LE LIBRERIE POSSONO RIVOLGERSI A LIBROSTORE
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Coelum Cambia Formato: Più Compatto, Più Pratico, Ancora Più Prestigioso

A partire dal prossimo numero, Coelum Astronomia si rinnova radicalmente, abbandonando il classico formato rivista da 23×28 cm per assumere una forma più compatta ed elegante: 17×24 cm, le stesse dimensioni della rivista a cui Coelum al suo esordio si ispirò.

Il nuovo formato, simile a quello di un libro, è stato pensato per offrire una maggiore praticità: più facile da maneggiare, da trasportare e da consultare, perfetto per essere letto ovunque e più semplice da archiviare ordinatamente su qualsiasi scaffale o libreria.

La sostanza resta, la qualità cresce

Il cambiamento di formato non è un semplice adattamento grafico, ma parte di un progetto editoriale più ampio, volto a rafforzare il valore culturale di Coelum nel panorama dell’editoria scientifica. Con oltre 240 pagine a uscita, contenuti curati da una redazione esperta e collaboratori d’eccellenza, Coelum consolida la propria identità come strumento di divulgazione astronomica professionale, accessibile e autorevole.

Nonostante la nuova veste, la qualità dei materiali rimarrà invariata: la carta manterrà le caratteristiche attuali, con una copertina leggermente più spessa per garantire una maggiore resistenza. Particolare attenzione sarà sempre rivolta alla cura del colore, all’impaginazione e alla leggibilità, in continuità con la tradizione Coelum.

L’impostazione editoriale subirà alcune modifiche, necessarie per adattarsi alla nuova struttura, ma tutte orientate al miglioramento dell’esperienza di lettura e alla valorizzazione dei contenuti.

Coelum entra in libreria

Altra grande novità: Coelum sarà distribuito nelle migliori librerie d’Italia, affiancando finalmente le pubblicazioni di riferimento nel campo della cultura e della scienza.
Una scelta che riflette la volontà di collocare Coelum in un contesto di prestigio, coerente con il valore dei suoi contenuti e con la quantità e qualità degli approfondimenti offerti a ogni uscita.

Nel corso delle prossime settimane sarà pubblicata sul sito ufficiale una mappa aggiornata dei punti vendita autorizzati, in modo da poter individuare facilmente la libreria più vicina.

Tuttavia, è importante sapere che ogni anno vengono pubblicate in Italia decine di migliaia di nuovi volumi e spesso non è possibile per i librai monitorare ogni novità in tempo reale.
Per questo motivo consigliamo fin da ora di contattare la propria libreria di fiducia, segnalando la nuova uscita di Coelum Astronomia, in modo da garantirsi la disponibilità della copia già entro la fine di luglio.

Nel momento in cui la lista ufficiale dei punti vendita sarà online, forniremo anche informazioni dettagliate per i librai interessati alla distribuzione diretta.

Cambiare formato non è una scelta formale. È un atto di responsabilità, un passo necessario per affrontare con determinazione un contesto in cui l’editoria periodica, soprattutto quella scientifica indipendente, vive ormai da anni una crisi profonda. Con questo nuovo Coelum, più compatto, più pratico, ma ancora più ricco, vogliamo rispondere con concretezza, preservando ciò che siamo sempre stati: un punto di riferimento per chi ama guardare il cielo con occhi curiosi e menti aperte. Coelum ha accompagnato generazioni di appassionati, e non solo: ci vengono raccontate storie vere, di giovani lettori che grazie alle nostre pagine hanno scoperto la loro vocazione e oggi sono ricercatori, ingegneri, scienziati. La passione per l’astronomia nasce spesso da piccoli dettagli: una guida pratica, una fotografia ben spiegata, una testimonianza diretta. Coelum ha sempre cercato di essere questo: uno strumento utile, accessibile, professionale, capace di tenere viva la curiosità e far maturare competenze. Farlo sparire per ragioni puramente commerciali significherebbe togliere al pubblico degli astrofili, degli studenti, degli studiosi di domani un canale prezioso di formazione e ispirazione. Ma non siamo soli in questa sfida. C’è una comunità straordinaria che ci sostiene. Autori che dedicano tempo e intelligenza con generosità, aziende che scelgono Coelum per valorizzare il proprio lavoro con contenuti di qualità, e soprattutto tantissimi lettori che, dal primo numero, ci accompagnano con affetto e continuità.

A tutti loro va il nostro riconoscimento più sincero. Oggi inizia un nuovo capitolo. Più moderno, più solido, più aperto.Venite con noi.” — Molisella Lattanzi, Direttrice Editoriale di Coelum Astronomia

Prezzo di lancio, abbonamenti e piattaforme online

Il nuovo Coelum sarà venduto in libreria al prezzo di lancio di 14,90 euro, una variazione inferiore al 5% rispetto al prezzo attuale, considerando che il costo di spedizione per la singola copia è pari a 2 euro.

Per chi ha già sottoscritto o rinnovato un abbonamento, non ci saranno variazioni di prezzo né di modalità di consegna.
L’unico cambiamento riguarderà l’imballaggio, che tornerà alla busta chiusa sigillata per garantire una maggiore protezione.

Sino alla fine di giugno, sarà ancora possibile abbonarsi usufruendo delle promozioni attualmente attive, con un risparmio considerevole rispetto al prezzo di copertina.
A partire da luglio (con data da definirsi), le promozioni saranno rimodulate in base alle nuove condizioni editoriali.

Infine, con l’adozione del nuovo formato libro, Coelum sarà disponibile anche sulle principali piattaforme online e su Amazon, ampliando ulteriormente le possibilità di accesso per tutti gli appassionati.

RISERVA ORA LA TUA COPIA DI COELUM 275 NEL NUOVO FORMATO

La Prima Legge Quadro Italiana per l’Economia Spaziale

Con l’approvazione definitiva al Senato l’11 giugno 2025, l’Italia compie un passo fondamentale nella direzione di una governance moderna, sovrana e competitiva delle proprie attività spaziali. La legge “Disposizioni in materia di economia dello spazio” (MES 1415) introduce, per la prima volta, un impianto normativo organico che regola autorizzazioni, responsabilità, controllo e sviluppo delle attività spaziali civili e commerciali. Una cornice giuridica che non solo colma un vuoto, ma che si inserisce in modo coerente nel panorama normativo internazionale ed europeo, affermando la volontà dell’Italia di giocare un ruolo da protagonista nella new space economy.

Le finalità della legge: sicurezza, innovazione e competitività


Fin dal primo articolo, il testo chiarisce l’intento strategico della norma: regolamentare l’accesso allo spazio extra-atmosferico per proteggere interessi economici, scientifici e di sicurezza nazionale, e contemporaneamente promuovere l’innovazione, lo sviluppo tecnologico e la valorizzazione delle competenze italiane nel settore.

Tra le attività considerate “spaziali” rientrano: il lancio e la gestione di oggetti in orbita, la rimozione di detriti, l’uso di piattaforme stratosferiche, l’estrazione di risorse da corpi celesti, la permanenza umana nello spazio e persino la produzione industriale in microgravità.

Autorizzazioni e vigilanza: una procedura strutturata e rigorosa

La legge stabilisce che ogni operatore, italiano o straniero, debba ottenere un’apposita autorizzazione per condurre attività spaziali sul territorio nazionale o sotto bandiera italiana. Il rilascio dell’autorizzazione è subordinato al possesso di requisiti oggettivi e soggettivi, tra cui:

  • idoneità tecnica e ambientale dei progetti,
  • resilienza informatica,
  • disponibilità di sistemi anti-collisione,
  • copertura assicurativa obbligatoria fino a 100 milioni di euro.

Il ruolo di vigilanza è affidato all’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), che svolge anche funzione di regolatore tecnico, in sinergia con il Comitato Interministeriale per le Politiche Spaziali (COMINT).

Registro nazionale e responsabilità: tracciabilità e trasparenza


Ogni oggetto spaziale lanciato sotto giurisdizione italiana deve essere immatricolato in un Registro nazionale, gestito da ASI, in linea con la Convenzione ONU sull’immatricolazione degli oggetti spaziali (1975). È previsto anche un Registro complementare per i satelliti gestiti da operatori italiani ma registrati all’estero.

La responsabilità civile per eventuali danni causati da oggetti spaziali è in capo all’operatore, ma lo Stato può intervenire in caso di risarcimenti internazionali (come previsto dalla Convenzione sulla responsabilità per danni da oggetti spaziali del 1972), con possibilità di rivalsa sull’operatore privato.

Lo spazio come leva economica: fondi e pianificazione pluriennale


La legge introduce due strumenti centrali per lo sviluppo dell’economia spaziale nazionale:

  • un Piano nazionale quinquennale per l’economia dello spazio, aggiornato ogni due anni dal COMINT in collaborazione con ASI e altri ministeri strategici;
  • un Fondo per l’economia dello spazio, con una dotazione iniziale di 35 milioni di euro (2025), destinato a finanziare progetti innovativi, startup e PMI attraverso contributi diretti o operazioni finanziarie.

Compatibilità internazionale: la legge italiana si allinea alle convenzioni ONU e alla normativa UE


L’impianto normativo italiano è attentamente costruito per risultare compatibile con le principali convenzioni internazionali ratificate dall’Italia:

  • Outer Space Treaty (1967): la legge italiana ne recepisce i principi di uso pacifico, responsabilità statale e giurisdizione nazionale.
  • Convention on Registration of Objects Launched into Outer Space (1975): la creazione del Registro nazionale risponde a obblighi formali previsti a livello ONU.
  • Convention on International Liability for Damage Caused by Space Objects (1972): la disciplina della responsabilità civile e del diritto di rivalsa è direttamente modellata su queste disposizioni.

Anche il rapporto con il quadro normativo europeo è pienamente rispettato. L’art. 27 esclude esplicitamente l’applicazione della legge italiana ai programmi spaziali europei già disciplinati dal Regolamento UE 2021/696 (Galileo, Copernicus, SSA, GOVSATCOM). Inoltre, la legge integra strumenti di finanziamento e sviluppo con quelli dell’Unione, come InvestEU, Horizon Europe e i fondi ESA, garantendo sinergia e interoperabilità con l’infrastruttura industriale europea.

Spazio e sovranità: infrastrutture strategiche e sicurezza nazionale


Particolarmente significativi sono gli articoli dedicati alla sicurezza:

  • viene promossa una riserva nazionale di capacità trasmissiva satellitare, per assicurare le comunicazioni governative anche in caso di blackout delle reti terrestri;
  • si sostiene l’uso strategico dei dati spaziali per la prevenzione dei rischi ambientali e il monitoraggio climatico;
  • si promuovono iniziative per l’uso efficiente dello spettro radioelettrico, in previsione dell’esplosione del traffico spaziale nei prossimi anni.

Una legge moderna per un settore in espansione


Con questo testo normativo, l’Italia si allinea finalmente ai Paesi che già da tempo hanno adottato leggi quadro per l’attività spaziale, come Francia, Lussemburgo e Germania. In particolare, la scelta di dare centralità all’ASI e di puntare su partenariati pubblico-privati rende la norma compatibile sia con le esigenze del mercato che con la necessaria tutela degli interessi pubblici.

Conclusione

La legge “MES 1415” non è solo un atto legislativo: è una dichiarazione d’intenti. Riconosce lo spazio come nuovo dominio strategico e industriale, e ne affida la gestione a una governance multilivello, dove Stato, imprese, ricerca e istituzioni collaborano per garantire innovazione, sicurezza e sovranità.

Sarà ora compito dei decreti attuativi e della politica industriale nazionale trasformare questo impianto giuridico in un’effettiva leva di sviluppo economico e geopolitico. Lo spazio, anche per l’Italia, è sempre meno solo un orizzonte e sempre più un campo d’azione.

Il testo completo è disponibile a questo LINK

Un mondo freddo e ribelle: 14 Herculis c e il caos celeste rivelato da Webb

Nel vasto panorama dei quasi 6.000 esopianeti scoperti finora, ce ne sono alcuni che sembrano voler sfidare le regole, anche se non esiste nessuna regola nel Cosmo.

È il caso di 14 Herculis c, un gigante gassoso descritto dai ricercatori come anormale, caotico e fuori dagli schemi, insomma con un bel caratteraccio.

Ma oggi, grazie alle straordinarie capacità del James Webb Space Telescope (JWST) della NASA, quel caos inizia a prendere forma. Utilizzando lo strumento NIRCam (Near Infrared Camera) , Webb è riuscito a catturare un’immagine diretta di 14 Herculis c, uno dei due pianeti che orbitano intorno alla stella 14 Herculis, distante circa 60 anni luce da noi.

La cosa sorprendente non è solo la precisione dell’immagine, ma la natura stessa del pianeta: con una temperatura di appena-3 °C, è uno degli esopianeti più gelidi mai osservati in modo diretto.

Nella maggior parte dei casi, infatti, i pianeti ripresi finora sono molto caldi. Ma 14 Herculis c, con una massa pari a sette volte quella di Giove, appartiene a una categoria completamente diversa: vecchio, freddo e distante, un bersaglio finora quasi inaccessibile alla strumentazione astronomica.

Immagine diretta del sistema 14 Her in cui 14 Her (la stella) è oscurata da un coronografo per bloccare la sua luce intensa. 14 Her c (il pianeta) è visibile come un punto brillante arancione in basso a destra, isolato dal bagliore stellare.

I risultati sono stati accettati per la pubblicazione su The Astrophysical Journal Letters e presentati durante il 246° congresso dell’American Astronomical Society, ad Anchorage, Alaska. Se il pianeta è straordinario, il sistema in cui si trova è ancora più singolare. A differenza del nostro Sistema Solare, dove i pianeti si muovono lungo orbite più o meno allineate, i due pianeti noti attorno a 14 Herculis non seguono lo stesso piano orbitale. Le loro traiettorie si incrociano, formando una sorta di “X” celeste attorno alla stella. È la prima volta che viene ottenuta un’immagine diretta di un pianeta all’interno di un sistema con orbite inclinate di ben 40 gradi tra loro.

Gli scienziati sospettano che l’origine di questo disordine risalga alla giovinezza del sistema: forse un terzo pianeta, ora scomparso, è stato espulso violentemente, alterando le orbite degli altri due e generando il caos che oggi possiamo osservare.

In un’epoca in cui si scoprono esopianeti ogni giorno, 14 Her c ci ricorda che alcuni mondi non si lasciano semplicemente scoprire: vanno compresi.

TOI-6883 diventa binario: il pianeta rinominato TOI-6883Ab

Una recente ricerca pubblicata su Research Notes of the American Astronomical Society (RNAAS) ha rivelato che la stella attorno a cui orbita il pianeta TOI-6883b è in realtà parte di un sistema binario. In conformità con le regole internazionali di nomenclatura, il pianeta è stato ridefinito TOI-6883Ab.

Lo studio è stato condotto da un team di astrofili composto da Giuseppe Conzo (autore principale), Fran Campos, Francesco Conti e Ian Sharp, e si basa su dati astrometrici di altissima precisione forniti dalla missione Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).

Fino a oggi considerato un sistema singolo, TOI-6883 si è dimostrato essere un sistema binario visivo, costituito da due stelle simili tra loro, separate da circa 616 unità astronomiche (oltre 90 miliardi di chilometri). Le due componenti, ora denominate TOI-6883A e TOI-6883B, mostrano identica parallasse e moti propri, confermandone la natura gravitazionalmente legata. Il periodo orbitale del sistema è stimato intorno a 15.000 anni.

Il pianeta, scoperto nel 2024 da Giuseppe Conzo e Mara Moriconi tramite i dati del satellite TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite), orbita attorno alla componente primaria TOI-6883A, da cui la nuova designazione TOI-6883Ab.

Secondo le analisi spettroscopiche condotte dal team SETI guidato da Lauren Sgro, TOI-6883Ab è classificato come un Warm Jupiter, un gigante gassoso con un’orbita relativamente stretta. La presenza della stella compagna potrebbe avere un impatto dinamico sull’intero sistema planetario, influenzandone l’evoluzione attraverso meccanismi come le oscillazioni di Kozai–Lidov.

L’infografica mostra le dimensioni relative delle due stelle TOI-6883A e TOI-6883B e l’orbita eccentrica del pianeta TOI-6883Ab attorno alla componente primaria.
Fonte Giuseppe Conzo

Questo risultato dimostra come anche i sistemi planetari apparentemente semplici possano nascondere strutture più complesse,” ha commentato Giuseppe Conzo. “Ed evidenzia l’importanza della collaborazione tra astronomi professionisti e astrofili.”

Quando avete iniziato a sospettare che TOI-6883 non fosse una stella singola?

“Abbiamo cominciato a sospettarlo circa 6 mesi fa analizzando i dati astrometrici ad alta precisione del catalogo Gaia DR3. Sebbene il pianeta TOI-6883b fosse stato attribuito a una singola stella (TIC 393818343), la presenza di una seconda sorgente molto vicina (TIC 393818340), con parametri astrometrici quasi identici, ci ha suggerito che il sistema potesse essere in realtà un binario visuale fisicamente legato”.

Quali strumenti o metodi avete utilizzato per confermare la natura binaria del sistema?

Abbiamo utilizzato principalmente i dati pubblici del satellite Gaia (Data Release 3), che fornisce parallassi, moti propri e fotometria ad altissima precisione. Confrontando questi parametri per entrambe le componenti, abbiamo riscontrato corrispondenze eccellenti. Inoltre, abbiamo calcolato la separazione angolare, la distanza proiettata, l’energia orbitale e il periodo kepleriano stimato. Tutti questi elementi supportano in modo coerente l’interpretazione di un sistema binario gravitazionalmente legato“.

Cosa comporta questo per il pianeta scoperto nel 2024?

La scoperta che il sistema è binario implica una revisione della nomenclatura del pianeta: da TOI-6883b a TOI-6883Ab, per indicare che orbita attorno alla componente principale (TOI-6883A). Inoltre, pur essendo il pianeta in un’orbita molto stretta e dinamicamente stabile, la presenza della compagna stellare TOI-6883B potrebbe avere effetti a lungo termine sul sistema planetario, come oscillazioni di tipo Kozai–Lidov. Questi aspetti dovranno essere monitorati in futuro“.

Questo studio è stato portato avanti anche da astrofili. Che ruolo ha giocato la Citizen Science?

La Citizen Science ha avuto un ruolo centrale. Il progetto è stato guidato da un team misto, con astrofili e osservatori indipendenti che hanno condotto osservazioni fotometriche da terra e analisi astrometriche avanzate. Questo dimostra come contributi scientificamente rigorosi possano emergere anche al di fuori del contesto accademico tradizionale, e come il coinvolgimento di astrofili esperti possa portare a pubblicazioni riconosciute e a veri avanzamenti nella conoscenza degli esopianeti“.

La scoperta rappresenta un importante contributo alla comprensione dell’influenza della molteplicità stellare sull’evoluzione dei sistemi planetari e costituisce un brillante esempio di ricerca partecipata.

https://iopscience.iop.org/article/10.3847/2515-5172/ade25d

arXiv Preprint: https://arxiv.org/abs/2506.08798

Autorotazione o propulsione? Un nuovo studio rilancia l’elicottero come sistema di atterraggio per le missioni planetarie

Clemens Riegler, Julian Mutter, Hakan Kayal (Università di Würzburg, Germania)

Un ritorno alle pale rotanti per esplorare altri mondi

Nell’immaginario collettivo, l’atterraggio su un altro pianeta avviene tramite spettacolari razzi che rallentano la discesa, come accade nelle missioni della NASA su Marte. Ma cosa succederebbe se si potesse atterrare senza usare carburante, come fanno gli elicotteri in caso di emergenza? Questa è la domanda che si sono posti tre ricercatori tedeschi, proponendo una tecnologia sorprendentemente “leggera”: l’autorotazione.

Atterrare senza carburante

L’autorotazione è un principio ben noto nell’aeronautica: quando un elicottero perde potenza, le pale continuano a girare spinte dall’aria in risalita, permettendo un atterraggio controllato. Lo studio propone di adattare questo meccanismo per veicoli spaziali, dotandoli di pale pieghevoli o gonfiabili che si aprono durante la discesa, sfruttando l’atmosfera del pianeta per rallentare e manovrare.

Il confronto: autorotazione vs propulsione

Utilizzando simulazioni fisiche dettagliate, gli autori hanno confrontato l’efficienza dei due sistemi in ambienti diversi: Terra, Marte, Titano (luna di Saturno) e Venere. Il modello considera una sonda di 1000 kg, con condizioni realistiche per gravità e atmosfera. Ecco cosa è emerso:

  • Sulla Terra e su Venere, l’autorotazione ha battuto la propulsione: ha raggiunto distanze fino a 2 km senza usare carburante, mentre i razzi esaurivano il propellente ben prima del traguardo.
  • Su Marte, l’atmosfera troppo rarefatta penalizza l’autorotazione, che non riesce a rallentare abbastanza. Qui i razzi restano la soluzione migliore.
  • Su Titano, entrambi i sistemi funzionano bene, ma l’autorotazione potrebbe offrire maggiore autonomia partendo da quote più elevate.

Una questione di atmosfera

Il vantaggio principale dell’autorotazione è il risparmio di massa: niente serbatoi, niente propellente, più spazio per strumenti scientifici. Ma funziona solo se c’è abbastanza atmosfera da “spingere” le pale. Per questo, l’idea è particolarmente promettente su pianeti con aria densa, come Venere e Titano.

Prospettive future: più scienza, meno carburante

I ricercatori vedono nell’autorotazione una via da esplorare per le future missioni, in particolare quelle scientifiche che non richiedono grandi carichi. Tra le sfide da affrontare: sviluppare rotori adattabili a diversi ambienti, migliorare i sistemi di controllo e testare l’apertura automatica delle pale in condizioni estreme.

Uno degli obiettivi futuri è aumentare l’altitudine di partenza: se oggi le simulazioni si fermano a 1 km dal suolo, in futuro si potrebbe estendere la discesa a decine di chilometri, moltiplicando la distanza coperta senza carburante.

Fonte: Science Direct

La Nebulosa Aragosta NGC 6357 in un MARE di STELLE

ABSTRACT

La regione di formazione stellare NGC 6357, nota anche come Nebulosa Aragosta, è stata osservata in dettaglio grazie al telescopio infrarosso VISTA dell’ESO, nell’ambito della survey VVV sulla Via Lattea. Situata a circa 8.000 anni luce nella Costellazione dello Scorpione, la nebulosa appare radicalmente diversa nell’infrarosso, che permette di oltrepassare le dense nubi di polvere e rivelare stelle nascoste. NGC 6357 ospita tre giovani ammassi stellari, tra cui Pismis 24, con alcune delle stelle più massicce conosciute, come Pismis 24-1 e la stella Wolf-Rayet WR 93. Le interazioni tra queste giganti stellari e l’ambiente circostante plasmano la nebulosa, generando cavità di gas, bolle calde e processi che possono sia ostacolare sia stimolare la formazione stellare. Le osservazioni condotte nell’arco di oltre 13 anni hanno permesso la mappatura infrarossa di oltre 1,5 miliardi di oggetti celesti, contribuendo a comprendere l’evoluzione strutturale della nostra galassia.


