo ma­gnetico, generato dal processo della dinamo solare. Pos­siamo immaginare questo campo magnetico in una ideale situazione di “partenza” (come appun­to quella di dicembre 2019) in una ordinata configurazione polare, che ricorda quella tipica del campo magnetico terrestre, con le linee di forza che escono da un polo e rientrano nell’altro. La strut­tura fisica del Sole però è quella di un plasma e quindi ben diversa dalla struttura di un pianeta. Sulle linee del campo magne­tico agiscono sia la rotazione differenziale, per la quale il plasma all’equatore ruota più velocemente rispetto ai poli, sia i moti ascensiona­li convettivi. La rotazione differenziale modifica il campo magnetico por­tandolo dalla configura­zione poloidale ad una toroidale. I tubi di flusso del campo toroidale sono trascinati in fotosfera dai moti convettivi e possono emergere così come strut­ture magnetiche sotto for­ma di coppie di macchie solari scure1 (accompagna­te però anche da strutture brillanti), che aumentano di numero e di area superficiale. Dopo il massimo di attività inizia

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Le costanti della fisica non cambiano: la conferma da M31

Un nuovo studio internazionale mette alla prova la stabilità delle leggi fondamentali della fisica osservando la galassia di Andromeda.
A condurre la ricerca un team di astrofisici guidato da Renzhi Su, in collaborazione con Tao An, Stephen J. Curran, Michael P. Busch, Minfeng Gu e Di Li, provenienti da diverse istituzioni di primo piano, tra cui l’Osservatorio Astronomico di Shanghai (Shanghai Astronomical Observatory) e l’Accademia delle Scienze cinese (Chinese Academy of Sciences).


Le costanti della fisica sono davvero “costanti”?

Una delle grandi domande della fisica moderna è se le cosiddette costanti fondamentali, come la costante di struttura fine o il rapporto tra la massa del protone e quella dell’elettrone, siano davvero immutabili. Alcune teorie avanzate, come la teoria delle stringhe o la gravità quantistica, ipotizzano che queste costanti possano variare nel tempo o nello spazio, seppur in modo minimo.

Confermare o smentire queste variazioni può aiutarci a capire meglio l’universo e, forse, a fare luce sulla natura quantistica della gravità, ancora oggi una delle grandi incognite della fisica teorica.

Uno sguardo indietro di 2,5 milioni di anni

Per testare questa ipotesi, il team ha puntato i radiotelescopi verso una delle nostre galassie vicine: Andromeda (M31), distante da noi circa 2,5 milioni di anni luce. Significa che la luce (e le onde radio) che riceviamo oggi da quella galassia ci mostrano com’era 2,5 milioni di anni fa.

Utilizzando il Green Bank Telescope negli Stati Uniti, gli scienziati hanno osservato con altissima precisione le emissioni radio di due molecole molto comuni nello spazio: l’idrogeno neutro (H I) e l’ossidrile (OH). Le loro frequenze di emissione sono note con estrema precisione in laboratorio, quindi eventuali differenze osservate nel passato avrebbero potuto rivelare variazioni nelle costanti fisiche.

Risultato? Le costanti restano costanti

Dopo decine di ore di osservazione e una lunga analisi statistica, il team ha potuto concludere che non ci sono segni evidenti di variazione nelle costanti fondamentali. Le eventuali differenze sono talmente piccole da essere entro i margini di errore, con precisioni fino a una parte su un milione.

In particolare, gli scienziati hanno verificato che:

  • Il rapporto tra le costanti analizzate non è cambiato significativamente in 2,5 milioni di anni.
  • Le possibili variazioni, se esistono, sono inferiori a quanto previsto da alcune teorie alternative.

Un ponte tra esperimenti terrestri e l’universo primordiale

Fino ad oggi, i test sulla stabilità delle costanti erano stati condotti in laboratorio (su scale di anni) o guardando l’universo lontanissimo (fino a 13 miliardi di anni nel passato). Ma mancava un tassello importante: i tempi intermedi, come quelli delle dinamiche galattiche, cioè milioni di anni. Questo studio riempie proprio quel vuoto, offrendo un nuovo punto di riferimento nella ricerca.

L’approccio usato dal team – osservazioni simultanee di righe spettrali diverse nella stessa zona di una galassia – si è rivelato particolarmente potente per ridurre gli errori sistematici e aumentare l’affidabilità dei risultati. E con l’arrivo di strumenti ancora più sensibili, come il futuro Square Kilometre Array (SKA Observatory), sarà possibile estendere questi test ad altre galassie e tempi ancora più remoti.

Fonte: The Astrophysical Journal Letters

Nuove ipotesi sulla materia oscura “sfocata” arrivano dalla Galassia Nube

Una galassia quasi invisibile, scoperta per caso nel progetto IAC Stripe 82 Legacy, sta mettendo in discussione uno dei pilastri della cosmologia moderna: la materia oscura fredda. Si chiama Nube, ed è una galassia nana estremamente diffusa e piatta, con caratteristiche così peculiari da non poter essere spiegate dai modelli standard.

Le osservazioni, realizzate con il Green Bank Telescope da 100 metri e il Gran Telescopio Canarias da 10,4 metri, hanno rivelato che Nube possiede una massa stellare di circa 3,9 × 10⁸ masse solari, e una massa dinamica molto più grande, circa 2,6 × 10¹⁰ masse solari, entro un raggio di 20,7 kiloparsec (M. Montes et al., 2024). Tuttavia, ciò che colpisce è la sua densità stellare superficiale sorprendentemente bassa (circa 2 masse solari per parsec quadrato), molto inferiore rispetto a qualsiasi altra galassia nana conosciuta.

Anche l’estensione di Nube è insolita: il suo raggio effettivo supera quello di molte galassie ultradiffuse (UDG), pur avendo una massa stellare simile. Inoltre, la galassia si trova in una posizione relativamente isolata, a circa 435 kpc dal suo probabile alone ospite, UGC 929, e non mostra segni di interazioni gravitazionali forti, come distorsioni mareali. Questo rende ancora più difficile spiegarne l’origine con il modello standard di materia oscura fredda (CDM).

Una nuova ipotesi: la materia oscura “sfocata”

Un gruppo di ricercatori guidato da Y. M. Yang et al. (2024) ha esplorato un’alternativa: la fuzzy dark matter (FDM), o materia oscura “sfocata”. Si tratta di una forma teorica di materia oscura composta da particelle ultraleggere (massa ≈ 10⁻²³ eV), che si comportano come onde su scale galattiche. Queste onde creano fluttuazioni nel campo gravitazionale, capaci di “scaldare” dinamicamente le stelle e distribuirle in modo più diffuso.

Utilizzando simulazioni numeriche evolute per oltre 10 miliardi di anni – l’età stimata di Nube – il team ha ricreato l’effetto del riscaldamento dinamico causato dalla FDM. Per farlo, hanno usato la tecnica di decomposizione in autostati quantistici per costruire il profilo iniziale dell’alone FDM e fatto evolvere il sistema con il software PyUltraLight (F. Edwards et al., 2018), basato sulle equazioni di Schrödinger–Poisson.

Le simulazioni hanno mostrato che, con un profilo coerente con la massa dinamica di Nube, la distribuzione stellare simulata riproduce sorprendentemente bene i dati osservativi, soprattutto nel Modello-1, che utilizza un valore di massa della particella di FDM di 10⁻²³ eV.

I risultati rafforzano l’ipotesi che la FDM possa essere responsabile della struttura estrema di Nube. Secondo gli autori, molte galassie isolate e povere di materia ordinaria non sono abbastanza vecchie da mostrare lo stesso effetto: il riscaldamento richiede tempo. Nube, invece, potrebbe essere il banco di prova ideale.

Studi precedenti avevano già suggerito una massa simile per le particelle di FDM per spiegare fenomeni come le curve di rotazione delle galassie nane o la distribuzione dei globuli in Fornax. Tuttavia, alcuni vincoli provenienti da osservazioni come la foresta Lyman-α o le funzioni di massa delle sottostrutture sembrano richiedere masse maggiori, anche se sono ancora oggetto di dibattito.

La distribuzione anomala delle stelle in Nube potrebbe essere la prima firma osservativa concreta della FDM. Se confermata, questa teoria rivoluzionerebbe la nostra comprensione della materia oscura e dell’evoluzione delle galassie.

I ricercatori sottolineano che future osservazioni – soprattutto in regioni ancora troppo deboli per essere rilevate – potrebbero confermare la presenza di stelle spinte oltre i 13 kpc da un centro galattico che si comporta come un “solitone” oscillante. Questo permetterebbe di testare in modo definitivo la validità della FDM come candidata alla materia oscura.

Fonte: The Astrophysical Journal Letters

ASTRI: ponte fra Guido Horn d’Arturo e l’astronomia dei RG

Veduta notturna del telescopio ASTRI-1, il primo telescopio dei 9 dell’ASTRI Mini-Array costruito a Tenerife (Isole Canarie) e or a in fase di collaudo. ©INAF/R. Bonuccelli

Abstract

Il progetto ASTRI (Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana) rappresenta un’importante innovazione nell’astronomia dei raggi gamma, con particolare attenzione alla radiazione Cherenkov ad alta energia. Ispirato dalle idee pionieristiche di Guido Horn d’Arturo, il progetto impiega telescopi con specchi a struttura segmentata per studiare le particelle cosmiche ad altissime energie. ASTRI si inserisce nel contesto più ampio dell’osservatorio CTAO, mirando a esplorare energie tra 1 TeV e 100 TeV, e si distingue per l’uso di telescopi di piccole dimensioni in grado di osservare le docce di particelle prodotte da fotoni gamma estremamente energetici. Con il suo design avanzato, che include il sistema ottico Schwarzschild-Couder e fotocamere al silicio, ASTRI si prefigge di risolvere enigmi astrofisici come l’eccesso di raggi gamma dal centro galattico e la ricerca di “PeVatrons” — oggetti capaci di accelerare particelle fino a energie petaelettronvolt. Inoltre, ASTRI si inserisce in un contesto internazionale di ricerca multimessaggera, collaborando con progetti come MAGIC e LHAASO, e contribuendo a una comprensione più profonda dei fenomeni astrofisici estremi e della materia oscura. Il progetto, che prosegue la tradizione italiana nell’astrofisica, offre una nuova finestra sul cosmo, con il futuro osservatorio di Tenerife pronto a svelare nuovi segreti dell’Universo.

Quando si guarda con attenzione il James Webb Space Telescope, la prima cosa che colpisce è la struttura mo­dulare del suo grande specchio primario, suddiviso in segmenti esagonali. Dietro questa soluzione ingegnosa esiste una vicenda affascinante che ha come protago­nista Guido Horn d’Arturo, personalità essenziale nello sviluppo di alcune tra le idee più avanzate dell’astrofi­sica osservativa attuale. Fu infatti egli che, negli anni Trenta, ebbe l’intuizione di suddividere i grandi specchi monolitici per telescopi in superfici tassellate, renden­do possibile la realizzazione di grandi aree riflettenti riducendo i costi. Non è un caso che il suo nome sia ben conosciuto dagli studiosi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), impegnati oggi nel progetto ASTRI, acronimo di “Astrofisica con Specchi a Tecnologia Repli­cante Italiana”: delle spettacolari superfici a specchio di grande dimensione specificatamente progettate per raccogliere e per studiare la radiazione Cherenkov nell’ul­travioletto e visibile generata dall’interazione dei raggi gamma provenienti dalle profondità cosmiche e i raggi cosmici stessi.

Nel 2017, la camera Cherenkov montata sul primo tele­scopio prototipale del progetto, installato nel sito di Ser­ra La Nave sull’Etna, presso Catania, ottenne la sua prima luce. Il telescopio fu significativamente chiamato “ASTRI Horn” in omaggio a Horn d’Arturo, essendo lo specchio primario a struttura segmentata come quella concepita nel 1935. Nel 2022 è stato completato sul vulcano Teide, a Tenerife, ASTRI-1, il primo telescopio dei nove previsti per il sito osservativo. Ma di cosa si tratta esattamente quando parliamo di ASTRI? E quali obiettivi scientifici si prefigge que­sto nuovo esperimen­to, pen­sato per indagare i fenomeni più ener­getici del cosmo grazie al rilevamento della radiazione Cherenkov?

L’apertura di una nuova finestra sul cosmo ad alta energia

La radiazione Cherenkov, scoperta a metà degli anni Trenta da Pavel Cherenkov (1909-1990), si manifesta quan­do una particella carica viaggia in un mezzo denso (per esempio l’atmosfera) a una velocità di fase superiore a quella consentita alla luce nello stesso mezzo. Questo curioso effetto è responsabile, ad esempio, del bagliore bluastro che si nota nei reattori delle centrali nucleari, quando una particella beta (cioè un elettrone) è rilascia­ta a velocità relativistica nelle vasche di raffreddamento: si crea quindi una sorta di analogo elettromagnetico del “bang” supersonico dei jet militari. Infatti, quando la particella supera il “muro” della velocità della luce nel mezzo, si produce esattamente lo stesso cono d’onda equivalente al cono di Mach prodotto quando un aereo o un proiettile supera il muro del suono. L’effetto Che­renkov che osserva ASTRI però è diverso, ed è prodotto da fotoni gamma ad altissima energia (nella regione del teraelettronvolt) che giungono sulla Terra e impat­tano contro gli atomi della nostra atmosfera, creando sciami di coppie elettrone-positrone in grado di indurre l’emissione di una grande quantità di fotoni Cherenkov. I telescopi di questo tipo (specificatamente quelli del progetto CTAO) possono registrare anche l’arrivo di raggi cosmici: in questo caso, le particelle adroniche (in gran parte protoni e, talvolta, nuclei atomici) hanno una in­terazione con l’atmosfera più complessa, che comporta anche la produzione di altre particelle come pioni e muo­ni. In entrambi i casi, grazie all’effetto Cherenkov, ven­gono prodotti bagliori bluastri di forma caratteristica, di fatto non percepibili dall’occhio umano: sono fenomeni di brevissima durata anche dell’ordine di nanosecondi o alcune decine di nanosecondi al massimo. È un proces­so tanto spettacolare quanto effimero e, per decenni, la sua fugacità ha reso estremamente complesso l’utilizzo della tecnica Cherenkov in atmosfera per lo studio dei raggi gamma di origine celeste e dei raggi cosmici che giungono sul nostro pianeta.

Progetti come ad esempio MAGIC, CTAO (Cherenkov Telescope Array Observatory) e, appunto, ASTRI, stanno aprendo nuovi scenari osservativi grazie a telescopi con specchi primari molto grandi e fotocamere rapidissime, in grado di “catturare” questi istanti di luce e decifrarne i segreti. Il processo chiave consiste nell’analisi detta­gliata dell’immagine della cascata di particelle che si sviluppa quando un raggio cosmico o gamma interagi­sce con le molecole atmosferiche. Sebbene il fenomeno avvenga in pochi miliardesimi di secondo, la sua forma conica e la distribuzione dei fotoni Cherenkov conser­vano informazioni preziose sull’energia e sulla natura dell’oggetto che ha innescato lo sciame. Studiando la geometria e l’intensità del bagliore, il tasso di fotoni emessi, la durata e la forma della curva di emissione, diventa possibile ricostruire con precisione le caratteristiche dell’impulso cosmico originario.

Cascata elettromagnetica prodotta dall’impatto
di un raggio cosmico con l’atmosfera credit
ASPERA Novapix L. Bret
 

Un progetto complementare a CTAO

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Gli AstroRacconti di GattoBuio – Grande festa di Halloween alla reggia di Cassiopea

Che serata, che emozione! Finalmente tra poco inizia la grande festa di Halloween organizzata dalla regina Cassiopea, l’evento mondano di fine estate di cui si parla su tutti i giornalini di gossip da settimane.

Cassiopea, regina di tutte le regine, la grande Cassiopea, bellissima, potentissima, famosissima… ma che, in realtà, dovete sapere, è anche annoiatissima! Tutto il giorno sta seduta sul suo trono a guardarsi nello specchio. Tutto il giorno non fa niente altro che attendere di tornare a testa in su, perché che fastidio stare girata sottosopra per ore e ore! Che noia… e che mal di testa!

Basta con questo noioso girotondo!” Ha gridato stizzita una mattina che si era svegliata con una terribile emicrania. “Basta! Basta! Basta! Anche io mi voglio divertire!” Ed è stato così che, per spezzare la noia, la regina Cassiopea ha voluto organizzare una grandiosa festa di Halloween nella sua reggia, lassù sopra le nuvole, in mezzo alle stelle. Per l’occasione ha addobbato il suo castello personalmente con chili di ragnatele di zucchero, fumi pazzeschi e nebbie spettrali, suoni lugubri e musiche da brivido e tante tante zucche! Con le zucche ha deciso di illuminare il viale di accesso alla reggia, perché tutte le costellazioni sono invitate alla festa e il cielo rimarrà sgombro di stelle. Cassiopea ha deciso che per una sera vuole dimenticare gli affanni e ballare, e divertirsi, così ha invitato tutti quanti.

Naturalmente ci sono suo marito, il re Cefeo, e la loro figlia, la principessa Andromeda, e poi quel fusto di Ercole, Orione il super bello, i giovani palestrati Gemelli, quella smorfiosa della Vergine, l’eroe Perseo che porterà la fidanzata, Medusa dallo sguardo pietrificante, le sette sorelle Pleiadi, il cavallo Pegaso, l’Auriga sul carro di fuoco, il Bifolco (o Bovaro) con le Orse (Orsa Maggiore e Orsa Minore)… e, ospiti d’eccezione, i terrificanti mostri del cielo: l’Idra dalle cento teste, il mostro marino Balena, il velenoso Scorpione e il feroce Drago.

Tutti gli ospiti sono rigorosamente vestiti in maschera per l’occasione! La bella Cassiopea è vestita da strega, con tanto di cappello a punta e l’immancabile specchio in mano! Che festa incredibile, ci sono proprio tutti! Si, tutti quelli che appartengono a qualche costellazione, ma…  Gatto nero, Ragno e Pipistrello? Non sono stati invitati!

Infatti, non hanno costellazione, quindi niente festa! E i tre si sono davvero offesi, proprio loro che sono l’anima di Halloween non possono partecipare al grande evento. Impossibile!

Vendetta, tremenda vendetta!” sibila tra i denti  Gatto nero col pelo tutto ritto dalla rabbia, mentre Ragno, che è un tipo un po’ strano, sbava lanciando fili di ragnatele dappertutto mentre borbotta parole incomprensibili, e Pipistrello svolazza a zig zag in tutte le direzioni in preda all’agitazione senza smettere di fischiare e sibilare…

Mentre la festa impazza e la musica a tutto volume si sente in tutta la Galassia, i tre decidono di andare al bar per bere qualcosa che li aiuti a digerire l’offesa. Sono lì che confabulano tra un sorso e l’altro del cocktail “Pozione stregata di Halloween”, parlottando e complottando, e così, dopo un po’, forse con la mente annebbiata dall’alcol, escogitano uno scherzetto per quell’antipatica regina del piffero che non li ha invitati: ruberanno tutte le zucche che Cassiopea ha disposto lungo il viale di accesso alla sua reggia e le faranno sparire!

Dovranno rimanere tutti al buio, allora sì che avranno una bella paura, una paura da morire! Che bello scherzetto! I tre, compiaciuti e barcollanti, vanno nel garage a prendere il Grande Carro e si mettono all’opera raccogliendo tutte le zucche sparse per il cielo. Passano le ore e ad un certo punto sorge la Luna, una bella luna piena che sale splendente e radiosa nel cielo, ma… qualcosa non va… le stelle sono sparite! “Ohibò! Dove sono andate?” si chiede la luna guardandosi intorno nel buio più assoluto di una notte senza stelle. Senza capire e sentendosi un po’ sola, si ricorda che è la notte di Halloween, così decide di andare a cercare qualcosa che illumini il cielo. Rovistando in soffitta, trova dei vecchi fantasmini, zucche, pipistrelli e ragni di una passata festa.

Sono tutti cosparsi di brillantini, possono fare al caso suo. Comincia a lanciarli nel cielo, ma non viene un bell’effetto… Per forza! Le stelle, nel cielo, non sono messe senza un ordine, ci sono le costellazioni e ognuna ha il suo posto ben preciso!

Così comincia a posizionare nel cielo le figurine secondo disegni ben precisi, i disegni delle costellazioni di Halloween, ed ecco che appaiono Gatto nero, Ragno, Fantasma, Pipistrello: che magia il cielo finalmente è illuminato!

I nostri amici, rimasti esclusi dalla festa, stravolti dalla fatica spingono il Grande Carro sempre più pesante per la quantità di zucche raccolte, quando improvvisamente vedono apparire le nuove costellazioni, ed è tale la meraviglia che la loro rabbia si dissolve. Anche Cassiopea vede le nuove costellazioni apparire nel cielo e invita i tre amici ad unirsi alla festa.

Adesso sì che la festa è una vera festa! Buon Halloween a tutti.

Testo di Laura Saba

Illustrazioni di Guido Marchesini

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Gli AstroRacconti di GattoBuio – C’era una volta..

C’era una volta un bosco incantato…

C’era una volta una strega che abitava nel bosco incantato…

La strega si chiamava Estrella.

A Estrella piaceva abitare nel suo bosco magico, pieno di grandi fiori profumati che chiamava per nome e, di notte, pieno di stelle: con loro parlava e faceva lunghe chiacchierate sul trascorrere del tempo, sulla Terra che gira come una trottola e sul Sole che brucia come un forno per il pane.

Di giorno, la strega, nel suo pentolone preparava le pozioni magiche come le “gocce che profumano i fiori come fossero torte e biscotti”, la “polvere simpatica: per attaccare le punte delle stelle quando si rompono”, le “caramelle trasmutanti ai mille gusti: quando le mangi, diventi un rospo, un ragno, un corvo…” ; ma soprattutto amava profondamente i suoi gatti. Ne aveva tre: Biscottino, una gattona color albicocca, pigra e dormigliona; Camillo, un maschio tenerone, color grigio cenere, cacciatore e giramondo; e Ombra, la più piccola, tutta nera, furba come un leprotto ma monella come un bambino.

Un giorno, mentre lavorava ad una pozione magica per guarire le stelle quando hanno mal di testa e perdono lo scintillio, dal cielo cominciarono a cadere dei bigliettini colorati: all’inizio solo qualcuno, poi sempre più fitti, a centinaia, come una pioggia colorata. La strega raccolse un bigliettino, poi un altro e un altro ancora. Tutti riportavano lo stesso messaggio: “Estrella!!! Nel cielo una gran confusione, le costellazioni si azzuffano, si spintonano e si tirano i capelli! Vieni subito!” Firmato: le stelle.

Estrella prese allora la sua scopa volante, chiamò i gatti, li sistemò nel carrellino e partì alla volta del cielo, puntando la stella del Nord e controllando la strada sulla mappa siderale che teneva ben stretta in mano. Non voleva perdersi, aveva fretta di arrivare dalle sue amiche stelle per aiutarle a risolvere la situazione.

Il viaggio fu un po’ lungo, la Via Lattea era trafficata a quell’ora di punta e a causa del fondo sconnesso, i gatti traballavano nel carrellino e brontolavano per gli scossoni.

Arrivata nel cielo, Estrella restò di stucco! Vide le costellazioni tutte aggrovigliate in una rissa furibonda e dalla confusione che facevano non si capiva niente.

Le stelle erano disperate, nessuna trovava più il suo posto, nessuna sapeva quando doveva apparire nel cielo e quando tramontare. La tranquillità delle notti stellate sembrava persa per sempre. Ma qual è il problema, si chiese Estrella. Sembra che per colpa delle nuvole che avevano oscurato il cielo per diverse notti di seguito, le costellazioni avessero smarrito il loro posto e adesso volessero essere presenti sulla volta celeste tutte insieme nello stesso momento, cosa che non è proprio possibile.

Questo è davvero un grosso pasticcio pensò la strega, come si fa a riportare l’ordine?

A Estrella serviva un consiglio, così convocò in assemblea le Quattro Stagioni mandando i suoi gatti ai confini del mondo perché consegnassero la richiesta di aiuto. Le Stagioni sono sagge, governano la Terra da tanto tanto tempo, certamente potranno aiutare Estrella a trovare una soluzione.

Primavera, Estate, Autunno e Inverno si presentarono all’istante e, dopo una lunga consultazione con la strega, decisero di suddividere le costellazioni in quattro gruppi. Ogni Stagione si mise a capo di un gruppo di costellazioni che avrebbero potuto splendere nel cielo nel periodo dell’anno corrispondente alla presenza di quella Stagione, sulla Terra. Così, a rotazione, sarebbero state tutte visibili.