Nebulosa Aragosta o NGC 6357 Regione di Formazione stellare


Vaste nubi di gas e polveri che circondano stelle giovani e calde creano questo fiabesco arazzo cosmico, punteggiato di lucine brillanti. La ripresa nell’infrarosso si basa sui dati del telescopio VISTA (Visible and Infrared Survey Telescope for Astronomy) all’Osservatorio del Paranal dell’European Southern Observatory (ESO), in Cile. Inquadra la ricca regione di formazione stellare NGC 6357, situata a circa 8.000 anni luce di distanza da noi, nella Costellazione dello Scorpione.

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L’articolo è pubblicato in COELUM 274

 

JWST: Un tornado cosmico diretto verso una Galassia distante

Questa ripresa fenomenale del telescopio James Webb evidenzia in dettaglio i deflussi intricati e tortuosi dell’Oggetto di Herbig-Haro 49/50, la cui struttura deriva dall’impatto di getti di plasma ad alta velocità lanciati da una stella in formazione. Caso vuole che il deflusso protostellare punti direttamente verso una galassia a spirale più distante, posizionata perfettamente per l’occasione.
L’immagine composita combina dati acquisiti dalla NIRCam (Near-Infrared Camera) e dal MIRI (Mid-Infrared Instrument) a bordo del telescopio. Grazie alla relativa vicinanza a noi della giovane stella e alla risoluzione senza precedenti del JWST, la visione nell’infrarosso rivela strutture mai apprezzate prima a questo livello di finezza. I deflussi stellari da cui originano strutture come questa si estendono per vari anni luce e impattano ad alta velocità sul materiale nebulare circostante, riscaldandolo ad alte temperature e producendo onde d’urto. In seguito il materiale si raffredda ed emette luce a lunghezze d’onda visibile e infrarossa. L’oggetto era già stato osservato dal telescopio spaziale Spitzer e in quell’occasione gli scienziati lo avevano soprannominato “Tornado Cosmico” per la sua particolare forma ad elica.

 
La ripresa del telescopio Webb inquadra l’Oggetto di Herbig-Haro 49/50, un’intricata nube di forma conica originata dal getto di una giovane stella. Il bordo superiore del deflusso color arancio termina sovrapponendosi a una galassia a spirale di fondo, il cui bulge bluastro è attorniato da bracci a spirale rossastri. Lo sfondo oscuro è punteggiato da alcune stelle biancastre della Via Lattea e da numerose galassie più fioche e distanti. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI

HH 49/50 si trova a circa 630 anni luce dalla Terra, nella Costellazione del Camaleonte. Più in particolare, si annida all’interno della Nube del Camaleonte, uno dei complessi di nebulose oscure più vicini alla Terra, sul bordo interno del Braccio di Orione. La Nube del Camaleonte si divide in 3 strutture nebulari principali, fra le quali Chamaeleon I (Cha I ) è la più attiva nella formazione stellare e contiene una massa pari a un migliaio di Soli. La giovanissima protostella sorgente dei getti che danno origine a Herbig-Haro 49/50 appartiene proprio alla Nube Cha I. In questa nebulosa oscura sono stati identificati una ventina di oggetti HH, decine di giovani stelle T-Tauri, centinaia di sorgenti infrarosse, riconducibili a protostelle ancora circondate da spessi dischi circumstellari o involucri di gas e polveri, e numerose nane brune.
L’ambiente ricco della regione e la sua vicinanza alla Terra consentono agli astronomi uno studio approfondito delle dinamiche che regolano la formazione di stelle medio-piccole e di giovani ammassi. Uno studio di particolare importanza, in quanto si tratta di un ambiente simile a quello in cui si è formato il nostro Sole. Le osservazioni di HH 49/50 tracciano la posizione di molecole di idrogeno brillante, molecole di monossido di carbonio e grani di polvere (in arancio e rosso) energizzati dall’impatto del getto. I dati acquisiti rivelano inoltre che il deflusso stellare si allontana da noi a velocità pari a 100-300 chilometri al secondo e fa parte di un deflusso più vasto.
Secondo gli astronomi, la sorgente del getto è Cederblad 110 IRS4 (CED 110 IRS4), una protostella di Classe I localizzata a circa 1,5 anni luce da HH 49/50 (al di fuori dell’angolo in basso a destra nella ripresa di Webb). Simili stelle hanno un’età compresa tra poche decine di migliaia e un milione di anni, si trovano nelle fasi iniziali di acquisizione di massa e solitamente sono circondate da un disco distinguibile di materiale ancora in fase di ricaduta sulla protostella.
Dall’immagine si può osservare come non tutte le strutture arcuate che compongono HH 49/50 puntino nella stessa direzione. In alto a destra rispetto al deflusso principale, è visibile una formazione allungata che potrebbe derivare dalla sovrapposizione casuale di un ulteriore deflusso, dovuto al lento moto di precessione del getto sorgente intermittente. Oppure, questa struttura potrebbe avere origine da una frammentazione del deflusso principale.
La galassia visibile al termine del deflusso è una spirale molto più distante visibile di faccia. Il bulge centrale, rappresentato in blu, evidenzia la posizione delle stelle più vecchie e rivela indizi di “lobi laterali” che potrebbero suggerire la presenza di una barra. Addensamenti rossastri nei bracci rivelano la posizione di polveri calde e gruppi di stelle in formazione. L’allineamento fortuito tra galassia e getto è destinato a scomparire dalla vista: nel giro di poche migliaia di anni il bordo esterno del deflusso stellare procederà oltre e alla fine coprirà del tutto la lontana galassia.

Collaborazione Internazionale

Il JWST, il più grande telescopio spaziale mai lanciato, è una partnership tra NASA, ESA e CSA. Grazie a strumenti avanzati come NIRSpec e MIRI, e al supporto europeo, il Webb continua a rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo primordiale.

Fonte: ESAWEBB

L’articolo è pubblicato in Coelum 274

Un asteroide per don Luca Peyron: quando il cielo riconosce la fede e la scienza

Nel maggio 2025, l’asteroide 114772 (2002 NM5), scoperto nel 2002 dagli astronomi dell’Osservatorio di Campo Imperatore e di Torino, è stato ufficialmente intitolato “Luca Peyron” dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU). Questo riconoscimento celebra il sacerdote torinese per il suo impegno esemplare nel coniugare astronomia, fede e cultura, rendendo il cielo un luogo di riflessione spirituale e crescita educativa.

La motivazione ufficiale sottolinea come don Peyron sia stato capace di “collegare l’astronomia alla coscienza collettiva, utilizzando il cielo profondo non solo a fini scientifici, ma anche per la crescita culturale ed educativa”. Il gesto ha un forte valore simbolico: un corpo celeste che porta il suo nome testimonia la rilevanza di un percorso umano e intellettuale che ha saputo attraversare i confini tra scienza e spiritualità.

Don Luca Peyron, classe 1973, sacerdote dell’Arcidiocesi di Torino, è docente universitario, autore di saggi e promotore di un uso etico e consapevole delle tecnologie. Dopo una formazione in ambito giuridico-industriale, ha scelto il sacerdozio e si è distinto per la sua capacità di leggere il mondo digitale e scientifico alla luce del Vangelo.

Tra le sue pubblicazioni più recenti, il volume “Sconfinato. Nuove cronache di cieli sereni” (San Paolo, 2025) invita il lettore a un cammino contemplativo tra le stelle, dove l’osservazione astronomica diventa esercizio di introspezione, meditazione e interrogazione sul senso dell’umano nel cosmo.

Ha inoltre avuto un ruolo centrale nella missione “Spei Satelles”, che nel 2023 ha portato in orbita il primo satellite della Santa Sede: un progetto carico di simbolismo, pensato per trasmettere un messaggio di speranza attraverso le tecnologie spaziali.

Ma don Peyron è anche autore per la rivista Coelum Astronomia, punto di riferimento per gli appassionati del cielo, diversi i suoi contributi sia per Spei Satellite (vedi Coelum 266) che in occasione della ricorrenza dei 100 anni della legge di Hubble (vedi Coelum 270). Sul numero 274 della rivista, don Luca Peyron ha firmato l’editoriale dedicato a Papa Francesco.

LE SUPERNOVAE EXTRAGALATTICHE PIU’ LUMINOSE ED IMPORTANTI DELLA STORIA: SN1961H IN NGC4564

Primo spettro della SN1961H in NGC4564 ripreso l’11 maggio 1961 da Francesco Bertola con il telescopio Galileo da 122cm dell’Osservatorio di Asiago, posa di 90 minuti su pellicola Kodak 103 a-F.
Giuliano Romano nell’aprile del 2011.

Dalla SN1954A in NGC4214 analizzata nel precedente numero, ci spostiamo in avanti di sette anni ed approdiamo al 9 maggio 1961 con la SN1961H nella galassia NGC4564, che rappresenta la supernova più luminosa scoperta da un italiano. Stiamo parlando del prof. Giuliano Romano, un grande astrofilo che ha lasciato un segno indelebile nella ricerca amatoriale in generale e in modo particolare nella ricerca amatoriale di supernovae. Oltre a detenere il primato italiano della supernova più luminosa grazie appunto alla SN1961H che sfiorò al massimo di luminosità la mag. +11, è stato il primo italiano in assoluto a scoprire una supernova ed il primo astrofilo al mondo, individuando quattro anni prima, sempre nel mese di maggio, la SN1957B nella galassia M84.


Giuliano Romano nacque a Treviso il 16 novembre 1923. Rimase nel capoluogo veneto per tutta la sua vita, dove morì il 10 giugno 2013. Fin da bambino abitò nella villa conosciuta come Il Castello Romano disegnata dal nonno Fortunato e costruita dal padre Antonio. Aveva l’aspetto di un castello con due torri ed arredata con affreschi e statue. Dedicò tutta la sua vita alla ricerca astronomica. Pur essendo un professore laureato in matematica all’Università di Padova e docente di astrofisica, cosmologia, storia dell’astronomia, fisica e matematica, non era di fatto un astronomo professionista, ma un semplice astrofilo. Un astrofilo però di alta qualità, basti pensare alla scoperta di quasi trecento variabili e alle due supernovae menzionate prima, a cui ne seguì una terza: la SN1970O nella galassia IC3341. Ebbe rapporti professionali con astronomi professionisti del calibro di Leonida Rosino e Fritz Zwicky. Quest’ultimo lo contattò direttamente per proporgli di andare in America a lavorare per lui.

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GALRSG – CACCIA ALLE SUPERNOVAE GALATTICHE CON L’OCCHIO VIGILE DEL VLT Survey Telescope (VST)

ESO/G.Hüdepohl (atacamaphoto.com)

L’esplosione di una supernova nella nostra Galassia rappresenterebbe un evento astronomico di importanza capitale, offrendo agli scienziati un’opportunità unica per studiare da vicino le fasi finali della vita di una stella massiccia e le conseguenze della sua spettacolare morte. Il progetto GalRSG (Galactic Red Supergiants) si pone l’ambizioso obiettivo di monitorare un vasto campione di Supergiganti Rosse (RSG) galattiche alla ricerca di segni premonitori di un’imminente esplosione di supernova, sfruttando in modo cruciale le capacità del VLT Survey Telescope (VST).

Svelando i segreti degli ultimi istanti di vita delle stelle massicce

Negli ultimi anni, la comunità scientifica ha rivolto crescente attenzione ai fenomeni che precedono l’esplosione di una supernova. Studi sulle curve di luce di supernovae extragalattiche hanno rivelato che molte di esse sono avvolte da un denso mezzo circumstellare (CSM), formatosi probabilmente a causa di episodi di intensa perdita di massa nelle fasi finali della vita della stella progenitrice. Comprendere i meccanismi alla base di questa perdita di massa è fondamentale per delineare un quadro completo dell’evoluzione delle stelle massicce e della loro transizione verso lo stadio di supernova.
Le teorie più recenti suggeriscono che l’intensa convezione durante le ultime fasi di combustione nucleare nel nucleo di una RSG potrebbe generare onde di energia che si propagano verso l’inviluppo stellare e la sua superficie (la “fotosfera”), causando episodi di espulsione di massa. Questi “outburst” pre-supernova potrebbero manifestarsi come variazioni nella luminosità e nel colore della stella, offrendo potenzialmente un modo per prevedere, almeno in linea di principio, il collasso del nucleo e la conseguente esplosione di supernova.
Tuttavia, lo studio di questi fenomeni attraverso l’analisi di dati d’archivio di precursori di supernovae extragalattiche, che sono quelle che si osservano continuamente grazie alle survey di tutto il cielo appositamente progettate per scoprirle come “transienti”, presenta delle limitazioni. Innanzitutto, vi è un bias osservativo verso i precursori più luminosi, tipicamente corrispondenti a stelle di grande massa, maggiore di 20-30 masse solari. Invece, i precursori della supernove di tipo IIP/L, corrispondenti a stelle RSG di massa tra 8 e 15 masse solari, una popolazione intrinsecamente molto più numerosa dei precursori associati a stelle massicce, sono troppo deboli per essere visti a distanze extragalattiche e non possono essere studiati in grande dettaglio con i metodi tradizionali. In secondo luogo, i dati pre-supernova disponibili per le esplosioni extragalattiche, tipicamente il risultato di osservazioni di archivio di HST talvolta prese per tutt’altra ragione, sono spesso frammentari e non omogenei, provenienti da diversi strumenti e/o diversi filtri e con cadenze temporali irregolari e tipicamente molto più lunghe dei tempi scala dei fenomeni di “outburst” che ci aspettiamo da una stella morente.

Fig. 1 – Immagine a colori della regione N12-A del programma GalRSG dei dintorni degli ammassi aperti massicci XX e 3 nella regione dello Scudo. L’immagine è stata ottenuta combinando le osservazioni nel filtro Sloan-i e Sloan-z, e sommando, per ogni filtro, tutte le immagini ottenute per realizzare le serie temporali. Questa regione del piano è caratterizzata dalla presenza di grandi nubi molecolari che si stagliano nette di fronte al tappeto di stelle del piano galattico. Inoltre, questa regione si caratterizza anche dall’alto numero di stelle massicce di tipo Giganti Asintotiche e Supergiganti Rosse, che in questa immagine spiccano per il loro colore rossastro rispetto al bianco/blu delle altre stelle.

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OLTRE L’OMBRA i Nuovi Risultati dell’Event Horizon Telescope

 

La collaborazione internazionale dell’Event Horizon Telescope (EHT), composta da oltre 400 scienziati, ha recentemente pubblicato una nuova serie di risultati che spingono ancora più in là i confini della nostra comprensione. Tra immagini rivoluzionarie, nuove tecniche di analisi e progetti futuri ambiziosi, il biennio 2024-2025 si sta rivelando un periodo straordinariamente fertile per l’astrofisica dei buchi neri.

Sagittarius A*

Nel marzo 2024, l’EHT ha pubblicato un’immagine polarizzata di Sagittarius A* (Sgr A*), il buco nero al centro della nostra galassia. Per la prima volta, è stato possibile osservare la struttura del campo magnetico nelle regioni immediatamente circostanti l’orizzonte degli eventi. I dati rivelano la presenza di campi magnetici forti e ordinati, disposti in una configurazione a spirale. Questo suggerisce che, come nel caso di M87*, anche Sgr A* possa essere in grado di generare getti di plasma, sebbene non visibili con gli attuali strumenti.
La luce polarizzata, che è sensibile all’orientamento del campo magnetico, è stata fondamentale per questo risultato. I modelli numerici suggeriscono che la presenza di un campo toroidale può influenzare significativamente l’efficienza dell’accrescimento, modulando l’energia dissipata e la formazione di strutture turbolente. Inoltre, il confronto tra i dati osservativi e le simulazioni magnetoidrodinamiche relativistiche (GRMHD) ha rafforzato l’ipotesi che Sgr A* operi in un regime di accrescimento radiativamente inefficiente (RIAF), un modello in cui gran parte dell’energia liberata dall’accrescimento viene trasportata via da venti e non emessa come radiazione.

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PIANTARE PATATE SU MARTE – Agricoltura Spaziale

Dettagli delle coltivazioni di lattuga, cavolo nero e bietola all’interno della Plant Characterization Unit (PCU) situata presso il "Laboratory of CropResearch for Space" del Dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II.

IL LUNGO VIAGGIO DELL’AGRICOLTURA SPAZIALE

di Stefania De Pascale

Quando si immagina la vita nello spazio, si pensa a tecnologie avanzate e missioni epiche, ma raramente si riflette su ciò che è davvero essenziale: respirare, bere e mangiare. Eppure, questi aspetti sono tra i più complessi da garantire fuori dalla Terra.
Sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), in microgravità, anche bere un sorso d’acqua o consumare un pasto richiede soluzioni ingegnose. I liquidi fluttuano in bolle sospese, e i cibi – precotti, disidratati o termostabilizzati – sono conservati in confezioni appositamente progettate per consentirne il consumo in condizioni di microgravità. Le condizioni ambientali e fisiologiche alterano anche la percezione dei sapori, rendendo i cibi meno appetibili. Per ovviare a questo, si ricorre a condimenti intensi e menù personalizzati, ma il problema rimane.

Con l’arrivo delle missioni lunari e marziane, destinate a durare mesi o anni, sarà impossibile affidarsi solo ai rifornimenti da Terra. Per una missione su Marte, si stimano fino a 7,5 tonnellate di risorse (ossigeno, acqua e cibo)per astronauta: serve un nuovo modello di autosufficienza. Ed è qui che entra in gioco l’agricoltura spaziale.
Le piante, nello spazio, non solo producono cibo, ma rigenerano aria, purificano l’acqua, riciclano rifiuti organici e migliorano il benessere psicologico degli equipaggi. I primi esperimenti di coltivazione sulla ISS hanno già dato risultati positivi: nel 2015, per la prima volta, gli astronauti hanno consumato ufficialmente lattuga coltivata nello spazio. Ma il futuro richiederà colture più complesse e nutrienti sulla ISS.
In Europa, l’ESA e l’ASI finanziano progetti per coltivare specie come patate, legumi, cereali e micro-ortaggi, capaci di garantire un apporto nutrizionale completo. Sistemi avanzati di coltivazione fuori suolo (idroponica e aeroponica), serre modulari e ambienti controllati saranno fondamentali. L’intelligenza artificiale monitorerà i parametri ambientali – luce, temperatura, umidità, ossigeno – per adattare in tempo reale le condizioni di crescita.
Luna e Marte, però, presentano ambienti estremamente ostili. La Luna ha un’atmosfera quasi inesistente, escursioni termiche di oltre 300 gradi e radiazioni cosmiche intense. Marte, con la sua atmosfera rarefatta e le frequenti tempeste di polvere, impone la costruzione di habitat schermati e coltivazioni in ambienti chiusi, probabilmente sotterranei. Tuttavia, su Marte sarà possibile utilizzare risorse locali: ghiaccio per ottenere acqua, CO₂ atmosferica per la fotosintesi, e persino regolite trattata come substrato di coltivazione.
Le colture spaziali non saranno molto diverse da quelle terrestri: cereali (grano, riso), legumi (fagioli, soia), tuberi (patate) e ortaggi freschi a ciclo breve. Queste piante potranno essere adattate a condizioni estreme e contribuiranno a costruire ecosistemi autonomi: i Bioregenerative Life Support Systems (BLSS). Un esempio pionieristico è il programma MELiSSA dell’ESA, che dal 1987 studia sistemi chiusi basati sulle piante per riciclare aria, acqua e nutrienti.
Questa nuova agricoltura non servirà solo a sostenere la vita nello spazio, ma potrebbe avere importanti ricadute anche sulla Terra. Le tecnologie sviluppate per ambienti ostili potranno essere utilizzate in regioni aride, zone polari, contesti urbani o aree colpite da crisi umanitarie, contribuendo a un’agricoltura più resiliente e sostenibile e sarà proprio da questa consapevolezza – che la coltivazione rappresenta una condizione necessaria, non accessoria – che parte il lavoro della professoressa Stefania De Pascale, pioniera della ricerca agronomica spaziale in Italia, che attraverso l’intervista a seguire ci accompagnerà in un viaggio ancora più dettagliato all’interno delle sfide e delle prospettive dell’agricoltura extraterrestre.


Molisella Lattanzi: Professoressa De Pascale, nel suo lavoro lei evidenzia l’importanza dell’agricoltura per la sopravvivenza umana nello spazio. Quali sono oggi le principali tematiche di ricerca nel campo dell’agricoltura spaziale, e in quali progetti siete attualmente coinvolti?
Stefania De Pascale: Attualmente i principali ambiti di ricerca nell’agricoltura spaziale sono tre. Il primo riguarda la coltivazione di ortaggi freschi in microgravità per integrare la dieta degli astronauti su piattaforme orbitanti come la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) e, in futuro, il Lunar Gateway, la stazione spaziale cislunare pianificata dalla NASA. Il secondo si concentra sulla coltivazione di specie più caloriche e nutrienti come cereali, leguminose e patate, essenziali per missioni spaziali di lunga durata a bordo di veicoli interplanetari (es. il Mars Transit Vehicle). Il terzo ambito riguarda l’integrazione delle piante in un Bioregenerative Life Support System (BLSS), per rigenerare risorse vitali come aria e acqua e produrre cibo nelle future basi lunari e marziane.
Ma andiamo con ordine. 

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IL SUONO DELL’UNIVERSO- III FESTIVAL DI ASTRONOMIA 2025

Torna il Festival di Astronomia, un appuntamento imperdibile per gli appassionati di scienza e per i curiosi del cielo, ma anche per chi ci si avvicina per la prima volta.

Dal 6 all’8 giugno, la Fortezza Nuova di Livorno ospiterà tre giorni di eventi gratuiti tra mostre, osservazioni astronomiche, laboratori, realtà virtuale e conferenze, all’insegna del tema “Il Suono dell’Universo”.

La prima serata inizia con due appuntamenti d’eccezione i per gli amanti del cielo. Dalle 19:00 potrete immergervi nella splendida Mostra di Astrofotografia dei soci ALSA e assistere alle affascinanti videoproiezioni astronomiche e stampe 3D. Il vero clou della serata sarà alle 21:30 con “La più folle delle imprese”, un evento speciale a cura dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo (EGO), che ospita il rivelatore di onde gravitazionali Virgo nella campagna vicino Pisa, per celebrare i 10 anni dalla rivoluzionaria scoperta delle onde gravitazionali. Sul palco Barbara Patricelli (INFN Pisa) e Fiodor Sorrentino (INFN Genova), protagonisti di questa avventura scientifica, che sono pronti a guidarci attraverso i dieci anni di questa straordinaria scoperta. Con loro, le suggestive letture teatralizzate di Giulia Perelli tratte da “La musica nascosta dell’universo” e gli intermezzi musicali del sassofonista Dimitri Grechi Espinoza, che trasformerà in note l’emozione della scoperta. A controllare la rotta, Vincenzo Napolano di EGO per un viaggio tra scienza e arte che ci lascerà senza fiato. Prima di tornare a casa, non perdete l’occasione di osservare le stelle attraverso i telescopi dell’ALSA, disponibili fino alle 23:00.