A Estrella sembrò una buona soluzione e, felice di avere riportato l’ordine, salutò le amiche stelle e si preparò a fare ritorno a casa. Ma le stelle ebbero un’altra richiesta per la strega prima della sua partenza: volevano infatti che qualcuno vegliasse sulle costellazioni, affinchè non accadesse mai più un altro pasticcio.

Estrella ripartì con questo pensiero in testa…

Estrella era con i suoi amati gatti che le si strusciavano alle gambe, di nuovo nella tranquillità del suo bosco, e girava, girava il romaiolone nel pentolone mentre pensava a chi potesse essere in grado di tenere sotto controllo le costellazioni. Mentre era distratta dai suoi pensieri, la pozione cominciò a bollire, a fare le bolle come la polenta, finché una bolla più grossa delle altre, del colore bianco giallognolo, salì verso l’alto. Sgocciolando e dondolando andò a piazzarsi nel mezzo del cielo. “Guarda che bella bolla!”, pensò Estrella, mentre la osservava ondeggiare verso l’alto.

Evviva, applaudirono le stelle, vedendo arrivare la grossa bolla traballante. Ecco chi potrà sorvegliare sulla pace del cielo: una Luna piena, bianca e luminosa, che porta gioia nel cielo e sogni a tutti i bambini.

Testo di Laura Saba

Illustrazioni di Guido Marchesini

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Gli AstroRacconti di GattoBuio – Presentazione

Di

Dal numero 272 di Coelum Astronomia prende il via una nuova serie di buffe avventure animalesche dedicate ai più piccoli. L’autrice è una conoscenza di Coelum, Laura Saba, che torna a parlare di astronomia con un linguaggio semplice e divertente. Le puntate sono a volte pubblicate su Coelum cartaceo altre online, per queste ultime è sempre disponibile la funzione stampa oppure “salva in pdf”.

Presentazione

Prima di essere chiamato da Zeus tra le stelle, GattoBuio per molti anni ha prestato servizio come sorvegliante del cortile dell’Istituto per Geometri G. Salvemini di Firenze. Non si conoscono di preciso le sue origini, molto probabilmente è nato in qualche giardino limitrofo alla scuola e poi si è spostato nel grande e tranquillo cortile lontano dalla strada. Lì ha stretto amicizia col custode e con la bibliotecaria dell’istituto scolastico che gli portavano da mangiare tutti i giorni e controllavano che stesse bene. La mattina, il gatto, con la sua discreta presenza, sorvegliava l’ingresso degli studenti nell’edificio scolastico, tenendosi a debita distanza dagli zaini, dalle scarpe da ginnastica che andavano di fretta e da spintoni involontari. Alle 14.00, al suono dell’ultima campanella, ne controllava la regolare uscita, accompagnando i ritardatari fino fuori dal cancello. In cambio di quell’incarico di responsabilità, sapeva che poteva contare su due pasti al giorno, tutti i giorni, festivi compresi.

Alle volte, durante l’inverno, se faceva particolarmente freddo, andava ospite per una notte o due, in casa della signora del civico 25, che, rimasta sola e in là con l’età, era sempre contenta di avere compagnia. Ma GattoBuio non era tipo da appartamento, lui era nato libero e dopo poco se ne tornava per strada e nel suo cortile tranquillo dietro la palestra della scuola, a respirare la sua amata libertà, che fosse freddo polare o caldo africano.

Molti anni dopo, quando GattoBuio era sicuramente già in età di pensione, anche se continuava a presidiare con regolarità ingresso e uscita degli studenti, durante un inverno particolarmente rigido, si buscò un brutto raffreddore, cominciò a tossire e a respirare con fatica.

Allarmati dalle sue condizioni di salute, noi dipendenti del Museo adiacente alla scuola, in accordo con il custode e la bibliotecaria, decidemmo di portarlo dal veterinario.

Questo gatto è vecchietto e ha bisogno di dormire al coperto, non può più fare la vita da randagio per la strada!Sentenziò il dottore. E così GattoBuio fu accolto nel Museo, dove è stato curato per il raffreddore, coccolato, ha trovato una cuccia calda e cibo. Contento della nuova sistemazione, ha cambiato mansione ed è diventato ‘aiuto segretario’ con tanto di autorizzazione alla libera circolazione in tutte le stanze al piano degli uffici. I giorni lavorativi li passava acciambellato su qualche scrivania tra la tastiera e il monitor del computer o sul davanzale della finestra al sole.

@ Guido Marchesini

Nel fine settimana, a Museo chiuso, scendeva le scale dagli uffici alle cantine e andava in perlustrazione tra gli scatoloni polverosi del deposito degli strumenti e delle carte antiche, annusando dappertutto e uscendo poi tutto pieno di fili di ragnatele appiccicati ai baffi, al naso e alle orecchie, polveroso come uno straccetto, ma soddisfatto delle sue meticolose esplorazioni.

Il nome GattoBuio se lo è conquistato proprio quando lo cercavamo nelle stanze della cantina, perché essendo tutto nero, non c’era modo di vederlo fino a che lui decideva che era ora di tornare in ufficio ad occupazioni più pulite e professionali.

Durante un’estate molto molto calda, GattoBuio non stava affatto bene ed eravamo tutti davvero tanto preoccupati per la sua salute. Sapevamo che un giorno ci avrebbe lasciati, ma eravamo troppo affezionati per accettare la separazione. Per fortuna anche nei momenti più tristi possono accadere cose straordinarie. Ed è stato così, che mentre GattoBuio chiudeva gli occhi, una piccola pioggia di polvere di stelle è caduta dal cielo e si è posata sulla sua pelliccia color buio, rendendolo magico e donandogli una nuova vita.

Adesso ha una bella cesta sul margine della Via Lattea dove può riposare indisturbato, in caso di necessità aiuta Zeus nella gestione delle questioni di stelle e costellazioni, se ne va a suo piacimento a zonzo per il cielo a trovare i suoi amici pianeti e la stella Polare e presiede la rubrica AstroRacconti dalle stelleche vengono pubblicati sulla rivista Coelum Astronomia.

Gli AstroRacconti sono brevi favole che arrivano dalle stelle, in cui elementi astronomici e mitologia si incontrano, si intrecciano, al fine di trasmettere curiosità scientifiche sul cielo in compagnia di eroi, eroine, dei, dee, animali fantastici e delle loro avventure.

Testo di Laura Saba

Illustrazioni di Guido Marchesini

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Primo Volo di Prova del Razzo Spectrum in Europa

Il 30 marzo 2025 segna una data storica per l’industria spaziale europea: il razzo Spectrum di Isar Aerospace ha completato con successo il suo primo volo di prova, diventando il primo veicolo orbitale a decollare dall’Europa continentale. Il decollo è avvenuto dallo Andøya Spaceport in Norvegia, un’area strategica che si è rivelata cruciale per questo evento senza precedenti.

Alle 12:30 PM CEST, il razzo Spectrum ha acceso il suo primo stadio, decollando verso lo spazio. In soli 30 secondi di volo, il veicolo ha raggiunto gli obiettivi prefissati, consentendo agli ingegneri di raccogliere dati fondamentali per il futuro sviluppo delle missioni spaziali. Dopo il volo, il razzo è stato terminato a T+30 secondi e ha effettuato un atterraggio controllato in mare, grazie a precise procedure di sicurezza.

Il volo di prova, pur avendo una durata di soli 30 secondi, rappresenta un traguardo fondamentale per l’accesso europeo allo spazio. Per la prima volta, un razzo orbitale è stato lanciato con successo da un sito europeo, dimostrando le capacità tecniche e logistiche di questo nuovo spazioporto. Il successo dell’operazione è una testimonianza della crescente competitività dell’Europa nel settore spaziale e dell’impegno verso una maggiore indipendenza nel lancio di satelliti.

Il lancio non solo ha testato il razzo Spectrum, ma ha anche permesso di raccogliere un’importante quantità di dati di volo. Questi saranno analizzati nei prossimi giorni per perfezionare i sistemi del razzo e prepararli per missioni future. Sebbene il volo abbia avuto una durata breve, l’esperienza acquisita è destinata a giocare un ruolo cruciale nel miglioramento dei lanci successivi e nell’espansione delle capacità di lancio satellitare.

La rampa di lancio rimane intatta, il futuro è già in produzione

Un altro aspetto significativo dell’evento è che la rampa di lancio dello Andøya Spaceport è rimasta intatta e pronta per nuovi lanci. Nonostante il breve volo del razzo, l’infrastruttura ha dimostrato di essere all’altezza delle sfide di un lancio orbitale. Attualmente, i razzi per i voli n. 2 e n. 3 sono già in fase di produzione, con il prossimo obiettivo di rendere operativo il razzo per lanci su larga scala.

La Norvegia ha giocato un ruolo chiave in questa realizzazione, essendo stata il paese ospitante del Andøya Spaceport. La missione ha ricevuto il sostegno della Norwegian Civil Aviation Authority (NCAA), che ha concesso la licenza di operatore di lancio per il primo volo di prova orbitale. Inoltre, la Norwegian Space Agency (NOSA) ha siglato un contratto con Isar Aerospace per il lancio di satelliti nell’ambito del programma Arctic Ocean Surveillance (AOS), segnando una nuova collaborazione internazionale.

La sequenza degli scatti del lancio è a cura di Ezio Cairoli che ha immortalato l’evento in diretta domenica 30 marzo dallo spazio porto di Andøya.

Riproduzione vietata.

Video il Sole prova a Nascondersi – L’Eclissi del 29 Marzo 2025

Immagine ottenuta con una reflex APSC applicata ad un rifrattore apocromatico 102/820. Come filtro per attenuare la luce solare ho usato un prisma di Herschel autocostruito. Crediti: Cristian Fattinnanzi.

L’eclissi parziale di Sole del 29 marzo 2025 è passata, lasciando dietro di sé dei crucci ma anche molte immagini nonostante il meteo avverso che ha caratterizzato gran parte del territorio italiano. L’evento, atteso dagli appassionati di astronomia e da molti divulgatori impegnati con le scuole, è stato comunque seguito con grande partecipazione: tra nuvole, pioggerella e aperture improvvise, in tanti sono riusciti a catturare il momento in cui la Luna ha oscurato parzialmente il disco solare.

Tra i tanti che hanno documentato il fenomeno, anche Lorenzo Busilacchi, che ha seguito l’eclissi dal Margine Rosso, in Sardegna. “Sino all’ultimo pensavo di non riprendere l’eclissi parziale, causa vento e qualche pioggerellina occasionale“, racconta. E invece, proprio nell’ultima ora utile, approfittando di una finestra di sereno, è riuscito a realizzare un suggestivo video in 4K. Le riprese sono state effettuate con una Nikon P1000 dotata di filtro solare a luce bianca, montata su una Skywatcher GTI con inseguimento solare attivo.

Hai fotografato l’eclissi? Carica la tua immagine su PhotoCoelum e mostrala a tutta la community!

La Luna del Mese Aprile 2025

LA LUNA DI APRILE 2025

Ormai superato il Novilunio del 29 Marzo, la fase di Luna crescente appena iniziata si inoltra nei primi giorni del nuovo mese toccando alle ore 04:15 del 5 Aprile la fase di Primo Quarto ma a -8° sotto l’orizzonte, in attesa di sorgere alle ore 11:53. Basterà attendere le ore serali e col nostro satellite in fase di 7,3 giorni, a prescindere da meteo, seeing e da tutte le variabili che potenzialmente potrebbero guastare la serata, ci ritroveremo nelle migliori condizioni per interessanti osservazioni, anche con piccoli strumenti, di un’infinità di strutture geologiche a nostra disposizione dal piccolo craterino fino ai grandi bacini da impatto, antichissime e profonde voragini ormai ricolme di detriti e materiale lavico solidificato che con la scura colorazione delle rocce basaltiche creano un evidente contrasto rispetto agli altipiani, rendendo immediatamente individuabili le aree dei mari Nectaris, Fecunditatis, Crisium, Tranquillitatis e Serenitatis oltre ai marginali Smythii e Marginis al confine con l’altro emisfero. Inoltre nella medesima serata la zona di massima librazione si troverà in prossimità del bacino da impatto meglio noto come mare Australe nel settore sudest della Luna e suddiviso fra i due emisferi.

Il procedere della fase crescente, alle ore 02:22 del 13 Aprile, porterà il nostro satellite in Luna Piena ad una distanza di 402895 km dalla Terra, diametro apparente 29.66’ e con un’altezza sull’orizzonte di +33°. Se in Primo Quarto abbiamo osservato le scure aree dei grandi bacini da impatto, in questo caso, con la completa illuminazione del disco lunare, sarà possibile notare come il mare Frigoris esteso immediatamente a nord di Imbrium presenti una colorazione decisamente più chiara, così come una parte dell’adiacente Lacus Somniorum. Un’ulteriore annotazione riguarda la zona di massima librazione che nel caso specifico si troverà in prossimità della regione polare settentrionale (N-NE cratere Meton), ma ancora più interessante sarà nelle successive serate/nottate quando il fenomeno della librazione scorrerà lungo tutta la regione polare fino al settore nordovest, imperdibile occasione per vedere “che cosa c’è dall’altra parte….”.

Dal Plenilunio appena visto ripartirà la fase calante che alle ore 03:36 del 21 Aprile porterà il nostro satellite in Ultimo Quarto ad un’altezza sull’orizzonte di +3°55’ dopo essere sorto alle ore 03:08. Per chi intendesse portare il telescopio sul balcone in orario notturno mi permetto di suggerire che in prossimità dell’equatore lunare vi sono due vaste strutture crateriformi quasi adiacenti fra loro ma nettamente differenti: si tratta di Grimaldi, diametro 222 km, profondo 4900 mt con una platea ricoperta da rocce basaltiche decisamente scure, e da Riccioli di 146 km di diametro con pareti alte 4700 mt. Quest’ultimo cratere presenta una platea molto più chiara rispetto al vicino Grimaldi e con una zona di scuri basalti di limitata estensione a nord. Entrambe le strutture si trovano pochi gradi a sud dell’equatore ed a breve distanza dal bordo occidentale dell’Oceanus Procellarum.

La fase calante terminerà alle ore 21:31 del 27 Aprile col Novilunio con l’emisfero rivolto verso il nostro pianeta completamente in ombra, mentre sarà perfettamente illuminato dalla luce solare l’emisfero opposto. Da qui, come succede da oltre 4,5 miliardi di anni, ripartirà un nuovo ciclo lunare fino a chiudere questo mese con la Luna in fase di 3 giorni che la sera del 30 Aprile (a +23° alle 21:30) avrà la zona di massima librazione in prossimità del mare Australe (area intorno al cratere Lyot), ottima occasione per chiudere in bellezza in attesa del prossimo mese.

Congiunzioni e Occultazioni Notevoli

La seconda parte dell’articolo di Francesco Badalotti, dedicato alla Luna di Aprile, con la descrizione delle Congiunzioni e Occultazioni notevoli, le Falci Lunari, e la tabella delle effemeridi è disponibile per i lettori abbonati alla versione digitale o al cartaceo.

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La Luna del Mese di Aprile è pubblicata in Coelum 273

–  Ogni fenomeno lunare e rispettivi orari sono rapportati alla Città di Roma, dati rilevati dai siti https://theskylive.com/http://www.marcomenichelli.it/luna.asp


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Coelum Astronomia 273 II/2025 Digitale

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Calcolo del diametro apparente del Sole e della Luna

Sebbene il Sole sia una stella gigantesca, nel cielo appare come un piccolo disco luminoso. Ma quanto è grande esattamente questo disco? Calcolare il diametro apparente del Sole o della Luna è un esercizio semplice e affascinante, che unisce osservazione astronomica, matematica e un pizzico di curiosità scientifica. È un’attività perfetta anche per le scuole, perché aiuta a sviluppare il pensiero critico, la capacità di misurazione e la comprensione delle proporzioni tra oggetti celesti e le loro distanze dalla Terra. E soprattutto, insegna a guardare il cielo con occhi più attenti e consapevoli.

Partiamo dal Sole e consideriamo i seguenti dati:

  • Distanza media Sole-Terra DST = 150.000.000 km
  • Diametro Sole d = 1.392.700 km ovvero r = 696.350 km

Vediamo come calcolare l’angolo θ/2

Per definizione abbiamo:

Quindi:

Da qui:

Riassumendo, il diametro apparente del Sole è 0,52°.

Possiamo applicare gli stessi calcoli per ottenere il diametro apparente della Luna, considerando che

  • Distanza Luna-Terra DLT = 384.400 km
  • Diametro Luna d = 3.474,8 km ovvero r = 1.742,4 km

Avremo:

Da qui:

Questo è il valore medio, ma possiamo calcolare anche il diametro apparente della Luna in perigeo e in apogeo.

Diametro angolare della Luna in perigeo: applicando lo stesso procedimento, otteniamo:

Diametro angolare della Luna in apogeo: applicando lo stesso procedimento, otteniamo:

per cui

Analogamente, per avere un quadro ancora più completo potremmo calcolare il diametro apparente del Sole quando la Terra si trova in perielio e in afelio, ottenendo rispettivamente 0,54° e 0,52°.

Ricordiamo il 29 marzo eclissi parziale di Sole. Articolo completo qui 

Il JWST cattura le aurore brillanti su Nettuno

Immagine orizzontale suddivisa in due pannelli. A sinistra, Nettuno osservato dal telescopio spaziale Hubble: un disco blu inclinato di circa 25 gradi verso sinistra. Si notano macchie bianche in corrispondenza delle ore 7 e poco sopra le ore 5 (seguendo un quadrante immaginario). A destra, una vista complementare del pianeta ottenuta combinando dati di Hubble e del James Webb. Nettuno appare come una sfera blu dalle molte sfumature. Le stesse macchie bianche sono visibili nelle stesse posizioni dell’immagine a sinistra, ma se ne aggiungono altre al centro e nella parte superiore del pianeta. Lungo il lato destro si distinguono anche macchie ciano distribuite verticalmente: la parte superiore di queste aree appare più trasparente rispetto a quella inferiore. Crediti immagine: NASA, ESA, CSA, STScI, Heidi Hammel (AURA), Henrik Melin (Northumbria University), Leigh Fletcher (University of Leicester), Stefanie Milam (NASA-GSFC)

Per la prima volta, il telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA) ha catturato un’attività aurorale luminosa su Nettuno. Le aurore si formano quando particelle energetiche, spesso provenienti dal Sole, restano intrappolate nel campo magnetico di un pianeta e collidono con l’alta atmosfera, sprigionando luce.

In passato, gli astronomi avevano raccolto solo indizi della presenza di aurore su Nettuno, mentre erano già state osservate su Giove, Saturno e Urano. Ora, grazie alla sensibilità nel vicino infrarosso dello strumento NIRSpec di Webb, utilizzato nel giugno 2023, questo tassello mancante è stato finalmente rivelato.

Immagine orizzontale suddivisa in due pannelli.
A sinistra, Nettuno osservato dal telescopio spaziale Hubble: un disco blu inclinato di circa 25 gradi verso sinistra. Si notano macchie bianche in corrispondenza delle ore 7 e poco sopra le ore 5 (seguendo un quadrante immaginario).
A destra, una vista complementare del pianeta ottenuta combinando dati di Hubble e del James Webb. Nettuno appare come una sfera blu dalle molte sfumature. Le stesse macchie bianche sono visibili nelle stesse posizioni dell’immagine a sinistra, ma se ne aggiungono altre al centro e nella parte superiore del pianeta. Lungo il lato destro si distinguono anche macchie ciano distribuite verticalmente: la parte superiore di queste aree appare più trasparente rispetto a quella inferiore.
Crediti immagine:
NASA, ESA, CSA, STScI, Heidi Hammel (AURA), Henrik Melin (Northumbria University), Leigh Fletcher (University of Leicester), Stefanie Milam (NASA-GSFC)

Le immagini mostrano le aurore come macchie ciano a latitudini medie — una disposizione insolita, dovuta al campo magnetico di Nettuno, inclinato di 47° rispetto all’asse di rotazione. Questo comportamento anomalo era già stato scoperto da Voyager 2 nel 1989.

Oltre all’immagine, Webb ha fornito uno spettro dell’atmosfera superiore del pianeta, rivelando una linea di emissione molto marcata dell’H3+, un segno caratteristico delle aurore. I dati hanno anche permesso di misurare, per la prima volta dal flyby di Voyager 2, la temperatura della ionosfera di Nettuno, risultata sorprendentemente più fredda di quanto previsto — una possibile spiegazione per cui le aurore erano rimaste invisibili finora.

Questa scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, apre una nuova finestra nello studio dei pianeti giganti ghiacciati. Il team scientifico prevede ora di monitorare Nettuno durante un intero ciclo solare, nella speranza di chiarire l’origine del suo bizzarro campo magnetico.

Fonte: NASA/ESA/CSA

29 marzo eclissi parziale di Sole: Sole e Luna si sfiorano in una coreografia celeste!

Il 2025 ci ha regalato un mese di marzo ricco di eventi astronomici: dopo il lunistizio maggiore settentrionale e meridionale del 7 e del 22, rispettivamente, il 29 marzo il Sole e la Luna a braccetto ci offriranno lo spettacolo di un’eclissi solare che, seppur parziale, animerà l’entusiasmo di tutti gli appassionati.
Immaginiamo di essere in una stanza illuminata da una lampada e che qualcuno ci passi davanti. In quel momento, ovviamente, la luce si affievolirà e vedremo un’ombra proiettarsi nella nostra direzione, fino a quando la persona non si sarà spostata. A seconda di come si posiziona, il nostro “disturbatore” potrebbe oscurare completamente o solo parzialmente la lampada. Se nel frattempo siamo noi metterci in un’altra posizione, potremmo intravedere nuovamente la lampada o parte di essa.
La lampada potrebbe essere il Sole e la persona che vi passa davanti la Luna: abbiamo simulato un’eclissi solare!
In termini pratici, si verifica un’eclissi solare quando la Luna si interpone tra la Terra e il Sole, coprendo quest’ultimo parzialmente o totalmente e facendo sì che venga proiettato un cono d’ombra sulla Terra.

Fig. 1 – Schema di un’eclissi totale di Sole. L’immagine non è in scala

Un’eclissi totale è possibile solo perché il diametro apparente del Sole e quello della Luna, per una pura casualità, coincidono e sono pari a circa mezzo grado. Le motivazioni sono intuitivamente chiare se consideriamo che il Sole è 400 volte più grande della Luna, ma è anche 400 volte più distante! Per calcolare il diametro apparente del Sole e della Luna in maniera più accurata, si veda il paragrafo di approfondimento.
Questo significa che se i due corpi sono perfettamente allineati, i loro dischi si sovrappongono.
È chiaro che in un’eclissi di Sole la disposizione dei tre corpi celesti è analoga a quella di una Luna nuova. Allora, ci potremmo chiedere: “Perché non abbiamo un’eclissi di Sole in occasione di ciascun novilunio?”.
La risposta sta nel fatto che il piano orbitale della Luna è inclinato di circa 5,14° rispetto a quello dell’eclittica, ovvero del percorso che la Terra compie intorno al Sole durante la sua rivoluzione (o del moto apparente del Sole visto dalla Terra). Pertanto, in occasione del novilunio, potremo avere un’eclissi di Sole solo al verificarsi di determinate condizioni aggiuntive.

Fig. 2 – Il piano orbitale della Luna è inclinato di circa 5,14° rispetto all’eclittica. Nella figura l’inclinazione è enfatizzata.

I due piani orbitali, come si può vedere nella figura 2, si intersecano esclusivamente in due punti, detti nodi. Quando la Luna è in corrispondenza di uno dei due nodi, allora in quel punto i due piani orbitali risultano allineati, e siamo a buon punto per un’eclissi solare. Tuttavia, come abbiamo visto sopra, è necessario che il nostro satellite sia anche in fase di novilunio. E ancora non è sufficiente…

Fig. 3 – Affinché possa aver luogo un’eclissi solare totale, è necessario che la Luna sia compresa tra i punti A e B.

Terza condizione, che si evince dalla Figura 3, è che la Luna deve trovarsi compresa tra i punti A e B, altrimenti non verrà proiettato alcun cono d’ombra sulla Terra.
Riassumendo, condizioni necessarie e sufficienti affinché si possa avere un’eclissi di Sole sono tre:
⦁ La Luna deve trovarsi in corrispondenza di uno dei nodi
⦁ La Luna deve essere nella fase di novilunio
⦁ La distanza della Luna dal nodo non deve essere superiore a 17° da una parte o dall’altra

Che tipi di eclissi possiamo avere?