Non mancherà lo spazio per le nuove generazioni: sabato e domenica, Michele Scardigli presenta “Mini Talk, Maxi Curiosità”, un intervento giovane e appassionato tra una conferenza e l’altra. Sabato tantissime attività per tutti i gusti. Dalle 10:00 aprirà la visita alla mostra fotografica e sarà possibile sperimentare la realtà virtuale con Cultura Immersiva e assistere alle proiezioni curate da Damiano Esposito (ALSA).
Del pomeriggio, spazio alla scienza con l’osservazione del Sole (15:00-18:00) e un curioso incontro su “La fisica del sax” con l’Università di Pavia. Laboratorio astronomico per bambini (17:00-19:00)

con Manifattura Lizard (prenotazioni: manifatturalizard@gmail.com).Un’occasione unica da non perdere, adatta a grandi e piccini è nella serata, dalle 18.00 alle 23.00: salite a bordo della “Big Bang Machine”, un’installazione immersiva che vi farà viaggiare indietro nel tempo fino agli eventi più catastrofici dell’universo. Grazie a EGO (e al supporto di IVECO Italia e Fondazione Pisa), vivrete in prima persona le fusioni di buchi neri, le esplosioni di stelle di neutroni e persino i primi istanti dopo il Big Bang. La serata non è ancora finita e prosegue con le osservazioni astronomiche e alle 21:30 con “Polvere di Stelle”, dove il fotografo e divulgatore Luca Fornaciari svelerà i segreti dell’astrofotografia. L’ultima giornata del festival è dedicata all’ascolto dell’universo. Saranno ancora a disposizione le mostre e i telescopi di ALSA, inoltre i più piccoli potranno diventare ricercatori per un giorno con “A caccia di suoni cosmici” (17:30-18:30), un laboratorio per imparare a riconoscere le onde gravitazionali tra i rumori terrestri (prenotazioni: info@alsaweb.it).Alle 18:00 l’astronomo Gianni Comoretto (INAF e ALSA) ci parlerà del nostro satellite con l’affascinante “La Luna Storta”. A seguire un gran finale con lo spettacolo “Cosa significa ascoltare il cosmo?” (21:30-22:30). Un dialogo suggestivo tra scienza e musica, con brani originali di Mario Salvucci, che ci farà scoprire come “suona” l’universo attraverso invisibili segnali cosmici. Questo il programma nel dettaglio:


Venerdì 6 Giugno 19:00-24:00

Mostra di Astrofotografia (ALSA) Videoproiezioni (ALSA)
21:00-23:00Osservazioni al telescopio (ALSA)
21:30-22:30″La più folle delle imprese” – Conferenza a cura di EGO-VIRGO


Sabato 7 Giugno

10:00-24:00 Mostra di Astrofotografia (ALSA) Videoproiezioni (ALSA) Realtà virtuale (Cultura Immersiva)
15:00-18:00 Osservazione del Sole (ALSA)16:00-17:00 “La fisica del sax” – Università di Pavia
17:00-19:00 Laboratorio astronomico per bambini (Manifattura Lizard)
18:00-23.00 “Big Bang Machine” – EGO-VIRGO
21:00-23:00 Osservazioni al telescopio (ALSA)
21:30-22:30″Polvere di Stelle, l’arte dell’astrofotografia” – Con Luca Fornaciari


Domenica 8 Giugno

10:00-24:00 Mostra di Astrofotografia (ALSA)Videoproiezioni (ALSA)Realtà virtuale (Cultura Immersiva)
15:00-18:00 Osservazione del Sole (ALSA)
17:30-18:30 “A caccia di suoni cosmici” – Laboratorio per bambini (EGO-VIRGO)
18:00-19:00 “La Luna Storta” – Con Gianni Comoretto (INAF e ALSA)
21:00-23:00 Osservazioni al telescopio (ALSA)
21:30-22:30 “Cosa significa ascoltare il cosmo?” – EGO-VIRGO

Il PDF del programma completo è disponibile QUI per il download

Una Fortezza tutta nuova

Voluta dai Medici alla fine del ‘500, Fortezza Nuova è il polmone verde del centro storico livornese. Icona del quartiere Venezia, spicca come un’isola fortificata, circondata dal Fosso Reale. 44 mila metri quadrati di parco pubblico, disseminato di locali completamente restaurati, ospitano tutto l’anno eventi artistici, didattici, scientifici. La città si riappropria di uno spazio nevralgico grazie a un progetto di riqualificazione, destinato a restituire un gioiello dal valore straordinario.

Per info e prenotazioni segui l’evento su FB

Droni a Lunga Autonomia per Marte: l’Ala Perfetta

Progettare le ali per Marte: come ottimizzare i droni a lunga autonomia per volare sul Pianeta Rosso

Negli ultimi venticinque anni, l’esplorazione del Pianeta Rosso ha fatto affidamento quasi esclusivamente su orbiter e rover. Tuttavia, con l’evoluzione delle tecnologie aerospaziali, sta emergendo una nuova generazione di veicoli: i droni, o più precisamente, i velivoli a pilotaggio remoto (UAV). Un esempio pionieristico è l’elicottero Ingenuity della NASA, che dal 2021 ha dimostrato la fattibilità del volo in un’atmosfera estremamente rarefatta come quella marziana. Ma la sua autonomia ridotta limita fortemente le capacità esplorative.

Per superare questo limite, l’attenzione si sta spostando sui droni ad ala fissa, potenzialmente in grado di offrire maggiore autonomia e copertura del suolo. Il problema? Progettare velivoli capaci di volare in condizioni aerodinamiche radicalmente diverse da quelle terrestri.

Le sfide del volo in atmosfera marziana

L’atmosfera di Marte ha una densità circa 100 volte inferiore a quella terrestre. In questo contesto, un drone di piccole dimensioni opera a numeri di Reynolds estremamente bassi, condizione in cui la viscosità domina sull’inerzia. Questo porta a fenomeni di separazione del flusso laminare e alla formazione di Laminar Separation Bubble (LSB), che compromettono l’efficienza del volo.

Inoltre, a causa della bassa velocità del suono su Marte, i flussi diventano compressibili anche a velocità moderate, con effetti negativi sull’aerodinamica. L’ottimizzazione della forma dell’ala e della sua geometria generale diventa quindi una questione cruciale.

L’ottimizzazione secondo il Politecnico di Milano

Sede del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali del Politecnico di Milano

In questo contesto si inserisce la ricerca di Francesco Corcione, Giuseppe Quaranta e Pierangelo Masarati, del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali del Politecnico di Milano (Italia), pubblicata nel 2025 su Aerospace Science and Technology.

Gli autori propongono un processo di ottimizzazione aerodinamica avanzata per un drone marziano ad ala fissa, concepito per il volo livellato a bassa quota. Il metodo impiega:

  • Free-Form Deformation (FFD) per modellare con precisione i profili alari.
  • Un modello parametrico della geometria del piano alare.
  • Algoritmi genetici, supportati da tecniche di Design of Experiments (DoE) e response surface modeling, per identificare le soluzioni ottimali.
  • Il software XFoil per calcolare la resistenza da attrito e AVL per la resistenza indotta.
  • Una rete neurale addestrata con i dati aerodinamici per accelerare le valutazioni preliminari.

Le configurazioni ottenute sono state infine validate tramite OpenVSP, uno strumento open-source di modellazione parametrica aerodinamica, calibrato con simulazioni CFD ad alta fedeltà.

Risultati e prospettive

L’ottimizzazione ha portato all’identificazione di due ali ottimali, entrambe in grado di massimizzare l’efficienza aerodinamica entro i limiti di massa, Mach critico e stabilità longitudinale. Le soluzioni evidenziano la necessità di:

  • Profili a bordo d’attacco affilato,
  • Bassa curvatura (camber),
  • Spessore ridotto per minimizzare la separazione del flusso in regime a basso Reynolds.

L’efficacia delle soluzioni proposte conferma quanto sia fondamentale adottare strategie progettuali specifiche per il volo marziano, distanti dalle configurazioni impiegate per i droni terrestri.

Un panorama di ricerca internazionale

Lo studio si inserisce in un ampio contesto internazionale che vede coinvolti istituti di primo piano come:

NASA Ames Research Center, con studi di Koning et al. su profili a basso Reynolds,

JAXA (Giappone), dove Anyoji e Sasaki hanno validato airfoil per droni marziani con test in quota,

Stanford University, con tesi sulle configurazioni aerodinamiche a bordo affilato e volo a bassissimo numero di Reynolds

Università cinesi e gruppi di ricerca come quelli di Zhang e Li, che impiegano reti neurali e superfici surrogate per l’ottimizzazione dei profili.

Fonte: Science Direct

Astronomia in Tempo di Guerra

Celebre dipinto Gassed (1919) di John Singer Sargent, un’opera emblematica della Prima Guerra Mondiale. Vista laterale di una fila di soldati guidati lungo una passerella da un infermiere militare. Hanno tutti gli occhi bendati, a causa dell’esposizione ai gas. Di John Singer Sargent - Collezione del Museo Imperiale della Guerra.
Un Faro di Pace Durante il Primo Conflitto Mondiale (1914-1918)

Il fragore assordante dei cannoni, il cupo presagio delle trincee che si estendevano come cicatrici sulla terra d’Europa, l’ombra opprimente della Grande Guerra (28 luglio 1914 – 11 novembre 1918): questi furono gli anni che sconvolsero il mondo, seminando divisione e dolore tra le nazioni. Eppure, in questo scenario di conflitto globale, dove l’umanità sembrava essersi smarrita nell’odio reciproco, un’altra storia, silenziosa e tenace, continuava a dispiegarsi. Lontano dai campi di battaglia, un “esercito” di scienziati, animati da una curiosità insaziabile e da una fede incrollabile nel potere della conoscenza, manteneva lo sguardo rivolto verso l’alto. Mentre le potenze terrestri si scontravano con una ferocia inaudita, gli astronomi, custodi della notte e interpreti del linguaggio delle stelle, proseguivano la loro esplorazione del cosmo. Armati della tecnologia ottica pionieristica dell’epoca, con la pazienza certosina che contraddistingue la loro disciplina, scrutavano l’immensità del cielo notturno, portando alla luce nuovi, silenziosi viaggiatori del nostro sistema solare. In quegli anni bui la comunità Astronomica catalogò ben 110 asteroidi. Queste scoperte testimoniano la capacità intrinseca dell’astronomia di unire gli animi e il cielo stellato divenne un inatteso faro di pace al di là delle contese terrene.


La cronologia di queste scoperte, meticolosamente registrate dagli osservatori di diverse nazioni, ci offre uno sguardo singolare sulla persistenza della ricerca astronomica durante gli anni del Primo Conflitto Mondiale. Ogni data segna un piccolo trionfo della scienza, una luce accesa nell’oscurità del conflitto, con astronomi che, nonostante le avversità, continuavano a scrutare il cielo, rivelando nuovi corpi celesti (vedi tabella).

Numero Nome Data Scoperta Scopritore Nazione
794 Irenaea 27-ago-14 Johann Palisa Austria
795 Fini 26-set-14 Johann Palisa Austria
796 Sarita 15-ott-14 Karl Wilhelm Reinmuth Germania
797 Montana 17-nov-14 Holger Thiele Germania
799 Gudula 09-mar-15 Karl Wilhelm Reinmuth Germania
800 Kressmannia 20-mar-15 Max Wolf Germania
801 Helwerthia 20-mar-15 Max Wolf Germania
802 Epyaxa 20-mar-15 Max Wolf Germania
803 Picka 21-mar-15 Johann Palisa Austria
804 Hispania 20-mar-15 Josep Comas i Solà Spagna
805 Hormuthia 17-apr-15 max wolf Germania
806 Gyldénia 18-apr-15 Max wolf Germania
807 Ceraskia 18-apr-15 max wolf Germania
916 America 07-ago-15 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
809 Lundia 11-ago-15 Max Wolf Germania
847 Agnia 02-set-15 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
848 Inna 05-set-15 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
917 Lyka 05-set-15 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
810 Atossa 08-set-15 Max Wolf Germania
811 Nauheima 08-set-15 Max Wolf Germania
812 Adele 08-set-15 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
877 Walküre 13-set-15 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
1847 Stobbe 01-feb-16 Holger Thiele Germania
814 Tauris 02-gen-16 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
815 Coppelia 02-feb-16 Max Wolf Germania
816 Juliana 08-feb-16 Max Wolf Germania
817 Annika 06-feb-16 Max Wolf Germania
818 Kapteynia 21-feb-16 Max Wolf Germania
867 Kovacia 25-feb-17 Johann Palisa Austria
819 Barnardiana 03-mar-16 Max Wolf Germania
824 Anastasia 25-mar-16 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
850 Altona 27-mar-16 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
820 Adriana 30-mar-16 Max Wolf Germania
821 Fanny 31-mar-16 Max Wolf Germania
822 Lalage 31-mar-16 Max Wolf Germania
823 Sisigambis 31-mar-16 Max Wolf Germania
851 Zeissia 02-apr-16 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
852 Wladilena 02-apr-16 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
853 Nansenia 02-apr-16 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
854 Frostia 03-apr-16 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
855 Newcombia 03-apr-16 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
856 Backlunda 03-apr-16 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
857 Glasenappia 06-apr-16 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
826 Henrika 28-apr-16 Max Wolf Germania
858 El Djezaïr 26-mag-16 Frédéric Sy Francia
876 Scott 20-giu-17 Johann Palisa Austria
951 Gaspra 30-lug-16 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
3229 Solnhofen 09-ago-16 Holger Thiele Germania
829 Academia 25-ago-16 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
830 Petropolitana 25-ago-16 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
827 Wolfiana 29-ago-16 Johann Palisa Austria
828 Lindemannia 29-ago-16 Johann Palisa Austria
847 Agnia 02-set-15 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
848 Inna 05-set-15 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
810 Atossa 08-set-15 Max Wolf Germania
811 Nauheima 08-set-15 Max Wolf Germania
812 Adele 08-set-15 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
877 Walküre 13-set-15 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
831 Stateira 20-set-16 Max Wolf Germania
832 Karin 20-set-16 Max Wolf Germania
833 Monica 20-set-16 Max Wolf Germania
834 Burnhamia 20-set-16 Max Wolf Germania
835 Olivia 23-set-16 Max Wolf Germania
836 Jole 23-set-16 Max Wolf Germania
837 Schwarzschilda 23-set-16 Max Wolf Germania
838 Seraphina 24-set-16 Max Wolf Germania
839 Valborg 24-set-16 Max Wolf Germania
840 Zenobia 25-set-16 Max Wolf Germania
843 Nicolaia 30-set-16 Holger Thiele Germania
841 Arabella 01-ott-16 Max Wolf Germania
842 Kerstin 01-ott-16 Max Wolf Germania
859 Bouzaréah 02-ott-16 Frédéric Sy Francia
952 Caia 27-ott-16 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
845 Naëma 16-nov-16 Max Wolf Germania
846 Lipperta 26-nov-16 Knut Anton Walter Gyllenberg Germania
860 Ursina 22-gen-17 Max Wolf Germania
861 Aïda 22-gen-17 Max Wolf Germania
862 Franzia 28-gen-17 Max Wolf Germania
863 Benkoela 09-feb-17 Max Wolf Germania
865 Zubaida 15-feb-17 Max Wolf Germania
866 Fatme 25-feb-17 Max Wolf Germania
867 Kovacia 25-feb-17 Johann Palisa Austria
868 Lova 26-apr-17 Max Wolf Germania
870 Manto 12-mag-17 Max Wolf Germania
871 Amneris 14-mag-17 Max Wolf Germania
872 Holda 21-mag-17 Max Wolf Germania
873 Mechthild 21-mag-17 Max Wolf Germania
874 Rotraut 25-mag-17 Max Wolf Germania
875 Nymphe 19-mag-17 Max Wolf Germania
876 Scott 20-giu-17 Johann Palisa Austria
879 Ricarda 22-lug-17 Max Wolf Germania
880 Herba 22-lug-17 Max Wolf Germania
881 Athene 22-lug-17 Max Wolf Germania
882 Swetlana 15-ago-17 Grigorij Nikolaevič Neujmin Russia
883 Matterania 14-set-17 Max Wolf Germania
884 Priamus 22-set-17 Max Wolf Germania
885 Ulrike 23-set-17 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
981 Martina 23-set-17 Sergej Ivanovič Beljavskij Russia
887 Alinda 03-gen-18 Max Wolf Germania
888 Parysatis 02-feb-18 Max Wolf Germania
889 Erynia 05-mar-18 max wolf Germania
890 Waltraut 11-mar-18 Max wolf Germania
891 Gunhild 17-mag-18 max wolf Germania
892 Seeligeria 31-mag-18 Max Wolf Germania
893 Leopoldina 31-mag-18 Max Wolf Germania
894 Erda 04-giu-18 Max Wolf Germania
895 Helio 11-lug-18 Max Wolf Germania
896 Sphinx 01-ago-16 Max Wolf Germania
897 Lysistrata 03-ago-18 Max Wolf Germania
898 Hildegard 03-ago-18 Max Wolf Germania
899 Jokaste 03-ago-18 Max Wolf Germania
900 Rosalinde 10-ago-18 Max Wolf Germania
901 Brunsia 30-ago-18 Max Wolf Germania
902 Probitas 03-set-18 Johann Palisa Austria
903 Nealley 13-set-18 Johann Palisa Austria
904 Rockefellia 29-ott-18 Max Wolf Germania

Elenco degli asteroidi scoperti durante la prima guerra mondiale ordinati per data di individuazione, con l’indicazione del nome, dello scopritore e della nazione dove avvenne la scoperta.

Potrebbe apparire controintuitivo che l’ordine in cui gli asteroidi vengono scoperti non corrisponda alla sequenza numerica con cui sono ufficialmente catalogati. Questa apparente anomalia affonda le radici nel rigoroso processo di determinazione orbitale definitiva.
Quando un astronomo individua un nuovo asteroide, la sua scoperta è contrassegnata da una designazione provvisoria. Questa sorta di nome in codice è composto dall’anno della scoperta e da una combinazione di lettere che ne indicano l’ordine di ritrovamento all’interno di quell’anno. Pensate a “1916 AA”, dove “AA” segnala che è stato il primo asteroide scoperto nel 1916, “1916 AB” il secondo, e così via.
Tuttavia, per elevare un asteroide al rango di membro numerato del sistema solare, è necessario un lavoro di precisione molto più complesso. Gli astronomi di tutto il mondo devono dedicare tempo e risorse per effettuare osservazioni di follow-up dell’oggetto nel corso di diverse notti, settimane, mesi, o persino anni fornendo i dati necessari per calcolare con accuratezza della sua orbita.
Solo quando questa orbita è ritenuta sufficientemente precisa e stabile – ovvero, quando gli scienziati sono in grado di prevedere con un buon grado di certezza il percorso futuro dell’asteroide – l’Unione Astronomica Internazionale (IAU) interviene per assegnare un numero definitivo. Si tratta di un numero progressivo che riflette l’ordine in cui le orbite degli asteroidi vengono determinate e ufficialmente riconosciute dalla comunità scientifica internazionale.
Di conseguenza, un asteroide scoperto in un dato momento potrebbe avere un’orbita particolarmente complessa da definire, oppure potrebbe essere stato osservato meno frequentemente a causa della sua debole luminosità o di condizioni osservative sfavorevoli. In questi casi, potrebbe dover attendere ulteriori osservazioni per consentire un calcolo orbitale affidabile, ricevendo il suo numero definitivo solo dopo asteroidi scoperti successivamente.

La Distribuzione Geografica delle Scoperte

La provenienza degli astronomi coinvolti nelle nuove scoperte, e i luoghi dove operavano – i loro osservatori – sono testimoni di una ricerca continua, alimentata dalla dedizione di individui provenienti da nazioni in conflitto e neutrali.

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LUNA PIENA DEL LUNISTIZIO – EVENTO DI ARCHEOASTRONOMIA


Corfinio l’11 giugno 2025, alle ore 21,00 presso i “Morroni”

A intervalli di circa 18.6 anni, la Luna compie un movimento orbitale straordinario: il lunistizio meridionale maggiore, un raro evento astronomico durante il quale il nostro satellite, visto dall’emisfero boreale fino a certe latitudini, sorge da una delle posizioni più meridionali possibili rispetto all’orizzonte montuoso, apparendo insolitamente basso nel cielo.

Nella serata dell’11 giugno, uno dei lunistizi meridionali del 2025, coinciderà con la fase del plenilunio: il disco lunare si mostrerà luminoso e visibile dai luoghi simbolici dell’antica Corfinium. Nei pressi dei Morroni, nuclei di imponenti mausolei funerari a torre risalenti al I–II secolo d.C., sarà possibile osservare la Luna levarsi dalla vetta del Monte Pizzalto in asse con questi monumenti, intorno alle ore 22,00.

Dopo l’osservazione della levata della Luna, seguirà una visita guidata al museo Lapidarium, dove è conservata un’interessante collezione di epigrafi dell’antica Corfinium.

La serata, ideata dal prof. Salvatore Marinucci, offrirà un’occasione speciale per coniugare narrazione e osservazione astronomica, alla riscoperta delle antiche connessioni tra cultura, paesaggio e cicli celesti.


Narratori: Dott. Francesco Di Nisio; Prof. Enzo Presutti e Prof. Salvatore Marinucci.

Per informazioni e prenotazioni: Tel. 350 1392252

Evento sostenuto da COELUM Astronomia

Si ringrazia il Comune di Corfinio per il gentile patrocinio

Il MULTIVERSO quali chiavi di lettura?

Istruzioni, ad usum Delphini, sul concetto di multiverso, le sue diverse versioni e le sue implicazioni riguardo all’interpretazione della vita nella nostra regione di universo.

Nel corso della storia, la nostra concezione dell’universo si è progressivamente modificata e perfezionata, passando da un oggetto finito, di volume fisso e abbastanza ordinato, apparso in un momento ben preciso – il fatidico big bang – a una profusione disordinata ed eterna, l’idea di un universo uniforme che si espande e si evolve e che, agli albori, avrebbe subìto per breve tempo un’espansione rapida e accelerata, chiamata inflazione, in grado di generare regioni “pulite”, a bassa entropia, di favorire la comparsa di strutture come galassie, stelle, rocce. La teoria dell’inflazione, originariamente introdotta da Alan Guth nel 1980 e successivamente sviluppata in uno schema fecondo da Andrei Linde, ha mostrato che l’universo può essere visto come un sistema che si autoriproduce, caratterizzato non da un unico big bang ma da un insieme di big bang multipli.
Una proprietà cruciale dell’inflazione sta nel fatto che il campo che la genera deve evolvere in modo che a un certo punto la sua densità di energia del vuoto possa sparire, o trasformarsi in un altro tipo di energia. Come conseguenza di questo, risulta molto improbabile che l’inflazione si fermi dappertutto nello stesso istante ed è possibile, per esempio, che nel tempo necessario a raddoppiare il volume, se il processo in grado di fermare l’inflazione agisce solo in metà di spazio, globalmente l’inflazione può non finire mai. A questo proposito, molti cosmologi invocano l’idea di bolle di non-inflazione, ovvero di strutture che possono formarsi spontaneamente per via quantistica e che poi crescerebbero a spese del volume esterno che subisce l’inflazione ma che, pur espandendosi, consumano solo una frazione fissa dello spazio che subisce l’inflazione. In questo quadro, ne deriva così che, col passare del tempo, le regioni soggette o meno all’inflazione danno luogo a una distribuzione complessa di tipo frattale di stati diversi dello spazio-tempo e l’inflazione non esaurisce mai lo spazio da espandere in quanto genera di volta in volta il proprio spazio. Questo processo, denominato originariamente da Linde inflazione eterna, comporta che abbiamo a che fare con la formazione di infinite chiazze post-inflazionarie simili a palle di fuoco, generate da regioni che subiscono l’inflazione eterna, ciascuna delle quali è più grande del nostro universo osservabile. In virtù di questo processo infinito di creazione e autoriproduzione di chiazze post-inflazionarie, per usare delle parole di Linde, si può dire che “nella Sua saggezza Dio ha creato un universo che non ha mai smesso di generare universi di tutti i tipi possibili”1 . L’idea dell’inflazione eterna implica cioè che l’intero universo sia enormemente più grande e complesso – non solo per dimensioni ma anche per diversità di caratteristiche – rispetto all’universo che siamo in grado di osservare con i nostri strumenti.

Le due prospettive generali e il principio antropico

Basandosi su un pugno di teorie fondamentali, vale a dire meccanica quantistica, relatività generale e inflazione, la fisica arriva all’esistenza di un “multiverso” che si estende all’infinito nel futuro (e magari nel passato), non ha confini nello spazio e magari, se è valida una teoria simile a quella delle stringhe (la quale invoca sei-sette dimensioni addizionali dello spazio, piccole, arrotolate, nascoste, la cui geometria è definita da centinaia di parametri che possono variare con continuità da un punto a un altro e da cui derivano le varie costanti della natura che figurano nel Modello Standard della fisica delle particelle) esibisce proprietà sorprendentemente variegate nel senso che avremmo tanti universi paralleli, caratterizzati da diversi valori delle costanti fondamentali e da un diverso contenuto di campi e particelle. In questo quadro, sembra del tutto ragionevole ipotizzare che solo qualche universo generato dall’inflazione eterna contenga esseri senzienti e forme di vita basate sulle interazioni chimiche tra molecole tenute insieme dalle forze elettromagnetiche.
Ma l’esistenza del multiverso può anche essere vista da un prospettiva diversa. Si può supporre che l’inflazione non sia eterna, che dopo l’origine dell’universo l’inflazione agisca per un po’ e poi si interrompa. Allora, sotto queste ipotesi, lo stato iniziale dell’universo evolverà in una sovrapposizione di numerose possibilità e questi universi sovrapposti avrebbero proprietà classiche abbastanza diverse. Si avrebbe cioè un multiverso quantistico in cui la fisica può ammettere diversi valori di proprietà come le costanti fondamentali, ecc…

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La Luna del Mese – Giugno 2025

LA LUNA DI GIUGNO 2025

Superato ormai il Novilunio del 27 Maggio, il Sole illumina porzioni sempre più ampie del suolo lunare col nostro satellite che in fase crescente di 4,8 giorni la prima notte del mese scenderà sotto l’orizzonte alle ore 01:00 circa dell’1 Giugno, ben visibile fin dalla sera precedente. Saranno pertanto già possibili interessanti osservazioni sulle imponenti e spettacolari strutture situate in prossimità del bordo lunare orientale, dal settore nordest fino al mare Crisium con gli adiacenti mari Marginis, Undarum, Spumans e Smythii, per proseguire poi lungo il lato est del mare Fecunditatis con i quattro vasti crateri Langrenus, Vendelinus, Petavius, Furnerius inoltrandoci poi nel settore sudest del nostro satellite. Per l’occasione la massima librazione coinciderà con l’area ad est del cratere Humboldt, diametro di 207 km e con pareti alte circa 5000mt.

cratere LANGRENUS lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio 01 giugno

PANORAMICA crateri lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio e 01 giugno

cratere PETAVIUS lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio e 01 giugno

Alle ore 05:41 del 03 Giugno 2025 la Luna sarà in Primo Quarto ma a -36° sotto l’orizzonte in attesa di sorgere alle ore 13:10. Per effettuare osservazioni col telescopio, considerando la stagione estiva, basterà attendere almeno intorno alle ore 21:30 quando il disco lunare illuminato a metà si troverà ancora ad un’altezza di +44°, più che sufficiente per una piacevole serata osservativa che potrà essere estesa fin verso le prime ore della notte successiva. La fase crescente proseguirà fino alle ore 09:44 dell’11 Giugno 2025 con la Luna in Plenilunio a ben -47° sotto l’orizzonte, in fase di 15 giorni, alla distanza di 403805 km dalla Terra e con diametro apparente di 29,59’. Anche in questo caso basterà attendere che sorga (alle ore 21:33) per dedicarsi alle osservazioni di un’immensa quantità di strutture geologiche che, nonostante il Sole alto sull’orizzonte del nostro satellite e i tanti (forse troppi….) luoghi comuni che dipingono erroneamente la “Luna Piena” come un gran pallone abbagliante su cui non si vede nulla di interessante, farà bella mostra di sé in cielo per tutta la notte fin verso l’alba quando scenderà sotto l’orizzonte contestualmente al sorgere del Sole. Da qui inizierà la fase calante col nostro satellite che vedrà progressivamente ridursi di sera in sera la porzione illuminata dal Sole spostando sempre più la propria osservabilità verso orari tardo serali e poi notturni. Infatti alle ore 21:19 del 18 Giugno 2025 sarà in fase di Ultimo Quarto, ma anche in questo caso a ben -40° sotto l’orizzonte. Chi intendesse ammirare panoramiche o dettagli di questa particolare fase lunare dovrà attendere circa 4 ore o poco più, quando alle ore 01:21 della notte seguente (il 19 Giugno) la Luna sorgerà in fase di 22,8 giorni. Ormai non è più una novità che in Ultimo Quarto il principale target sia costituito dall’enorme estensione dell’oceanus Procellarum (circa 2 milioni 102.000 kmq di superficie), immediatamente individuabile dalle scure rocce basaltiche che ne ricoprono il fondo, in netto contrasto con la più elevata albedo degli altipiani in cui prevalgono le chiare rocce anortositiche. Si rendono visibili inoltre il mare Humorum e vaste porzioni dei mari Nubium e Imbrium. Al termine della fase calante, alle ore 12:31 del 25 Giugno 2025 la Luna sarà in Novilunio, completamente invisibile con l’altrettanto contestuale completa illuminazione dell’opposto emisfero. Da qui avrà inizio un ulteriore ciclo lunare che, come ormai avviene da oltre 4,5 miliardi di anni, riporterà gradualmente il nostro satellite verso le migliori condizioni osservative, andando pertanto a chiudere questo mese nella serata del 30 Giugno perfettamente osservabile fino a pochi minuti dopo la mezzanotte. Nell’occasione la massima librazione sarà in corrispondenza del mare Smythii, una zona relativamente pianeggiante di 370 km di larghezza sul confine fra i due emisferi della Luna.

Congiunzioni e Occultazioni Notevoli

La seconda parte dell’articolo di Francesco Badalotti, dedicato alla Luna di Giugno, con la descrizione delle Congiunzioni e Occultazioni notevoli, le Falci Lunari, e la tabella delle effemeridi è disponibile per i lettori abbonati alla versione digitale o al cartaceo.

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La Luna del Mese di Giugno è pubblicata in Coelum 274

–  Ogni fenomeno lunare e rispettivi orari sono rapportati alla Città di Roma, dati rilevati dai siti https://theskylive.com/http://www.marcomenichelli.it/luna.asp


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Un Ascensore Spaziale tra Phobos e Marte

Uno degli obiettivi più ambiziosi dell’ingegneria spaziale moderna è realizzare infrastrutture che permettano di superare i limiti imposti dalla propulsione a razzo. Tra queste, l’idea di un ascensore spaziale affascina da oltre un secolo. Il progetto studiato recentemente da un gruppo di ricercatori si concentra su una versione “ridotta”, ma sorprendentemente realistica: un ascensore spaziale ancorato a Phobos, la più interna delle due lune di Marte, che si estende verso il pianeta rosso.

Il fine del progetto è dimostrare che, grazie alle condizioni gravitazionali favorevoli del sistema Marte–Phobos, è possibile costruire un’infrastruttura capace di collegare la luna alla superficie marziana. Per fare ciò, gli scienziati hanno sviluppato un modello fisico-matematico sofisticato che simula il comportamento dinamico di un sistema formato da una stazione spaziale, un cavo e un veicolo mobile detto “climber”.

Il modello considera la dinamica del sistema nel contesto del cosiddetto problema ellittico dei tre corpi, una rappresentazione matematica che tiene conto delle forze gravitazionali di Marte e Phobos. L’ascensore viene trattato come un doppio pendolo: un primo braccio collega la superficie di Phobos a una stazione posizionata oltre il punto di equilibrio gravitazionale tra i due corpi celesti (il punto L1), mentre il secondo può estendersi dalla stazione verso Marte.

Due sono le configurazioni principali analizzate. Nella prima, più tradizionale, il climber si muove lungo un cavo teso tra la superficie di Phobos e la stazione sospesa nello spazio. Questa struttura potrebbe servire come mezzo per trasportare strumenti scientifici o materiali da e verso Phobos, senza la necessità di lanciare razzi. La seconda configurazione è più audace: il cavo si estende dalla stazione verso Marte, permettendo al climber di muoversi in direzione del pianeta. Una volta raggiunta l’estremità, il veicolo può sganciarsi dal cavo e, sfruttando la gravità marziana, scendere direttamente verso la superficie.

Le simulazioni numeriche hanno confermato che il sistema può rimanere stabile, purché il baricentro dell’ascensore sia mantenuto oltre il punto L1. Inoltre, è possibile evitare che il cavo si rilassi o diventi instabile durante le operazioni, progettando con attenzione le fasi di accelerazione e decelerazione del climber.

Ciò che rende questo progetto particolarmente interessante è la concreta fattibilità tecnica. A differenza della Terra, dove un ascensore spaziale richiederebbe un cavo lungo circa 100.000 chilometri, la distanza tra Phobos e la superficie di Marte è di soli 6.000 chilometri. Inoltre, Phobos ha una gravità estremamente debole e un’orbita sincrona che la tiene sempre rivolta verso Marte, fattori che semplificano notevolmente la costruzione e la stabilità dell’infrastruttura.

Un ascensore spaziale tra Phobos e Marte avrebbe implicazioni enormi per l’esplorazione del pianeta rosso. Potrebbe abbattere drasticamente i costi delle missioni, permettere il trasporto continuo di materiali e strumenti scientifici, fungere da piattaforma per esperimenti in orbita stabile e persino rendere possibile il lancio di sonde verso altre destinazioni nel Sistema Solare.

In definitiva, il sogno dell’ascensore spaziale potrebbe non essere poi così lontano. Non sulla Terra, ma su una piccola luna che orbita silenziosamente attorno a Marte, dove la scienza e l’immaginazione si incontrano per tracciare una nuova via verso il futuro dell’esplorazione spaziale.

News da Marte #40: le notti marziane di Perseverance tra aurore e lune brillanti

Riprendiamo due news recentemente pubblicate dalla NASA nei suoi canali d’informazione. Queste notizie riguardano alcune rilevazioni fotografiche eseguite dal rover Perseverance, il gioiello tecnologico che dal 2021 guida il programma di esplorazione del Pianeta Rosso. Tuttavia una delle pubblicazioni non è una novità assoluta, ma ne approfittiamo per espandere e analizzare ulteriormente l’argomento. Iniziamo proprio con questa prima notizia, si parte!

La prima osservazione di un’aurora marziana nello spettro visibile

I lettori e le lettrici più assidue di Coelum potrebbero ricordare un paragrafo intitolato in modo simile in News da Marte #30 o nel numero 269 della nostra rivista. Al tempo avevamo documentato la rilevazione di cui nel titolo grazie ai risultati presentati nel lavoro intitolato First Detection Of Visible-Wavelength Aurora On Mars (Knutsen, McConnochie, Lemmon et al., 2024) presentato alla decima International Conference on Mars. Il 15 maggio l’articolo è stato finalmente pubblicato e grazie a questa versione estesa possiamo aggiungere alcuni elementi.

A sinistra la prima foto di un’aurora verde osservata su Marte, Sol 1094 di Mars 2020. A destra è riportata un’immagine di confronto del cielo notturno in cui il fenomeno è assente. La notte è illuminata dal satellite Deimos e dall’ancor più luminoso Fobos, fuori dall’inquadratura. Le tonalità rosse del cielo sono dovute all’abbondante polvere in sospensione nell’atmosfera. Foto eseguite con MastCam-Z. Crediti: NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/SSI

Il 15 marzo 2024, in seguito a un flare di intensità C4.9 originato dalla macchia solare AR3599, si è generata una potente espulsione di massa coronale che dal Sole ha viaggiato sino a Marte. Qui un’intera flotta di apparati era pronta a intercettare un fenomeno sino a quel momento solo teorizzato: l’emissione alla lunghezza d’onda di 557.7 nm, legata all’ossigeno atomico eccitato che anche sulla Terra produce il colore verde associato alle aurore.

Attraverso modelli matematici, il gruppo di lavoro guidato da Elise W. Knutsen (prima autrice dell’articolo) ha calcolato l’angolo ottimale con cui tentare l’osservazione dell’aurora dovuta alle SEP (solar energetic particle) in arrivo e massimizzare così la possibilità di rilevazione con lo spettrometro della SuperCam e le camere MastCam-Z.

La collaborazione tra team diversi è stata cruciale, garantendo l’opportunità di selezionare un fenomeno con intensità sufficiente a produrre l’emissione verde ricercata. Il Moon to Mars (M2M) Space Weather Analysis Office e il Community Coordinated Modeling Center (CCMC) hanno contribuito fornendo e analizzando in tempo reale i dati sulle eruzioni solari, producendo le simulazioni di CME (coronal mass ejection) e stimando i tempi d’impatto.

Quando è stata diramata l’allerta per la CME di metà marzo 2024 e “ne abbiamo visto l’intensità” – commenta Knutsen – “abbiamo stimato potesse generare un’aurora sufficientemente luminosa per essere rilevata dai nostri strumenti.”

Alcuni giorni dopo l’espulsione di massa coronale è giunta su Marte dove ha prodotto il fenomeno atteso e splendidamente documentato da Perseverance: un debolissimo bagliore verde presente quasi uniformemente in tutto il cielo esattamente alla lunghezza d’onda di 557.7 nm. L’arrivo della CME è stato confermato indipendentemente dagli strumenti a bordo dei satelliti MAVEN della NASA e da Mars Express dell’ESA.

“Le osservazioni dell’aurora nella luce visibile effettuate da Perseverance confermano un nuovo modo di studiare questi fenomeni, complementare a quanto possiamo osservare con i nostri orbiter marziani”, ha dichiarato Katie Stack Morgan, Project Scientist ad interim di Perseverance presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA. “Una comprensione più approfondita delle aurore e delle condizioni attorno a Marte che ne determinano la formazione è particolarmente importante mentre ci prepariamo a inviare lì, in sicurezza, degli esploratori umani”.

Questa rilevazione di successo, eseguita nel Sol 1094 della missione Mars 2020, è stata solo una di quattro complessive simili osservazioni che hanno tentato di rilevare il fenomeno dell’aurora nel cielo di Marte. Gli altri tentativi (eseguiti nei Sol 790, 900 e 1108) sono falliti ma hanno fornito dei profili di segnale medio indispensabili per discriminare l’eccesso nel canale verde dovuto all’aurora.

Profili del segnale in eccesso nel verde per tutti e quattro i tentativi di rilevamento dell’aurora. Il segnale medio in eccesso nel verde è espresso in funzione dell’angolo di elevazione. I profili Mastcam-Z e il modello sono mostrati come linee, mentre le misurazioni della radianza da parte di SuperCam sono indicate con rombi. I colori rappresentano diversi sol della missione. Solo il sol 1094 (linea verde continua) ha prodotto un rilevamento positivo. Le aree ombreggiate in verde e grigio rappresentano, rispettivamente, l’incertezza strumentale di Mastcam-Z per il miglior adattamento e l’intervallo di confidenza al 95% comprensivo delle incertezze dovute alle correzioni per la luce diffusa di Phobos. La linea tratteggiata arancione mostra il risultato di un modello di trasferimento radiativo per la riga aurorale adattato alla misurazione di SuperCam del sol 1094. (Knutsen EW, McConnochie TH, Lemmon M et al., Detection of visible-wavelength aurora on Mars. Sci Adv. 2025 May 16)

Alba marziana con Deimos e il Leone

Il rover Perseverance ci regala un’altra splendida immagine catturata prima dell’alba del Sol 1433 (1 marzo) all’ora locale 4:27. Sull’orizzonte est viene immortalata la piccola luna marziana Deimos, lunga appena 12 km e in quel momento distante circa 22000 km dal rover.

Alba marziana fotografata da Perseverance, Sol 1433. NASA/JPL-Caltech

Gli esperti elaboratori del JPL dichiarano che la foto è il risultato di 16 singole acquisizioni eseguite con la Left NavCam e combinate direttamente dal computer di bordo prima del loro invio. Per ciascuno scatto la camera di navigazione è stata impostata sul tempo massimo di acquisizione di 3.28 secondi, producendo così un’immagine che copre un intervallo complessivo di poco più di 52 secondi. Il campo inquadrato è di 90°x70°.

L’aspetto nebbioso dell’immagine è dovuto alla bassissima luminosità della scena che ha richiesto pesanti interventi di elaborazione. È presente un grande disturbo digitale legato sia al rumore elettronico del sensore che a qualche raggio cosmico che di tanto in tanto ha raggiunto il dispositivo di acquisizione. Quest’ultimo disturbo è visibile come brevi scie di pixel luminosi, non è difficile trovarne degli esempi quando si visiona l’immagine a piena risoluzione (disponibile a questo link).

Uno zoom spinto dell’immagine (reso possibile dal fatto che questa acquisizione non ha subito downscaling  ed è stata inviata alla massima risoluzione permessa dalla NavCam, 5120×3840 pixel) è in grado di rivelare dettagli aggiuntivi.

Andando a indagare nelle vicinanze di Deimos si individuano due corte scie stellari non dovute a raggi cosmici. Si tratta di Regolo e Algieba, due tra gli astri più luminosi della costellazione del Leone.

Vale la pena notare che Deimos, a differenza delle due stelle che hanno prodotto una scia di circa 0.2°, appare invece immobile. Questo è dovuto al periodo dell’orbita del satellite attorno al suo pianeta esattamente di 30,312 ore. È un tempo comparabile a quello del giorno marziano (24 ore e 39 minuti) e il risultato è che, visto da Marte, Deimos impiega circa 5,34 giorni marziani per tornare allo stesso punto nel cielo. Durante questo tempo il suo moto apparente, in direzione concorde con quello delle stelle, è estremamente lento e ciò fa sì che in lunghe esposizioni come quella qui analizzata sembri praticamente immobile.

Per questo aggiornamento da Marte è tutto, alla prossima!

News da Marte #39: il ciclo del carbonio marziano svelato da Curiosity

Grazie ai dati del rover Curiosity sono stati scoperti minerali che raccontano una storia affascinante: miliardi di anni fa su Marte era attivo un ciclo del carbonio.

È stato a lungo ritenuto che Marte possedesse un’atmosfera molto più densa di quella attuale e ricca di anidride carbonica. Le ricerche portate avanti sino a questo momento fallivano però nel trovare le evidenze fossili nelle rocce di questo composto. Lo studio pubblicato su Science il 17 aprile (Carbonates identified by the Curiosity rover indicate a carbon cycle operated on ancient Mars, Tutolo et al.) segna un punto di svolta nella comprensione della storia del clima e della geochimica del pianeta rosso.

Le tracce del passato in una roccia marziana

Se Marte avesse posseduto un’atmosfera con abbondanza di CO2, le prove sarebbero nelle rocce: l’anidride carbonica e l’acqua reagiscono e formano minerali carbonati. Le cronache delle attività dei rover marziani abbondano di rinvenimenti di questi minerali, ma sino a questo momento le rivelazioni spettrali compiute dagli orbiter e quelle in situ con gli strumenti in dotazione ai robot non avevano mai rilevato quantità di carbonati sufficienti a confermare le teorie.

Tra la fine del 2022 e l’autunno del 2023 Curiosity ha affrontato un’avanzata verso sud in direzione di Aeolis Mons che ha visto il rover risalire un centinaio di metri di quota. Durante la sua esplorazione della formazione sedimentaria denominata Mirador, Curiosity ha analizzato quattro campioni prelevati da diverse profondità con il suo strumento CheMin, in grado di identificare i minerali attraverso la diffrazione a raggi X.

Nella sua ricerca di carbonati alla base della formazione, il rover ha prelevato il primo campione il 19 ottobre 2022. Canaima, questo il suo nome, mostrava la presenza di cristalli di starkeyite.

Curiosity ha proseguito il suo spostamento entrando nella formazione geologica denominata Marker Band. In questa regione, tra i Sol 3752 e 3980 (marzo-ottobre 2023), il rover ha analizzato tre campioni: Tapo Caparo, Ubajara e Sequoia. Se tali nomi vi risultano familiari siete evidentemente assidui lettori e lettrici di questa rubrica perché in passato sono comparsi nelle pagine di News da Marte (ai relativi link potete comunque rinfrescarvi la memoria).

Foto del foro relativo al campione “Sequoia”, Sol 3980. NASA/JPL-Caltech

Ma torniamo ai nostri campioni.
In essi i ricercatori hanno individuato abbondanza di siderite (FeCO₃), un minerale carbonatico ferroso presente in concentrazioni fino al 10% in peso rispetto alla roccia. È la prima volta che questo tipo di carbonato viene trovato in quantità così elevate su Marte, e prima d’ora la sua rilevazione così abbondante era sfuggita alle osservazioni orbitali perché ricoperta superficialmente da differenti minerali.

(A) Colonna stratigrafica che mostra le altezze e le interpretazioni sedimentologiche della sezione verticale di 89 m attraversata dal rover. I gruppi, formazioni e membri rappresentano le unità sedimentarie, con stili di tratteggio indicanti la litologia. I cerchi neri segnano i luoghi di campionamento: CA (Canaima), TC (Tapo Caparo), UB (Ubajara) e SQ (Sequoia). Le linee verticali spesse segnano le elevazioni dove sono stati rilevati minerali di Mg-solfato (linea continua) e siderite (linea tratteggiata). (B) Mosaico di immagini ottiche orbitali del cratere Gale, con il percorso del rover Curiosity (linea bianca) su Mt. Sharp. I confini dei membri corrispondono alla sezione in (A). I punti di osservazione ChemCam sono riportati come cerchi colorati, indicanti la differenza rispetto alla composizione media del letto roccioso Chenapau. Tutolo et al.(2025)

Cosa racconta la siderite?