Nelle figure di cui sopra abbiamo mostrato la situazione senz’altro più affascinante di un’eclissi totale, in cui il disco solare risulta completamente nascosto dalla Luna per un certo periodo di tempo.
Dalla Figura 1 si evince come la regione della Terra che rientra nel cono d’ombra vedrà il Sole completamente eclissato, mentre l’area circostante sarà in penombra. Il cono d’ombra e quello di penombra si sposteranno con il trascorrere del tempo, rendendo il fenomeno visibile in punti diversi della Terra in momenti differenti. Questa è un’eclissi totale.
Se la Luna è soltanto in prossimità di un nodo, e non in una posizione centrale come nella Figura 1, non coprirà completamente il disco solare perché i piani orbitali non sono perfettamente allineati e avremo un’eclissi solare parziale, la situazione in cui ci troveremo il 29 marzo.
Con un’eclissi di penombra, mostrata nella Figura 4, invece la Terra entra solo nel cono di penombra e non nel cono d’ombra prodotto dalla Luna. Ciò che si vede in questo caso è soltanto un abbassamento non significativo della luminosità del Sole.

Fig. 4 – Eclissi di penombra

Per comprendere cos’è, invece, un’eclissi anulare, ricordiamo che la distanza media tra Terra e Luna è di 384.400 km. Si parla di distanza media perché la Luna percorre un’orbita ellittica intorno alla Terra, che occupa uno dei fuochi. Pertanto, la Luna oscillerà tra una distanza minima (perigeo) di 363.300 km e una distanza massima (apogeo) di 405.500 km (la media di questi due valori è appunto 384.400 km).
Ferme restando le condizioni di cui sopra per un’eclissi totale, quando la Luna si trova in apogeo il suo diametro angolare è leggermente inferiore, ovvero 0,48°, rispetto al Sole. Questo significa che il disco della Luna non coprirà completamente quello del Sole, lasciando tutto intorno una corona sporgente. Stiamo assistendo alla cosiddetta eclissi anulare, che diventerà la sola tipologia possibile di eclissi totale solare quando la Luna si sarà allontanata dalla Terra di una quantità sufficiente.

Dove sarà visibile l’eclissi del 29 marzo?

Si tratterà di un’eclissi caratterizzata da un’ampia visibilità: le aree interessate sono l’America nord-orientale e sud-orientale, l’Europa centrale e settentrionale, l’Africa occidentale, l’Asia settentrionale, l’Artide, e parte della Russia.
Da notare che in USA e nell’est del Canada il sole sorgerà già parzialmente eclissato, garantendo uno spettacolo sicuramente inusuale.
L’Italia meridionale sarà particolarmente svantaggiata: Napoli si trova alla latitudine limite, sotto la quale il fenomeno non sarà visibile. Nella città partenopea, avremo una magnitudine di eclissi pari a 0,0232; in Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia purtroppo non ci sarà alcun accenno del fenomeno. La città tra quelle italiana che potrà raccontare di aver goduto dell’eclissi migliore è Aosta, con una magnitudine di eclissi pari a 12,54.
La tabella seguente, ordinata per ora di inizio, elenca per ciascuna delle città elencate gli orari di inizio, centralità e fine dell’eclissi, la magnitudine di eclissi e la percentuale di oscuramento.

Città Ora inizio Centralità Mag. % oscuramento Ora fine
AN 11:36 12:07 0,894 3,21% 12:38
AO 11:17 12:02 0,224 12,54% 12:49
BO 11:28 12:05 0,1405 6,27% 12:43
CA 11:24 11:53 0,816 2,80% 12:23
CB 11:47 12:05 0,0301 0,63% 12:24
FI 11:28 12:04 0,1285 5,50% 12:41
GE 11:21 12:02 0,177 8,82% 12:44
AQ 11:38 12:05 0,0672 2,10% 12:32
MI 11:21 12:04 0,1916 9,90% 12:48
NA 11:47 12:03 0,0232 0,43% 12:20
PD 11:29 12:08 0,1489 6,83% 12:46
PG 11:33 12:05 0,0979 3,67% 12:37
RM 11:35 12:03 0,0733 2,39% 12:31
TO 11:17 12:02 0,2081 11,18% 12:47
TN 11:27 12:08 0,1727 8,50% 12:49
UD 11:33 12:10 0,1405 6,27% 12:48
VE 11:31 12:08 0,1424 6,40% 12:46

 

Fig. 5 – Il percorso nell’eclissi attraverso il globo

 

Fig. 6 – Il momento della centralità ad Aosta
Fig. 7 – Il momento della centralità a Napoli

Terminologia

La magnitudine di eclissi indica la frazione di diametro del disco solare che viene coperta dalla Luna nel momento centrale. Un valore pari a 0 indica l’assenza di eclissi, mentre numeri maggiori o uguali a 1 indicano un’eclissi totale. A Napoli ad esempio, la magnitudine di eclissi sarà di 0,0232: significa che se il diametro del Sole è pari a 1.392.700 km, di esso ne verranno oscurati 32.310,64 km. Il valore della magnitudine è direttamente proporzionale alla durata dell’eclissi. Questo valore viene si presta a interpretazioni erronee. Infatti, in alcuni prospetti riepilogativi viene confuso con la percentuale di oscuramento del disco solare che, come vediamo nella Tabella 1, è differente. Altro errore da non fare è confonderla con la magnitudine di un oggetto celeste, ovvero con la misura della sua luminosità.


Come osservare un’eclissi di Sole


Sebbene durante un’eclissi solare la nostra stella sia parzialmente o totalmente oscurata, la quantità di radiazioni che arrivano all’occhio sono insostenibili, ed è elevato il rischio di una retinopatia attinica che danneggia irreversibilmente coni e bastoncelli, senza che si percepisca immediatamente una condizione dolorosa. Il Sole, anche in eclissi, non va mai osservato senza le dovute protezioni, a maggior ragione se usiamo uno strumento come un binocolo o un telescopio.
Sono da bandire, in maniera assoluta, gli occhiali da sole, le vecchie pellicole fotografiche, le lastre radiografiche, i vetri offuscati con la fiamma di una candela e perfino i vetrini da saldatore, a meno che non abbiano un fattore di oscuramento di almeno 12 din.
Il modo più sicuro per la visione è l’utilizzo di appositi occhialini, realizzati in Astrosolar o con altri filtri analoghi certificati per l’osservazione del Sole, che tagliano oltre il 99,999 della radiazione solare.
Stesso discorso se vogliamo usare strumentazione osservativa. In questo caso, il rischio non è solo quello di danneggiare lo strumento (ad esempio, l’oculare, il sensore della fotocamera, ecc.): un binocolo o un telescopio concentrano i raggi solari in direzione dell’occhio, aumentando in maniera drammatica il rischio di danni permanenti.
Possiamo proteggere i nostri occhi e la nostra strumentazione usando filtri acquistati già pronti oppure autocostruiti usando una pellicola in Astrosolar o analoghi. Se ci piace dedicarci al bricolage, è importante prestare attenzione alla realizzazione, accertandoci che non ci siano dei punti di passaggio della luce. E prima di ogni uso, verificare sempre che il filtro sia integro!

Vediamo adesso come sfruttare al meglio la nostra strumentazione per l’eclissi del 29 marzo, e facendo tesoro degli insegnamenti e dell’esperienza per gli eventi futuri. Alla luce, e mi si perdoni il gioco di parole, di quanto detto prima, si dà per scontato, anche laddove non precisato esplicitamente, che si farà uso di adeguati filtri.

  • Occhialini in Astrosolar e analoghi: tornano utili per osservare senza altra strumentazione il fenomeno, ma solo in quelle località dove la magnitudine di eclissi è elevata. Ad Aosta avremo una percezione sufficiente dell’eclissi anche con gli occhialini, mentre a Napoli sicuramente no.
  • Binocoli: già con un classico 10×50 riusciremo a goderci lo spettacolo, a patto di usare un cavalletto, così da avere una buona stabilità di visione. Se poi siete i fortunati possessori di un 25×100 montato su un cavalletto con testa di precisione a tre vie, come nel mio caso, il divertimento sarà assicurato. Vi ricordo che un binocolo, a differenza di un telescopio, offre una visione binoculare, e dunque stereoscopica: l’esperienza diventa immersiva e coinvolgente, più che con un telescopio!
  • Fotocamera: anche in questo caso, è importante usare un cavalletto adeguato, che riduca le vibrazioni e garantisca stabilità. Vi consiglio di usare un dispositivo di scatto automatico, in maniera da poter avere un elevato numero di fotografie da montare in un timelapse, senza un intervento continuo da parte vostra, che potrete continuare a osservare il cielo.
  • Telescopio: un basso ingrandimento ci consentirà di avere un quadro d’insieme del Sole, mentre con ingrandimenti più spinti potremo cogliere i dettagli dell’eclissi, specialmente nel momento del primo contatto. Attenzione a smontare il cercatore, a meno che non sia dotato anch’esso di filtro, per evitare che voi o altri possiate anche involontariamente usarlo.
  • Smart telescope: il vantaggio di questi strumenti è la loro autonomia. Potrete impostare un video o un timelapse e intanto dedicarvi ad altri tipi di osservazioni, senza ulteriore intervento da parte vostra, con risultati paragonabili o superiori a una buona fotocamera.


Una considerazione importante: il filtro solare va montato davanti a monte dell’ottica, e non all’oculare, per un motivo molto semplice. Se non filtriamo la luce a monte, la radiazione solare arriverà all’oculare già amplificata, danneggiando lo strumento e rischiando di provocare danni ai nostri occhi!
Il filtro che monterete sullo strumento osservativo vi renderà molto difficile puntare agevolmente il Sole: non vedrete assolutamente nulla fin quando il disco solare non sarà nell’oculare! Individuare il Sole spesso è una vera e propria impresa. Per quanto mi riguarda, con un telescopio manuale (ad esempio, il mio Dobson) riesco a trovare più facilmente un oggetto del cielo profondo (di notte, ovviamente), in quanto posso usare le stelle e le costellazioni come riferimento, che il Sole. E, quindi, come risolvere la questione? Dobbiamo fare attenzione all’ombra che lo strumento osservativo proietta a Terra man mano che tentiamo di puntare il Sole alla cieca (!): quando essa avrà raggiunto la sua dimensione minima, siamo orientati verso il Sole! Con un oculare a basso ingrandimento, quasi certamente ritroveremo il disco solare nel campo; qualche piccolo affinamento e potremo poi usare un oculare più spinto, se così ci piace!

Nel numero 273 di Coelum Astronomia lo speciale dedicato al 25° ciclo solare a cura di Valentina Penza.

Una spirale nel cielo: lo spettacolare fenomeno visibile in tutta Europa

Nella serata del 24 marzo 2025, i cieli italiani — e di gran parte dell’Europa — sono stati attraversati da una visione a dir poco mozzafiato: una spirale luminosa, apparsa intorno alle 21:00, ha lasciato senza parole migliaia di osservatori. Ma niente paura: non si è trattato di un evento misterioso, bensì della spettacolare “passivazione” del secondo stadio del razzo Falcon 9 di SpaceX, lanciato da Cape Canaveral alle 18:48 per la missione NROL-69.

La passivazione è una manovra tecnica, necessaria per liberare il razzo dal carburante residuo prima del rientro atmosferico. Il risultato, quando avviene ad alta quota e in condizioni favorevoli, è una vera e propria “danza cosmica”, visibile a occhio nudo da vaste aree del pianeta.

Vi presentiamo il suggestivo contributo video realizzato da Samuele Pinna, che ha ripreso l’intero fenomeno in altissima qualità. Un documento raro e affascinante, da non perdere.

Nel 2023 era già stato segnalato un altro avvistamento nei cieli dell’Alaska QUI

Discovery Simulations: nuove finestre sul mistero dell’energia oscura

a collage of stars in space

L’espansione accelerata dell’universo, scoperta alla fine degli anni ’90 (Riess et al., 1998; Perlmutter et al., 1999), continua a rappresentare uno dei più grandi enigmi della cosmologia moderna. Per affrontare questo mistero, un consorzio internazionale di ricercatori ha recentemente presentato le Discovery Simulations, una nuova coppia di simulazioni cosmologiche ad alta risoluzione sviluppate per approfondire la natura dell’energia oscura.

Il lavoro, guidato da ricercatori del Argonne National Laboratory (anl.gov) e del Dark Energy Spectroscopic Instrument (desi.lbl.gov), offre un banco di prova senza precedenti per testare modelli cosmologici alternativi. Le simulazioni sono state realizzate utilizzando il codice HACC (Hardware/Hybrid Accelerated Cosmology Code), ottimizzato per i supercomputer più potenti attualmente disponibili.

Due universi a confronto

Le Discovery Simulations consistono in due modelli evolutivi dell’universo, costruiti con condizioni iniziali identiche ma con parametri cosmologici differenti. Una simulazione segue il classico modello ΛCDM, in cui l’energia oscura è rappresentata da una costante cosmologica. L’altra esplora un modello più dinamico, w₀wₐCDM, dove l’energia oscura evolve nel tempo secondo una precisa equazione di stato, come suggerito dai recenti risultati del primo anno di osservazioni del DESI (DESI Collaboration et al., 2024).

Ogni simulazione ha elaborato 6720³ particelle in un volume cubico di 1,5 gigaparsec (circa 4,9 miliardi di anni luce per lato), con una risoluzione in massa di circa 4×10⁸ masse solari. L’operazione si è svolta su Aurora, il supercomputer exascale basato su GPU dell’Argonne Leadership Computing Facility, impiegando 960 nodi e oltre 5700 GPU in un tempo straordinariamente breve: circa due giorni per simulazione.

Confronto visivo di una piccola regione nelle simulazioni a z = 0.
A sinistra: modello ΛCDM; a destra: modello w₀wₐCDM.
Le differenze tra i due scenari cosmologici sono sottili, ma comunque visibili quando si osservano i dettagli più fini della struttura. Questo confronto evidenzia quanto sia difficile, nella cosiddetta “cosmologia di precisione”, ottenere misure cosmologiche in grado di rilevare anche i più piccoli cambiamenti nella formazione delle strutture dell’universo.
È disponibile anche un breve video che mostra l’evoluzione temporale di una piccola porzione dello spazio simulato.

Una mappa dettagliata dell’evoluzione cosmica

Grazie a queste simulazioni, i ricercatori hanno potuto analizzare con precisione le differenze tra i due modelli cosmologici in vari aspetti fondamentali: lo spettro di potenza della materia, la funzione di massa degli aloni di materia oscura e i tassi di accrescimento di massa degli stessi.

I risultati mostrano che il modello w₀wₐCDM genera differenze quantificabili rispetto a ΛCDM, con variazioni fino al 5–10% nella distribuzione della materia su larga scala, e fino al 20% nella frequenza di aloni massicci a determinate epoche cosmiche. Sebbene queste discrepanze possano sembrare contenute, esse offrono importanti spunti per migliorare la precisione degli strumenti di analisi cosmologica.

Influenza della cosmologia w₀wₐCDM sullo spettro di potenza della materia.
In alto: confronto degli spettri di potenza della materia ottenuti nelle due simulazioni: linea continua per il modello ΛCDM, linea tratteggiata per il modello w₀wₐCDM, mostrati a tre diverse epoche cosmiche: z = 0 (colore blu), z = 0.5 (rosa) e z = 1 (rosso).
In basso: differenza percentuale tra gli spettri di potenza delle due simulazioni a ciascun redshift, cioè quanto i due modelli divergono nella distribuzione della materia su varie scale spaziali.

Galassie simulate e formazione stellare

Un altro punto di forza delle Discovery Simulations è la possibilità di associare alle strutture simulate delle popolazioni galattiche plausibili. Utilizzando modelli innovativi come Diffstarpop (GitHub link), i ricercatori hanno generato galassie sintetiche basate sull’accrescimento di massa degli aloni, esplorando così come la cosmologia influenza la storia della formazione stellare.

I dati indicano che, nei modelli con energia oscura variabile, le galassie formano stelle con una leggera riduzione del tasso di formazione, specialmente agli alti redshift (z > 1). Questo effetto, sebbene modesto (∼2–4%), potrebbe diventare rilevante in studi statistici su larga scala, come quelli previsti da future survey del cielo.

Un patrimonio pubblico per la comunità scientifica

Le simulazioni non sono solo uno strumento teorico, ma un patrimonio messo a disposizione della comunità: i cataloghi degli aloni di materia oscura a tre epoche cosmiche (z = 1.0, 0.5, 0) sono pubblicamente accessibili attraverso l’HACC Simulation Data Portal, utilizzando un account Globus. L’importanza di queste simulazioni risiede nella loro capacità di accompagnare i dati osservativi con un supporto teorico all’avanguardia. Con missioni come Euclid, LSST e il Nancy Grace Roman Space Telescope pronte a esplorare l’universo con una precisione senza precedenti, strumenti come le Discovery Simulations saranno essenziali per interpretare i segnali cosmologici più sottili.

Gli autori, tra cui N. Padmanabhan, M. White, K. Heitmann e J. Alarcón, concludono auspicando che queste simulazioni rappresentino la base per futuri cataloghi galattici sintetici e per l’analisi di statistiche cosmologiche di ordine superiore, in grado di distinguere tra modelli di energia oscura oggi ancora in competizione.

Fonte: ArXiv

Una galassia fuori dagli schemi: il mistero di J2345−0449

La galassia a spirale J2345−0449 ospita un buco nero supermassiccio che genera getti radio lunghi oltre un megaparsec, un fatto rarissimo per una spirale. Priva di bulge classico, mostra una struttura regolare e una formazione stellare centrale soppressa, probabilmente a causa del feedback dell’AGN. Un caso unico per studiare l’evoluzione galattica.

Nel vasto panorama dell’Universo, alcune galassie brillano non solo per la loro luce, ma per la loro capacità di sfidare le regole della cosmologia. È il caso di 2MASX J23453268−0449256, nota anche come J2345−0449, una galassia a spirale estremamente massiccia e rapida nella rotazione, che ha catturato l’attenzione degli astronomi per un fatto davvero eccezionale: la presenza di getti radio colossali, estesi su scala megaparsec (oltre 3 milioni di anni luce), una caratteristica tipica delle galassie ellittiche e non delle spirali.

Immagine radio a 323 MHz della galassia J2345−0449 ottenuta con il radiotelescopio GMRT
Questa immagine mostra la sorgente radio gigante associata alla galassia a spirale J2345−0449, osservata alla frequenza di 323 MHz con il Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT). I dati rivelano un’emissione radio di ampiezza eccezionale, che si estende ben oltre i confini della galassia visibile.
Tra gli aspetti più sorprendenti, spicca la presenza – rarissima – di due coppie concentriche di lobi radio, una interna e una esterna, generate dai getti emessi dal buco nero centrale. I lobi più interni si estendono per circa 387 mila anni luce (circa 387 kpc), mentre quelli più esterni raggiungono una lunghezza di circa 1,6 milioni di anni luce (circa 1,6 Mpc), rendendo questa una delle più grandi sorgenti radio conosciute associate a una galassia spirale.
Il centro attivo della galassia, cioè il nucleo dell’AGN (Nucleo Galattico Attivo), è chiaramente rilevato come una sorgente compatta nel cuore dell’immagine.
Il contorno bianco tratteggiato mostra il profilo della galassia nella luce visibile, ingrandito di circa 4 volte per facilitarne la visione. La barra di scala indica una distanza di 500 kpc, utile per apprezzare l’enorme estensione dell’emissione radio.
Nell’immagine in dettaglio (riquadro in basso a sinistra) è visibile un ingrandimento dei lobi interni, ottenuto con il Very Large Array (VLA) alla frequenza di 4.8 GHz. Qui si osserva una morfologia tipica delle sorgenti di tipo FR-II (Fanaroff & Riley, 1974): i lobi sono luminosi ai bordi e alimentati da getti collimati provenienti dal nucleo galattico. I lobi esterni, invece, appaiono più filamentosi e diffusi, e potrebbero rappresentare resti fossili di un’attività radio passata, ormai spenta da milioni di anni.
Le curve di livello (contorni) rappresentano i livelli di intensità dell’emissione radio, a partire da valori molto deboli (−0.1 mJy/beam) fino ai livelli più intensi (3.2 mJy/beam). La seconda barra di scala, nel riquadro, indica 50 kpc, a confronto con le dimensioni della galassia visibile.

Un’identità sorprendente

Osservata grazie ai potenti strumenti del Telescopio Spaziale Hubble (HST) e con dati raccolti in varie lunghezze d’onda – dalla luce ultravioletta all’infrarosso – J2345−0449 è stata analizzata in dettaglio da un team internazionale di ricercatori, tra cui Bagchi et al. (2014), Walker et al. (2015) e Drevet Mulard et al. (2023). L’indagine ha rivelato che questa galassia non possiede un rigonfiamento centrale classico (bulge), ma un pseudo-bulge, cioè una struttura più piatta e disciforme, tipica di una formazione “tranquilla”, non dovuta a fusioni galattiche violente.

Questa immagine composita della galassia J2345−0449 è stata ottenuta combinando osservazioni in tre bande diverse effettuate con la camera WFC3 del Telescopio Spaziale Hubble (HST): due bande nel visibile (F438W e F814W) e una nell’infrarosso (F160W). Le singole immagini sono state sovrapposte e calibrate in intensità per riprodurre una colorazione quanto più naturale possibile.
Nell’immagine si notano chiaramente scure strisce di polvere che si avvolgono a spirale e piccole regioni compatte di formazione stellare, localizzate soprattutto nelle zone più esterne del disco galattico.
L’immagine copre un’area di circa 50 x 50 arcosecondi, con il nord in alto e l’est a sinistra.

Una macchina cosmica di grande massa

Grazie all’elevata risoluzione dell’Hubble, con una scala di circa 100 parsec, è stato possibile distinguere nel centro della galassia anche una piccola barra nucleare e un anello di risonanza, tracciati con precisione millimetrica. La struttura, che ricorda un orologio cosmico, è incastonata in un disco stellare ben ordinato, privo di segni di interazioni recenti o di detriti mareali. Questo suggerisce che J2345−0449 abbia avuto una evoluzione secolare, ovvero graduale e interna, senza fusioni con altre galassie.

La massa stellare totale è stimata in circa 4 × 10¹¹ masse solari, mentre la velocità di rotazione raggiunge i 430 km/s, uno dei valori più alti osservati in una galassia spirale. Tali numeri pongono J2345−0449 tra le galassie più massicce e dinamicamente stabili conosciute nel nostro Universo locale.


I giganti silenziosi dell’Universo

Ma ciò che rende J2345−0449 davvero straordinaria è la presenza di due coppie di lobi radio, visibili grazie alle osservazioni del Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT) e del Very Large Array (VLA). I lobi esterni si estendono per oltre 1,6 Mpc, mentre quelli interni – più giovani e attivi – coprono circa 400 kpc. Questi getti, alimentati da un buco nero supermassiccio (SMBH) centrale, hanno un asse quasi perpendicolare al disco stellare della galassia, un fatto raro che sfida le teorie classiche secondo cui solo le galassie ellittiche, con grandi bulge centrali, possono ospitare getti radio così estesi.

Immagine in scala di grigi della regione più interna della galassia J2345−0449
Questa immagine mostra il cuore della galassia, evidenziando la differenza (residuo) tra l’immagine reale ottenuta con il Telescopio Spaziale Hubble (HST) e il modello migliore ricostruito dagli astronomi (in questo caso, il modello A elaborato con il software GALFIT).
Nel pannello a sinistra è visibile l’immagine nella banda H (infrarosso), mentre nel pannello a destra si vede quella nella banda I (vicino infrarosso/visibile).
Le frecce indicano la presenza di una piccola barra nucleare e di un anello di risonanza formato da stelle, strutture dinamiche situate nel centro della galassia.
Da notare che l’immagine nella banda I è più influenzata dalla polvere interstellare, che oscura la luce visibile, in particolare nella zona scura attorno alla barra nucleare, che appare “vuota” proprio a causa di questa estinzione della luce.

Stelle che non nascono più

Una delle scoperte più interessanti è il rallentamento della formazione stellare nella regione centrale della galassia. Sebbene il gas caldo del suo alone – rilevato tramite osservazioni ai raggi X con i telescopi Chandra e XMM-Newton – si raffreddi, non si formano nuove stelle. Questa “quiescenza” sembra essere il risultato del feedback dell’AGN (nucleo galattico attivo): l’energia emessa dal buco nero, sotto forma di getti e radiazione, riscalda o espelle il gas, rendendolo inutilizzabile per la nascita stellare.

Secondo i modelli teorici, questi processi di feedback sono una delle cause principali della fine della formazione stellare nelle galassie massive, ma nel caso di J2345−0449 l’assenza di una fusione recente e la struttura a disco ben conservata rendono il caso ancora più interessante e raro.