La siderite si forma in ambienti poveri d’acqua ma ricchi di anidride carbonica e con condizioni chimiche riducenti, cioè in assenza di ossigeno. Le analisi suggeriscono che questi carbonati si sono depositati attraverso l’evaporazione di acque sotterranee, in una fase in cui l’ambiente era abbastanza alcalino da permetterne la precipitazione.

Questa scoperta dimostra che, miliardi di anni fa, su Marte esistevano fluidi che reagivano con le rocce del sottosuolo in modo simile a quanto avviene sulla Terra. Ma soprattutto, la presenza di questi minerali implica che una parte dell’atmosfera marziana fu sequestrata nelle rocce attraverso reazioni chimiche.
Le stime, basate su analisi spettrografiche orbitali, ipotizzano che i carbonati abbiano trattenuto tra 0,01 e 1 bar di anidride carbonica.

(A) I dati di diffrazione a raggi X ottenuti dallo strumento CheMin per tre campioni marziani. I picchi indicano la presenza di minerali specifici, come siderite, gesso, pirosseno e altri. (B) I diagrammi a torta mostrano le percentuali dei minerali (e delle componenti amorfe) presenti nei campioni Tapo Caparo, Ubajara e Sequoia. La quantità di siderite è evidenziata in ciascuno. (C) Il diagramma triangolare confronta la composizione dei carbonati trovati nei campioni con quella di carbonati già noti da meteoriti marziani e da Comanche, un sito precedentemente studiato nel cratere Gusev. Tutolo et al.(2025)

Nelle descrizioni dei ricercatori, miliardi di anni fa il pianeta rosso era molto diverso da Marte come lo conosciamo ora. L’attuale atmosfera contiene soli 6 mbar di CO2, ma in passato si stima che le sole eruzioni vulcaniche possano averne fornito sino a 10 bar. Anche tenendo conto del gas disperso nello spazio (circa 3 bar) ci sarebbe comunque stata sufficiente pressione affinché l’acqua potesse essere presente stabilmente allo stato liquido.

Un ciclo del carbonio marziano

Ma la storia non finisce qui. I ricercatori hanno anche identificato minerali come ematite, goethite e akaganeite che, detto in termini estremamente specialistici, sono derivati dalla diagenesi della siderite in condizioni ossidanti.
Per i non specialisti: con diagenesi si intendono i processi che trasformano i sedimenti in rocce compatte successivamente alla loro deposizione.

Questo indica che una parte del carbonio, inizialmente intrappolata nei carbonati, fu successivamente rilasciata nell’atmosfera marziana chiudendo così un ciclo del carbonio parzialmente simile a quello terrestre.

Lo schema illustra il ciclo del carbonio proposto per l’antico Marte. L’evaporazione delle acque sotterranee porta inizialmente alla formazione di siderite, che intrappola CO₂ atmosferica. Con l’aumento dell’evaporazione si depositano solfati di calcio e magnesio. I sedimenti trasportati dal vento fanno salire nel tempo la zona di evaporazione. In una fase successiva, fluidi poveri di siderite infiltrano i sedimenti, distruggendo parte della siderite formata e liberando nuovamente CO₂ nell’atmosfera. Tutolo et al.(2025)

Implicazioni globali

Anche se queste scoperte provengono da un’unica area del cratere Gale, i ricercatori ipotizzano che sedimenti simili possano essere presenti in molte altre regioni del pianeta. Se confermata, la presenza diffusa di siderite potrebbe significare che Marte ha sequestrato (e in parte rilasciato) quantità di CO₂ comparabili a quelle dell’atmosfera odierna del pianeta, offrendo nuove chiavi di lettura sulla sua evoluzione climatica.

“Perforare la superficie stratificata marziana è come sfogliare un libro di storia” ha enfatizzato il ricercatore Thomas Bristow, coautore dello studio. “Bastano pochi centimetri di profondità per darci un’ottima idea dei minerali che si sono formati sulla superficie o nelle sue immediate vicinanze circa 3,5 miliardi di anni fa.”

Questa scoperta rafforza l’idea che Marte non sia sempre stato il deserto gelido che conosciamo oggi. La sua storia geologica rivela un mondo dinamico, con acqua liquida, reazioni chimiche attive e un’atmosfera capace di trasformarsi. E chissà: dove c’è un ciclo del carbonio, potrebbe esserci stata anche una nicchia abitabile.

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News da Marte #38 – Curiosity trova lunghissime molecole organiche

Bentornati su Marte!
Il rover Curiosity della NASA ha colpito ancora. Stavolta (o per meglio dire nel 2013), frugando tra le polveri di un antico lago marziano, ha scovato le più grandi molecole organiche mai trovate sul Pianeta Rosso. La scoperta è stata pubblicata lunedì 24 marzo sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences e alimenta l’ipotesi che la chimica prebiotica su Marte possa essere stata più complessa di quanto immaginassimo.

Grandi molecole, domande ancora più grandi

Gli scienziati hanno analizzato un campione di roccia chiamato Cumberland e prelevato nel 2013 da Curiosity nella zona di Yellowknife Bay, all’interno del cratere Gale. A distanza di anni nuove analisi hanno rivelato la presenza di decano, undecano e dodecano, catene molecolari costituite rispettivamente da 10, 11 e 12 atomi di carbonio. Questi composti sembrano essere frammenti di acidi grassi, molecole fondamentali sulla Terra per la costruzione delle membrane cellulari. Questo però non implica necessariamente un’origine biologica: gli acidi grassi possono anche formarsi senza la presenza di vita, grazie a reazioni chimiche come quelle che avvengono nelle bocche idrotermali.

Il rover Curiosity della NASA ha perforato questa roccia, chiamata “Cumberland”, durante il 279° giorno marziano (o sol) della sua missione su Marte, il 19 maggio 2013, raccogliendo un campione di polvere dall’interno della roccia. Situata nella regione di Yellowknife Bay, all’interno del cratere Gale, questa zona era un tempo il fondo di un antico lago, offrendo condizioni ideali per la conservazione di molecole organiche. Le analisi successive hanno rivelato la presenza di composti organici complessi, tra cui decano, undecano e dodecano, le molecole organiche più grandi mai scoperte su Marte. Crediti: NASA/JPL-Caltech/MSSS

Un passo avanti verso la vita?

La cosa esaltante è che finora su Marte erano stati individuati solo composti organici piuttosto semplici. Questi nuovi ritrovamenti dimostrano che la chimica organica su Marte potrebbe essersi spinta più in là, forse fino a livelli compatibili con l’origine della vita. Inoltre, la scoperta dà una speranza concreta di trovare anche quelle molecole biologiche che possono essere considerate vere “firme” della vita passata, le cosiddette biosignature.

Questa grafica mostra le molecole organiche a catena lunga decano, undecano e dodecano. Si tratta delle molecole organiche più grandi scoperte su Marte fino a oggi. Crediti: NASA/Dan Gallagher

La ricerca fornisce un’altra buona notizia, ovvero che questi composti hanno resistito per miliardi di anni nonostante le difficili condizioni marziane. Significa che, se su Marte è mai esistita la vita, potremmo ancora avere una chance di trovarne le tracce.

Il fascino di Yellowknife Bay

La zona di Yellowknife Bay era risultata già molto interessante per gli scienziati. Si tratta di un’area che un tempo ospitava un lago, offrendo le condizioni ideali per preservare molecole organiche nel fango sedimentario. Le analisi precedenti su Cumberland avevano già rivelato un mix di argille (formatesi in acqua), zolfo (perfetto per conservare le molecole organiche), nitrati (importanti per la vita sulla Terra) e perfino metano con un tipo di carbonio che sulla Terra è associato ai processi biologici. Insomma, se dovessimo scegliere un posto su Marte dove un giorno scovare prove di vita passata, Yellowknife Bay sarebbe un candidato ideale.

Un aspetto esplorato dagli autori dello studio è la possibilità di trovare catene organiche ancora più lunghe di 13 atomi di carbonio. Questo rappresenterebbe una prova estremamente potente che potrebbe persino escludere per questi composti l’origine non biologica in quanto tali processi tipicamente generano catene più corte di 12 atomi. Purtroppo gli strumenti in possesso di Curiosity, in particolare il Sample Analysis at Mars (SAM) impiegato per queste analisi, non sono ottimizzati per rilevare moleecole più lunghe di quelle già individuate.

La scoperta del rover non fa che confermare l’importante di portare sulla Terra campioni marziani, per analizzarli con strumenti avanzati impossibili da spedire sul Pianeta Rosso. Non a caso NASA e ESA stanno lavorando a Mars Sample Return, la missione di recupero dei materiali raccolti da Perseverance che mira a risolvere una volta per tutte il mistero della vita su Marte.

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News da Marte #37: nubi crepuscolari e nuovi crateri

Le attività di ricerca svolte sul Pianeta Rosso non riguardano solo le prove che possano indicare l’esistenza di una passata vita batterica marziana. Ci sono anche tanti altri aspetti affascinanti che vengono indagati, come l’atmosfera e l’interno del pianeta come testimoniano due recenti ricerche: il primo analizzato è stato analizzato dal rover Curiosity e il secondo dal lander Insight con un aiuto…dall’alto.

Nubi crepuscolari nel video di Curiosity

Non è la prima volta che il rover Curiosity osserva il fenomeno delle nubi crepuscolari (chiamate anche nottilucenti) nel cielo di Marte. Un esempio a riguardo si trova in questa stessa rubrica nell’uscita di marzo del 2023.

La rilevazione più recente risale a meno di un mese fa, il 17 gennaio, quando la Left MastCam ha immortalato in 33 fotogrammi il transito ad alta quota di questa particolare formazione nuvolosa. La ripresa è durata circa 16 minuti e le immagini sono state acquisite a intervalli di 30 secondi.

NASA/JPL-Caltech/MSSS/SSI

Nel video, ricomposto dagli specialisti del JPL e proposto velocizzato di 480 volte, si notano le nuvole transitare nella parte alta del fotogramma. Le nubi crepuscolari su Marte sono costituite da cristalli di anidride carbonica che, alle gelide temperature presenti a 60/80 km di quota, forma del ghiaccio. L’aggettivo “crepuscolare” fa riferimento al fatto che questo tipo di nube è troppo evanescente per essere visibile di giorno, e così la sua osservazione è possibile solo a ridosso dell’alba o del tramonto quando al suolo è buio ma gli alti strati dell’atmosfera vengono raggiunti dalla luce del Sole. A temperature superiori e quote leggermente inferiori, attorno ai 50 km, anche il debole vapore acqueo in atmosfera ghiaccia. Questo seconda tipologia di nubi si manifesta come pennacchi bianchi, anch’essi visibili nel video di Curiosity: sono le debolissime formazioni che compaiono nella parte inferiore dell’inquadratura e che si muovono in direzione opposta alle nubi crepuscolari.

Un secondo dettaglio del video riguarda non tanto il soggetto dell’acquisizione ma la visuale che risulta parzialmente oscurata da un cerchio. Non è un errore di elaborazione ma il modo con cui i tecnici di Curiosity stanno affrontando il problema alla ruota portafiltri della Left MastCam. Potreste ricordare da un vecchio articolo (News da Marte #23) che, dall’autunno 2023, la visuale della camera grandangolare del rover è parzialmente oscurata a causa della ruota che è rimasta bloccata a metà del filtro RGB. Questo intoppo sta tutt’ora privando il rover di oltre metà del campo permesso dalla camera a 34 mm oltre che della possibilità di eseguire osservazioni in alcune bande spettrali d’interesse per i geologi.
In ogni caso, per non sprecare bit nella trasmissione delle immagini dalla superficie di Marte verso la Terra, la porzione nera nella parte destra del frame viene esclusa già in fase di acquisizione. È una procedura di crop dell’area utile del sensore, ben familiare a chi si occupa di acquisizione di immagini planetarie al telescopio.

Entità del problema alla ruota portafiltri della Left MastCam di Curiosity, Sol 3998. NASA/JPL-Caltech

Un nuovo cratere ci aiuta a capire l’interno di Marte

Le rilevazioni del sismometro di InSight, il lander della NASA con cui si sono persi i contatti il 15 dicembre 2022, continua a produrre nuova scienza. In un articolo pubblicato il 3 febbraio sulla rivista Geophysical Research Letters si descrivono i dettagli relativi alla correlazione tra un cratere individuato dal Mars Reconnaissance Orbiter e una scossa rilevata da InSight.

Immagine del cratere acquisita dalla camera HiRise di MRO il 4 marzo 2021. NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

Non solo i terremoti, ma anche gli impatti meteorici di significativa potenza, producono un concerto di onde sismiche che si propagano nella crosta e nel mantello dei pianeti rocciosi. L’analisi spettrale di queste onde e i differenti tempi di propagazione in base alle loro frequenze permette di approssimare un modello dell’interno del pianeta.

Proprio il cratere in oggetto, largo 21.5 metri e individuato a 1640 km da InSight nella regione di Cerberus Fossae, ha fornito spunti interessanti ai ricercatori. Nonostante la notevole distanza, le onde sismiche sono stato rilevate dal sismometro del lander con livelli di intensità significativi. Tali livelli non sarebbero stati possibili se le onde avessero viaggiato prevalentemente in superficie, in quanto la crosta marziana agisce come uno smorzatore. La spiegazione è che le vibrazioni abbiano quindi preso una via differente penetrando attraverso il mantello di Marte e trasmettendosi così sino alla posizione di InSight. Attraverso quella che i ricercatori hanno definito “autostrada sismica” le vibrazioni causate dagli eventi di impatto riescono a insinuarsi nell’interno del pianeta e propagarsi più facilmente di quanto sinora stimato.

Tra gli strumenti che negli ultimi anni stanno aiutando i ricercatori a individuare nuove caratteristiche su Marte, che siano crateri o diavoli di polvere, ci sono gli algoritmi di intelligenza artificiale. Dal 2021 il lavoro di analisi di centinaia di migliaia di immagini, pesante ed estremamente lento, è supportato da tecniche di machine learning che riescono a filtrare le acquisizioni eseguite dai satelliti in orbita marziana. L’analisi di una singola immagine della Context Camera (che possiamo vedere come la camera grandangolare di MRO), che richiedeva sino a 40 minuti di lavoro da parte di un operatore umano, adesso viene eseguita in meno di 5 secondi da un supercalcolatore. Anche il cratere individuato nella regione di Cerberus Fossae è stato scoperto nelle immagini grazie a questo nuovo strumento di elaborazione: un primo filtraggio ha rilevato 123 crateri recenti e un’analisi successiva a ridotto a 49 i potenziali match con i dati di InSight. L’intervento umano finale da parte di sismologi e ricercatori coinvolti nella stesura del paper scientifico ha poi individuato il cratere di interesse permettendo le successive analisi.

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Bentornati su Marte! Nella serata italiana di martedì 7 gennaio la NASA ha annunciato un’importante revisione del programma Mars Sample Return, destinato a riportare sulla Terra campioni raccolti dal rover Perseverance. Con un focus su costi, complessità e tempistiche, l’agenzia spaziale americana sta valutando due nuove opzioni per semplificare e accelerare il progetto.

Il contesto della missione

Dal 2021, il rover Perseverance sta esplorando il cratere Jezero su Marte. Fino ad oggi, il rover ha raccolto 28 campioni sigillati in tubi di titanio, rappresentativi di rocce, regolite e atmosfera. L’obiettivo del programma è recuperare questi campioni e riportarli sulla Terra per analisi che potrebbero rivoluzionare la comprensione del Pianeta Rosso e della sua evoluzione geologica.

Collage con le foto delle dieci fiale che Perseverance ha rilasciato al suolo tra dicembre 2022 e gennaio 2023 per la raccolta da parte di un futuro lander. NASA/JPL-Caltech

Tuttavia, il progetto originale, che prevedeva l’uso di diverse missioni e un approccio molto complesso, ha incontrato ostacoli significativi che abbiamo raccontato in numerosi appuntamenti di questa rubrica. I costi stimati avevano superato gli 11 miliardi di dollari e la data prevista per il recupero era slittata fino al 2040.

Nuova strategia: riduzione dei costi e maggiore efficienza

Nel briefing Bill Nelson, amministratore della NASA, ha spiegato come sia stato necessario “staccare la spina” al progetto originale e ripensare l’architettura della missione. Da aprile 2024 il team ha lavorato su due approcci principali:

  • Utilizzo della “Sky Crane”
    Questa opzione si basa sulla tecnologia già impiegata con successo per l’atterraggio dei rover Curiosity e Perseverance. Il sistema prevede l’uso di un lander dotato di un braccio robotico per trasferire i campioni su un veicolo di ascesa marziano (Mars Ascent Vehicle), che li trasporterà nell’orbita di Marte. Da lì, un orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea, li raccoglierà e li riporterà sulla Terra. Questa opzione offre un costo stimato di 6,6-7,7 miliardi di dollari e riduce la complessità del sistema.
Rappresentazione della Sky Crane in azione mentre depone Perseverance sul suolo marziano. NASA/JPL-Caltech
  • Coinvolgimento di partner commerciali
    L’altra opzione esplora l’uso di un grande lander commerciale fornito da aziende come SpaceX o Blue Origin. Questo approccio mira a sfruttare le capacità di carico elevate offerte dai veicoli commerciali. I costi stimati vanno dai 5,8 ai 7,1 miliardi di dollari.

Un focus su semplicità e rapidità

Indipendentemente dall’opzione scelta, il nuovo approccio mira a ridurre la complessità della missione e i rischi associati. È stato confermato un ruolo prioritario per il braccio robotico di Perseverance al fine di trasferire o comunque avvicinare i campioni direttamente al lander, riducendo la necessità di componenti aggiuntivi. A riguardo sembra accantonata l’idea di ricorrere a due piccoli elicotteri, sviluppati sul progetto di Ingenuity e dotati di un piccolo braccio robotico, per recuperare le dieci fiale rilasciate dal rover due anni fa.
Tra le innovazioni chiave discusse c’è l’introduzione di un sistema di alimentazione a radioisotopi che sostituiranno i pannelli solari, garantendo operatività anche durante le stagioni di tempeste di polvere marziane. A livello di trasferimento orbitale è stato poi scartata l’idea di un passaggio intermedio nell’orbita cis-lunare, che avrebbe comportato costi e complessità aggiuntivi, preferendo il ritorno diretto verso la Terra.

La NASA prevede di scegliere definitivamente l’architettura della missione entro la metà del 2026. Le prime missioni di lancio potrebbero avvenire già nel 2030 (orbiter di ritorno) e nel 2031 (lander e sistema di ascesa). Questo permetterebbe di recuperare i campioni entro la metà degli anni 2030, in anticipo rispetto alle previsioni più recenti piano originale. L’amministratore Nelson evidenzia che già a partire dal 2025 sarà necessario uno stanziamento di almeno 300 milioni di dollari da parte del Congresso per evitare ulteriori ritardi.

Concorrenza internazionale: la pressione della Cina

Un tema cruciale emerso durante il briefing è la competizione con la Cina, che ha annunciato piani per una propria missione di ritorno di campioni marziani entro la fine del decennio. Sebbene la NASA sottolinei la superiorità scientifica del proprio approccio, la pressione per accelerare il progetto è evidente. “Non possiamo lasciare che il primo ritorno di campioni avvenga su una navicella cinese” ha dichiarato Nelson, evidenziando l’importanza scientifica e politica del programma.

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News da Marte #35

Bentornati su Marte! Questo nuovo aggiornamento dal Pianeta Rosso è interamente dedicato un rapporto preliminare presentato dalla NASA che fa luce sulla dinamica dell’incidente fatale che ha messo fine ai quasi 1000 giorni di operazioni di volo dell’elicotterino Ingenuity. Si parte!

L’ultimo volo di Ingenuity

È passato quasi un anno dal 18 gennaio 2024, il giorno in cui l’elicottero Ingenuity eseguì il suo ultimo volo. Si trattò della sua 72esima attività, programmata dagli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory con lo scopo di confermare la posizione dell’elicottero che nel precedente volo si era, diciamo così, smarrito. Il volo 71 era stato interrotto bruscamente con un atterraggio di emergenza perché, dopo 35 secondi dal decollo, il sistema di navigazione ottica non riusciva più a calcolare lo spostamento rispetto al terreno a causa dell’assenza di dettagli al suolo. Per verificare con precisione la posizione di atterraggio di Ingenuity viene così programmata una breve attività aerea della durata di 32 secondi.

Come detto, l’elicottero si trovava a operare in una zona con un suolo privo di caratteristiche superficiali significative e con in più la presenza di importanti variazioni nel livello del terreno a causa delle dune di sabbia. Un ambiente estremamente diverso da quello che aveva ospitato i primi 5 voli di test di Ingenuity, pianeggiante e ricco di piccoli sassi.

La programmazione del volo 72 consisteva in una rapida ascesa alla quota di 12 metri, lo stazionamento di alcuni secondi per catturare le immagini aeree e l’inizio della discesa 19 secondi dopo il decollo. Al 32esimo secondo, ad atterraggio quasi completato, la telemetria però si interruppe improvvisamente. Nei giorni che seguirono la NASA riuscì a riprendere contatto con l’elicottero e scattare alcune foto che documentavano lo stato dell’apparato: con grande delusione si scoprì che le punte delle quattro eliche erano spezzate. Terminava così la missione di esplorazione di Ingenuity.

Ingenuity sulla destra dell’immagine, adagiato su un crinale sabbioso. Sul lato opposto una delle sue eliche, scagliata a 15 metri di distanza. NASA/JPL-Caltech/LANL/CNES/CNRS

Cos’è successo quel giorno

Ci aiuta a ricostruire i fatti un’indagine dell’incidente, la prima a riguardare un velivolo su un altro pianeta. L’ha eseguita dalla NASA in collaborazione con AeroVironment, la compagnia che ha collaborato alla progettazione di Ingenuity. Il dettagliato rapporto sull’incidente sarà rilasciato nelle prossime settimane ma una news pubblicata dall’agenzia spaziale statunitense l’11 dicembre ci dà una prima interessante panoramica.

La catena di eventi che ha portato al danneggiamento dell’elicottero inizia probabilmente dal problema con il sistema di navigazione, basato sulla camera in bianco e nero puntata verso il basso, che non è riuscito a tracciare lo spostamento di Ingenuity nel corso del volo. Combinando l’informazione dell’altitudine con lo spostamento relativo dei sassi che riusciva a individuare, il sistema calcolava lo spostamento reale dell’elicottero e ne permetteva anche la stabilizzazione.

I dati di volo inviati da Ingenuity mostrano che dopo 20 secondi dal decollo l’apparato non riusciva più a trovare dei punti di riferimento e questo potrebbe aver causato una decisa deriva nello spostamento laterale mentre l’elicottero stava ancora discendendo al suolo.