Una galassia verde nel cuore

Sebbene la formazione stellare sia ridotta, la galassia non è completamente “spenta”. Le osservazioni nel vicino e lontano ultravioletto (UV), effettuate dal telescopio GALEX, indicano la presenza di giovani stelle nelle zone più esterne del disco. Tuttavia, nel centro della galassia si trovano popolazioni stellari molto vecchie, con età superiori ai 10 miliardi di anni. Questo colloca J2345−0449 nella cosiddetta “green valley” – una fase intermedia tra le galassie attive (blu) e quelle passive (rosse) – come riportato anche da Salim et al. (2016).


Il buco nero che sfida le regole

Nonostante l’assenza di un bulge classico, J2345−0449 ospita un buco nero supermassiccio stimato in oltre 10⁹ masse solari – una massa paragonabile a quella dei buchi neri nelle galassie ellittiche più grandi. Questo suggerisce un percorso di crescita alternativo, guidato non da fusioni, ma da processi interni e da un lento afflusso di gas. L’AGN della galassia rientra nella categoria delle radio-galassie a bassa eccitazione (LERG), alimentate da flussi di accrescimento deboli ma sufficienti a sostenere la produzione di getti potenti.


Una fabbrica di getti radio

La domanda centrale diventa allora: come può una galassia così diversa dalle radio-galassie classiche produrre getti tanto impressionanti? I modelli teorici ipotizzano che il meccanismo alla base sia magnetoidrodinamico, in cui il buco nero agisce come una dinamo cosmica, lanciando materia ad altissima velocità lungo i poli. La stabilità dell’asse dei getti, che non mostra segni di precessione, suggerisce che il buco nero agisca come un giroscopio cosmico, con spin elevato e ben allineato con il disco di accrescimento.


Un laboratorio cosmico per l’astrofisica

J2345−0449 si presenta così come un laboratorio naturale eccezionale per studiare l’evoluzione delle galassie massive e il ruolo del feedback da AGN. La sua configurazione isolata, la struttura a disco regolare, il pseudo-bulge, i getti radio colossali e l’assenza di eventi di fusione recente la rendono un oggetto unico per comprendere i meccanismi di regolazione della formazione stellare e dell’accrescimento dei buchi neri.


Prospettive future

Per rispondere ai molti interrogativi ancora aperti, saranno necessari studi futuri ad alta risoluzione, in particolare per determinare con precisione la massa, lo spin e la geometria del campo magnetico del buco nero centrale. L’uso di strumenti di prossima generazione, come il James Webb Space Telescope (JWST) o lo Square Kilometre Array (SKA), potrà fornire nuovi indizi cruciali.

Nel frattempo, J2345−0449 resta una galassia fuori dagli schemi, capace di mettere in discussione alcune delle più consolidate teorie sull’origine e l’evoluzione delle strutture cosmiche.


Riferimenti principali:

Fonte: Oxford Accademy

Bagchi et al. (2014); Walker et al. (2015); Nesvadba et al. (2021); Drevet Mulard et al. (2023)

NASA – Hubble Space Telescope ESA – Chandra X-ray Observatory XMM-Newton Mission – ESA IUCAA – Inter-University Centre for Astronomy and Astrophysics GMRT – NCRA NRAO – Very Large Array (VLA) ALMA Observatory

ESA presenta la nuova Strategia 2040 per l’esplorazione spaziale europea

Verso un’Europa più forte, sostenibile e protagonista nello spazio globale

L’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha pubblicato ufficialmente la sua nuova strategia di lungo termine: ESA Strategy 2040, un documento ambizioso che definisce le linee guida e gli obiettivi chiave per affrontare le sfide e cogliere le opportunità del settore spaziale da oggi fino al 2040.

La strategia, presentata dal Direttore Generale Josef Aschbacher, si propone come “documento vivo”, destinato ad aggiornarsi in base alle esigenze future dell’Europa e dei suoi Stati membri. Essa rappresenta l’evoluzione del percorso già tracciato con l’Agenda 2025, con l’obiettivo di trasformare ESA in un’agenzia più agile, efficiente e allineata alle priorità globali e continentali.

Cinque grandi obiettivi per il futuro dello spazio europeo

La visione dell’ESA si articola attorno a cinque obiettivi strategici principali, ciascuno dei quali comprende azioni concrete e obiettivi misurabili:


🔵 1. Proteggere il nostro Pianeta e il Clima
ESA investirà in tecnologie e missioni per contrastare il cambiamento climatico, monitorare l’ambiente e promuovere una economia spaziale circolare priva di detriti.
Obiettivi chiave:

  • Creare “gemelli digitali” della Terra per simulazioni avanzate.
  • Promuovere standard globali per la sostenibilità spaziale.
  • Rafforzare le capacità europee in ambito space weather e difesa planetaria.

🟠 2. Esplorare e Scoprire
L’ESA continuerà a guidare la ricerca scientifica spaziale, sviluppando missioni di frontiera e partecipando attivamente alla nuova era di esplorazione lunare e marziana.
Tra le missioni in programma: Euclid, Juice, Plato, LISA, EnVision, e la futura esplorazione di Encelado.
Focus:

  • Rafforzare la presenza europea in orbita terrestre bassa (LEO).
  • Costruire infrastrutture lunari per comunicazione e navigazione.
  • Preparare la tecnologia per le future missioni umane su Marte.

🟡 3. Rafforzare l’autonomia e la resilienza europea
Con l’obiettivo di rendere l’Europa indipendente nell’accesso e nella mobilità nello spazio, ESA svilupperà sistemi di trasporto spaziale autonomi e soluzioni per la gestione delle crisi terrestri.
Azioni previste:

  • Lanciatrici riutilizzabili e sistemi per servizi in orbita.
  • Infrastrutture per telecomunicazioni sicure e navigazione precisa.
  • Tecnologie quantistiche per comunicazioni e localizzazione.

🟢 4. Promuovere crescita e competitività
ESA vuole stimolare l’innovazione e rendere l’Europa un polo commerciale globale nel settore spaziale.
Iniziative:

  • Investimenti in tecnologie d’avanguardia (propulsione verde, habitat spaziali, VLEO).
  • Supporto a startup e PMI per accedere ai mercati.
  • Rafforzamento del ruolo europeo come attrattore di investimenti privati.

🔴 5. Ispirare l’Europa
L’obiettivo finale è coinvolgere cittadini, giovani e istituzioni in un ecosistema spaziale europeo più coeso e partecipativo.
Attività previste:

  • Programmi educativi e inclusivi per la prossima generazione.
  • Iniziative per la diversità, l’equità e la rappresentanza.
  • Collaborazioni diplomatiche internazionali attraverso la “space diplomacy”.

Uno strumento per il futuro dell’Europa

La Strategia 2040 sarà la base per le decisioni strategiche dei prossimi decenni, compresi i lavori preparatori per il Consiglio ministeriale dell’ESA previsto a novembre 2025, dove si discuteranno le risorse e i progetti futuri. L’attuazione sarà seguita da un aggiornamento continuo del piano a lungo termine dell’Agenzia.

«Lo spazio è diventato un pilastro fondamentale per la sicurezza, l’economia, la ricerca e la resilienza delle società moderne – ha dichiarato Aschbacher –. Con questa strategia, vogliamo fare in modo che l’Europa non resti spettatrice, ma protagonista della corsa allo spazio del XXI secolo.»

Il documento di sintesii è disponibile a questo LINK

Per approfondire scarica il documento completo QUI

Fonte: European Space Agency

I nuovi occhi sulla vita: ELTs pronti a cercare segnali di abitabilità su pianeti extrasolari

Nel prossimo decennio, una nuova generazione di telescopi terrestri estremamente grandi — i cosiddetti ELTs, Extremely Large Telescopes — sarà in grado di indagare per la prima volta la presenza di atmosfere abitabili e segnali di vita su pianeti extrasolari rocciosi che non transitano davanti alla loro stella. Questa rivoluzione si avvicina grazie all’uso di strumentazione ad altissimo contrasto e risoluzione spettrale, combinando tecniche avanzate di imaging coronografico e spettroscopia ad alta dispersione.

Uno studio pubblicato su The Planetary Science Journal da un team internazionale di ricercatori guidato da Meadows et al. mostra come questi strumenti possano rilevare firme molecolari indicative della presenza di vita, anche in mondi potenzialmente privi di transiti visibili. Tra i pianeti più promettenti analizzati spicca Proxima Centauri b, situato a soli 1,3 parsec dalla Terra.

Alla ricerca della vita con la luce riflessa

Finora, la maggior parte delle informazioni sulle atmosfere dei pianeti extrasolari è arrivata da osservazioni di transiti, come quelli del sistema TRAPPIST-1, studiato anche dal telescopio spaziale James Webb (JWST). Tuttavia, molti pianeti potenzialmente abitabili non transitano davanti alla loro stella dal nostro punto di vista: è il caso di Proxima b, GJ 1061 d e Teegarden’s Star c, tutti entro i 5 parsec dalla Terra.

Per superare questo limite, gli ELTs utilizzeranno un approccio detto High-Dispersion Coronagraphy (HDC), che unisce un coronografo per oscurare la luce stellare e uno spettrografo ad altissima risoluzione. Progetti come RISTRETTO sull’ESO Very Large Telescope e strumenti futuri come ANDES sul European Extremely Large Telescope (E-ELT), il TMT (Thirty Meter Telescope) e il Giant Magellan Telescope (GMT) saranno fondamentali.

Atmosfere simulabili, firme chimiche rilevabili

Usando una pipeline aggiornata chiamata SPECTR, gli autori hanno simulato osservazioni di vari tipi di atmosfere su pianeti rocciosi e sub-nettuniani orbitanti stelle di tipo M (piccole e fredde), come nel caso di Proxima b. Hanno analizzato atmosfere modellate sulla Terra moderna, l’Archeano (circa 3,5 miliardi di anni fa), scenari abiologici con possibili “falsi positivi” e mondi sub-nettuniani con spesse atmosfere di idrogeno.

Tra le molecole considerate: ossigeno (O₂), metano (CH₄), anidride carbonica (CO₂), vapore acqueo (H₂O), monossido di carbonio (CO) e ammoniaca (NH₃).

I risultati: segnali rivelabili in poche ore

Nel caso più favorevole, quello di Proxima b, la simulazione suggerisce che sia possibile:

  • escludere un’atmosfera sub-nettuniana in meno di un’ora di osservazione;
  • rilevare coppie di gas in disequilibrio chimico (O₂/CH₄ o CO₂/CH₄), che sono considerate potenziali biosignature, in circa 10 ore;
  • distinguere pianeti abitati da quelli abiologici, osservando gas come CO e H₂O che forniscono contesto ambientale.

Per esempio, l’acqua può essere rilevata nel vicino infrarosso (0.9 μm) in circa 1 ora, mentre l’ossigeno o il metano possono richiedere da 10 a 100 ore, a seconda delle condizioni e della strumentazione.

I falsi positivi e come evitarli

Alcuni gas, come l’ossigeno, possono accumularsi anche in assenza di vita. Lo studio ha quindi analizzato scenari alternativi, come pianeti che hanno perso gli oceani o hanno un’attività vulcanica intensa. In questi casi, gas come CO diventano indicatori utili per distinguere un mondo realmente abitato da uno che lo imita chimicamente.

Ad esempio, una combinazione di alta presenza di metano e monossido di carbonio può indicare processi vulcanici, non biologici. Al contrario, l’assenza di CO in presenza di CH₄ e CO₂ rafforza l’ipotesi biologica.

Un protocollo per la ricerca della vita

Gli autori propongono un protocollo osservativo efficace:

  1. Escludere un’atmosfera sub-nettuniana cercando molecole come NH₃;
  2. Verificare la presenza di acqua, per valutare l’abitabilità;
  3. Cercare biosignature, come le coppie O₂/CH₄ o CO₂/CH₄;
  4. Individuare gas discriminanti, come il monossido di carbonio, per riconoscere falsi positivi.

Verso una nuova era dell’astrobiologia

Lo studio evidenzia come l’osservazione da Terra, grazie agli ELTs, permetterà di caratterizzare in dettaglio le atmosfere di pianeti potenzialmente abitabili, anche quelli che non transitano. L’obiettivo finale: cercare la vita.

I ricercatori coinvolti provengono da istituzioni di primo piano, tra cui l’University of Washington, il NASA Goddard Institute for Space Studies e l’ESO – European Southern Observatory.

In conclusione, se Proxima b possiede un’atmosfera terrestre, potremmo identificare la presenza di gas legati alla vita in meno di 10 ore di osservazione. Una scoperta che segnerebbe l’inizio di una nuova era per l’astronomia e per la ricerca di mondi abitabili oltre il nostro.

La struttura dell’ELT supera i 50 metri di altezza, e l’apertura del tetto è larga ben 41 metri. Per salire a piedi, percorrendo scale e passerelle dall’ingresso fino alla sommità della cupola dell’ELT, servono circa 30 minuti. Altro che palestra… Crediti: ESO/G. Vecchia

Fonte: ARXIV

Saturno: scoperti 64 nuovi satelliti, molti retrogradi

Mappa celeste dei due campi osservativi utilizzati per questa indagine, in relazione alla posizione di Saturno (indicato con rettangoli grigi). Sono riportate tutte le osservazioni relative a 5 delle 64 nuove lune scoperte (indicate con cerchi), insieme alla miglior traiettoria orbitale calcolata per ciascuna (linee tratteggiate). Nota dell’autore (BJG): questo sottoinsieme di dati mette in evidenza le difficoltà nel collegare le osservazioni delle lune su un arco di più anni. Nota tecnica: l’apparente "incompletezza" delle orbite (cioè il fatto che non sembrino chiudersi perfettamente) è dovuta al fatto che le posizioni osservate sono proiettate dal punto di vista della Terra in movimento, e non da un sistema di riferimento centrato su Saturno.

Una ricerca internazionale condotta da Edward Ashton (Institute of Astronomy and Astrophysics, Academia Sinica, Taiwan), insieme a Brett Gladman (University of British Columbia, Canada), Mike Alexandersen (Center for Astrophysics | Harvard & Smithsonian, USA) e Jean-Marc Petit (Institut UTINAM, Université de Franche-Comté, Francia), ha individuato ben 64 nuovi satelliti irregolari intorno a Saturno. Le osservazioni sono state effettuate tra il 2019 e il 2021 grazie al Canada-France-Hawaii Telescope (CFHT), e i risultati, presentati nel 2025, stanno riscrivendo la nostra comprensione del sistema lunare saturniano.

Lune regolari e irregolari: che differenza c’è?

Le lune “regolari”, come Titano, si sono formate attorno a Saturno e seguono orbite circolari e ben allineate con l’equatore del pianeta. Al contrario, le “lune irregolari” sono oggetti catturati da Saturno in epoche remote, provenienti probabilmente dalla fascia di Kuiper o dalla regione dei pianeti giganti. Le loro orbite sono ellittiche, inclinate, e molte sono addirittura retrograde, cioè orbitano in senso opposto alla rotazione di Saturno.

La prima luna irregolare di Saturno, Febe, fu scoperta nel 1898. Da allora, solo due grandi campagne osservative avevano incrementato il numero delle lune irregolari conosciute: una all’inizio degli anni 2000 e una tra il 2004 e il 2007. Grazie a queste indagini, entro il 2019 si contavano 58 lune irregolari attorno a Saturno. Oggi, grazie al nuovo studio, quel numero è più che raddoppiato.

Una popolazione in gran parte retrograda

Il dato che più ha colpito i ricercatori è che la maggior parte delle nuove lune scoperte ha orbite retrograde. In particolare, è stato identificato un sottogruppo, chiamato Mundilfari, in cui abbondano i satelliti di piccole dimensioni (inferiori a 4 km di diametro) rispetto a quelli più grandi. Questo gruppo si estende su un’inclinazione orbitale tra 157 e 172 gradi rispetto al piano dell’eclittica.

Questa distribuzione così particolare suggerisce un’origine violenta: “La pendenza molto ripida della distribuzione delle dimensioni delle lune del gruppo Mundilfari indica una frantumazione recente,” spiega Ashton, facendo riferimento a un evento di collisione catastrofica avvenuto forse negli ultimi miliardi di anni. Il gruppo prende il nome dalla sua luna più grande, Mundilfari, e sarebbe l’esito di un impatto che ha frammentato un oggetto più grande.

Mappa celeste dei due campi osservativi utilizzati per questa indagine, in relazione alla posizione di Saturno (indicato con rettangoli grigi).
Sono riportate tutte le osservazioni relative a 5 delle 64 nuove lune scoperte (indicate con cerchi), insieme alla miglior traiettoria orbitale calcolata per ciascuna (linee tratteggiate).
Nota dell’autore (BJG): questo sottoinsieme di dati mette in evidenza le difficoltà nel collegare le osservazioni delle lune su un arco di più anni.
Nota tecnica: l’apparente “incompletezza” delle orbite (cioè il fatto che non sembrino chiudersi perfettamente) è dovuta al fatto che le posizioni osservate sono proiettate dal punto di vista della Terra in movimento, e non da un sistema di riferimento centrato su Saturno.

Come sono state trovate queste lune?

Il team ha utilizzato la tecnica dello “shift and stack”, che consente di sommare immagini sequenziali per rilevare oggetti in movimento estremamente deboli. Le osservazioni si sono concentrate su due aree del cielo attorno a Saturno, ripetute in varie opposizioni (ossia i periodi migliori per osservare il pianeta dalla Terra) nel 2019, 2020 e 2021.

In totale, sono stati rilevati oltre 120 oggetti in movimento coerente con le orbite saturniane. Di questi, 64 sono stati confermati come nuove lune. Per altre 50+ non è stato possibile determinare orbite precise a causa di un numero insufficiente di rilevamenti.

Una parte delle lune scoperte in questo studio era già stata osservata tra il 2004 e il 2007 dal telescopio giapponese Subaru, ma non erano mai state confermate fino ad ora. Il Minor Planet Center è riuscito a collegare 42 delle nuove lune a quelle osservazioni passate, attribuendo loro ufficialmente l’anno di scoperta.

Collane di lune: le “famiglie collisionarie”

Analizzando i parametri orbitali delle lune scoperte, i ricercatori hanno individuato delle “famiglie” di satelliti con caratteristiche simili, che suggeriscono un’origine comune. Oltre al gruppo Mundilfari, si distinguono altri sottogruppi:

  • Il gruppo Gallico (orbitanti in senso diretto) mostra una concentrazione attorno alla luna Albiorix, suggerendo una frammentazione antica.
  • Il gruppo Inuit si divide in due sottogruppi attorno a Kiviuq e Siarnaq, entrambi probabili resti di collisioni passate.
  • Tra i retrogradi, spiccano anche il gruppo Kari e il gruppo Phoebe, quest’ultimo dominato dalla luna più grande e scura, Phoebe.

Ma è il gruppo Mundilfari a destare il maggior interesse. La distribuzione delle dimensioni dei suoi membri segue una legge di potenza con indice q ≈ 6, molto più ripida di quella delle altre famiglie (che si attestano tra q ≈ 2 e 3.5). Questo significa che, rispetto ad altri gruppi, il Mundilfari ha una quantità insolitamente alta di lune piccole, segno di una rottura violenta e relativamente recente.

Distribuzione delle dimensioni nei diversi gruppi e sottogruppi delle lune irregolari di Saturno. Nel grafico sono state aggiunte due linee di riferimento: una tratteggiata che rappresenta una distribuzione tipica di frammenti in equilibrio collisionale (con indice q = 3,5) e una linea tratteggiata lunga che mostra una pendenza simile a quella osservata per il sottogruppo Mundilfari (con q = 6). I membri del gruppo Norse con inclinazioni inferiori a 151 gradi non sono rappresentati nel grafico.

Una collisione recente?

Per testare l’ipotesi dell’impatto, i ricercatori hanno simulato un’esplosione orbitale di un oggetto progenitore, generando migliaia di frammenti con una velocità di espulsione di 200 m/s. Il risultato? La distribuzione orbitale dei frammenti riproduce bene quella osservata tra i membri del gruppo Mundilfari.

“Se la nostra interpretazione è corretta,” spiegano gli autori, “allora il gruppo Mundilfari rappresenta le tracce visibili di una collisione cosmica che ha avuto luogo non molto tempo fa, su scala astronomica.”

C’è però una complicazione: la dispersione orbitale del gruppo è piuttosto ampia, forse più di quanto ci si aspetterebbe da un’unica collisione. Questo apre la possibilità che ci siano stati più impatti, o che alcuni membri non siano direttamente legati all’evento principale.

In questo grafico, ogni punto rappresenta una luna retrograda, ovvero una luna che orbita attorno a Saturno in senso opposto rispetto alla rotazione del pianeta. I colori aiutano a distinguere i vari sottogruppi:
Rosso: lune appartenenti al sottogruppo di Phoebe
Magenta: lune del sottogruppo di Mundilfari
Blu: lune del sottogruppo di Kari
Azzurro chiaro: lune con inclinazioni inferiori a 151 gradi, dette “low-i”
Due lune classificate nel sottogruppo Phoebe ma che potrebbero appartenere al gruppo Mundilfari sono indicate con un pallino magenta aggiuntivo, suggerendo che potrebbero essere stati erroneamente attribuiti al gruppo sbagliato.

Lune blu?

Un altro indizio interessante è il colore. Le misurazioni precedenti indicano che Mundilfari ha una tonalità insolitamente blu, simile solo a quella della luna Phoebe. Se anche altri membri del gruppo avessero colori simili, questo rafforzerebbe l’idea di un’origine comune. Purtroppo, al momento mancano dati fotometrici completi per la maggior parte delle nuove lune.

Elenco delle lune irregolari di Saturno, con indicazione dei seguenti parametri orbitali:

  • AU: Astronomical Unit – distanza media dal pianeta
  • Asse semi-maggiore (a): la distanza media dal pianeta, espressa in unità astronomiche (au) o milioni di chilometri
  • Eccentricità (e): quanto l’orbita è ellittica (0 = orbita perfettamente circolare)
  • Inclinazione (i): l’angolo tra il piano dell’orbita della luna e il piano dell’eclittica, in gradi
  • Periodo orbitale (P): il tempo impiegato dalla luna per completare un’orbita attorno a Saturno, in giorni
  • Magnitudine assoluta nella banda V (HV): una misura della luminosità intrinseca della luna
  • Gruppo: la famiglia dinamica principale a cui la luna appartiene
  • Sottogruppo: un’eventuale suddivisione più specifica all’interno del gruppo

I valori orbitali sono tratti dal database del Jet Propulsion Laboratory (JPL), mentre le magnitudini HV provengono dal Minor Planet Center (MPC).

Tutte le inclinazioni sono riferite al piano dell’eclittica, ad eccezione di quella di Phoebe, che è calcolata rispetto al piano di Laplace (il piano medio attorno a cui oscillano le orbite dei satelliti nel tempo).

Denominazione AU a e i P HV Gruppo Sottogruppo
S/2007 S 8 0.1140 17.05 0.49 36.2 836.9 15.97 Gallic Albiorix
Bebhionn (37) 0.1138 17.03 0.482 37.4 834.9 14.99 Gallic Albiorix
S/2004 S 24 0.1560 23.34 0.071 37.4 1341.3 15.98 Gallic
Sat LX 0.1140 17.06 0.485 38.6 837.8 15.83 Gallic Albiorix
Tarvos (21) 0.1218 18.22 0.528 38.6 926.4 13.04 Gallic Albiorix
S/2006 S 12 0.1308 19.57 0.542 38.6 1035.1 16.2 Gallic Albiorix
Erriapus (28) 0.1170 17.51 0.462 38.7 871.1 13.71 Gallic Albiorix
Albiorix (26) 0.1092 16.33 0.47 38.9 783.5 11.17 Gallic Albiorix
S/2020 S 4 0.1219 18.24 0.495 40.1 926.9 17.01 Gallic Albiorix
S/2019 S 6 0.1214 18.11 0.120 46.4 919.7 15.73 Inuit Siarnaq
S/2020 S 3 0.1207 18.05 0.144 46.1 908.0 16.38 Inuit Siarnaq
S/2019 S 14 0.1193 17.85 0.172 46.2 893.1 16.32 Inuit Siarnaq
Paaliaq (20) 0.1003 15.00 0.384 47.1 687.1 11.71 Inuit
S/2005 S 4 0.0757 11.32 0.315 48 450.2 15.69 Inuit Kiviuq
S/2004 S 31 0.1170 17.50 0.159 48.1 866.1 15.63 Inuit Siarnaq
S/2020 S 5 0.1229 18.39 0.22 48.2 933.9 16.59 Inuit Siarnaq
S/2020 S 1 0.0758 11.34 0.337 48.2 451.1 15.92 Inuit Kiviuq
Siarnaq (29) 0.1195 17.88 0.311 48.2 895.9 10.61 Inuit Siarnaq
Kiviuq (24) 0.0756 11.31 0.182 48.9 449.1 12.67 Inuit Kiviuq
Ijiraq (22) 0.0758 11.34 0.353 49.2 451.5 13.27 Inuit Kiviuq
S/2019 S 1 0.0752 11.25 0.384 49.5 445.5 15.32 Inuit Kiviuq
Tarqeq (52) 0.1186 17.75 0.119 49.7 885.0 14.82 Inuit Siarnaq
Bestla (39) 0.1360 20.34 0.461 136.3 1087.5 14.61 Norse
Narvi (31) 0.1289 19.29 0.449 143.7 1003.8 14.52 Norse
S/2019 S 11 0.1381 20.66 0.513 144.6 1115.0 16.25 Norse
Skathi (27) 0.1041 15.58 0.265 149.7 728.1 14.41 Norse
Hyrrokkin (44) 0.1226 18.34 0.331 150.3 931.9 14.34 Norse
S/2019 S 19 0.1541 23.05 0.458 151.8 1318.0 16.51 Norse Kari
Kari (45) 0.1473 22.03 0.482 153 1231.0 14.49 Norse Kari
S/2004 S 21 0.1545 23.12 0.394 153.2 1325.4 16.21 Norse Kari
S/2004 S 36 0.1566 23.43 0.625 153.3 1352.9 16.11 Norse Kari
S/2004 S 45 0.1316 19.69 0.551 154 1038.7 15.97 Norse Kari
Geirrod (66) 0.1488 22.26 0.539 154.4 1251.1 15.89 Norse Kari
S/2019 S 18 0.1547 23.14 0.509 154.6 1327.1 16.56 Norse Kari
S/2019 S 17 0.1519 22.72 0.546 155.5 1291.4 15.86 Norse Kari
S/2006 S 1 0.1253 18.75 0.105 156.0 964.1 15.65 Norse Kari
S/2019 S 20 0.1583 23.68 0.354 156.1 1375.4 16.73 Norse Kari
S/2006 S 3 0.1427 21.35 0.432 156.1 1174.8 15.65 Norse Kari
S/2019 S 15 0.1416 21.19 0.257 157.7 1161.5 16.59 Norse Mundilfari
Farbauti (40) 0.1356 20.29 0.248 157.7 1087.3 15.75 Norse Mundilfari
S/2004 S 37 0.1066 15.94 0.447 158.2 754.5 15.92 Norse Mundilfari
S/2007 S 5 0.1059 15.84 0.104 158.4 746.9 16.23 Norse Mundilfari
Skoll (47) 0.1178 17.63 0.47 158.4 878.4 15.41 Norse Mundilfari
Bergelmir (38) 0.1288 19.27 0.144 158.7 1005.6 15.16 Norse Mundilfari
Thiazzi (63) 0.1576 23.58 0.511 158.8 1366.7 15.91 Norse Mundilfari
S/2019 S 5 0.1275 19.08 0.215 158.8 990.4 16.65 Norse Mundilfari
Beli (61) 0.1384 20.70 0.087 158.9 1121.8 16.09 Norse Mundilfari
S/2007 S 9 0.1348 20.17 0.36 159.3 1078.1 16.06 Norse Mundilfari
S/2019 S 9 0.1361 20.36 0.433 159.5 1093.1 16.27 Norse Mundilfari
S/2004 S 49 0.1497 22.40 0.453 159.7 1264.3 15.97 Norse Mundilfari
Gunnlod (62) 0.1413 21.14 0.251 160.4 1158.0 15.57 Norse Mundilfari
S/2004 S 47 0.1073 16.05 0.291 160.9 762.5 16.29 Norse Mundilfari
S/2006 S 15 0.1457 21.80 0.117 161.1 1214.0 16.22 Norse Mundilfari
S/2020 S 7 0.1163 17.40 0.5 161.5 861.7 16.79 Norse Mundilfari
S/2020 S 9 0.1700 25.43 0.531 161.4 1535.0 16.02 Norse Mundilfari
S/2006 S 10 0.1269 18.98 0.151 161.6 983.1 16.43 Norse Mundilfari
S/2020 S 8 0.1469 21.97 0.252 161.8 1228.1 16.41 Norse Mundilfari
S/2004 S 48 0.1480 22.14 0.374 161.9 1242.4 15.95 Norse Mundilfari
S/2019 S 16 0.1555 23.27 0.25 162 1341.2 16.68 Norse Mundilfari
S/2006 S 13 0.1334 19.95 0.313 162 1060.6 16.05 Norse Mundilfari
S/2004 S 53 0.1556 23.28 0.24 162.6 1342.4 16.16 Norse Mundilfari
Jarnsaxa (50) 0.1289 19.28 0.219 163 1006.9 15.62 Norse Mundilfari
Gridr (54) 0.1287 19.25 0.187 163.9 1004.8 15.77 Norse Mundilfari
S/2019 S 10 0.1384 20.71 0.249 163.9 1123.0 16.66 Norse Mundilfari
S/2004 S 50 0.1494 22.35 0.45 164 1260.4 16.4 Norse Mundilfari
S/2006 S 16 0.1452 21.72 0.204 164.1 1207.5 16.54 Norse Mundilfari
Hati (43) 0.1317 19.70 0.375 164.1 1040.3 15.45 Norse Mundilfari
Fenrir (41) 0.1493 22.33 0.136 164.3 1260.3 15.89 Norse Mundilfari
S/2004 S 12 0.1324 19.80 0.337 164.7 1048.6 15.91 Norse Mundilfari
S/2004 S 7 0.1426 21.33 0.511 164.9 1173.9 15.56 Norse Mundilfari
Eggther (59) 0.1326 19.84 0.157 165 1052.3 15.39 Norse Mundilfari
S/2004 S 52 0.1768 26.45 0.292 165.3 1634.0 16.5 Norse Mundilfari
S/2020 S 10 0.1692 25.31 0.295 165.6 1527.2 16.86 Norse Mundilfari
S/2004 S 41 0.1210 18.10 0.3 165.7 914.6 16.31 Norse Mundilfari
S/2004 S 42 0.1219 18.24 0.158 165.7 925.9 16.11 Norse Mundilfari
S/2004 S 39 0.1551 23.20 0.101 165.9 1336.2 16.14 Norse Mundilfari
S/2007 S 6 0.1239 18.54 0.169 166.5 949.5 16.36 Norse Mundilfari
S/2006 S 14 0.1408 21.06 0.06 166.7 1152.7 16.5 Norse Mundilfari
Aegir (36) 0.1381 20.66 0.255 166.9 1119.3 15.51 Norse Mundilfari
Loge (46) 0.1532 22.92 0.192 166.9 1311.8 15.36 Norse Mundilfari
S/2020 S 6 0.1422 21.27 0.481 166.9 1168.9 16.55 Norse Mundilfari
S/2019 S 3 0.1142 17.08 0.249 166.9 837.7 16.22 Norse Mundilfari
S/2019 S 12 0.1397 20.90 0.476 167.1 1138.8 16.33 Norse Mundilfari
S/2004 S 44 0.1305 19.52 0.129 167.7 1026.2 15.82 Norse Mundilfari
S/2004 S 17 0.1317 19.70 0.162 167.9 1040.9 15.95 Norse Mundilfari
S/2004 S 28 0.1462 21.87 0.159 167.9 1220.7 15.77 Norse Mundilfari
Sat LXIV 0.1614 24.15 0.279 168.3 1420.8 16.15 Norse Mundilfari
Surtur (48) 0.1521 22.75 0.449 168.3 1296.5 15.77 Norse Mundilfari
Mundilfari (25) 0.1243 18.59 0.21 168.4 952.9 14.57 Norse Mundilfari
S/2006 S 17 0.1496 22.38 0.425 168.7 1264.6 16.01 Norse Mundilfari
S/2004 S 13 0.1233 18.45 0.265 169 942.6 16.25 Norse Mundilfari
S/2007 S 7 0.1065 15.93 0.217 169.2 754.3 16.24 Norse Mundilfari
S/2004 S 40 0.1075 16.08 0.297 169.2 764.6 16.28 Norse Mundilfari
S/2005 S 5 0.1428 21.37 0.588 169.5 1177.8 16.36 Norse Mundilfari
S/2006 S 18 0.1421 22.76 0.131 169.5 1298.4 16.1 Norse Mundilfari
Fornjot (42) 0.1667 24.94 0.214 169.5 1494.0 15.12 Norse Mundilfari
S/2019 S 4 0.1201 17.96 0.409 170.1 904.3 16.46 Norse Mundilfari
S/2020 S 2 0.1195 17.87 0.152 170.7 897.6 16.89 Norse Mundilfari
S/2004 S 43 0.1266 18.94 0.432 171.1 980.1 16.34 Norse Mundilfari
S/2004 S 51 0.1685 25.21 0.201 171.2 1519.4 16.13 Norse Mundilfari
S/2019 S 21 0.1767 26.44 0.155 171.9 1636.3 16.18 Norse Mundilfari
S/2019 S 8 0.1356 20.28 0.311 172.8 1088.7 16.28 Norse Phoebe
Sat LVIII 0.1745 26.10 0.148 172.9 1603.9 15.7 Norse Phoebe
S/2006 S 9 0.0963 14.41 0.248 173 647.9 16.48 Norse Phoebe
Ymir (19) 0.1535 22.96 0.337 173.1 1315.2 12.41 Norse Phoebe
S/2006 S 20 0.0882 13.19 0.206 173.1 567.3 15.75 Norse Phoebe
S/2019 S 2 0.1107 16.56 0.279 173.3 799.8 16.49 Norse Phoebe
Greip (51) 0.1229 18.38 0.317 173.4 937.0 15.33 Norse Phoebe
S/2006 S 11 0.1318 19.71 0.144 174.1 1042.3 16.47 Norse Phoebe
S/2007 S 2 0.1066 15.94 0.232 174.1 754.9 15.59 Norse Phoebe
S/2019 S 7 0.1349 20.18 0.232 174.2 1080.3 16.29 Norse Phoebe
Gerd (57) 0.1400 20.95 0.517 174.4 1143.0 15.87 Norse Phoebe
Thrymr (30) 0.1359 20.33 0.467 174.8 1091.8 14.33 Norse Phoebe
Suttungr (23) 0.1296 19.39 0.116 175 1016.7 14.55 Norse Phoebe
Phoebe (9) 0.0864 12.93 0.164 175.2 550.3 6.73 Norse Phoebe
S/2006 S 19 0.1591 23.80 0.467 175.5 1389.3 16.07 Norse Phoebe
S/2007 S 3 0.1304 19.51 0.162 175.6 1026.4 15.74 Norse Phoebe
Skrymir (56) 0.1434 21.45 0.437 175.6 1185.1 15.62 Norse Phoebe
S/2004 S 46 0.1371 20.51 0.249 177.2 1107.6 16.4 Norse Phoebe
S/2019 S 13 0.1402 20.97 0.318 177.3 1144.9 16.68 Norse Phoebe
Angrboda (55) 0.1376 20.59 0.216 177.4 1114.1 16.17 Norse Phoebe
Alvaldi (65) 0.1471 22.00 0.238 177.4 1232.2 15.62 Norse Phoebe

Un nuovo capitolo per Saturno

Il sistema di Saturno si conferma sempre più complesso e affascinante. Grazie a questo studio, firmato da un team internazionale guidato da Edward Ashton, possiamo guardare con occhi nuovi al balletto orbitale delle lune più misteriose del nostro Sistema Solare. E chissà: forse dietro l’oscurità delle lune retrograde si nascondono ancora altre storie di violenza cosmica e formazione planetaria.

Lunistizio: quando la luna “si ferma”

L’immagine mostra la posizione della Luna in vari momenti della giornata, poco dopo l’alba all’1:46 e poco prima del tramonto alle 10:09 della Luna. La simulazione fa riferimento alle coordinate di osservazione di Napoli (40°50′49.20″ N 14°15′54.00″ E.)

Il 7 marzo abbiamo assistito a un interessante fenomeno astronomico, che ha coinvolto la Luna: il lunistizio maggiore settentrionale. Si tratta solo della prima parte di un fenomeno che si è concluso stamane, 22 marzo, con il lunistizio maggiore meridionale.

Per comprendere meglio di cosa si tratta, analizziamo anzitutto il termine: “lunistizio” deriva dalla combinazione di Luna con la locuzione latina “sistere”, che significa “fermarsi”, ovvero “Luna che si ferma”. Questa parola, poco diffusa, ci richiama alla mente un concetto più familiare: il solstizio (da Sole e sistere, “Sole che si ferma”). Naturalmente, ciò non implica che Luna e Sole fermino il loro moto apparente sulla volta celeste: piuttosto, la loro declinazione raggiunge un valore massimo o minimo, “si ferma” e poi inizia a variare nella direzione opposta.

Ed è proprio dal concetto di solstizio partiremo per rendere più agevole la comprensione del lunistizio.

Durante l’anno, ossia nel tempo che la Terra impiega per compiere una rivoluzione completa intorno al Sole, hanno luogo due solstizi: il solstizio estivo il 21 giugno e quello invernale il 21 dicembre.

A differenza delle altre stelle, che possiamo considerare fisse, il Sole non ha una declinazione fissa. A causa dell’inclinazione dell’asse terrestre di circa 23,5° rispetto alla perpendicolare al piano dell’eclittica, la declinazione del Sole nel corso dell’anno oscilla tra -23,5° e +23,5°. Il minimo e il massimo vengono raggiunti in corrispondenza del solstizio invernale e di quello estivo, rispettivamente.

Il grafico evidenza la posizione in cui sorgono Sole e Luna in corrispondenza dei solstizi, degli equinozi e dei lunistizi maggiori.

Consideriamo un altro aspetto importante. Spesso si afferma che il Sole (come la Luna) sorge a Est e tramonta a Ovest, ma si tratta di una imprecisione: in realtà, dovremmo parlare di orizzonte est e orizzonte ovest. Il Sole sorge a est e tramonta a ovest soltanto durante gli equinozi. Nel resto dell’anno, il punto di levata si sposta progressivamente verso nord o verso sud.

Un fenomeno analogo riguarda la Luna, il cui moto è tuttavia molto più complesso di quello del Sole: non solo ruota intorno alla Terra ma contemporaneamente si muove attorno al Sole. Ricordiamo che la Luna completa un’orbita intera intorno alla Terra in un mese siderale, pari a 27,32166 giorni. Durante questo periodo, il punto in cui la Luna sorge (e tramonta) varia continuamente: quando sorge nel suo punto più settentrionale in assoluto, descrive sulla volta celeste un arco più ampio e raggiunge la sua declinazione massima assoluta. Allo stesso modo, quando due settimane dopo sorge nel suo punto più meridionale in assoluto, la declinazione nel punto di culmine sarà la minima assoluta.

Mentre i due solstizi avvengono nell’arco di un anno, per la Luna i due lunistizi avvengono ogni 27 giorni. Il punto di levata della Luna nel corso tempo si sposta sempre di più verso nord e verso sud, alternandosi, e la declinazione aumenta (in valore assoluto). In questo intervallo di tempo, i due momenti in cui la Luna sorge più a nord e più a sud rispetto agli altri giorni definiscono rispettivamente il lunistizio settentrionale e quello meridionale. Quindi, nel corso di ciascun periodo orbitale della Luna (mese siderale) hanno luogo due lunistizi, a distanza di circa 14 giorni, così come durante ciascun periodo orbitale della Terra (anno) si verificano i due solstizi.

Il piano orbitale della Luna è inclinato di 5,14° rispetto al piano dell’eclittica. Ciò implica che gli estremi dell’intervallo di declinazione massima della Luna siano di +28,64° (+23,5°+5,14°) e -28,64° (–23,5°-5,14°). Questi valori, i punti estremi assoluti che possono essere raggiunti, definiscono i lunistizi maggiori.

Considerando la complessità dei moti lunari, i due lunistizi maggiori si verificano solo ogni 18,6 anni. A metà “strada”, tuttavia, si assiste ai lunistizi minori, durante i quali la declinazione della Luna è compresa tra -18,36° (-23,5°+5,14°) e +18,36° (+23,5°-5,14).

Il grafico mostra l’andamento della declinazione della Luna durante nel corso del mese di marzo. È evidente il picco massimo di circa +28° il 7 marzo, in occasione del lunistizio maggiore settentrionale, e l’equivalente picco minimo di circa -28° con il lunistizio maggiore meridionale.
NOTA: per definizione la declinazione non dipende dal luogo di osservazione (coordinate equatoriali), a differenza dell’altezza (coordinate alt-azimutali).

Cosa è accaduto all’alba del 22 marzo?

Dopo il Lunistizio maggiore settentrionale del 7 marzo, abbiamo assistito a quello meridionale: la Luna è sorta nel punto più meridionale degli ultimi 18,6 anni raggiungendo la declinazione di -28,64° e tramontando percorrendo un arco molto basso. La Luna ha raggiunto al culmine la declinazione più bassa degli ultimi 18,6 anni, ovvero dallo stesso luogo di osservazione non è mai vista così bassa negli ultimi due decenni, e dovremo attendere altrettanto perché l’evento si ripeta!

L’immagine mostra la posizione della Luna in vari momenti della giornata, poco dopo l’alba all’1:46 e poco prima del tramonto alle 10:09 della Luna. La simulazione fa riferimento alle coordinate di osservazione di Napoli (40°50′49.20″ N 14°15′54.00″ E.)

La Luna, con i suoi 22,09 giorni trascorsi dal novilunio, era illuminata per il 53,9% (gibbosa calante).

Dove Alba della Luna Tramonto della Luna Altezza sull’orizzonte 
Sicilia 01:25 10:35 23°
Campania 01:45 10:15 19°
Emilia Romagna 02:15 10:10 16°
Alto Adige 02:25 10:00 14°

Tianwen-2 missione cinese di atterraggio sull’asteroide 2016 HO3

la Cina si prepara a lanciare la missione Tianwen-2 nel 2025, con l’obiettivo di esplorare 2016 HO3 (469219 Kamo’oalewa), un asteroide di piccole dimensioni ma di grande interesse scientifico.

Perché 2016 HO3?

2016 HO3 è il quasi-satellite più vicino e stabile della Terra, il che lo rende un obiettivo perfetto per le missioni di esplorazione. La missione Tianwen-2 prevede un’operazione complessa di esplorazione ravvicinata, atterraggio e prelievo di campioni, con l’obiettivo di riportare sulla Terra materiale che potrebbe fornire informazioni cruciali sulla formazione degli asteroidi e sulla loro composizione. Inoltre, la missione studierà anche la cometa della fascia principale 311P, realizzando una doppia esplorazione con un solo lancio.

Uno dei principali ostacoli nell’esplorazione di 2016 HO3 è la sua scarsa luminosità, che rende difficile determinarne la composizione e la struttura. Per affrontare questa sfida, gli scienziati hanno sviluppato tecniche avanzate di analisi spettroscopica e intelligenza artificiale per ottenere dati più precisi.

Orbita dell’asteroide 2016 HO3 intorno alla Terra. L’asteroide viene considerato quasi un mini satellite. Credit: NASA

L’Intelligenza Artificiale nella Classificazione degli Asteroidi

Un team di ricercatori ha sviluppato una piattaforma innovativa basata su reti neurali profonde con meccanismo di attenzione Transformer, capace di analizzare in modo avanzato la composizione degli asteroidi. La piattaforma comprende tre modelli principali:

  • ASC-Net, per la classificazione spettrale degli asteroidi, con un’accuratezza del 94,58% per quattro classi e del 95,69% per undici classi.
  • AAE-Net, per la stima dell’albedo (la quantità di luce riflessa dalla superficie), con un errore medio assoluto di 0,0308 per gli asteroidi di tipo S.
  • AE-Trans, una rete specializzata nell’analisi della composizione chimica, che ha ottenuto un errore medio di 0,1759 nella stima dell’abbondanza degli elementi.

Questi algoritmi avanzati permettono di superare i limiti dei metodi tradizionali, fornendo una classificazione e un’analisi più dettagliata anche per asteroidi mai studiati in precedenza.

Test su Asteroidi Noti

Per verificare l’affidabilità della piattaforma, i ricercatori l’hanno testata su sei asteroidi già noti:

  • Ceres (1) e Bennu (101955), entrambi classificati correttamente come asteroidi di tipo C.
  • Itokawa (25143) e Eros (433), riconosciuti come asteroidi di tipo S con un’accuratezza superiore all’84%.
  • Kalliope (22) e Angelina (64), identificati come asteroidi di tipo X.

I risultati hanno confermato l’affidabilità del sistema, dimostrando la sua capacità di effettuare analisi accurate anche su dati mai visti prima.

Implicazioni per il Futuro

Se la missione Tianwen-2 avrà successo, non solo ci fornirà nuove informazioni su 2016 HO3, ma potrà anche aprire la strada a future missioni di estrazione mineraria dagli asteroidi, offrendo opportunità concrete per lo sfruttamento delle risorse spaziali e lo sviluppo di nuove tecnologie per l’esplorazione interplanetaria.

Per approfondire lo studio originale: IOP Science.

Nuovi confini per i pianeti ultra-short period: uno studio riconsidera la soglia di 1 giorno

Un nuovo studio ad opera degli autori Armaan V. Goyal e Songhu Wang dell’Università di Yale, pubblicato su The Astronomical Journal e in collaborazione con le missioni spaziali Kepler, K2 e TESS, suggerisce una nuova catalogazione per i pianeti con periodi ultra corti.

Introduzione: un nuovo sguardo ai pianeti con periodo ultra-corto

Gli Ultra-Short-Period Planets (USPs), o pianeti ultra-corti periodo, sono mondi estremamente vicini alla loro stella madre, completando un’intera orbita in meno di 24 ore. Tradizionalmente, gli astronomi hanno utilizzato questo valore come confine per distinguere gli USPs dagli altri pianeti con periodi più lunghi. Tuttavia, una nuova ricerca di Armaan V. Goyal e Songhu Wang, pubblicata su The Astronomical Journal, suggerisce che questa soglia potrebbe essere arbitraria e propone una classificazione più basata sui dati.

Architetture orbitali dei 49 sistemi di pianeti ultra-corti periodo (USP) considerati in questo studio.
Le dimensioni dei marcatori nella figura corrispondono al raggio dei pianeti. I marcatori pieni rappresentano oggetti confermati all’interno del NASA Exoplanet Archive (NEA) (R. L. Akeson et al. 2013), mentre i marcatori vuoti si riferiscono a candidati individuati dalle missioni Kepler (J. J. Lissauer et al. 2024), TESS (dal catalogo aggiornato TESS Input Catalog di K. G. Stassun et al. 2019) o dal database dei candidati del programma K2 (R. L. Akeson et al. 2013).
Dall’analisi emerge che gli USPs (in rosso) sono quasi esclusivamente più piccoli di 2 raggi terrestri (2R⊕) e tendono a mostrare ampie separazioni orbitali rispetto ai loro pianeti compagni non-USP (in nero).

Lo studio: analisi di centinaia di sistemi planetari

I ricercatori hanno analizzato 376 sistemi planetari scoperti grazie alle missioni spaziali della NASA Kepler, K2 e TESS, che hanno identificato migliaia di esopianeti (pianeti al di fuori del nostro Sistema Solare). L’obiettivo era verificare se esistano limiti naturali nei periodi orbitali degli USPs, piuttosto che basarsi su un valore scelto in modo arbitrario.

Dai dati emerge che gli USPs tendono ad essere più piccoli rispetto ai pianeti con periodi leggermente più lunghi. Inoltre, sono spesso isolati, nel senso che non hanno compagni planetari molto vicini. La loro separazione architettonica all’interno dei sistemi suggerisce una possibile origine ed evoluzione diversa rispetto agli altri pianeti a corto periodo.

Le nuove soglie proposte: non solo 1 giorno, ma anche 2

L’analisi statistica di Goyal e Wang ha evidenziato due confini naturali:

  • 1 giorno: questo valore corrisponde a un cambiamento significativo nelle dimensioni dei pianeti. Quelli con periodi inferiori a 24 ore sono più piccoli, probabilmente a causa della perdita di materiale dovuta alla forte radiazione stellare.
  • 2 giorni: oltre questa soglia, i pianeti non mostrano più la tendenza all’isolamento. Ciò significa che i pianeti con periodi compresi tra 1 e 2 giorni potrebbero rappresentare una classe intermedia, definita dagli autori come “proto-USPs”.

Questa scoperta suggerisce che i pianeti con orbite di 1-2 giorni potrebbero essere una fase di transizione tra i pianeti più vicini e quelli leggermente più distanti, con possibili implicazioni sulla loro formazione ed evoluzione.