Infografica con la sequenza dell’incidente occorso a Ingenuity. NASA/JPL-Caltech, traduzione Piras

Lo scenario più plausibile suggerisce un impatto violento sulla duna che combinato con la traslazione orizzontale ha portato Ingenuity a inclinarsi su un lato. Le eliche in rapidissima rotazione avrebbero quindi toccato il terreno spezzandosi tutte e quattro nel punto strutturalmente più fragile (a circa un terzo della loro lunghezza a partire dalla punta). Le eliche in queste condizioni, molto sbilanciate, avrebbero indotto forti vibrazioni nel sistema a doppio rotore comportando il distacco completo di una delle quattro eliche che è stata così scagliata a circa 15 metri di distanza. Durante questa sequenza di eventi un eccessivo assorbimento di corrente ha probabilmente portato al riavvio del computer di bordo e con esso alla perdita delle comunicazioni e delle immagini acquisite sino a quel momento.

NASA/JPL-Caltech/LANL/CNES/IRAP/Piras
Uno dei fotogrammi acquisiti da Ingenuity nel Sol 1059 (11 febbraio) durante le fasi di indagine sull’incidente. L’ombra delle due eliche mostra chiaramente le punte spezzate. NASA/JPL-Caltech

Ingenuity non vola più ma lavora ancora da terra

Evidentemente impossibilitato nel proseguire le sue attività aeree, alcuni mesi fa l’elicotterino è stato riprogrammato dai tecnici NASA per svolgere dei compiti di monitoraggio meteorologico. Nel dare aggiornamenti sull’indagine relativa all’incidente di Ingenuity è stato anche rivelato che i contatti radio con il rover Perseverance stanno proseguendo al ritmo di circa uno alla settimana, il che permette di scaricare dati meteo e di avionica (non è chiaro in cosa consistano). Ogni minima informazione sarà preziosa per lo sviluppo dei futuri esploratori aerei che voleranno nei cieli di Marte, il primo dei quali potrebbe essere Mars Chopper. Si tratterà di un apparato con sei motori quasi 20 volte più pesante di Ingenuity (quindi oltre 35 kg!) pensato per eseguire voli giornalieri di 3 chilometri trasportando un carico scientifico significativo.

Rendering del futuro Mars Chopper. NASA/JPL-Caltech

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News da Marte #34

Siamo di nuovo sul Pianeta Rosso! In queste ultime settimane Perseverance ha proseguito il suo spostamento verso ovest che stiamo documentando ormai da fine settembre. Tra spettacolari panorami e un insolito campo di candide rocce, vediamo quali sono state le sue attività più recenti. Partiamo!

Un panorama per la missione

Riguardo appunto alle immagini, un nuovo mosaico è stato recentemente diffuso nei canali NASA e in un colpo solo ci permette di osservare quasi tutte le regioni di Marte che Perseverance ha attraversato nei suoi anni sul Pianeta Rosso. Quest’ultima non è un’iperbole perché, grazie alle annotazioni, siamo in grado di individuare persino il sito di atterraggio dove il 18 febbraio 2021 il rover toccò la polvere marziana per la prima volta.

Panorama composto da 44 immagini acquisite il 27 settembre (Sol 1282) che spazia per decine di km. NASA/JPL-Caltech
Piccolissimo ritaglio di una porzione dell’immagine. Al centro, distante 8.7 km, c’è persino il sito di atterraggio di Mars 2020. NASA/JPL-Caltech

In questa immagine, e più precisamente la versione annotata con quasi 50 punti di interesse, riconosciamo alcune delle caratteristiche che ci hanno accompagnato in questi anni in cui abbiamo affiancato il rover nel corso della sua esplorazione di Marte. Per esempio la piana sopraelevata Kodiak, vista da vicino nell’aprile 2021, l’affioramento roccioso Enchanted Lake toccato nell’aprile 2022, o la regione di South Seitah sorvolata a 12 metri di altezza dall’elicottero Ingenuity il 5 agosto 2021.

Il panorama a piena risoluzione è grande 164 MB ma vale la pena perdersi al suo interno, lo trovate sul sito della NASA a questo link.

Nuove rocce a Pico Turquino

Sembra di  aver fatto un viaggio nel tempo, ma torniamo ora a cronache ben più recenti.

Per esempio alla foto di una roccia osservata nel Sol 1302 (18 ottobre) a cui viene assegnato il nome Observation Rock. Ci troviamo nella località Curtis Ridge, circa 200 metri a nord-est della posizione attuale individuata dalla mappa sottostante. Pico Turquino è invece il nome della più ampia regione in cui il rover sta transitando.

Mappa aggiornata al 13 novembre (Sol 1326). NASA/JPL-Caltech
Immagine di Observation Rock nell’elaborazione prodotta dagli esperti grafici. NASA/JPL-Caltech

Le tonalità apparentemente anomale sono dovute all’elaborazione, finalizzata ad aumentare il contrasto ed esaltare le deboli variazioni cromatiche. Insomma, non si tratta affatto di “rocce blu” scoperte da Perseverance come titolato in modo decisamente improprio da alcune testate qualche settimana fa riguardo a simili immagini marziane.

Strani ciottoli chiari

Dieci giorni dopo la ripresa di Observation Rock, e a meno di 80 metri di distanza in linea d’aria, Perseverance si trova impegnato in nuovi rilievi fotografici: alla base dell’area sopraelevata denominata Mist Park le camere del rover inquadrano un campo di sassi brillanti il cui colore molto chiaro risalta rispetto al rosso della polvere marziana e degli altri massi.

Non è la prima volta che queste regioni mostrano di ospitare delle rocce particolari, oseremmo dire fuori posto rispetto al resto delle caratteristiche geologiche. E questo è un piccolo mistero per gli scienziati.

Campo di rocce chiare catturato dalla Right NavCam nel Sol 1311 (27 ottobre)

Sulla Terra siamo abituati alla diversità geologica perché questa è perfettamente giustificata dai complessi processi indotti dall’attività tettonica, che “mescolando” i materiali che costituiscono la crosta sono in grado di produrre minerali dall’ampia varietà chimica e cromatica. Ma su Marte, con tettonica a placche fondamentalmente inesistente e una chimica della crosta dominata dal basalto, abbondano minerali scuri come olivina e pirosseni mentre i materiali chiari sono estremamente più rari.

Panoramica della regione di Mist Park. Left MastCam-Z, Sol 1311. NASA/JPL-Caltech/Piras

Questa chicca inattesa ha portato gli scienziati a richiedere al rover ulteriori investigazioni fotografiche (la cosiddetta remote science) con i filtri spettrali delle MastCam-Z e con il laser vaporizzatore della SuperCam. Purtroppo la scienza di prossimità non è stata possibile perché i sassolini sono troppo piccoli per essere ispezionati in sicurezza dagli strumenti montati sopra il braccio robotico di Perseverance. L’auspicio è che rocce più grandi ma con analoga composizione saranno trovate più avanti lungo il tragitto programmato così da poter procedere con analisi di maggior dettaglio anche del loro interno.

Un secondo mistero legato a queste rocce riguarda le modalità con cui sono arrivate qui venendo sparpagliate in un’area di soli pochi metri quadrati. Anche in questo caso, come per recenti ritrovamenti fuori posto, una delle ipotesi è che questi sassi siano arrivati qui per rotolamento da regioni a maggior altitudine esposte a un materiale bianco di qualche tipo. Un’altra possibile spiegazione è che siano ciò che resta di un’erosione che ha interessato una vena rocciosa, con i materiali più deboli che sarebbero stati dissolti portando alla luce queste rocce più solide.

Dettaglio su alcune delle rocce di Mist Park fotografate con la MastCam-Z di sinistra impostata a 110 mm di focale. NASA/JPL-Caltech/Piras

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News da Marte #33

Facciamo di nuovo tappa sul Pianeta Rosso con nuove notizie sui rover Perseverance e Curiosity. Si parte!

Un panorama

Terreno scivoloso

Nel Sol 1285 (30 settembre) Perseverance è impegnato ad aggirare un promontorio e sta cercando una via verso ovest dopo la faticosa ascesa raccontata in News da Marte #32. I piloti della NASA programmano il rover per una salita ma qualcosa sembra non vada per il verso giusto. La telemetria e le foto scattate dalle camere di navigazione tracciano un quadro chiaro dimostrando che il nostro robot non sia riuscito a completare il percorso previsto e che abbia slittato alcune volte durante i tentativi di avanzamento. Queste perdite di trazione sono visibili nella mappa dello spostamento come delle apparenti lievi correzioni di rotta.

Le due tracce gialle mostrano il percorso di Perseverance nei Sol 1285 e 1286 (rispettivamente la porzione a destra e a sinistra). NASA/JPL-Caltech

La sabbia di questa regione dimostra delle proprietà particolari e si comporta in modo imprevisto, quasi come se fosse umida. Incastrandosi tra le righe trasversali del battistrada delle ruote genera un corpo compatto che slitta al suolo rallentando l’avanzamento del rover.
La soluzione più semplice sarebbe stata quella di prendere atto delle complicazioni, fare “inversione” e cercare un’altra strada. Ma questo avrebbe voluto dire allungare i tempi di spostamento e rinunciare a degli obiettivi scientifici che il team di geologi aveva evidentemente molto a cuore.

Quindi i piloti non si sono persi d’animo ed escogitano una soluzione brillante che consiste nel far procedere Perseverance…in retromarcia. Possiamo ipotizzare che si sia trattato di un discorso di bilanciamento, sfruttando magari il peso del generatore a radioisotopi (45 kg) che in questa inedita configurazione di spostamento si trovava quindi a generare una significativa leva sulle ruote posizionate più in alto. Sta di fatto che la mossa, eseguita nel Sol 1288, ha successo e permette al rover di risalire il crinale quanto basta prima di compiere una rotazione su sé stesso e proseguire verso ovest in assetto più convenzionale.

Sol 1287, dettaglio della ruota posteriore destra di Perseverance. La sabbia si è compattata in mezzo agli inserti in titanio del battistrada, compromettendo la trazione. Anche le tracce delle ruote sono estremamente confuse rispetto a quelle molto precise a cui siamo abituati. NASA/JPL-Caltech/Piras
Sol 1288, la ripresa con la Left NavCam mostra la parte posteriore del rover. Alle sue spalle mancano le consuete tracce nella sabbia o almeno i segni di una rotazione sul posto, a dimostrazione che Perseverance ha percorso questo tratto in retromarcia. NASA/JPL-Caltech/Piras
Foto del Sol 1288. Con la freccia gialla è indicata la posizione da cui l’immagine è stata acquisita al termine della giornata di spostamenti. In evidenza anche (marcato con la freccia rossa) lo stesso dettaglio nella sabbia con riferimento sia alla foto che alla mappa. Quello è presumibilmente il punto da cui Perseverance ha iniziato lo spostamento in retromarcia. NASA/JPL-Caltech/Piras

La Terra e Fobos osservati da Curiosity

Non è raro che i rover marziani vengano usati per fotografare il cielo del Pianeta Rosso. Questo avviene spesso di giorno per misurare il tau (il tasso di oscuramento legato alle polveri, rilevato quasi quotidianamente) o riprendere i transiti dei due satelliti di fronte al disco solare.

L’ultima osservazione di questo tipo risale al 30 settembre ad opera di Perseverance che ha ripreso un passaggio della luna maggiore di Marte, Fobos. Il video che vi propongo qui sotto consiste di 64 frame acquisiti in 47 secondi ed è velocizzato di 4 volte. I fotogrammi sono stati ripuliti dal rumore digitale e le transizioni interpolate per ottenere un risultato più fluido.

Video del transito di Fobos di fronte al Sole. Sol 1285 (NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras)

Sono più rare, e forse per questo parecchio più affascinanti, le riprese del cielo notturno di Marte.

Una di queste occasioni è capitata di recente a Curiosity che il 5 settembre (Sol 4295 di missione) è stato programmato per puntare il suo “sguardo” verso l’alto dopo il tramonto del Sole. Dalla sua posizione su Texoli, una collina isolata alle pendici del Monte Sharp, il rover ha eseguito una serie di scatti che hanno spaziato dall’orizzonte fino a circa 15° di elevazione. E in un piccolo angolo di cielo, grande appena mezzo grado, Curiosity ha eseguito la prima osservazione in assoluto di Fobos insieme alla Terra. I due corpi sono visibili nella parte alta dell’immagine, processata dagli esperti della NASA a partire da 17 foto. E qui si svela un piccolo “trucco” perché 5 di queste foto sono state eseguite di giorno mentre le restanti 12 sono esposizioni lunghe (comunque solo pochi secondi per evitare l’effetto scia) acquisite otto ore dopo, di notte, quando il Sole era tramontato da svariate ore e a più di 20° sotto l’orizzonte.

Le due immagini così come processate magistralmente dai grafici del JPL. NASA/JPL-Caltech

Però vediamo di aggiungere qualcosa alle cronache della NASA sin qui riportate, nello spirito di questa rubrica che spesso indaga dettagli nascosti ma (spero) di grande fascino.

L’elaborazione dell’immagine con lo zoom su Fobos e la Terra, in mezzo al notevole disturbo che emerge schiarendo le aree buie, rivela un piccolo “grumo” di pixel sospetto. Si tratta di distribuzione casuale del rumore digitale o c’è dell’altro?

Una possibile risposta viene dalla simulazione della scena immortalata da Curiosity tramite il software Stellarium. I dati della posizione possono essere ricavati dalla mappa messa a disposizione dalla NASA con la posizione del rover, le informazioni di scatto (con la data e l’ora in formato UTC) sono invece incluse nei metadati che corredano ogni singola immagine raw.

Il simulatore fornisce una risposta insperata: quel piccolo gruppo di pixel potrebbe essere la nostra Luna terrestre che brillava con magnitudine 2.8. Gli altri corpi erano invece estremamente più luminosi, con la Terra stimata a -1.7 e Fobos -4.1. Queste misure non tengono però conto dell’estinzione dovuta alla presenza di polveri nell’atmosfera di Marte, attualmente causa di un significativo oscuramento dovuto alle temperature in aumento.

Stellarium si conferma uno strumento di simulazione astronomica di notevole fedeltà. L’immagine qui mostrata è stata ottenuta modificando solo di una decina di arcominuti (corrispondenti all’incirca ad altrettanti km) la latitudine ricavata dalla mappa in modo da avvicinarsi quanto più possibile alla foto reale. L’ora di scatto è stata inserita esattamente come riportata nei metadati.

Sopra: elaborazione dell’immagine NASA con in evidenza l’area più chiara descritta. Sotto: simulazione da Stellarium. NASA/JPL-Caltech/Stellarium-Fabien Chereau/Piras

Anche per questo aggiornamento da Marte è tutto, alla prossima!

Bentornati su Marte nella sezione News da Marte #32!

Gli ultimissimi aggiornamenti da Perseverance e un po’ di notizie relative a missioni spaziali del presente e del futuro. Si parte!

La scalata di Perseverance e una strana roccia con le strisce

Il rover della NASA ha iniziato circa un mese fa la sua ascesa verso sud che rappresenta l’inizio del quinto capitolo della sua esplorazione di Marte, la Crater Rim Campaign.
Perseverance sta affrontando alcune delle sue salite più ripide di sempre e ha già guadagnato decine di metri in altezza nell’arco di poche settimane. Lungo la strada è stata anche eseguita l’abrasione di una roccia sedimentaria in modo da dare agli scienziati elementi per valutare come la geologia muti mentre il rover si allontana dagli scenari familiari che ha frequentato i mesi passati tra Neretva Vallis e Bright Angel (l’area in cui tra le altre cose ha eseguito il suo ultimo prelievo, individuata dal piccolo marker rosso nella mappa sottostante).

Mappa con la posizione di Perseverance aggiornata al 26 settembre (sol 1280 di missione). NASA/JPL-Caltech
Filmato con l’operazione di abrasione eseguita dal rover nel Sol 1257. NASA/JPL-Caltech/Piras
Foto della camera WATSON che documenta l’abrasione eseguita nel Sol 1257 (2 settembre). NASA/JPL-Caltech
Foto simile alla precedente ma scattata da due punti di vista distanti pochi cm l’uno dall’altro ed elaborata in modo da generare un’immagine stereografica chiamata anaglifo. Per ammirarne l’effetto di profondità sono necessari i comuni occhialini 3D rosso/ciano. NASA/JPL-Caltech/Piras

Grazie alle posizioni sopraelevate che sta raggiungendo possiamo godere di spettacolari paesaggi attorno al rover acquisiti per mezzo delle NavCam e delle MastCam-Z. Le montagne più lontane risultano oscurate a causa delle tempeste di sabbia che stanno attualmente affliggendo questa a zona di Marte. Vi propongo una breve selezione di immagini della regione.

Visuale verso sud nel Sol 1264 (9 settembre). C’è un moderato effetto fisheye in questa foto della NavCam, ma quella che si vede è la montagna che Perseverance sta scalando. NASA/JPL-Caltech/Piras
Mosaico di immagini della Left MastCam-Z scattate nel Sol 1266 (11 settembre), la camera era puntata verso est. L’inquadratura inclinata non è un errore di processamento ma testimonia la reale inclinazione del rover che in quel momento era impegnato nella salita in direzione sud (verso destra rispetto all’immagine). NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

La navigazione non procede a grande velocità, come intuibile nei tratti a nord della mappa dove si vede un’alta densità di pallini bianchi (ogni pallino rappresenta la posizione in un determinato Sol. La distanza di un pallino da quello che lo precede indica quasi sempre lo spostamento compiuto in quella giornata). Possiamo ragionevolmente supporre che la ragione dell’apparente lentezza non sia dovuta agli ostacoli del terreno che il rover si è trovato a dover evitare, poiché le immagini panoramiche non ne mostrano, ma piuttosto alle precauzioni adottate dai piloti che hanno fatto avanzare il robot su una collina parecchio scoscesa.

Intorno al Sol 1264 (9 settembre) Perseverance arriva in un’area più pianeggiante e può così aumentare considerevolmente le distanze percorse giornalmente superando i 150 metri per Sol. Ma dopo alcuni giorni di terreni abbastanza monotoni c’è qualcosa che cattura l’attenzione dei geologi: una roccia molto particolare, come mai ne erano state osservate prima su Marte, che viene battezzata Freya Castle.

Freya Castle osservata dalla Right MastCam-Z nel sol 1268 (13 settembre). NASA/JPL-Caltech/Piras
Un’altra immagine di Freya Castle, ma stavolta è un anaglifo. NASA/JPL-Caltech/Piras

Gli appassionati su internet vanno in estasi per questa roccia grande circa 20 cm che iniziano a chiamare amichevolmente “roccia zebrata”. I geologi formulano alcune ipotesi sulla sua origine e sulla ragione per cui si trovi qui. Si pensa che possa essere di formazione magmatica, oppure metamorfica, oppure una combinazione dei due processi. Ciò che è quasi certo è che, date le profonde differenze con il terreno circostante, non si è formata nella zona in cui è stata individuata da Perseverance. Potrebbe piuttosto essere rotolata qua da regioni a quota maggiore. È una spiegazione elettrizzante perché significa che il rover potrebbe rinvenire interi campi di rocce simili mentre continuerà la salita verso il bordo del cratere.

Poco è noto della chimica di Freya Castle e, in attesa di poter analizzare più nel dettaglio rocce simili, il team scientifico ha programmato Perseverance per una serie di acquisizioni in banda stretta per mezzo delle due MastCam-Z. Le camere montate sulla “testa” del rover integrano dei filtri e con ciascuno di essi è possibile isolare bande molto strette dello spettro. A noi queste foto potrebbero sembrare tutte uguali, al massimo con alcune variazioni di luminosità, ma per i geologi sono la chiave per individuare le specie chimiche che compongono le rocce.

Raccolta delle immagini acquisite da Perseverance con tutti i filtri a banda stretta a sua disposizione. Sol 1268. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

In questa raccolta mancano quattro filtri: si tratta dei due RGB con cui le camere realizzano le foto normali e i due filtri solari.

Mentre Perseverance continua la sua avanzata gli scienziati si tengono pronti per la prossima tappa molto attesa: Dox Castle. Sarà quasi certamente un argomento per le prossime cronache.

La Cina vuole fortissimamente Marte

Sono trascorsi solo pochi mesi dalla conclusione della missione Chang’e-6 (se n’è parlato in questo articolo), con la quale l’agenzia spaziale cinese CNSA è riuscita nell’obiettivo di portare sulla Terra della regolite lunare (per la precisione 1935 grammi) raccolta per la prima volta sul lato lontano del nostro satellite. Ma i piani spaziali del gigante asiatico non si fermano: i progetti di espansione passano inevitabilmente anche per la prossima frontiera, Marte, e le possibilità di ricerca scientifica offerte dal pianeta rosso. Possiamo affermare che la NASA sia attualmente leader mondiale dell’esplorazione spaziale ma le cose potrebbero cambiare nell’arco di pochi anni e stavolta non per colpa delle compagnie private.

All’inizio di settembre la CNSA ha presentato dei piani di modifica alla sua missione Tianwen-3 che, secondo i programmi diffusi nell’autunno 2023, sarebbe dovuta partire nel 2030 per svolgere dei compiti di raccolta di materiale dalla superficie di Marte per poi portarlo sulla Terra.

Il concetto è il medesimo a cui NASA ed ESA (Agenzia Spaziale Europea) mirano con la loro Mars Sample Return. Con la differenza che mentre la missione occidentale sta soffrendo un’enorme complessità e un budget richiesto crescente che ne stanno causando gravi ritardi, l’agenzia spaziale cinese sembra si potrà permettere persino di anticipare i tempi.

Nel corso della seconda International Deep Space Exploration Conference tenutasi il 5 e 6 settembre a Huangshan, Liu Jizhong, progettista capo della missione, ha rilasciato un aggiornamento che vede la data di lancio di Tianwen-3 spostata dal 2030 al 2028. L’anticipo di circa due anni non è casuale ma dipende com’è noto dai periodi orbitali della Terra e di Marte. Le finestre ottimali con il massimo avvicinamento tra i due pianeti si aprono ogni circa 26 mesi e durano poche settimane, frangenti nei quali si trovano usualmente concentrati tutti i lanci diretti verso il pianeta rosso.

La missione cinese impiegherà due razzi Lunga Marcia 5. Essi porteranno verso Marte un orbiter (che includerà il veicolo di ritorno verso la Terra) e il lander dotato del razzo di ascesa. La raccolta di materiale sarà eseguita dallo stesso lander che metterà al sicuro circa 500 grammi di regolite e piccoli sassi. Liu ha aggiunto che la CNSA intende collaborare con partner internazionali e i veicoli spaziali cinesi ospiteranno anche carichi scientifici per conto di altre nazioni. Ci sarà inoltre condivisione di dati e persino di campioni di materiale, il tutto nell’ottica di stabilire un’aperta cooperazione globale.