Perché gli USPs sono così piccoli e isolati?

Gli autori propongono diversi scenari per spiegare la natura degli USPs:

  1. Perdita di massa per evaporazione: la vicinanza estrema alla stella provoca temperature elevatissime, sufficienti a far evaporare gli strati più esterni del pianeta, riducendone le dimensioni nel tempo.
  2. Migrazione orbitale: alcuni USPs potrebbero essersi formati più lontano dalla stella e successivamente essere migrati verso l’interno a causa di interazioni gravitazionali con altri pianeti.
  3. Tidal decay (decadimento mareale): le forze gravitazionali della stella potrebbero aver influenzato lentamente l’orbita di questi pianeti, portandoli sempre più vicini.

Implicazioni e futuro della ricerca

Questi risultati offrono una nuova prospettiva sulla classificazione degli esopianeti e suggeriscono che l’attuale confine di 1 giorno potrebbe non essere sufficiente a descrivere la diversità dei pianeti ultra-corti periodo. La scoperta di un possibile confine a 2 giorni invita a riconsiderare i modelli di formazione ed evoluzione di questi mondi estremi.

Le future missioni spaziali, come il telescopio spaziale James Webb (JWST), potranno fornire ulteriori dettagli sulla composizione e l’atmosfera degli USPs, confermando o modificando le teorie attuali.

In conclusione, questo studio di Goyal e Wang non solo ridefinisce il modo in cui classifichiamo gli USPs, ma apre nuove strade per comprendere come i pianeti si evolvono in ambienti estremi. Una scoperta che ci avvicina sempre di più alla comprensione della straordinaria varietà di mondi che popolano la nostra galassia.

JADES-GS-z14-0: Una Finestra sul Primo Universo da ALMA

Questa immagine mostra la posizione esatta nel cielo notturno della galassia **JADES-GS-z14-0**, un minuscolo punto luminoso nella costellazione della Fornace. Ad oggi, è la galassia confermata più distante che conosciamo. La sua luce ha viaggiato per **13,4 miliardi di anni** prima di raggiungerci, offrendoci uno sguardo sulle condizioni dell’Universo quando aveva appena **300 milioni di anni**. Nel riquadro dell’immagine è visibile un primo piano di questa galassia primordiale, catturato con l’**Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA)**. L’ingrandimento è sovrapposto a un'immagine ottenuta con il **Telescopio Spaziale James Webb** (NASA/ESA/CSA). Quando due gruppi di ricerca hanno studiato questa galassia con **ALMA**, gestito dall'**ESO** e dai suoi partner internazionali, hanno fatto una scoperta inaspettata: il **suo spettro mostrava la presenza di ossigeno**. Si tratta della rilevazione di ossigeno più distante mai effettuata, un risultato che sfida le nostre conoscenze sulla formazione delle galassie nell’Universo primordiale. La presenza di elementi pesanti come l'ossigeno suggerisce che queste galassie primordiali si siano **evolute molto più rapidamente di quanto pensassimo**. È come **trovare un adolescente dove ci si aspetterebbe solo neonati**. **Crediti:** ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).

L’Universo primordiale continua a stupirci. Gli astronomi hanno recentemente ottenuto nuove osservazioni della galassia JADES-GS-z14-0, un oggetto celeste che risale a soli 300 milioni di anni dopo il Big Bang. Questa galassia, la più lontana mai confermata fino ad oggi, offre uno sguardo prezioso sulle prime fasi della formazione delle strutture cosmiche.

Grazie alle osservazioni del telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), gli scienziati hanno potuto identificare con estrema precisione la distanza di GS-z14, ottenendo un redshift di z = 14.1793 ± 0.0007. Ciò rappresenta un miglioramento di ben 180 volte rispetto alle precedenti stime effettuate con il telescopio spaziale James Webb (JWST).

Una delle scoperte più sorprendenti riguarda la presenza di ossigeno ionizzato nella galassia. Questa rilevazione non solo conferma la sua esistenza, ma dimostra che anche nelle prime fasi dell’Universo si erano già formati elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, indicando una rapida evoluzione chimica.

Una Misurazione Straordinariamente Precisa

L’ossigeno rilevato in JADES-GS-z14-0 non è solo un’indicazione della sua composizione chimica, ma ha anche permesso agli astronomi di calcolare con un’incredibile precisione la sua distanza.

“La rilevazione con ALMA ha permesso di misurare la distanza di questa galassia con un margine di errore dello 0,005 percento. È una precisione straordinaria, paragonabile all’accuratezza di una misura al centimetro su una distanza di un chilometro”, spiega Eleonora Parlanti, dottoranda presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e autrice dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics.

Questa precisione aiuta gli scienziati a comprendere meglio le proprietà delle galassie lontane e a migliorare le nostre teorie sulla loro evoluzione.


Un Profilo Unico tra le Galassie Primordiali

JADES-GS-z14-0 si distingue per una serie di caratteristiche insolite rispetto ad altre galassie dell’epoca primordiale:

  • È sorprendentemente luminosa: la sua magnitudine ultravioletta è MUV = −20.81 ± 0.16, rendendola la seconda galassia più brillante oltre z > 8, superata solo da GN-z11.
  • Ha una struttura estesa e diffusa: a differenza di molte altre galassie giovani che appaiono compatte, GS-z14 è distribuita su un’area più ampia. Questo indica che la sua luce proviene da una popolazione stellare diffusa e non da un buco nero attivo.
  • È più ricca di elementi pesanti del previsto: nonostante la giovane età dell’Universo in cui si trova, ha già una certa quantità di ossigeno e carbonio, suggerendo una formazione stellare molto rapida.
  • Non mostra segni di polvere cosmica: le osservazioni ALMA non hanno rilevato alcuna emissione significativa di polvere, sollevando domande su come e quando questa componente sia comparsa nelle galassie primordiali.

La Scoperta dell’Ossigeno e la Conferma della Galassia

La chiave della conferma di JADES-GS-z14-0 è stata la rilevazione della riga di emissione dell’ossigeno ionizzato [OIII] a 88 micron con ALMA. Questa linea è stata rilevata con una certezza del 6.6σ, il che significa che la scoperta è altamente affidabile.

Questa nuova misurazione ha anche confermato una precedente rilevazione fatta dal telescopio JWST. JWST aveva individuato un possibile segnale di emissione del doppietto CIII]1907,1909 (ioni di carbonio), ma con una certezza minore di 3.6σ. Il fatto che il redshift misurato con ALMA coincida con quello stimato tramite il carbonio rafforza enormemente l’affidabilità della scoperta.

L’ossigeno ionizzato è particolarmente importante perché indica la presenza di regioni HII, nuvole di gas ionizzato attorno a stelle giovani e calde. Questo suggerisce che GS-z14 stia attraversando un’intensa fase di formazione stellare.

L’immagine mostra nel riquadro JADES-GS-z14-0, la galassia più distante conosciuta fino ad oggi, osservata con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). I due spettri riportati derivano da analisi indipendenti dei dati di ALMA condotte da due gruppi di astronomi. Entrambi hanno identificato una linea di emissione dell’ossigeno, rendendola la rilevazione più lontana di questo elemento, risalente a un’epoca in cui l’Universo aveva solo 300 milioni di anni.
Crediti:
ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).

Cosa Significa la Mancanza di Polvere?

Uno degli aspetti più sorprendenti di JADES-GS-z14-0 è l’assenza di polvere cosmica. Le osservazioni ALMA hanno stabilito un limite superiore alla quantità di polvere, suggerendo che questa rappresenti meno dello 0.2% della massa totale delle stelle della galassia.

Ci sono diverse possibili spiegazioni per questa scoperta:

La polvere potrebbe non essersi ancora formata in grandi quantità.
In molte galassie giovani, la polvere viene prodotta principalmente dalle supernovae e dalle stelle morenti, ma GS-z14 potrebbe essere ancora troppo giovane perché questo processo abbia avuto un impatto significativo.

La polvere potrebbe essere stata espulsa da venti stellari intensi.
Se la galassia sta formando stelle a un ritmo molto alto, potrebbe generare venti così forti da spazzare via la polvere, lasciandola più “trasparente” rispetto ad altre galassie simili.

Forse la polvere è distribuita in modo molto ampio e non concentrata nella regione osservata.
Se la polvere fosse sparsa su una grande area, potrebbe risultare più difficile da individuare con ALMA.

Questa mancanza di polvere suggerisce che, all’epoca di JADES-GS-z14-0, i processi di formazione della polvere nell’Universo fossero ancora in fase iniziale.


Le Implicazioni della Scoperta

La scoperta di JADES-GS-z14-0 ha importanti implicazioni per l’astronomia e la cosmologia:

1. Le prime galassie si sono formate più rapidamente del previsto?

L’elevata quantità di ossigeno suggerisce che JADES-GS-z14-0 abbia attraversato un periodo di formazione stellare estremamente rapido. Questo contrasta con alcune teorie che prevedevano una crescita più lenta delle prime galassie.

2. L’assenza di polvere cambia il nostro modello dell’Universo primordiale?

Molte osservazioni a redshift inferiori hanno mostrato abbondanza di polvere nelle galassie antiche. JADES-GS-z14-0 suggerisce che la polvere non fosse ancora diffusa nell’Universo così presto nella sua storia.

3. ALMA e JWST sono strumenti complementari per esplorare l’Universo primordiale.

La combinazione di dati di ALMA e JWST si è rivelata fondamentale per confermare questa galassia e studiarne le caratteristiche. Questo dimostra che, per esplorare l’Universo primordiale, non basta un solo telescopio, ma è necessario combinare osservazioni in diverse lunghezze d’onda.

Questa immagine mostra la posizione esatta nel cielo notturno della galassia **JADES-GS-z14-0**, un minuscolo punto luminoso nella costellazione della Fornace. Ad oggi, è la galassia confermata più distante che conosciamo. La sua luce ha viaggiato per **13,4 miliardi di anni** prima di raggiungerci, offrendoci uno sguardo sulle condizioni dell’Universo quando aveva appena **300 milioni di anni**.
Nel riquadro dell’immagine è visibile un primo piano di questa galassia primordiale, catturato con l’**Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA)**. L’ingrandimento è sovrapposto a un’immagine ottenuta con il **Telescopio Spaziale James Webb** (NASA/ESA/CSA).
Quando due gruppi di ricerca hanno studiato questa galassia con **ALMA**, gestito dall’**ESO** e dai suoi partner internazionali, hanno fatto una scoperta inaspettata: il **suo spettro mostrava la presenza di ossigeno**. Si tratta della rilevazione di ossigeno più distante mai effettuata, un risultato che sfida le nostre conoscenze sulla formazione delle galassie nell’Universo primordiale. La presenza di elementi pesanti come l’ossigeno suggerisce che queste galassie primordiali si siano **evolute molto più rapidamente di quanto pensassimo**. È come **trovare un adolescente dove ci si aspetterebbe solo neonati**.
**Crediti:**
ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).

JADES-GS-z14-0 è una delle scoperte più straordinarie degli ultimi anni. Questa galassia sfida le nostre teorie sulla formazione dell’Universo primordiale, mostrando una sorprendente abbondanza di ossigeno e l’assenza di polvere.

Grazie alla precisione senza precedenti delle osservazioni ALMA, gli scienziati hanno confermato che GS-z14 è la galassia più lontana mai osservata con un margine di errore incredibilmente ridotto. Questa scoperta segna un passo fondamentale nello studio delle prime fasi dell’evoluzione cosmica, offrendo una finestra unica sul passato più remoto dell’Universo.

Fonti: Articolo Carniani et al. ; Articolo Schouws et al. ; ESO

Il telescopio Euclid dell’ESA svela nuovi dettagli sul web cosmico e la materia oscura

Questa immagine mostra un ingrandimento del campo profondo nord di Euclid, con la Nebulosa Occhio di Gatto al centro, a circa 3.000 anni luce di distanza. Conosciuta anche come NGC 6543, questa nebulosa rappresenta un "fossile visivo" delle dinamiche e dell'evoluzione finale di una stella morente. La stella in fase di morte sta infatti espellendo i suoi strati esterni colorati. Descrizione immagine: La Nebulosa Occhio di Gatto occupa la posizione centrale in un mare scintillante di stelle e galassie. Al centro della nebulosa si trova un punto, il nucleo della stella morente. Attorno ad essa si estendono strati e anelli complessi e colorati di gas e polvere che sono stati espulsi dalla stella nel corso del tempo. Più lontano, si vedono fili e macchie di gas e polvere di varie forme e dimensioni, che danno l'impressione di frammenti di un palloncino esploso, congelati intorno al punto di esplosione. Sullo sfondo, milioni di galassie popolano l'immagine. Numerose stelle brillanti con picchi di diffrazione distintivi sono chiaramente visibili. CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell'immagine a cura di J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi.

Il 19 marzo 2025, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha rilasciato il primo lotto di dati provenienti dalla missione Euclid, una delle missioni spaziali più ambiziose dedicate allo studio dell’Universo. In particolare, i dati includono una panoramica dei “deep fields” (campi profondi), aree del cielo osservate in dettaglio che rivelano centinaia di migliaia di galassie in varie forme e dimensioni. Questi dati offrono uno spunto sulle forze invisibili che plasmano l’Universo.

Euclid sta mappando una vasta area del cielo, e il rilascio iniziale copre 63,1 gradi quadrati, equivalenti a oltre 300 volte l’area della Luna piena. Con una sola settimana di osservazioni, il telescopio ha già individuato 26 milioni di galassie, molte delle quali si trovano fino a 10,5 miliardi di anni luce di distanza. I campi profondi includono anche quasar luminosi, che si trovano ancora più lontano, e galassie in formazione. A lungo termine, Euclid osservando queste regioni centinaia di volte, produrrà un atlante cosmico che coprirà un terzo dell’intero cielo.

Valeria Pettorino, scienziata del progetto Euclid per l’ESA, ha commentato: “È impressionante come una sola osservazione delle aree profonde abbia già fornito una grande quantità di dati utilizzabili in astronomia, dalle forme delle galassie, ai cluster, alla formazione stellare e altro ancora.

Euclid è equipaggiato con due strumenti principali: l’Imaging ad Alta Risoluzione Visibile (VIS) e lo Spettrometro e Fotometro Infrarosso a Vicino (NISP). Questi strumenti permettono di studiare la distribuzione, la forma e le distanze delle galassie con un dettaglio senza precedenti. L’obiettivo finale di Euclid è mappare la struttura su larga scala dell’Universo, compreso il misterioso web cosmico, costituito da filamenti di materia ordinaria e oscura che attraversano lo spazio.

L’importanza di Euclid si estende anche al ruolo che l’intelligenza artificiale (AI) e la scienza dei cittadini stanno giocando nell’analisi dei dati. Grazie all’uso di algoritmi avanzati di AI e a un impegno globale di migliaia di volontari, Euclid è riuscito a classificare oltre 380.000 galassie, analizzando le loro caratteristiche come braccia a spirale e barre centrali. Mike Walmsley, scienziato del Consorzio Euclid presso l’Università di Toronto, ha dichiarato: “Stiamo vivendo un momento decisivo per affrontare i grandi sondaggi in astronomia. L’AI è fondamentale per sfruttare pienamente i vasti dati di Euclid.

Questa immagine mostra esempi di galassie di diverse forme, tutte catturate da Euclid durante le sue prime osservazioni delle aree dei Deep Field.
Come parte del rilascio dei dati, è stato pubblicato un catalogo dettagliato di oltre 380.000 galassie, classificate in base a caratteristiche come le braccia a spirale, le barre centrali e le code di marea, che indicano galassie in fase di fusione.
Descrizione immagine: Un collage di 9 righe per 5 colonne contenente galassie di forme molto diverse, viste da diverse angolazioni. Ad esempio, la prima colonna mostra cinque galassie viste di lato, che appaiono sottili come una matita. Le galassie della seconda colonna hanno un aspetto più sfocato e diffuso. Le colonne centrali presentano galassie a spirale viste frontalmente, con molteplici forme e densità di stelle. Le ultime due colonne includono galassie interagenti o galassie con braccia a spirale o code di marea insolite.
CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell’immagine a cura di M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre.

Euclid ha anche iniziato a raccogliere dati su un fenomeno noto come lente gravitazionale, che si verifica quando la luce proveniente da galassie distanti viene distorta dalla materia oscura e ordinaria. Questa distorsione può creare effetti spettacolari come gli anelli di Einstein. Con l’ausilio di modelli AI e scienza dei cittadini, Euclid ha già identificato 500 candidati di lente gravitazionale forte, quasi tutti precedentemente sconosciuti.

Questa immagine mostra esempi di lenti gravitazionali catturate da Euclid durante le sue prime osservazioni delle aree dei Deep Field.
Grazie a un primo monitoraggio tramite modelli di intelligenza artificiale, seguito da un’analisi tramite scienza dei cittadini, convalidata da esperti e modellata, è stato creato un primo catalogo contenente 500 candidati di lenti gravitazionali forti tra galassie, quasi tutti precedentemente sconosciuti. Questo tipo di lente gravitazionale si verifica quando una galassia in primo piano e il suo alone di materia oscura agiscono come una lente, distorcendo l’immagine di una galassia sullo sfondo lungo la linea di vista verso Euclid.
Con l’ausilio di questi modelli, Euclid prevede di catturare circa 7.000 candidati nel grande rilascio dei dati cosmologici previsto per la fine del 2026, e circa 100.000 lenti gravitazionali forti tra galassie entro la fine della missione, circa 100 volte in più rispetto a quanto conosciuto attualmente.
Descrizione immagine: Un collage di 14 righe per 8 colonne contenente esempi di lenti gravitazionali. Ogni esempio mostra un centro brillante con sbavature di stelle disposte in un arco o in più archi intorno ad esso, a causa della luce che viaggia verso Euclid da galassie distanti, piegata e distorta dalla materia ordinaria e oscura in primo piano. In alcuni casi rari, la distorsione forma un anello completo, creando un cosiddetto “Anello di Einstein”.
CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell’immagine a cura di M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre.

 

NB: In Coelum Astronomia 273 l’articolo completo dedicato alla ricerca di lenti gravitazione grazie all’uso di Euclid, dell’intelligenza artificiale e della science citizen. Articolo a cura di Crescenzo Tortora.

 

Clotilde Laigle, scienziata del Consorzio Euclid e esperta di elaborazione dati presso l’Istituto di Astrofisica di Parigi, ha aggiunto: “Il pieno potenziale di Euclid per imparare di più sulla materia oscura e sull’energia oscura sarà raggiunto solo al termine dell’intero sondaggio. Tuttavia, la quantità di dati rilasciati finora ci offre una visione unica sull’organizzazione delle galassie su larga scala.

Euclid è il risultato di una collaborazione internazionale, con il coinvolgimento di oltre 2000 scienziati provenienti da 300 istituti in 15 paesi europei, oltre a Stati Uniti, Canada e Giappone. Il consorzio Euclid ha progettato e gestito gli strumenti scientifici, mentre NASA ha contribuito con i rilevatori del NISP.

Fonte: ESA

Firefly Blue Ghost: primo lander lunare privato a completare la missione

Il lander Blue Ghost di Firefly ha catturato un'immagine al tramonto, con la Terra visibile all'orizzonte. Crediti: Firefly Aerospace.

Grande successo per l’azienda americana Firefly Aerospace che con il suo lander Blue Ghost diventa la prima realtà completamente privata a completare una missione sulla Luna.

Il Lancio

Il 15 gennaio 2025, la missione ha avuto inizio con il decollo del razzo Falcon 9 di SpaceX dal Kennedy Space Center. Dopo la separazione dal veicolo di lancio, il lander Blue Ghost ha stabilito il contatto con il centro di controllo missione di Firefly Aerospace a Cedar Park, Texas. Nei giorni successivi, ha eseguito le manovre orbitali necessarie per uscire dall’orbita terrestre e iniziare il suo viaggio verso la Luna.

Blue Ghost posizionato nello SpaceX Falcon 9. Credit: SpaceX

Gli Obiettivi della Missione

Blue Ghost Mission 1, finanziata principalmente dalla NASA nell’ambito del programma Commercial Lunar Payload Services (CLPS), aveva il compito di trasportare e operare dieci payload scientifici sulla superficie lunare. Tra gli esperimenti principali vi erano il Lunar GNSS Receiver Experiment (LuGRE), sviluppato in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana, il Lunar Instrumentation for Subsurface Thermal Exploration (LISTER) della Texas Tech University e il Lunar Magnetotelluric Sounder (LMS) dello Southwest Research Institute. Inoltre, Blue Ghost ha testato la tecnologia Lunar PlanetVac di Honeybee Robotics per la raccolta e analisi del suolo lunare.

Firefly’s Blue Ghost cattura la Terra (Palla Blu) approsimativamente a 6,700 km di distanza il 23 gennaio 2025. Credit: Firefly Aerospace

L’Attività sulla Luna

Dopo un viaggio di circa sei settimane, Blue Ghost ha eseguito un atterraggio morbido nella regione del Mare Crisium il 2 marzo 2025. Durante le prime ore sulla superficie lunare, il lander ha attivato i suoi strumenti scientifici e ha trasmesso le prime immagini del sito di atterraggio. Tra i risultati più significativi, la missione ha catturato immagini spettacolari della Terra all’orizzonte, ha assistito a un’eclissi solare dalla superficie lunare e ha registrato la variazione di temperatura durante il fenomeno, con valori che oscillavano tra 40°C e -170°C.

Le operazioni scientifiche si sono protratte per oltre due settimane, durante le quali il lander ha completato tutte le sue attività previste, compreso lo studio dell’interazione delle polveri lunari con i gas di scarico dei motori tramite il sistema SCALPSS della NASA. Inoltre, ha contribuito a migliorare la comprensione della geologia lunare con il deployment degli elettrodi del Lunar Magnetotelluric Sounder.

Blue Ghost ha anche avuto l’opportunità di osservare un’eclissi solare totale dalla Luna, mentre dalla Terra lo stesso evento è stato visto come un’eclissi lunare. Questo ha rappresentato un momento storico per la missione, dato che nessuna compagnia commerciale aveva mai condotto un’osservazione di questo tipo direttamente dalla superficie lunare.

Firefly Aerospace si è distinta come la prima azienda privata a realizzare con successo un atterraggio morbido sulla Luna senza incidenti, un traguardo che non era stato raggiunto da altre compagnie nei tentativi precedenti. Finora, solo cinque nazioni – Stati Uniti, Russia, Cina, India e Giappone – avevano ottenuto un simile successo.

Il Tramonto della Missione

Man mano che il Sole scendeva all’orizzonte lunare, Blue Ghost ha iniziato a prepararsi alla fase conclusiva della missione. Il 16 marzo 2025, poco dopo l’inizio della notte lunare, il lander ha trasmesso il suo ultimo segnale, stabilendo un nuovo record per la durata operativa di una missione commerciale sulla Luna con 346 ore di attività continua in condizioni di luce diurna e oltre cinque ore di operazioni nel buio lunare. Il CEO di Firefly Aerospace, Jason Kim, ha annunciato il completamento della missione con un messaggio emozionante, sottolineando come “il Ghost vivrà nei nostri cuori e nelle nostre menti per il viaggio straordinario che ci ha fatto compiere”.

Le ultime immagini del tramonto lunare catturate dal lander saranno pubblicate da Firefly Aerospace nei giorni successivi alla fine della missione. Nel frattempo, l’azienda ha già iniziato a lavorare al suo prossimo lander lunare, con l’obiettivo di eseguire almeno un atterraggio sulla Luna all’anno.

Con la conclusione della missione, Firefly Aerospace ha consolidato il proprio ruolo nell’esplorazione spaziale commerciale, dimostrando la fattibilità di missioni lunari con lander autonomi in supporto a futuri programmi di esplorazione, come Artemis. Questo storico traguardo apre la strada a nuove opportunità per la ricerca scientifica e lo sviluppo di tecnologie per l’esplorazione del nostro satellite naturale e, in prospettiva, di Marte.

Il lander lunare Blue Ghost di Firefly ha catturato un’immagine della sua ombra sulla superficie della Luna, con la formazione vulcanica Mons Latreille visibile nella parte superiore destra.
Crediti: Firefly Aerospace

Fonte: Firefly Site

Un nuovo metodo di analisi dei dati rivela l’esopianeta AF Lep b con oltre un decennio di anticipo

Nel vasto universo della ricerca astronomica, il rilevamento degli esopianeti continua a essere una sfida affascinante e complessa. Un recente studio, pubblicato su The Astronomical Journal da Markus J. Bonse e un team di ricercatori internazionali, ha introdotto un’innovativa tecnica di analisi dei dati chiamata 4S (Signal-Safe Speckle Subtraction). Questo metodo ha permesso di individuare l’esopianeta gigante AF Lep b nei dati di imaging ad alto contrasto raccolti già nel 2011, anticipando di 11 anni la sua effettiva scoperta.

Il problema dell’imaging ad alto contrasto (HCI)

L’osservazione diretta degli esopianeti è ostacolata dalla luminosità delle stelle ospiti, che spesso supera di ordini di grandezza quella dei pianeti circostanti. Inoltre, il rumore speckle, generato dalla turbolenza atmosferica e dalle imperfezioni dell’ottica del telescopio, rappresenta una sfida ulteriore per gli astronomi.

Negli ultimi anni, sono state sviluppate varie tecniche di post-elaborazione per mitigare questo problema. Uno dei metodi più utilizzati è l’Analisi delle Componenti Principali (PCA), che tenta di separare il rumore dal segnale del pianeta. Tuttavia, come evidenziato dallo studio, la PCA può accidentalmente rimuovere anche una parte significativa del segnale planetario.

Il metodo 4S: un passo avanti

Grazie all’apprendimento automatico spiegabile (Explainable AI), Bonse e colleghi hanno analizzato le limitazioni della PCA e sviluppato il metodo 4S (Signal-Safe Speckle Subtraction). Questo nuovo algoritmo introduce tre innovazioni principali:

  1. Vincolo della ragione corretta: un filtro che impedisce al modello di apprendere la forma del rumore speckle in modo errato, evitando la rimozione del segnale del pianeta.
  2. Funzione di perdita invariante al segnale del pianeta: una nuova strategia che minimizza l’influenza del segnale planetario sulla stima del rumore.
  3. Regolarizzazione basata sulla conoscenza del dominio: un approccio che limita la complessità del modello, riducendo il rischio di sovradattamento ai dati.

Applicando il metodo 4S a 11 set di dati raccolti dallo strumento NACO del Very Large Telescope (VLT) nella banda L’ (La banda L fa parte dello spettro elettromagnetico delle onde UHF, ed in particolare va da 1 a 2 GHz), il team ha ottenuto risultati superiori rispetto alla PCA, con un miglioramento del contrasto fino a 1,5 magnitudini a separazioni ravvicinate dalla stella.

La scoperta anticipata di AF Lep b

Uno dei risultati più sorprendenti dello studio è stato il rilevamento di AF Lep b nei dati VLT-NACO del 2011. Questo esopianeta, scoperto ufficialmente solo nel 2022 con strumenti più moderni come VLT-SPHERE e Keck-NICR2, era già presente nei dati di archivio, ma il segnale era troppo debole per essere individuato con le tecniche di analisi tradizionali. Grazie all’applicazione di 4S, il pianeta è stato rivelato con un rapporto segnale-rumore sufficiente per confermare la sua presenza.

Immagini residue del set di dati AF Lep per diverse impostazioni degli iperparametri dell’algoritmo (componenti principali K per PCA e forza di regolarizzazione λ per 4S). Il pianeta AF Lep b è a malapena visibile nei residui della PCA. Per 4S, qualsiasi scelta di parametri porta a una rilevazione chiara, evidenziando la robustezza del metodo.

Implicazioni per la ricerca sugli esopianeti

Il successo di 4S apre nuove prospettive per la rianalisi dei dati di archivio, potenzialmente portando alla scoperta di altri esopianeti nascosti. Inoltre, il miglioramento nella riduzione del rumore speckle potrebbe permettere il rilevamento di pianeti più piccoli e vicini alle loro stelle, riducendo il divario tra le tecniche di imaging diretto e quelle basate sulla velocità radiale.

SpaceX Crew-9: Rientro previsto il 18 marzo alle 22:57 UTC+1

Il rientro della nona missione operativa di SpaceX con equipaggio dalla Stazione Spaziale Internazionale è previsto per martedì 18 marzo alle 22:57 ora italiana (UTC+1), con ammaraggio al largo della costa della Florida.

Chi sta tornando sulla Terra?

L’equipaggio della Crew Dragon Freedom include due astronauti che hanno lanciato con la navetta e due membri dell’equipaggio della ISS,  Butch Wilmore e Suni Williams, che erano arrivati lo scorso giugno a bordo della Starliner di Boeing, che allora era atterrata senza di loro.

Quando e dove avverrà l’ammaraggio?

  • Inizio del live streaming: A partire dalle 21:45 UTC+1 (16:45 EDT, 20:45 GMT).
  • Manovra di deorbitazione: Prevista per le 22:11 UTC+1 (17:11 EDT, 21:11 GMT).
  • Ammaraggio: Martedì 18 marzo alle 22:57 UTC+1 (17:57 EDT, 21:57 GMT) nel Golfo del Messico.

Il rientro segna il nono rientro operativo e il decimo complessivo di SpaceX nell’ambito del contratto con il programma commerciale della NASA.

Dove guardare il rientro in diretta?

L’ammaraggio della Crew-9 sarà trasmesso in diretta sul canale ufficiale NASA di youtube https://www.youtube.com/watch?v=IDYt1l_7UvU

Missione di salvataggio: il ritorno di Butch Wilmore e Suni Williams dalla ISS

Il 1° giugno 2024, gli astronauti della NASA Barry “Butch” Wilmore e Sunita “Suni” Williams hanno lasciato la Terra a bordo della navicella Starliner della Boeing, con una missione che inizialmente prevedeva una permanenza di soli otto giorni sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Tuttavia, il viaggio si è trasformato in un’odissea spaziale di ben nove mesi a causa di una serie di problemi tecnici alla navetta, che hanno costretto la NASA a rivedere i piani di rientro e a trovare una soluzione alternativa per riportarli a casa in sicurezza.

L’inizio dell’imprevisto: il guasto della Starliner

La Starliner, progettata come una delle due navicelle commerciali per il trasporto di astronauti insieme alla Crew Dragon di SpaceX, ha incontrato difficoltà ai propulsori poco dopo l’aggancio alla ISS. Questi problemi hanno indotto la NASA a sospendere il rientro della navetta con equipaggio a bordo, preferendo riportarla sulla Terra senza astronauti per valutare le anomalie in un ambiente controllato. Il risultato di questa decisione ha lasciato Wilmore e Williams bloccati sulla ISS senza una data certa di ritorno.

Nonostante l’inconveniente, i due astronauti hanno continuato a svolgere la loro missione, contribuendo agli esperimenti scientifici e alle operazioni di manutenzione della stazione. Williams, esperta ingegnere aerospaziale e veterana di numerose missioni, ha dichiarato in diverse interviste di essersi adattata alla situazione con spirito positivo, sottolineando che “la permanenza prolungata ha permesso di contribuire in modo ancora più significativo alla ricerca in microgravità”.

Il veicolo spaziale CST-100 Starliner. Credito: Boeing

La soluzione: il lancio della missione SpaceX Crew-10

Dopo mesi di pianificazione, la NASA ha deciso di affidarsi a SpaceX per il recupero degli astronauti. La missione Crew-10, con un equipaggio di quattro astronauti – Anne McClain e Nichole Ayers della NASA, Takuya Onishi della JAXA e Kirill Peskov di Roscosmos – è stata lanciata il 14 marzo 2025 dal Kennedy Space Center in Florida. Dopo circa 29 ore di viaggio, la capsula Crew Dragon ha attraccato con successo alla ISS il 16 marzo 2025.

Al loro arrivo, l’equipaggio della Crew-10 è stato accolto con entusiasmo e sollievo dai sette membri già presenti sulla stazione. Le immagini trasmesse dalla NASA hanno mostrato abbracci e sorrisi tra i nuovi arrivati e Wilmore e Williams, che per mesi avevano vissuto l’incertezza del loro ritorno.

Anne McClain, comandante della Crew-10, ha espresso la sua gioia per il successo della missione dichiarando: “È difficile esprimere a parole la sensazione di rivedere la stazione spaziale dalla nostra finestra e di sapere che stiamo portando a termine una missione tanto importante”.

SpaceX Crew-10. Credits: NASA

Il rientro sulla Terra: una lunga attesa che volge al termine

Ora, con il cambio di equipaggio avvenuto con successo, Wilmore e Williams sono pronti a lasciare la ISS per tornare finalmente sulla Terra. Il loro rientro è previsto per il 19 marzo 2025, a bordo della stessa Crew Dragon che ha portato la Crew-10 sulla stazione. Con loro viaggeranno anche Nick Hague della NASA e Aleksandr Gorbunov di Roscosmos, che hanno completato la loro missione sulla ISS.

Il rientro segnerà la fine di una permanenza durata oltre 270 giorni, durante i quali gli astronauti hanno affrontato non solo le sfide tecniche del volo spaziale, ma anche le difficoltà psicologiche legate all’incertezza del loro ritorno. “Non vedo l’ora di rivedere la mia famiglia e i miei due cani. Credo che per loro sia stato un periodo ancora più difficile che per me”, ha detto Williams in una recente conferenza stampa.

La politica e lo spazio: un caso internazionale

La vicenda ha avuto anche risvolti politici, con il presidente Donald Trump e l’imprenditore Elon Musk che hanno accusato, senza prove, l’amministrazione Biden di aver “abbandonato” Wilmore e Williams nello spazio per ragioni politiche. Le affermazioni sono state ampiamente smentite dagli esperti del settore e da astronauti veterani come il danese Andreas Mogensen, che ha liquidato le dichiarazioni come “una menzogna senza fondamento”.

Con il loro ritorno, Wilmore e Williams entreranno nella storia come alcuni degli astronauti con la più lunga permanenza sulla ISS, un’esperienza che servirà a migliorare le future missioni spaziali.

Mentre il mondo aspetta di vedere le immagini del loro atterraggio, una cosa è certa: la loro missione, iniziata con una semplice rotazione di equipaggio, si è trasformata in una delle più lunghe e imprevedibili permanenze sulla ISS, dimostrando ancora una volta che lo spazio è un ambiente in cui nulla può essere dato per scontato.

Il telescopio JWST rileva anidride carbonica nei giovani esopianeti giganti del sistema HR 8799

Il telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA ha ottenuto immagini dirette di pianeti giganti gassosi nel sistema planetario HR 8799, situato a 130 anni luce di distanza. Questa scoperta fornisce indizi fondamentali sulla loro formazione, suggerendo che questi pianeti si siano formati in modo simile a Giove e Saturno, attraverso un processo di accrescimento del nucleo.

Un sistema giovane e ricco di informazioni

HR 8799 è un sistema planetario giovane, con un’età di circa 30 milioni di anni, un valore molto inferiore rispetto ai 4,6 miliardi di anni del nostro Sistema Solare. Le osservazioni di Webb hanno rivelato la presenza di anidride carbonica nelle atmosfere di questi pianeti, un indizio che conferma la formazione tramite l’accrescimento del nucleo. Questo processo prevede la crescita di un nucleo solido che successivamente attrae gas dal disco protoplanetario circostante.

Questa tecnica osservativa dimostra anche la capacità di Webb di analizzare la chimica delle atmosfere esoplanetarie attraverso l’imaging, un metodo che integra le osservazioni spettroscopiche per determinare la composizione atmosferica.

Il telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA) ha fornito l’immagine più nitida mai ottenuta del celebre sistema multi-planetario HR 8799. Le osservazioni hanno rilevato anidride carbonica in tutti e quattro i pianeti giganti, fornendo una prova solida del fatto che si siano formati in modo simile a Giove e Saturno, attraverso la crescita graduale di un nucleo solido che ha poi attirato gas dal disco protoplanetario.
L’immagine è stata ottenuta utilizzando diversi filtri della fotocamera nel vicino infrarosso NIRCam di Webb, che rivelano le differenze intrinseche tra i pianeti. Un simbolo a forma di stella indica la posizione della stella madre, HR 8799, il cui bagliore è stato oscurato da un coronografo per permettere di osservare meglio i pianeti circostanti.
I colori assegnati all’immagine rappresentano diverse lunghezze d’onda della luce infrarossa catturate da Webb. Analizzandoli, i ricercatori possono determinare temperatura e composizione dei pianeti. HR 8799 b, che orbita a 10,1 miliardi di chilometri dalla sua stella, è il più freddo del gruppo ed è particolarmente ricco di anidride carbonica. HR 8799 e, invece, si trova a 2,4 miliardi di chilometri e probabilmente si è formato più vicino alla stella madre, in una regione con una composizione più variabile dei materiali. Credits:NASA, ESA, CSA, STScI, W. Balmer (JHU), L. Pueyo (STScI), M. Perrin (STScI).

L’importanza delle osservazioni di Webb

Le nuove scoperte indicano che i pianeti di HR 8799 contengono una quantità significativa di elementi pesanti, come carbonio, ossigeno e ferro. Secondo William Balmer della Johns Hopkins University, principale autore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal, ciò conferma che la formazione di questi pianeti è avvenuta tramite accrescimento del nucleo. “Questa scoperta ci aiuta a comprendere meglio come si formano i pianeti giganti e a confrontarli con quelli del nostro Sistema Solare”, ha affermato Balmer.

Oltre a HR 8799, Webb ha osservato anche il sistema 51 Eridani, situato a 97 anni luce di distanza. Lo studio di più sistemi esoplanetari permetterà agli scienziati di comprendere meglio i diversi meccanismi di formazione planetaria.

Un confronto con il nostro Sistema Solare

Esistono due principali modelli di formazione dei pianeti giganti. Il primo è il processo di accrescimento del nucleo, che ha caratterizzato la formazione di Giove e Saturno. Il secondo prevede la rapida coalescenza di gas in oggetti massicci direttamente dal disco di gas che circonda una giovane stella. Determinare quale di questi due modelli sia più comune aiuterà gli scienziati a interpretare la varietà di pianeti scoperti in altri sistemi.

Emily Rickman dell’Agenzia Spaziale Europea ha sottolineato l’importanza di HR 8799 come laboratorio per lo studio della formazione planetaria: “Queste nuove osservazioni dimostrano il valore di HR 8799 per comprendere meglio i meccanismi che governano la nascita dei pianeti”.

Tecnologia avanzata per l’osservazione diretta

Le immagini di HR 8799 e 51 Eridani sono state ottenute grazie al coronografo della NIRCam (Near-Infrared Camera) di Webb. Questo strumento blocca la luce delle stelle brillanti, permettendo di rivelare i pianeti orbitanti attorno a esse. Questa tecnologia consente di analizzare la luce infrarossa emessa dai pianeti e determinare la composizione delle loro atmosfere.

Laurent Pueyo dello Space Telescope Science Institute ha dichiarato che ulteriori osservazioni con Webb aiuteranno a determinare la frequenza con cui i pianeti giganti si formano attraverso l’accrescimento del nucleo. “Abbiamo trovato prove che suggeriscono che i pianeti di HR 8799 si siano formati in questo modo, ma vogliamo confermarlo con altre osservazioni”, ha detto Pueyo.

La fotocamera nel vicino infrarosso (NIRCam) del telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA) ha catturato questa immagine di 51 Eridani b, un giovane esopianeta freddo che orbita a 17,7 miliardi di chilometri dalla sua stella. Questa distanza è paragonabile a una posizione tra le orbite di Nettuno e Saturno nel nostro Sistema Solare.
Le osservazioni hanno rivelato che il pianeta è ricco di anidride carbonica, fornendo una prova solida che si è formato in modo simile a Giove e Saturno, attraverso l’accrescimento di un nucleo solido che ha poi attirato gas dal disco protoplanetario circostante.
Il sistema 51 Eridani si trova a 96 anni luce dalla Terra. L’immagine utilizza filtri che rappresentano la luce a 4,1 micron con il colore rosso. NASA, ESA, CSA, STScI, W. Balmer (JHU), L. Pueyo (STScI), M. Perrin (STScI)

Webb: una missione internazionale

Il telescopio James Webb è il più grande e potente mai lanciato nello spazio. La sua realizzazione è frutto di una collaborazione internazionale tra NASA, ESA e l’Agenzia Spaziale Canadese (CSA). L’ESA ha fornito il servizio di lancio con un razzo Ariane 5 e ha contribuito con strumenti scientifici fondamentali come lo spettrografo NIRSpec e parte dello strumento MIRI.

Grazie a Webb, gli astronomi stanno compiendo passi da gigante nello studio dei pianeti extrasolari, avvicinandosi sempre più alla comprensione della formazione e dell’evoluzione dei sistemi planetari, incluso il nostro.

Fonte: ESA/NASA/WEBB

Alla scoperta dell’Universo con SKA-Low: il primo sguardo del telescopio rivoluzionario

Un passo epocale nella ricerca astronomica è stato compiuto con la pubblicazione della prima immagine del telescopio SKA-Low, parte del rivoluzionario osservatorio internazionale SKAO (Square Kilometre Array Observatory). Questo risultato segna una tappa fondamentale nel cammino verso una visione senza precedenti del cosmo.

Un’anteprima del futuro dell’astronomia

L’immagine appena rilasciata proviene da una versione iniziale del telescopio SKA-Low, utilizzando solo 1.024 delle previste 131.072 antenne. Nonostante ciò, ha già offerto una visione sorprendente del cielo, anticipando le straordinarie scoperte scientifiche che il telescopio, una volta completato, renderà possibili.

Situato in Australia occidentale, SKA-Low è uno dei due telescopi attualmente in costruzione sotto l’egida dello SKAO, con il suo corrispettivo, SKA-Mid, in fase di realizzazione in Sudafrica. Questi strumenti rivoluzionari lavorano in sinergia, combinando i dati raccolti da migliaia di antenne per creare un’unica immagine altamente dettagliata del cosmo.

Un’immagine senza precedenti

La prima immagine copre un’area del cielo di circa 25 gradi quadrati, equivalente a 100 volte la dimensione apparente della Luna piena. In essa sono visibili circa 85 delle galassie più luminose in quella regione, ognuna delle quali ospita un buco nero supermassiccio. Tuttavia, quando il telescopio sarà pienamente operativo, gli scienziati stimano che la stessa porzione di cielo rivelerà oltre 600.000 galassie.

I dati per questa immagine sono stati raccolti dalle prime quattro stazioni connesse di SKA-Low, composte da 1.024 antenne alte due metri, installate nel corso dell’ultimo anno presso l’Inyarrimanha Ilgari Bundara, il CSIRO Murchison Radio-astronomy Observatory, situato nel territorio Wajarri Yamaji. Questa prima configurazione rappresenta meno dell’1% del progetto finale.

La prima immagine da un prototipo del telescopio SKA-Low dell’Osservatorio SKA, in costruzione nel territorio Wajarri Yamaji, Australia. È stata ottenuta con dati raccolti dalle prime quattro stazioni collegate, che includono 1.024 delle 131.072 antenne previste, distribuite su circa 6 km.
L’immagine mostra circa 85 galassie in un’area di 25 gradi quadrati, equivalente a 100 Lune piene. I punti visibili sono galassie radio luminose, ciascuna con un buco nero supermassiccio. SKA-Low rileva le onde radio emesse dal gas caldo orbitante intorno a questi buchi neri. Al centro si trova una rara galassia con getti visibili sia in ottico che in radio.
Prodotta con il supercomputer Pawsey di Perth, l’immagine è stata verificata con dati del Murchison Widefield Array. Quando completato, SKA-Low potrà rivelare fino a 600.000 galassie nella stessa regione. SKAO riconosce i Wajarri Yamaji come Custodi Tradizionali del sito. Credits: SKAO

Le reazioni degli scienziati

Dr. George Heald, Lead Commissioning Scientist di SKA-Low, ha espresso entusiasmo per l’efficienza delle prime quattro stazioni: “La qualità di questa immagine è stata persino superiore a quanto speravamo con questa versione iniziale del telescopio.”

Ha aggiunto che le galassie visibili nell’immagine attuale sono solo la punta dell’iceberg e che, una volta completato, SKA-Low permetterà di osservare le galassie più deboli e lontane, risalendo fino alle prime epoche dell’Universo, quando stelle e galassie iniziarono a formarsi.

Dr. Sarah Pearce, Direttrice del telescopio SKA-Low, ha sottolineato il lavoro collettivo che ha reso possibile questo risultato: “Questo è il culmine di sforzi straordinari da parte di team di ingegneri, astronomi e informatici provenienti da tutto il mondo. È incredibile vedere tutto questo lavoro convergere per regalarci la prima di molte immagini straordinarie dello SKA-Low, offrendoci una prospettiva del cosmo mai vista prima.”

Anche il Direttore Generale dello SKAO, Prof. Philip Diamond, ha celebrato il momento, definendolo l’inizio effettivo dell’osservatorio come struttura scientifica: “Con questa immagine vediamo la promessa dello SKAO che inizia a realizzarsi. Man mano che i telescopi cresceranno e nuove antenne entreranno in funzione, la qualità delle immagini migliorerà enormemente, permettendoci di sfruttare al massimo la potenza dello SKAO.”

Una collaborazione globale per una scienza rivoluzionaria

Lo SKAO è un’organizzazione intergovernativa con membri e partner distribuiti in cinque continenti, con sede principale nel Regno Unito. La missione dello SKAO è costruire e gestire radio telescopi all’avanguardia per trasformare la nostra comprensione dell’Universo e contribuire alla società attraverso la collaborazione scientifica e l’innovazione tecnologica.

In Australia, la realizzazione di SKA-Low avviene in collaborazione con l’agenzia scientifica nazionale CSIRO e con il supporto dei governi australiano e del Western Australia. Il telescopio si espanderà progressivamente nei prossimi due anni, diventando il più grande radiotelescopio a bassa frequenza al mondo.

Collage di immagini simulate delle future osservazioni di SKA-Low, che mostrano le capacità previste del telescopio man mano che cresce. Le immagini rappresentano la stessa area di cielo osservata nella prima immagine del prototipo, pubblicata a marzo 2025.
In alto a sinistra: Entro il 2026/2027, con oltre 17.000 antenne, SKA-Low sarà il radiotelescopio più sensibile della sua categoria, rilevando oltre 4.500 galassie in questa regione.
In alto a destra: Entro il 2028/2029, con più di 78.000 antenne, potrà individuare oltre 23.000 galassie.
In basso: A pieno regime, con oltre 130.000 antenne distribuite su 74 km, SKA-Low potrà rilevare circa 43.000 galassie nella stessa area e, con indagini profonde dal 2030, fino a 600.000 galassie.

Un riconoscimento alla cultura e alla tradizione

Lo SKAO riconosce e rispetta le culture indigene che hanno tradizionalmente abitato i territori su cui sorgono le sue strutture. Il sito del telescopio si trova nell’osservatorio di CSIRO Murchison, in territorio Wajarri Yamaji, e il progetto è stato realizzato in stretta collaborazione con la comunità locale.

Jamie Strickland, CEO della Wajarri Yamaji Aboriginal Corporation, ha espresso soddisfazione per questa collaborazione: “Il popolo Wajarri Yamaji ha osservato il cielo e le stelle sulla nostra terra per innumerevoli generazioni. È fantastico vedere questa nuova era della conoscenza astronomica prendere forma dal nostro suolo, e siamo orgogliosi di collaborare con SKAO, il governo australiano e CSIRO per rendere tutto ciò possibile. Usare la tecnologia di oggi per raccontare le storie del passato e comprendere quelle del futuro è davvero straordinario.”

Con la sua capacità di esplorare le origini dell’Universo e di fornire risposte a domande fondamentali sulla nascita delle galassie e l’evoluzione del cosmo, SKA-Low si appresta a diventare uno degli strumenti più potenti mai costruiti per l’astronomia moderna. Questo primo sguardo all’Universo segna solo l’inizio di un’avventura scientifica che promette di rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo.

Fonte: SKAO Site

LUNA: ALLA SCOPERTA DEI NUMERI DI LOVE E DELLA MISSIONE CHANG’E 7

La Luna e il suo cuore nascosto

La Luna è il nostro satellite naturale e, nonostante sia l’oggetto celeste più vicino alla Terra, custodisce ancora molti segreti. Tra le tante domande che gli scienziati si pongono, una delle più affascinanti riguarda la sua struttura interna: com’è fatto il suo nucleo? Esiste un cuore liquido come quello della Terra? E come reagisce la Luna alle forze gravitazionali della Terra e del Sole?

Per rispondere a queste domande, gli scienziati utilizzano un particolare parametro chiamato numero di Love, che prende il nome dal matematico britannico Augustus Edward Hough Love. Questi numeri descrivono il modo in cui la Luna si deforma sotto l’effetto delle forze di marea esercitate dai corpi celesti circostanti. In altre parole, ci dicono quanto la Luna si “allunga” e si “comprime” sotto l’azione della gravita della Terra e del Sole.

Cosa sono i numeri di Love?