L’importante obiettivo scientifico di Tianwen-3 è la ricerca di tracce di vita passata su Marte (suona familiare?) ma il suo successo, soprattutto nei tempi stimati, candiderebbe fortemente la Cina al ruolo di nuovo leader mondiale nell’esplorazione spaziale realizzando, per usare le parole del capo di stato Xi Jinping, il “sogno eterno” cinese. Grazie a enormi investimenti e piani lungimiranti il paese del dragone intende inoltre proseguire le missioni lunari robotiche ma non solo (il primo astronauta cinese è atteso sulla Luna entro il 2030), la raccolta di roccia da una cometa con Tianwen-2 e l’esplorazione del sistema satellitare gioviano con Tianwen-4.

A proposito del programma Tianwen, potreste ricordare la missione capostipite che nel 2021 portò attorno e su Marte per conto della Cina il suo primo orbiter, il primo lander e il primo rover (Zhurong). La missione riuscì in ogni aspetto, con uno dei risultati più notevoli legato all’atterraggio che i cinesi hanno azzeccato al loro primo tentativo.

Il rover Zhurong insieme al lander con cui è atterrato su Marte. Questa foto storica è stata scattata da una piccola camera indipendente che il rover ha deposto al suolo. CNSA

MAVEN e Hubble scoprono il destino dell’acqua marziana

Nonostante decenni di ricerca sono ancora molti i dubbi su quale sia stato il destino dell’acqua un tempo ospitata sulla superficie di Marte. Parte di essa è presumibilmente finita nel sottosuolo (a riguardo si vedano Coelum Astronomia 270 e News da Marte #31), ma che fine ha fatto il resto? Un nuovo tassello nella nostra comprensione della storia del pianeta viene da uno studio pubblicato a luglio sulla rivista Science Advances e a prima firma di John T. Clarke della Boston University.

Clarke e colleghi hanno utilizzato i dati della sonda MAVEN (Mars Atmosphere and Volatile Evolution) e del telescopio spaziale Hubble per cercare di quantificare il tasso di fuga dell’idrogeno marziano nello spazio.
Il meccanismo con cui l’acqua di Marte evapora viene indotto dalla radiazione solare che scinde le molecole di H2O nelle sue componenti ossigeno e idrogeno. Quest’ultimo atomo è molto leggero e tende a disperdersi nello spazio con facilità, ma in mezzo agli atomi di idrogeno è presente una certa quantità di deuterio. Si tratta di un isotopo più pesante perché nel suo nucleo ospita anche un neutrone. Con il doppio del peso atomico il deuterio fugge dall’atmosfera a un tasso estremamente inferiore e così, confrontando la sua percentuale in atmosfera rispetto all’idrogeno, gli scienziati hanno uno strumento per stimare quanta acqua fosse presente su Marte in passato.

Gran parte dei dati impiegati nello studio derivano da misurazioni della sonda MAVEN la quale però non è abbastanza sensibile da poter rilevare le emissioni dovute al deuterio durante un intero anno marziano. Questa impossibilità è legata alla distanza mutevole di Marte dal Sole in quanto, a causa della marcata ellitticità della sua orbita, la variazione di distanza tra afelio e perielio è addirittura del 40%. MAVEN può eseguire le sue rilevazioni solo quando Marte è più vicino al Sole e l’atmosfera si espande a causa del maggior calore ricevuto.
Il buco nei dati relativo all’afelio è stato colmato dal telescopio Hubble che produce osservazioni utili allo scopo fin dagli anni ‘90 e ha così permesso di coprire tre interi cicli annuali marziali, ciascuno composto di 687 giorni terrestri.

Foto nel profondo infrarosso realizzate da Hubble durante il afelio (sopra) e perielio marziani. NASA, ESA, STScI, John T. Clarke (Boston University); Processing: Joseph DePasquale (STScI)

Insieme all’analisi del rapporto D/H (deuterio/idrogeno) allo scopo di stimare quanta acqua Marte abbia posseduto, i ricercatori hanno anche affinato i modelli matematici usati per descrivere l’atmosfera del pianeta. Il team autore dello studio ha scoperto che Marte è molto più dinamico di quanto ritenuto in precedenza e presenta cicli termici che, pur all’interno della loro annualità, variano anche su tempi molto più brevi, persino poche ore.

Il nuovo modello messo a punto dagli scienziati mostra come le molecole di acqua tendano a salire in alta quota durante le fasi di riscaldamento ed è in questi momenti che avviene la “fuga atomica”. Tuttavia le temperature dell’alta atmosfera da sole non sono sufficienti per dare agli atomi abbastanza energia da abbandonare la gravità marziana ed è qui che intervengono altri fenomeni quali collisioni con i protoni del vento solare e reazioni chimiche indotte dalla radiazione luminosa.

Lo studio dell’evoluzione del clima di Marte attraverso la storia della sua acqua aggiungerà elementi alla comprensione del passato degli altri due mondi all’interno della fascia abitabile del Sole, la Terra e Venere, ma anche di molti esopianeti che è impossibile osservare con analogo dettaglio.

Le sonde ESCAPADE partiranno l’anno prossimo (forse)

Il via libera era arrivato a fine agosto ma il 6 settembre c’è stato un improvviso dietro-front. La NASA ha annunciato che i due satelliti gemelli ESCAPADE (Escape and Plasma Acceleration and Dynamics Explorers) non decolleranno verso Marte il 13 ottobre. La data sarebbe stata anche quella del primo volo del vettore pesante incaricato del lancio, il lungamente atteso New Glenn costruito da Blue Origin, compagnia spaziale fondata dal magnate e imprenditore Jeff Bezos.

Nonostante le rassicurazioni di Blue Origin la NASA non è parsa totalmente fiduciosa che il razzo sarebbe stato pronto per la data stabilita e che l’ultimo flusso di verifiche, integrazioni e lo static fire (prova di accensione dei motori) sarebbero andati lisci.

La ragione per rinunciare al lancio a più di un mese dall’apertura della finestra del 13-21 ottobre verso Marte si spiega con la necessità per la NASA di avviare le procedure di preparazione al lancio tra le quali la più critica è il caricamento del propellente nei serbatoi dei due satelliti. I composti utilizzati sono idrazina e tetrossido di azoto, rispettivamente combustibile e ossidante, che vengono fatti venire in contatto per generare una violenta reazione senza l’uso di altri inneschi. È un tipo di miscela usata fin dagli anni ‘50 per la sua affidabilità ma è altamente tossica e richiede particolari cautele nella sua gestione.
Attraverso la dichiarazione diffusa nei suoi canali la NASA ha affermato che nel caso di annullamento del lancio l’operazione di svuotamento dei serbatoi delle sonde avrebbe rappresentato una complicazione tecnica e di programmazione delle attività, nonché una grossa spesa aggiuntiva. Un’eventualità troppo azzardata che ha fatto decidere per rimandare il lancio a non prima della primavera 2025. Questo significa che le sonde ESCAPADE perderanno la finestra per arrivare verso il Pianeta Rosso lungo la traiettoria più rapida, rischiando che il viaggio si allunghi di svariati mesi rispetto ai 6/7 che sono necessari in condizioni ideali.

Non sono stati rilasciati dettagli su traiettorie alternative in fase di studio ma c’è una possibilità non trascurabile che il lancio venga persino rimandato di due anni in attesa del prossimo avvicinamento tra la Terra e Marte.

Rappresentazione artistica dei satelliti ESCAPADE. James Rattray/Rocket Lab USA

La missione ESCAPADE utilizzerà due veicoli spaziali identici per studiare come il vento solare interagisce con l’ambiente magnetico di Marte provocando la fuga dell’atmosfera del pianeta.

“Questa missione può aiutarci a studiare l’atmosfera di Marte, un’informazione chiave mentre esploriamo sempre più lontano nel nostro sistema solare e abbiamo bisogno di proteggere astronauti e veicoli spaziali dal meteo spaziale,” ha dichiarato Nicky Fox, amministratrice associata per la scienza presso il quartier generale della NASA a Washington. “Siamo impegnati a portare ESCAPADE in sicurezza nello spazio, e non vedo l’ora di vederla partire per il suo viaggio verso Marte”. E noi con lei!

Anche per questo aggiornamento dal Pianeta Rosso è tutto, alla prossima!

Bentornati su Marte nella sezione News da Marte #31!

Bentornati su Marte! In questo nuovo appuntamento della rubrica ci sono aggiornamenti che interessano i due rover NASA Perseverance e Curiosity. Il primo sta esplorando delle aree a ovest del cratere Jezero e ha scoperto dei materiali di estremo interesse mentre il secondo, in modo decisamente fortuito, ha trovato dei materiali molto particolari all’interno di una roccia. Iniziamo le nostre cronache proprio con Curiosity, si parte!

Il primo zolfo puro rinvenuto su Marte

È stato con grande stupore che gli scienziati hanno rilevato una scoperta fatta dal veterano dei rover marziani (a proposito, il 5 agosto è ricorso il 12esimo anniversario dell’atterraggio di Curiosity sul Pianeta Rosso). Il 30 maggio il robot si stava spostando quando una delle sue ruote è passata sopra una roccia che si è frantumata mettendo in evidenza dei particolari cristalli gialli. La roccia è stata denominata “Convict Lake”, e le successive analisi sui cristalli eseguite con lo spettrometro APXS hanno rivelato qualcosa di mai osservato prima su Marte: zolfo puro.

 La roccia sbriciolata da Curiosity porta alla luce cristalli di zolfo puro. Foto del 7 giugno (Sol 4208). NASA/JPL-Caltech/MSSS
Questa roccia, battezzata “Snow Lake” e fotografata l’8 giugno, è molto simile a quella frantumata da Curiosity nove Sol prima. Un intero campo di rocce come questa circonda il rover e tutte presumibilmente inglobano zolfo. NASA/JPL-Caltech/MSSS

Da ottobre 2023, ovvero da quando ha iniziato la sua avanzata all’interno del canale chiamato Gediz Vallis, Curiosity ha incontrato spesso dei composti chiamati solfati. La regione abbonda di questi sali (costituiti da zolfo legato con altri elementi) i quali si sono formati quando l’acqua che li ospitava è evaporata. La formazione di cristalli di zolfo puro richiede invece condizioni differenti e molto particolari che gli scienziati non ritenevano potessero essersi verificate in questa regione. Sulla Terra sono per esempio coinvolti processi vulcanici e attività idrotermale.

Di zolfo sembra essercene davvero parecchio qui in quanto Curiosity ha documentato un intero campo di rocce brillanti analoghe a quella frantumata. “Scoprire cose strane e inaspettate è ciò che rende emozionante l’esplorazione planetaria” ha commentato Ashwin Vasavada, scienziata che lavora alla missione. “Un campo di pietre fatte di puro zolfo non dovrebbe trovarsi là, perciò ora dobbiamo trovare una spiegazione”.

Gediz Vallis è uno dei principali motivi per cui il team scientifico ha scelto di atterrare in questa zona di Marte. Si pensa che il canale sia stato scavato da flussi di acqua liquida e detriti che hanno lasciato creste di massi e sedimenti che si estendono per quasi tre km e mezzo lungo il versante della montagna al di sotto del canale. L’obiettivo attuale è comprendere meglio come questo paesaggio sia cambiato miliardi di anni fa e, sebbene le recenti scoperte abbiano aiutato, c’è ancora molto da svelare. Le ultime osservazioni di Curiosity sembrano indicare che due fenomeni abbiano alternativamente plasmato la regione. Da una parte violenti flussi alluvionali, testimoniati da rocce smussate e arrotondate portate dall’acqua, dall’altra frane avvenute in un ambiente asciutto le cui prove sono rocce dai bordi netti e angolati. Le reazioni chimiche avvenute in ambiente umido hanno modificato la chimica delle rocce e infine l’azione di vento e sabbia ha continuato a sagomare il paesaggio.

 

Mappa con la posizione di Curiosity aggiornata al 18 agosto. In evidenza il canale denominato Gediz Vallis e al centro sulla sinistra, per confronto, Piazza San Pietro nella Città del Vaticano: la porzione qui sovraimposta è lunga 565 metri. NASA/JPL-Caltech/Piras

Un prelievo di roccia, il 41esimo per Curiosity, è stato eseguito il 18 giugno sulla roccia “Mammoth Lakes”. Le rocce di zolfo sono estremamente fragili per lo strumento di campionamento del rover, perciò l’operazione ha richiesto qualche attenzione extra sia nella ricerca di una roccia con caratteristiche adatte che nell’operazione di “parcheggio” di Curiosity in modo che esso risultasse stabile e non a rischio di scivolare. I materiali sono stati poi depositati negli strumenti del rover per analisi dettagliate e i risultati aiuteranno gli scienziati a decifrare la storia geologica di questa regione.

Da giugno il rover si è ormai allontanato dall’area del prelievo su “Mammoth Lakes” e si è spostato verso sud percorrendo poco più di 100 metri. Tante nuove foto e anche un ulteriore campionamento di roccia stanno tenendo impegnato Curiosity mentre procede nell’ascesa verso Aeolis Mons, il rilievo di 5500 metri che svetta all’interno del Cratere Gale, con ogni strato della montagna che rappresenta un diverso periodo nella storia di Marte.

Foto della roccia “Mammoth Lakes” scattata nel Sol 4234. In basso è inquadrato il foro del trapano mentre in alto si nota l’abrasione superficiale eseguita tramite lo spazzolino metallico con il quale Curiosity pulisce le rocce da analizzare. NASA/JPL-Caltech/MSSS

 

Macchie di leopardo per Perseverance

A circa 3700 km di distanza dal Cratere Gale continuano le investigazioni dell’altro rover messo in campo dalla NASA e che sta esplorando il bordo ovest del Cratere Jezero. Nel numero 269 di Coelum Astronomia avevamo lasciato Perseverance poco dopo il suo arrivo a “Bright Angel”, la località caratterizzata da rocce chiare situata a nord di Neretva Vallis. Quest’ultimo è il canale sabbioso largo 400 metri dove un tempo scorreva un impetuoso fiume che alimentava il lago all’interno di Jezero.

L’abrasione del Sol 1179 (13 giugno), come ipotizzato, ha preceduto un prelievo vero e proprio che è stato eseguito a metà luglio nel punto più a nord raggiunto dal rover, dove l’argine del canale si eleva diventando quasi invalicabile. È qui che, nelle settimane antecedenti il momento del prelievo, una serie di osservazioni ha prodotto uno dei più importanti risultati della missione fino a questo momento. Facciamo un passo indietro e vediamo con ordine le scoperte fatte dal rover a “Bright Angel”.

Il 23 giugno, durante un breve spostamento all’interno dell’area, Perseverance incontra una formazione molto interessante sopra una roccia con dimensioni 100×60 cm che viene battezzata Cheyava Falls.

 

Dettaglio di Cheyava Fall con delle annotazioni che indicano i dettagli di interesse del masso: le “macchie di leopardo” e un grosso cristallo di olivina. NASA/JPL-Caltech/MSSS

La roccia è percorsa da vene bianche parallele tra loro composte da solfato di calcio con inglobati qua e là cristalli di olivina, un minerale dalle tonalità verdi che si forma nelle rocce magmatiche. In mezzo alle vene bianche viene individuato del materiale rossastro che indica la presenza di ematite, uno dei composti che conferiscono alla superficie a Marte il suo caratteristico colore. La porzione di ematite è costellata di piccoli puntini con dimensioni nell’ordine di pochi millimetri, con contorni scuri e irregolari che racchiudono zone di colore chiaro. Questa conformazione e colorazione è ciò che ha ispirato gli scienziati che li hanno denominati “macchie di leopardo”.

Una serie di scansioni con lo strumento SHERLOC (ebbene sì, ha ripreso a funzionare ma lo vediamo dopo) ha dimostrato in modo molto convincente che le rocce di Cheyava Falls contengono composti organici. Questa rilevazione si aggiunge a due dati importanti: il primo è il fatto, praticamente assodato vista la quantità di indicazioni in questo senso, che qui anticamente scorreva abbondante acqua. Il secondo dato è fornito dalle “macchie di leopardo”.

Dettaglio delle particolari formazioni rinvenute su Cheyava Falls, macro della camera WATSON del 23 giugno (Sol 1188). NASA/JPL-Caltech

Si ritiene che siano state delle reazioni chimiche a trasformare l’ematite da rossa a bianca con il rilascio di ferro e fosfati che sono andati a formare l’alone scuro documentato nelle immagini della camera WATSON. Tali reazioni chimiche sono ben note sulla Terra, ed è appurato che possono essere usate come fonte di energia da forme di vita batterica fornendo una correlazione molto forte tra la presenza di microbi e questo tipo di formazioni nelle rocce sedimentarie. In un colpo solo quindi Cheyava Falls si è rivelata essere la scoperta più importante eseguita fino a questo momento da Perseverance.

Inizia la scienza di contatto

Le investigazioni proseguono con un’abrasione che viene eseguita nel Sol 1191 (26 giugno). Il masso investigato non è però quello interessato dalle precedenti analisi ma uno collocato a fianco a Cheyava Falls, poco più in alto rispetto alla prospettiva del rover, che viene denominato Steamboat Mountain.

La zona brillante al centro della foto è il punto dell’abrasione eseguita il 26 giugno. La grande roccia sedimentaria in basso è Cheyava Falls. NASA/JPL-Caltech/Piras

Una documentazione fotografica di grande dettaglio viene acquisita dalla camera WATSON sia di giorno che di notte. Questo strumento fotografico è infatti dotato di sei illuminatori a LED che producono luce bianca e negli ultravioletti. Lunghezze d’onda ad alta energia quali gli UV sono usate per rilevare i fenomeni di fluorescenza propri di alcuni minerali.

 

Parte frontale della camera WATSON fotografata l’8 marzo 2021 (Sol 17). Il coperchio frontale della camera è chiuso ma quattro aperture mostrano i LED bianchi (sopra e sotto) e quelli UV (a sinistra). NASA/JPL-Caltech/MSSS

 

 

Osservazione notturna dell’abrasione larga 5 cm acquisita da WATSON. La scena è illuminata dai LED della camera. Sol 1191. NASA/JPL-Caltech

Dopo una breve deviazione alcuni metri verso est che lo impegna per non più di cinque giorni, il rover torna sui suoi passi il 17 luglio (Sol 1211) ed è pronto per proseguire le indagini sul masso Cheyava Falls. Si inizia con una fresatura della roccia che espone il materiale interno e in corrispondenza della porzione abrasa permette agli scienziati di continuare a comprendere le caratteristiche eccezionali illustrate nel paragrafo precedente. Gli strumenti impiegati sono le MastCam-Z, SuperCam, WATSON, SHERLOC e PIXL. Ciascuno di essi indaga un diverso aspetto del materiale per fornire una visione d’insieme ma, inevitabilmente, limitata. Tale limite è dettato dalla dimensione e dal peso degli strumenti che il rover ha potuto portare con sé sul Pianeta Rosso. Per andare oltre servirebbe portare queste rocce in laboratori specializzati, ma per fortuna Perseverance è attrezzato per questo obiettivo.

Il trapano di cui è dotato, in combinazione con un set di particolari punte che ormai conosciamo bene, permette al rover di estrarre piccoli carotaggi di roccia. Dopo l’interesse suscitato da questo masso era inevitabile che gli scienziati intendessero prelevarne un campione, e il rover è stato messo in azione il 21 luglio (Sol 1215). Il campione viene sigillato nella sua fiala lo stesso giorno del prelievo, misura 62 mm e viene denominato “Sapphire Canyon”. Si tratta del 22esimo campione di roccia raccolto sinora dal rover e quello appena chiuso è il 25esimo contenitore impiegato. Infatti, oltre a quelli rocciosi, Perseverance ha raccolto due campioni di sabbia a dicembre 2022 e un campione di aria ad agosto 2021.

 

Mosaico di foto della Left MastCam-Z che mostra il foro e l’abrasione su Cheyava Falls, la roccia a sinistra dell’immagine. Sol 1217 (23 luglio), NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

 

Cambia la prospettiva ma le due rocce sono ben riconoscibili: Cheyava Falls sulla sinistra, con in mostra la fresatura appena eseguita, e Steamboat Mountain a destra con l’abrasione di qualche Sol più vecchia. Left NavCam, Sol 1211. NASA/JPL-Caltech/Piras

 

 

Lo stato di Mars Sample Return e la scala CoLD

Come ben sanno i lettori di questa rubrica, il prelievo di campioni per il loro invio verso la Terra è una delle parti più importanti della missione Mars 2020 e costituisce il primo passaggio nell’ambito del progetto ampio (e molto più complesso) chiamato ‘Mars Sample Return’. I campioni di sabbia e roccia che Perseverance sta raccogliendo durante la sua esplorazione del Cratere Jezero vengono sigillati all’interno di piccole fiale di titanio. Questi contenitori saranno poi affidati nell’ordine: a un lander per raccolta e manipolazione; a un piccolo razzo che li porterà in orbita marziana; infine a un orbiter che da Marte tornerà verso la Terra con il contenitore dei campioni, affidando agli scienziati attuali e alle future generazioni il compito di svelare i segreti del Pianeta Rosso. Data prevista di fine missione circa entro metà del prossimo decennio, a patto che la NASA riesca nell’obiettivo di revisione della missione per ridurre i costi e velocizzare il termine delle operazioni (questa fase è descritta in maggior dettaglio in ‘Bentornati su Marte’ del numero 268 di Coelum Astronomia). L’agenzia statunitense ha terminato da alcuni mesi la fase in cui attendeva input da privati e centri NASA per modificare gli aspetti più critici della Mars Sample Return, e un resoconto è atteso per l’inizio dell’autunno. In quel momento comprenderemo meglio il futuro della missione e capiremo se davvero, come auspichiamo da anni con fiducia, i ricercatori potranno mettere le mani sui campioni per svelare eventuali tracce di passata vita batterica su Marte.

Del resto Cheyava Falls, il masso oggetto della cronaca che state leggendo, si è rivelato sinora il più promettente e tantissimi scienziati sono elettrizzati dai risultati preliminari delle sue analisi. Ma, al momento, quanto è probabile la rilevazione di possibile vita microbica extraterrestre sulla base delle informazioni disponibili?

Gli astrobiologi hanno sviluppato la scala CoLD (Confidence of Life Detection) per indicare con quanta probabilità un determinato campione possa essere associato a forme di vita, passata o presente. La scala si compone di sette gradini che vanno dalla ‘rilevazione del possibile segnale’ allo step finale che è la ‘conferma indipendente’. Ci sono passaggi intermedi come per esempio ‘esclusione di contaminazioni’, ‘esclusione di processi non biologici’ o ‘segnali aggiuntivi indipendenti’, tutti pensati in accordo con il metodo scientifico con lo scopo di non dare nulla per scontato. Data l’eco che la loro scoperta ha generato, potremmo essere portati a pensare che le rilevazioni su Cheyava Falls si collochino su una posizione di rilevo della scala CoLD, ma sono stati gli stessi scienziati che lavorano con Perseverance a stemperare gli entusiasmi. Siamo infatti ancora sul primo gradino, vale a dire il semplice rilevamento di un elemento d’interesse. Esistono alcuni processi non biologici che potrebbero aver generato queste ‘macchie di leopardo’ osservate sull’ematite tra i quali l’esposizione a temperature elevatissime, incompatibili con la vita, e che fornirebbero una spiegazione alla presenza dell’olivina la quale ha appunto origine magmatica.