I numeri di Love sono tre parametri principali:

  • h₂: misura lo spostamento verticale della superficie della Luna dovuto alle maree. Più è grande questo numero, più la superficie lunare si solleva sotto l’azione della gravita terrestre.
  • l₂: indica lo spostamento orizzontale, ossia il modo in cui la Luna si muove lateralmente quando viene “tirata” dalle maree.
  • k₂: rappresenta la variazione del campo gravitazionale lunare in risposta alle maree. Questo parametro è fondamentale per capire quanto sia denso e rigido l’interno della Luna.

Studiare questi numeri ci permette di ottenere una vera e propria radiografia della Luna, dandoci indizi sulla sua composizione interna, sulla presenza di un nucleo liquido o solido e sulle caratteristiche del suo mantello.

Come si misurano i numeri di Love?

Misurare i numeri di Love non è un’impresa facile. Un metodo utilizzato dagli scienziati è la tecnica del Lunar Laser Ranging (LLR), che sfrutta i retroriflettori lasciati sulla superficie lunare dagli astronauti delle missioni Apollo e dalle sonde sovietiche Lunokhod. Inviando impulsi laser dalla Terra e misurando il tempo impiegato per tornare indietro, è possibile monitorare con estrema precisione i movimenti della Luna e quindi calcolare i numeri di Love.

Un altro metodo è l’analisi della gravità lunare, effettuata da satelliti come quelli della missione GRAIL della NASA, che ha fornito un modello ad alta risoluzione del campo gravitazionale della Luna.

Il contributo della missione Chang’e 7

Ora entra in gioco la missione Chang’e 7 della Cina, prevista per il 2026. Questo ambizioso progetto prevede di esplorare il polo sud della Luna, una regione di grande interesse scientifico. Tra gli strumenti che porterà sulla superficie lunare ci saranno anche nuovi retroriflettori laser (vedi Coelum 270), che permetteranno di migliorare ulteriormente le misurazioni delle maree lunari e quindi di affinare i calcoli sui numeri di Love.

Uno dei problemi attuali con le misurazioni LLR è che i retroriflettori esistenti sono tutti posizionati sul lato vicino della Luna, quello sempre rivolto verso la Terra. Questo significa che abbiamo una visione parziale del comportamento della Luna. Grazie ai nuovi retroriflettori posizionati da Chang’e 7 sul polo sud, avremo dati più completi e precisi.

Inoltre, Chang’e 7 utilizzerà un satellite in orbita lunare come ripetitore per trasmettere i segnali tra la Terra e il lander sulla superficie, risolvendo il problema della visibilità limitata di alcune regioni lunari. Questo sistema di tracciamento a “relè a quattro vie” consentirà di migliorare la raccolta di dati e di ottenere misurazioni più dettagliate sulla struttura interna della Luna.

Tracciamento a relè a quattro vie
Il sistema di tracciamento a relè a quattro vie è un metodo utilizzato per comunicare con un lander lunare situato in una posizione non direttamente visibile dalla Terra, come il polo sud o il lato nascosto della Luna. Il processo avviene in più fasi:
Trasmissione iniziale: La stazione di terra invia un segnale di uplink al satellite relay in orbita lunare.
Propagazione: Il segnale si propaga attraverso il satellite relay.
Ricezione dal lander: Il lander lunare riceve il segnale e lo elabora tramite il collegamento diretto.
Ritrasmissione: Il segnale viene inviato nuovamente al satellite relay attraverso un collegamento di ritorno.
Ritorno alla Terra: Il satellite relay trasmette il segnale di risposta alla stazione di terra.
Ogni passaggio rappresenta un collegamento della catena di comunicazione e le misurazioni effettuate lungo questo percorso permettono di determinare con precisione la posizione del lander, la sua distanza dalla Terra e le variazioni della sua altitudine dovute alle forze mareali. Questo sistema consente di ottenere dati più dettagliati e costanti rispetto al tracciamento diretto, migliorando la precisione delle misurazioni geofisiche lunari.

 

 

 

L’uso combinato di LLR e Chang’e 7 per migliorare la precisione

La missione Chang’e 7 prevede di posizionare un array di retroriflettori laser al polo sud lunare, una posizione mai sfruttata prima per questo tipo di misurazioni. Finora, i cinque retroriflettori installati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica si trovano a latitudini medio-basse sul lato vicino della Luna. Tuttavia, il nuovo retroriflettore di Chang’e 7 fornirà dati unici e complementari, migliorando la comprensione della risposta mareale lunare.

Schema del laser a due vie e dell’inseguimento radiometrico a quattro vie.

Gli scienziati hanno condotto simulazioni per valutare il contributo della missione Chang’e 7 alla determinazione dei numeri di Love. Hanno confrontato le misurazioni laser bidirezionali dai retroriflettori Apollo con le nuove misurazioni al polo sud e hanno integrato anche dati di tracciamento radiometrico a quattro vie, sfruttando il satellite relay.

I risultati hanno mostrato che il modello bidirezionale fornisce una sensibilità maggiore rispetto al modello a quattro vie per alcune misurazioni, ma il tracciamento a quattro vie migliora la precisione di h₂ e l₂. Inoltre, il satellite relay garantisce una maggiore visibilità della regione polare, dove la Terra può osservare direttamente solo per una parte del ciclo lunare.

Gli esperimenti hanno dimostrato che con la tecnologia attuale, le incertezze nella determinazione di h₂ e l₂ possono essere ridotte fino a due ordini di grandezza. Se la precisione della misurazione radiometrica potesse essere migliorata fino a 0,1 m, la stima di questi parametri diventerebbe ancora più accurata, offrendo nuove opportunità per comprendere la composizione interna della Luna.

Perché è importante?

Capire la struttura interna della Luna non è solo una questione di curiosità scientifica. Queste informazioni possono aiutarci a comprendere meglio l’evoluzione della Luna e il suo rapporto con la Terra nel corso di miliardi di anni. Inoltre, studiare la geofisica lunare è cruciale per future missioni di esplorazione e per l’eventuale costruzione di basi permanenti sulla Luna.

Infine, le tecniche sviluppate per studiare la Luna possono essere applicate ad altri corpi celesti, come Marte, Ganimede o Encelado, dove la presenza di oceani sotterranei è un argomento di grande interesse per la ricerca di forme di vita extraterrestri.

Articolo Originale

L’ESO conferma: il complesso INNA minaccia il Paranal

Florentin Millour ha catturato questo panorama mozzafiato della cometa C/2024 G3 (ATLAS) nel gennaio del 2021 January 21 dal Osservatorio del Paranal in Cile. Il Very Large Telescope fa bella mostra di sè sulla cima del Cerro Paranal, sulla sinistra, mentre la cometa tramonta all'orizzonte occidentale appena dopo il tramonto. Crediti: F. Millour/ESO

Comunicato Stampa ESO 17/03/2025

Un’analisi tecnica approfondita dell’ESO (European Southern Observatory) ha valutato l’impatto del megaprogetto INNA sugli strumenti dell’Osservatorio del Paranal, in Cile, e i risultati sono allarmanti. L’analisi rivela che l’INNA aumenterebbe l’inquinamento luminoso sopra il VLT (Very Large Telescope) di almeno il 35% e di oltre il 50% sopra il sito sud del Cherenkov Telescope Array Observatory (CTAO-sud). L’INNA aumenterebbe anche la turbolenza dell’aria nell’area, degradando ulteriormente le condizioni per le osservazioni astronomiche, mentre le vibrazioni del progetto potrebbero compromettere seriamente il funzionamento di alcune delle strutture dell’Osservatorio del Paranata, come l’ELT (Extremely Large Telescope).

A gennaio, l’ESO ha lanciato pubblicamente l’allarme sulla minaccia posta ai cieli più bui e limpidi del mondo, quelli dell’Osservatorio Paranal dell’ESO (vedi Coelum 273 notizia a cura di Anna Wolter), dal megaprogetto industriale INNA. Il progetto, di AES Andes, una filiale della società elettrica statunitense AES Corporation, comprende molteplici impianti energetici e di trasformazione, distribuiti su un’area di oltre 3000 ettari, pari alle dimensioni di una piccola città. La sua ubicazione prevista è a pochi chilometri dai telescopi del Paranal.

Un’analisi preliminare effettuata all’epoca ha rivelato che, a causa delle sue dimensioni e della vicinanza al Paranal, il progetto INNA poneva rischi significativi per le osservazioni astronomiche. Ora, un’analisi tecnica dettagliata ha confermato che l’impatto di INNA sarebbe devastante e irreversibile.

Inquinamento luminoso accecante

Secondo la nuova analisi dettagliata, il complesso industriale aumenterebbe l’inquinamento luminoso sopra il VLT, che si trova a circa 11 km dalla posizione pianificata di INNA, di almeno il 35% rispetto agli attuali livelli di base della luce artificiale. Un’altra delle strutture del Paranal, l’ELT dell’ESO, vedrebbe l’inquinamento luminoso sopra di sé aumentare di almeno il 5%. Questo aumento rappresenta già un livello di interferenza incompatibile con le condizioni richieste per osservazioni astronomiche di livello mondiale. L’impatto sui cieli sopra il CTAO-sud, situato a soli 5 km dall’INNA, sarebbe il più importante, con l’inquinamento luminoso che salirebbe di almeno il 55%[1].

“Un cielo più luminoso limita fortemente la nostra capacità di rivelare direttamente esopianeti simili alla Terra, osservare galassie deboli e persino monitorare asteroidi che potrebbero causare danni al nostro pianeta“, afferma Itziar de Gregorio-Monsalvo, rappresentante dell’ESO in Cile. “Costruiamo i telescopi più grandi e potenti, nel posto migliore sulla Terra per l’astronomia, per consentire agli astronomi di tutto il mondo di vedere ciò che nessuno ha mai visto prima. L’inquinamento luminoso da progetti come l’INNA non ostacola solo la ricerca, ma ci sottrae la visione condivisa dell’Universo“.

Per l’analisi tecnica, un gruppo di esperti guidato dal direttore operativo dell’ESO Andreas Kaufer ha lavorato insieme con Martin Aubé, un esperto di fama mondiale sulla luminosità del cielo nei siti astronomici, per eseguire simulazioni utilizzando i modelli di inquinamento luminoso più avanzati. Come input, le simulazioni hanno utilizzato informazioni disponibili al pubblico fornite da AES Andes quando ha presentato il progetto per la valutazione ambientale, che afferma che il complesso sarà illuminato da oltre 1000 fonti luminose.

I risultati sull’inquinamento luminoso che indichiamo assumono che il progetto installerà le lampade più moderne disponibili in modo da ridurre al minimo l’inquinamento luminoso. Tuttavia, siamo preoccupati che l’inventario delle sorgenti luminose pianificato da AES non sia completo e il più adatto allo scopo. In tal caso, i risultati già allarmanti sottostimerebbero il potenziale impatto del progetto INNA sulla luminosità del cielo del Paranal”, spiega Kaufer.

Aggiunge che i calcoli presuppongono condizioni di cielo sereno. “L’inquinamento luminoso sarebbe ancora peggiore se considerassimo cieli nuvolosi“, afferma. “Sebbene il cielo del Paranal è senza nuvole per la maggior parte dell’anno, molte osservazioni astronomiche possono comunque essere eseguite quando ci sono sottili cirri: in questo caso l’effetto dell’inquinamento luminoso è amplificato poiché le luci artificiali vicine si riflettono notevolmente sulle nuvole“.

Turbolenza in arrivo

L’analisi tecnica ha esaminato altri impatti del progetto, come l’aumento della turbolenza atmosferica, gli effetti delle vibrazioni sulla delicata attrezzatura dei telescopi e la contaminazione da polvere sulle ottiche sensibili del telescopio durante la costruzione. Tutto ciò aumenterebbe ulteriormente l’impatto dell’INNA sulle capacità di osservazione astronomica dal Paranal.

Oltre ai cieli bui e limpidi, l’Osservatorio di Paranal è il sito migliore al mondo per l’astronomia grazie alla sua atmosfera eccezionalmente stabile: ha ciò che gli astronomi chiamano eccellenti condizioni di visibilità (seeing) o un bassissimo “scintillio” degli oggetti astronomici causato dalla turbolenza nell’atmosfera terrestre. Con INNA, le migliori condizioni di visibilità potrebbero deteriorarsi fino al 40%, in particolare a causa della turbolenza dell’aria causata dalle turbine eoliche del progetto.

Un’altra preoccupazione è l’impatto delle vibrazioni causate da INNA sull’interferometro del VLT (VLTI) e sull’ELT, entrambi estremamente sensibili ai disturbi microsismici. L’analisi tecnica rivela che le turbine eoliche di INNA potrebbero far aumentare queste micro-vibrazioni del terreno abbastanza da compromettere le operazioni di questi due strumenti tra i migliori al mondo. Anche la polvere sollevata durante la costruzione è problematica poiché si deposita sugli specchi dei telescopi e ne ostruisce la vista.

Presi tutti insieme, questi disturbi minacciano seriamente la possibilità che oggi e a lungo termine il Paranal rimanga il leader mondiale nel campo dell’astronomia, causando la perdita di scoperte chiave sull’Universo e compromettendo il vantaggio strategico del Cile in quest’area“, afferma de Gregorio-Monsalvo. “L’unico modo per salvare i cieli incontaminati del Paranal e proteggere l’astronomia per le generazioni future è trasferire altrove il complesso INNA.”

Inoltre, la presenza delle infrastrutture dell’INNA potrebbero incoraggiare lo sviluppo di un polo industriale nella zona, che potrebbe trasformare il Paranal in un sito inutilizzabile per le osservazioni astronomiche di alto livello.

“L’ESO e i suoi Stati membri sostengono pienamente la decarbonizzazione energetica. Per noi il Cile non dovrebbe essere costretto a scegliere tra ospitare gli osservatori astronomici più potenti e sviluppare progetti di energia verde. Entrambe sono dichiarate dal paese priorità strategiche e sono pienamente compatibili, se le strutture sono situate a distanza sufficiente l’una dall’altra”, spiega il Direttore Generale dell’ESO Xavier Barcons.

Processo partecipativo dei cittadini

Il rapporto tecnico completo sarà presentato alle autorità cilene entro la fine del mese come parte del processo partecipativo dei cittadini (PAC) nella valutazione dell’impatto ambientale dell’INNA e reso pubblico in quel momento, prima della scadenza del 3 aprile. Oltre a questo comunicato stampa, l’ESO rende pubblico in anticipo un riassunto esecutivo del rapporto.

Siamo molto grati per il supporto che abbiamo ricevuto dalla comunità di ricerca cilena e da quella mondiale e in particolare dagli Stati membri dell’ESO. Ringraziamo anche le autorità cilene per aver esaminato la questione. Siamo più che mai impegnati a lavorare insieme per proteggere gli insostituibili cieli del Paranal“, conclude Barcons.

Missione di salvataggio: il ritorno di Butch Wilmore e Suni Williams dalla ISS

Butch Wilmore e Suni Williams. Credits: CNN, NASA

Il 1° giugno 2024, gli astronauti della NASA Barry “Butch” Wilmore e Sunita “Suni” Williams hanno lasciato la Terra a bordo della navicella Starliner della Boeing, con una missione che inizialmente prevedeva una permanenza di soli otto giorni sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Tuttavia, il viaggio si è trasformato in un’odissea spaziale di ben nove mesi a causa di una serie di problemi tecnici alla navetta, che hanno costretto la NASA a rivedere i piani di rientro e a trovare una soluzione alternativa per riportarli a casa in sicurezza.

L’inizio dell’imprevisto: il guasto della Starliner

La Starliner, progettata come una delle due navicelle commerciali per il trasporto di astronauti insieme alla Crew Dragon di SpaceX, ha incontrato difficoltà ai propulsori poco dopo l’aggancio alla ISS. Questi problemi hanno indotto la NASA a sospendere il rientro della navetta con equipaggio a bordo, preferendo riportarla sulla Terra senza astronauti per valutare le anomalie in un ambiente controllato. Il risultato di questa decisione ha lasciato Wilmore e Williams bloccati sulla ISS senza una data certa di ritorno.

Nonostante l’inconveniente, i due astronauti hanno continuato a svolgere la loro missione, contribuendo agli esperimenti scientifici e alle operazioni di manutenzione della stazione. Williams, esperta ingegnere aerospaziale e veterana di numerose missioni, ha dichiarato in diverse interviste di essersi adattata alla situazione con spirito positivo, sottolineando che “la permanenza prolungata ha permesso di contribuire in modo ancora più significativo alla ricerca in microgravità”.

Il veicolo spaziale CST-100 Starliner. Credito: Boeing

La soluzione: il lancio della missione SpaceX Crew-10

Dopo mesi di pianificazione, la NASA ha deciso di affidarsi a SpaceX per il recupero degli astronauti. La missione Crew-10, con un equipaggio di quattro astronauti – Anne McClain e Nichole Ayers della NASA, Takuya Onishi della JAXA e Kirill Peskov di Roscosmos – è stata lanciata il 14 marzo 2025 dal Kennedy Space Center in Florida. Dopo circa 29 ore di viaggio, la capsula Crew Dragon ha attraccato con successo alla ISS il 16 marzo 2025.

Al loro arrivo, l’equipaggio della Crew-10 è stato accolto con entusiasmo e sollievo dai sette membri già presenti sulla stazione. Le immagini trasmesse dalla NASA hanno mostrato abbracci e sorrisi tra i nuovi arrivati e Wilmore e Williams, che per mesi avevano vissuto l’incertezza del loro ritorno.

Anne McClain, comandante della Crew-10, ha espresso la sua gioia per il successo della missione dichiarando: “È difficile esprimere a parole la sensazione di rivedere la stazione spaziale dalla nostra finestra e di sapere che stiamo portando a termine una missione tanto importante”.

SpaceX Crew-10. Credits: NASA

Il rientro sulla Terra: una lunga attesa che volge al termine

Ora, con il cambio di equipaggio avvenuto con successo, Wilmore e Williams sono pronti a lasciare la ISS per tornare finalmente sulla Terra. Il loro rientro è previsto per il 19 marzo 2025, a bordo della stessa Crew Dragon che ha portato la Crew-10 sulla stazione. Con loro viaggeranno anche Nick Hague della NASA e Aleksandr Gorbunov di Roscosmos, che hanno completato la loro missione sulla ISS.

Il rientro segnerà la fine di una permanenza durata oltre 270 giorni, durante i quali gli astronauti hanno affrontato non solo le sfide tecniche del volo spaziale, ma anche le difficoltà psicologiche legate all’incertezza del loro ritorno. “Non vedo l’ora di rivedere la mia famiglia e i miei due cani. Credo che per loro sia stato un periodo ancora più difficile che per me”, ha detto Williams in una recente conferenza stampa.

La politica e lo spazio: un caso internazionale

La vicenda ha avuto anche risvolti politici, con il presidente Donald Trump e l’imprenditore Elon Musk che hanno accusato, senza prove, l’amministrazione Biden di aver “abbandonato” Wilmore e Williams nello spazio per ragioni politiche. Le affermazioni sono state ampiamente smentite dagli esperti del settore e da astronauti veterani come il danese Andreas Mogensen, che ha liquidato le dichiarazioni come “una menzogna senza fondamento”.

Con il loro ritorno, Wilmore e Williams entreranno nella storia come alcuni degli astronauti con la più lunga permanenza sulla ISS, un’esperienza che servirà a migliorare le future missioni spaziali.

Mentre il mondo aspetta di vedere le immagini del loro atterraggio, una cosa è certa: la loro missione, iniziata con una semplice rotazione di equipaggio, si è trasformata in una delle più lunghe e imprevedibili permanenze sulla ISS, dimostrando ancora una volta che lo spazio è un ambiente in cui nulla può essere dato per scontato.

Alla scoperta delle Hot DOGs: le galassie oscure e iperluminose

Immagine rappresentativa del concetto dell'articolo: una galassia Hot DOG con un nucleo iperluminoso avvolto da dense nubi di polvere cosmica, lasciando filtrare solo la radiazione infrarossa. I toni scuri e i dettagli puliti enfatizzano il contrasto tra le regioni oscure e luminose, evocando il mistero e la grandezza di questi rari fenomeni cosmici.

Le Hot Dust-Obscured Galaxies (Hot DOGs) rappresentano una rara e affascinante categoria di quasar oscurati iperluminosi. Scoperte grazie alla selezione “W1W2 dropout” ad alti redshift (z ~ 2-4) nell’ambito della missione Wide-field Infrared Survey Explorer (WISE), queste galassie potrebbero costituire una fase cruciale, seppur breve, nell’evoluzione galattica.

Il fenomeno delle Hot DOGs

Le Hot DOGs sono caratterizzate da un’intensa emissione infrarossa, causata dalla polvere che avvolge il nucleo galattico e nasconde la sorgente luminosa principale, il buco nero supermassiccio (SMBH). Secondo gli studi condotti da Eisenhardt et al. (2012) e Wu et al. (2012), queste galassie presentano temperature della polvere superiori ai 60K e luminosità bolometriche che superano i 10^13 L☉, con alcune che raggiungono addirittura i 10^14 L☉ (Tsai et al. 2015). Il loro numero è comparabile a quello dei quasar di tipo 1 con luminosità simile e rappresentano probabilmente una fase di transizione tra quasar oscurati e non oscurati (Assef et al. 2015; Wu et al. 2018).

Hot DOGs a basso redshift: una popolazione ancora poco esplorata

Nonostante siano state identificate numerose Hot DOGs ad alto redshift, la loro evoluzione verso epoche più recenti è ancora poco chiara. La selezione W1W2 dropout, infatti, tende a escludere oggetti con z < 2. Tuttavia, uno studio recente che ha combinato i dati di WISE e Herschel ha permesso di individuare 68 candidati Hot DOGs a basso redshift (z < 0.5), confermando tre casi attraverso osservazioni spettroscopiche (Li et al. 2023).

Questi oggetti presentano SMBH in fase di accrescimento vicino al limite di Eddington, con masse inferiori e luminosità bolometriche più basse rispetto alle loro controparti ad alto redshift. Inoltre, sembrano essere più vicini alla relazione locale tra massa stellare dell’ospite e massa del buco nero, pur rimanendo al di sopra di essa. Ciò suggerisce che le Hot DOGs possano rappresentare una fase critica nella crescita delle galassie e dei loro buchi neri centrali.

Le caratteristiche delle Hot DOGs a basso redshift

L’analisi delle tre Hot DOGs a z < 0.5 ha rivelato alcune peculiarità:

  • Emissione infrarossa dominante: la loro radiazione è principalmente assorbita e riemessa dalla polvere, rendendole quasi invisibili nelle bande ottiche e ultraviolette.
  • Elevata estinzione: l’alto contenuto di polvere oscura il quasar centrale, rendendolo difficile da rilevare nei dati ottici e nel vicino infrarosso.
  • Accrescimento del buco nero supermassiccio: l’energia rilasciata suggerisce un tasso di accrescimento vicino o superiore al limite di Eddington, fenomeno comune nei quasar ad alto redshift.

Dal punto di vista statistico, la densità superficiale di Hot DOGs a z < 0.5 è di circa 0.0024 deg⁻², un ordine di grandezza inferiore rispetto alle loro controparti ad alto redshift. Questo declino è coerente con l’evoluzione della densità di gas nelle galassie nel tempo cosmico, che raggiunge un picco intorno a z ~ 2 e diminuisce progressivamente fino al presente.

Implicazioni per l’evoluzione delle galassie

Lo studio delle Hot DOGs a basso redshift fornisce indizi fondamentali sull’evoluzione delle galassie e sul ruolo del feedback dei quasar nell’arrestare la formazione stellare. Diverse ipotesi possono spiegare il posizionamento di queste galassie rispetto alla relazione massa del buco nero – massa stellare:

  1. Feedback insufficiente per arrestare la formazione stellare: il quasar potrebbe non avere abbastanza energia per espellere il gas e interrompere la nascita di nuove stelle.
  2. Fasi ripetute di accrescimento e feedback: la Hot DOG phase potrebbe verificarsi più volte nella vita della galassia, contribuendo gradualmente a spegnere la formazione stellare.
  3. Deviazione dalla relazione locale: alcune Hot DOGs potrebbero rimanere al di sopra della relazione massa del buco nero – massa stellare anche a z = 0, suggerendo una crescita differenziata tra buchi neri e stelle.

Conclusioni

Le Hot DOGs rappresentano un’opportunità unica per studiare l’evoluzione delle galassie e l’interazione tra crescita del buco nero e formazione stellare. L’identificazione di queste galassie a basso redshift apre la strada a future indagini per comprendere meglio il ruolo di questi oggetti nell’evoluzione cosmica. Studi futuri, combinando dati ottici, infrarossi e X, potrebbero chiarire se le Hot DOGs siano effettivamente una fase di transizione universale o una classe di oggetti distinta con un’evoluzione peculiare.

Fonte: Astrophysical Journal

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