Perseverance si scatta un nuovo selfie

Forse grazie all’agenda di attività un po’ più libera del solito o forse per celebrare la scoperta di questo masso così interessante e il successo del campionamento, il 24 luglio Perseverance si scatta un selfie. Per la maggior parte di noi umani si tratta ormai di un’operazione quasi banale ma su Marte, a centinaia di milioni di km di distanza e con un robot di una complessità spaventosa, non esistono operazioni semplici.

Perseverance impiega 46 minuti per scattare 62 immagini con la camera WATSON installata sul braccio robotico. Seguendo una sequenza di dettagliate istruzioni stilate dai tecnici del Jet Propulsion Laboratory, il rover muove il suo arto come in una precisissima coreografia nel corso della quale orienta lo stretto campo visivo della camera in tutte le direzioni attorno a sé. La finezza migliore è riservata per i momenti in cui il braccio rischierebbe di finire all’interno dell’inquadratura: con ulteriori acrobazie permesse dai cinque snodi di cui esso è dotato, Perseverance riesce a portare a termine una panoramica di 180° nella quale sembra che la foto sia stata fatta da qualcuno là su Marte a fianco al rover. Con una piccola variazione di appena tre foto è stata elaborata una versione alternativa dell’immagine riportata su queste pagine, dove sembra che il rover, invece di guardare in camera, stia ammirando con compiacimento il lavoro che ha eseguito sulla roccia al suolo.

Il più recente autoscatto di Perseverance. Sol 1218. NASA/JPL-Caltech/MSSS
Uno degli scatti alternativi nei quali la “Mast” del rover guarda verso il basso. NASA/JPL-Caltech/Piras

Combinando i singoli scatti nel modo opportuno, e soprattutto posizionandoli nel punto corretto del mosaico finale, possiamo anche renderci conto dell’ordine nel quale il rover abbia “scansionato” il paesaggio attorno a sé. Ve lo mostro in questo video che ho realizzato. La proiezione è diversa da quella usata dalla NASA perché le opzioni sono numerose quando si desidera di passare da una ripresa panoramica a una rappresentazione su un piano, ciascuna con i suoi pro e contro.

Dopo il prelievo e questo simpatico selfie sembra che per Perseverance non ci sia altro da studiare in questa regione, Bright Angel, che ha rispettato appieno le attese degli scienziati. Il rover può così tornare indietro verso il centro di Neretva Vallis e riprendere la sua strada verso sud-ovest dove inizierà la prossima parte della sua missione.

Sol 1224 (30 luglio), Perseverance si lascia alle spalle Bright Angel. NASA/JPL-Caltech
Posizione di Perseverance aggiornata al 20 agosto. La larga striscia chiara in alto è la regione Bright Angel con il marker relativo al prelievo lì eseguito. NASA/JPL-Caltech.

 

Un nuovo capitolo di esplorazione a Jezero

Quattro campagne scientifiche completate, tre anni e mezzo di esplorazione del fondo di Jezero e del delta del fiume, quasi 28 km percorsi e 22 campioni di roccia raccolti. Con questi numeri e i suoi strumenti scientifici in eccellenti condizioni operative Perseverance ha iniziato a fine agosto il quinto capitolo di esplorazione, la Crater Rim Campaign, che lo vedrà raggiungere il bordo occidentale del cratere. Lo attendono probabilmente i terreni più ripidi affrontati finora, con pendenze che arriveranno a 23° di inclinazione richiedendo la massima attenzione da parte dei piloti e ottime prestazioni dell’autonavigatore. Le regioni di maggiore interesse che il team scientifico intende esplorare sono state individuate in “Pico Turquino” e “Witch Hazel Hill”.

Mappa con il percorso elaborato dai piloti di Perseverance attraverso il bordo ovest del cratere Jezero. NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

 

Il percorso verso la prima di queste regioni dista 1.8 km da “Serpentine Rapids”, l’area dove Perseverance si trovava a metà agosto, e richiederà al rover di risalire un primo dislivello di 300 metri. Nelle immagini satellitari “Pico Turquino” mostra fratture che potrebbe essere state causate da un’antica attività idrotermale. Le osservazioni orbitali di “Witch Hazel Hill” documentano invece possibili stratificazioni di materiali risalenti a un’epoca molto antica, quando il clima marziano era profondamente diverso rispetto a quello attuale. Questa zona, situata circa 1700 metri a ovest di “Pico Turquino” e ulteriori 250 metri più in alto, presenta un substrato roccioso chiaro simile a quello incontrato a “Bright Angel”, il che fa ipotizzare che anche qui potrebbero venir rilevate strutture e biosignature chimiche analoghe, generate forse miliardi di anni fa da batteri in presenza di acqua corrente.

 

Mosaico di 59 scatti che mostra la visuale verso sud delle zone che Perseverance si accinge a raggiungere. La prima di esse, “Dox Castle”, si trova poco a sinistra del rilievo di destra a 750 metri dalla posizione dell’immagine. Foto del 4 agosto (Sol 1229), NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS

I campioni finora raccolti da Perseverance hanno già offerto informazioni scientifiche di grande valore, ma la missione intravede altre scoperte all’orizzonte. “I campioni attuali rappresentano una raccolta di enorme interesse scientifico, ma esplorare il bordo del cratere ci offrirà l’opportunità di ottenere ulteriori campioni che potrebbero rivelarsi cruciali per comprendere la storia geologica di Marte,” ha dichiarato la scienziata Eleni Ravanis, membro del team Mastcam-Z di Perseverance e uno dei leader scientifici della Crater Rim Campaign. “In particolare ci aspettiamo di analizzare rocce provenienti dalla crosta marziana più antica. Queste rocce si sono formate attraverso una moltitudine di processi geologici, e alcune potrebbero rappresentare ambienti antichi, potenzialmente abitabili, che non sono mai stati esaminati da vicino prima d’ora.”

Ma raggiungere la cima del cratere non sarà un’impresa semplice. Perseverance dovrà seguire un percorso studiato dai tecnici per ridurre al minimo i rischi, pur offrendo al team scientifico delle opportunità di ricerca. Durante la prima parte dell’ascesa il rover guadagnerà circa 300 metri di altitudine raggiungendo la sommità in un’area che il team scientifico ha battezzato “Aurora Park”.

Da lì, a centinaia di metri sopra un vasto cratere di 45 chilometri di diametro, Perseverance sarà pronto per iniziare il prossimo capitolo della sua esplorazione.

Un oceano di acqua sotterranea all’interno di Marte?

Impiegando i dati acquisiti dal lander InSight della NASA, nel corso dei quali ha rilevato e misurato migliaia di piccoli sismi, un gruppo di ricercatori delle Università di San Diego e Berkley sono giunti alla conclusione che l’interno della crosta marziana potrebbe ospitare quantità enormi di acqua a profondità comprese tra 11.5 e 20 km. Fratture e porosità delle rocce ignee all’interno del pianeta, saturate di acqua, fornirebbero la migliore giustificazione ai dati rilevati dalla sonda. La quantità d’acqua che permea le rocce sarebbe tale da poter ricoprire l’intero pianeta con un immenso oceano profondo circa 1.5 km. Questa scoperta non solo arricchisce la nostra comprensione del ciclo dell’acqua marziano, ma offre anche nuove prospettive su come il clima di Marte sia cambiato drasticamente. La possibilità che parte dell’acqua marziana sia rimasta intrappolata nella crosta, piuttosto che evaporare completamente nello spazio, potrebbe aiutare a risolvere il mistero di come il pianeta abbia perso la sua atmosfera e si sia trasformato da un mondo potenzialmente abitabile a un deserto gelido. Sebbene l’accesso a queste riserve d’acqua sia attualmente fuori dalla nostra portata, lo studio apre la possibilità che tali ambienti profondi possano ospitare forme di vita microbica, analogamente a quanto osservato nelle miniere e negli oceani profondi sulla Terra. I risultati della ricerca potrebbero influenzare la pianificazione delle future missioni su Marte, indirizzando l’attenzione verso l’esplorazione del sottosuolo. La possibilità di trovare acqua liquida a grandi profondità potrebbe portare a missioni mirate a sondare queste zone e, in futuro, a sviluppare tecnologie in grado di sfruttare queste risorse che potrebbero rivelarsi cruciali per la colonizzazione del pianeta.

Rappresentazione artistica dell’interno di Marte in base allo studio in oggetto. James Tuttle Keane e Aaron Rodriquez, Scripps Institute of Oceanography

 

 

Bentornati su Marte nella sezione News da Marte #30!

Riprendiamo l’esplorazione del Pianeta Rosso con Perseverance che si trovava a un passo da Neretva Vallis, il greto sabbioso dell’antico fiume che miliardi di anni fa scorreva verso est confluendo nel Cratere Jezero. C’è anche qualche interessante integrazione riguardante le aurore marziane catturate direttamente dalla superficie e per finire eccellenti conferme sullo stato della camera SHERLOC. Si parte!

Dove eravamo

Nel precedente appuntamento della rubrica abbiamo lasciato il rover Perseverance impegnato nell’analisi di un’abrasione eseguita su una roccia depositata al suolo. Grazie agli aggiornamenti NASA abbiamo nel frattempo scoperto che la roccia viene battezzata Old Faithful Geyser, ma ci sono dettagli geologici molto più interessanti del suo nome.

Avvio dell’operazione di fresatura catturato dalla Front Left HazCam, Sol 1051. NASA/JPL-Caltech/Piras
Una delle fotografie diurne eseguite dalla camera WATSON successivamente alla fresatura, Sol 1051. NASA/JPL-Caltech

La roccia Old Faithful Geyser, così come i tre prelievi che l’hanno preceduta eseguiti lungo la Marginal Unit (Pelican Point, Lefroy Bay e il più recente Comer Geyser), si conferma ricca di carbonati. Ma ci sono alcune differenze nel modo in cui i grani sono cementati all’interno che rendono ciascuna roccia, in un certo senso, unica. La spiegazione potrebbe risiedere nei meccanismi di formazione o in differenti processi di alterazione. Lo studio di questa nuova roccia è stato pensato per integrare le analisi sinora a disposizione degli scienziati in modo da espandere i campionamenti man mano che Perseverance si muove verso ovest e servirà a comprendere se le rocce carbonatiche lungo il percorso siano formate tramite processi sedimentari, vulcanoclastici o ignei.

L’osservazione di Old Faithful Geyser non si è fermata all’imaging esterno ma ha impiegato anche lo strumento PIXL, lo spettrometro a raggi X installato sul braccio robotico, che ha analizzato l’interno della roccia per mappare la dimensione e distribuzione dei grani della roccia. Anche questo rilievo sarà confrontato con quelli analoghi eseguiti nelle settimane passate.

Confronto fra le tre rocce da cui Perseverance ha estratto gli ultimi tre campioni. NASA/JPL-Caltech/Piras

Perseverance mette il turbo

Dopo aver completato il percorso a ostacoli schivando massi e sabbia lungo l’Unità Marginale e procedendo per questa ragione a rilento, i piloti della NASA vedono finalmente tra le dune uno spiraglio verso nord che permetta al rover di accedere all’interno di Neretva Vallis senza pericoli. Il rischio di insabbiarsi era prima d’ora talmente concreto che è stato accettato di perdere tempo con la lenta traversata sulle rocce della West Marginal Unit.

Visuale verso nord nel Sol 1158 (23 maggio). NASA/JPL-Caltech/Piras
Spostamenti di Perseverance dal Sol 1159 al 1176

Il Sol 1162 (27 maggio) Perseverance si è così potuto insinuare verso nord attraverso Dunraven Pass, muovendosi per la notevole distanza di 200 metri e ricordandoci delle sue vere potenzialità messe in ombra nelle precedenti settimane: la tratta unica più lunga era stata di 90 metri, ma mediamente ogni spostamento (o drive, come li chiamano i tecnici) non ha superato i 30.

Il rover giunge al centro dalla valle sabbiosa un tempo costituente il letto del fiume che fluiva verso est in direzione del cratere Jezero. Dalla posizione indicata con il marker rosso a destra nella mappa numero 2 Perseverance esegue una serie di scatti con le MastCam-Z per comporre un mosaico di Mount Washburn, il rilievo che si erge all’interno di Neretva Vallis ben visibile nelle immagini satellitari e che il rover inquadra guardando verso est. Gli scienziati avevano già osservato la regione da lontano cogliendo alcune peculiarità nella composizione e trama delle rocce e appena l’occasione si presenta decidono di indagare ulteriormente.

Il risultato è indubbiamente un bel panorama ma c’è qualcosa di più che salta all’occhio anche ai meno esperti: al centro dell’immagine si staglia un masso alto circa 40 cm eccezionalmente brillante con delle macchie scure. Viene battezzato “Atoko Point” dal nome di un rilievo a est del Grand Canyon in Arizona.

Panorama del Sol 1162. NASA/JPL-Caltech

È noto che impetuosi fiumi, su Marte come sulla Terra, siano stati in grado di trasportare materiale verso valle anche per lunghe distanze, e il masso qui inquadrato sembra provenire davvero da molto lontano. Peraltro non è l’unico con una superficie così chiara in quanto ingrandendo l’immagine se ne scorgono anche altri. Potrebbe essere una piccola anteprima di ciò che attende il rover nei prossimi mesi e anni di missione, o addirittura provenire da regioni che Perseverance non raggiungerà mai. I tecnici non si fanno sfuggire l’occasione di investigare più nel dettaglio “Atoka Point” e lo fanno con ulteriori zoom della MastCam-Z e con la SuperCam, quest’ultima impiegata anche con il suo laser vaporizzatore per indagare la chimica del masso.

Atoko Point nel dettaglio catturato dalla Left MastCam-Z, Sol 1162. NASA/JPL-Caltech/ASU/Piras
Unione di tre immagini di SuperCam RMI, Sol 1162. NASA/JPL-Caltech/LANL/CNES/IRAP/Piras

Finalmente Bright Angel!

Dopo l’osservazione di Mount Washburn Perseverance non ha fatto altre tappe e ha proceduto spedito prima leggermente verso nord a toccare “Tuff Cliff” e poi verso ovest attraversando “Cedar Ridge” fino all’arrivo alla destinazione finale: Bright Angel.

Immagine NavCam del Sol 1172. Ci troviamo all’interno di Neretva Vallis e guardiamo verso ovest. A destra si intuisce Bright Angel appena alle pendici del rilievo. NASA/JPL-Caltech

È questo il nome che gli scienziati hanno dato all’area al confine ovest dell’Unità Marginale e parzialmente inglobata in Neretva Vallis. Ben visibile anche dalle immagini satellitari grazie al suo colore chiaro che spicca rispetto alle zone circostanti, era nel mirino dei ricercatori ancora prima che la missione del rover iniziasse nel 2021. Le rocce chiare che costituiscono Bright Angel potrebbero essere sedimenti che nel tempo si sono accumulato e hanno formato il canale o materiale ancora più antico, esposto dall’azione erosiva dell’acqua.

Perseverance arriva alla base dell’affioramento intorno al 10 giugno. Le prime immagini stupiscono i geologi e l’intero team scientifico: le rocce presentano strutture stratificate con bordi taglienti che richiamano alla mente vene minerali, simili a quelle osservate mesi fa alla base del cono alluvionale con la differenza che qui sono molto più abbondanti. Ci sono anche alcuni piccoli sassi raggruppati tra loro che presentano delle piccole sfere in superficie. Il team ci mette poco a inventare un’analogia per queste strutture che vengono scherzosamente definite “simili a popcorn”. La visione d’insieme suggerisce che in questa regione scorresse acqua di falda.

Le strutture a “popcorn” di Bright Angel osservate da Perseverance nel Sol 1175, Left MastCam-Z. NASA/JPL-Caltech/ASU/Piras
Sottilissimi scaglie di roccia emergono dalla sabbia e proiettano al suolo le proprie ombre frastagliate. Right MastCam-Z nel Sol 1182. NASA/JPL-Caltech/ASU/Piras

Nei Sol successivi Perseverance è risalito verso nord di qualche decina di metri documentando il paesaggio circostante e la chimica delle rocce con analisi spettrali. Nei Sol 1179 e 1191 (13 e 26 giugno) si è poi proceduto a due distinte fresature di basamenti al suolo, a non troppa distanza l’uno dall’altro.

Fresatura eseguita da Perseverance nel Sol 1191. NASA/JPL-Caltech/Piras
Osservazione dell’abrasione con la camera WATSON, Sol 1191. NASA/JPL-Caltech/Piras

Vedremo se prima di proseguire le esplorazioni il rover, che nel frattempo è praticamente stazionario da alcune settimane, verrà programmato anche per un nuovo prelievo. La regione attualmente in esplorazione è un tesoro per i geologi tra lastre erose dall’acqua, concrezioni di olivina e vene minerali che tagliano in due i massi al suolo.

Credo che siamo in tanti a non vedere l’ora di leggere le analisi degli scienziati al lavoro nella missione del rover non appena saranno disponibil! E come sempre troverete sulle pagine di Coelum Astronomia una completa e rigorosa sintesi delle evidenze risultanti, perciò continuate a seguire questa rubrica web e la sua gemella sulla rivista cartacea.

Riguardo a Perseverance, una volta terminati i lavori in quest’area tornerà sul versante sud del canale in direzione di “Serpentine Rapids” per poi continuare a percorrere Neretva Vallis verso ovest.

Breve avanzamento di Perseverance all’interno di Bright Angel e posizione aggiornata al Sol 2104 (9 luglio)

La CME di maggio: i risultati scientifici

Nel precedente appuntamento della rubrica avevamo visto che l’orbiter MAVEN e il rover Curiosity si stessero preparando all’analisi delle espulsioni di massa coronale originate dalla macchia solare AR3664.

Le rilevazioni più importanti dei due apparati statunitensi non hanno però riguardato le CME legate al brillamento di classe X3.8 dell’11 maggio (quello direttamente responsabile delle aurore documentate sulla Terra sino a latitudini tropicali) e neppure il brillamento X8.79 del 14 maggio.

Un terzo brillamento di intensità ancora maggiore è avvenuto il 20 maggio quando la macchia AR3664 era ormai sparita dal disco solare visibile dalla Terra ma è stata rilevata e misurata nella sua intensità dal satellite NASA-ESA Solar Orbiter. La potenza stimata è stata X12, rendendo questo l’evento più energetico misurato dal novembre 2003.

Sulla superficie di Marte i tecnici di Curiosity si sono fatti trovare pronti con lo strumento Radiation Assessment Detector (RAD), ma non solo. Il rilevatore di particelle del rover ha misurato una quantità di radiazioni al suolo pari a 8.1 millisievert, equivalenti all’incirca a 30 radiografie al torace. Pur non rappresentando una dose letale per un astronauta che si fosse trovato senza adeguate schermature su Marte, è tuttavia la massima rilevazione mai misurata da Curiosity nei suoi 12 anni di operazioni.

Altre analisi di Curiosity hanno impiegato degli strumenti ottici, ovvero MastCam e NavCam. Queste ultime hanno monitorato il paesaggio marziano e documentano l’interazione delle particelle cariche con i fotorilevatori del sensore CCD. Il risultato è rumore digitale che dà luogo a una specie di “neve”. Nelle immagini acquisite si notano persino intere strisciate, generate da singole particelle che hanno percorso il piano del sensore eccitando molteplici pixel.

Immagine NavCam del 20 maggio, Sol 4190. NASA/JPL-Caltech

Le osservazioni con le MastCam sono state invece un po’ diverse a partire dal fatto che si sono svolte durante la notte e hanno cercato di rilevare l’emissione ottica del vento solare, ovvero l’aurora. La ricerca di questa debolissima traccia giustifica le acquisizioni descritte in News da Marte #29 che, a una prima occhiata, poteva sembrare avessero poco senso. Ma abbiamo fatto bene a non giungere a conclusioni affrettate e riservarci di tornare in seguito sulla loro analisi.

Le aurore su Marte

Sul Pianeta Rosso, a causa dell’assenza di un campo magnetico globale, l’interazione tra le particelle cariche e l’atmosfera non è concentrata sui poli come sulla Terra ma genera fenomeni differenti. Uno tra questi è noto con il nome di aurora diffusa e si manifesta a livello planetario come un bagliore nell’emisfero al buio in specifiche linee di emissione nell’ultravioletto a cavallo tra 130.4 e 297.2 nanometri dovute ad anidride carbonica, monossido di carbonio e ossigeno atomico. Le lunghezze d’onda interessate sarebbero perciò esterne alle bande passanti dei filtri di Curiosity che arrivano al massimo a circa 420 nm, corrispondenti al limite inferiore della banda del colore blu. Recentissimi studi hanno però confermato l’esistenza finora solo teorizzata di un’emissione aggiuntiva legata all’ossigeno localizzata a 557.7 nm, nella lunghezza d’onda del colore verde e perciò in piena banda visibile. È un risultato attualmente ancora in fase di pre-print e che dovrebbe venir presentato tra un paio di settimane alla decima International Conference on Mars a Pasadena, California, e che sfrutta le rilevazioni eseguite con le camere di Perseverance. Le tecniche di analisi sono estremamente interessanti e meritano una descrizione nel paragrafo finale di questo articolo.

In orbita marziana era contemporaneamente al lavoro MAVEN che ha rilevato il fenomeno già menzionato delle aurore diffuse nell’intero emisfero in ombra mentre il pianeta veniva investito dalle particelle solari. Durante le osservazioni, eseguite dal 14 al 20 maggio, la sonda parrebbe aver rilevato anche un’altra tipologia di fenomeno chiamato aurora discreta. Queste ultime sono generate dall’interazione del vento solare con le aree, piccole e sparpagliate soprattutto nell’emisfero sud di Marte, in cui si conserva un intenso magnetismo crostale. Si tratta di regioni di crosta raffreddatesi quando ancora il pianeta aveva un magnetismo globale che si è così conservato nelle rocce. Queste regioni non sono state in seguito bersagliate da grandi impatti meteorici che, alzando la temperatura oltre la soglia per cui la roccia perde le proprietà magnetiche (temperatura di Curie), hanno fatto sì che gran parte della superficie di Marte perdesse anche questo magnetismo residuo. Ma nelle aree dove ancora si conserva è talmente intenso da guidare la formazione di aurore estremamente localizzate.

Rilevazione del 20 maggio di MAVEN nell’emisfero notturno di Marte con lo strumento sensibile all’ultravioletto. NASA/University of Colorado/LASP

Per completare la trattazione vale la pena menzionare un ulteriore tipo di aurora marziana: a quelle diffuse e quelle discrete si aggiungono le aurore protoniche (scoperte da MAVEN nel 2018) che riguardano l’emisfero illuminato.

Nel 2022 la sonda emiratina Hope ha invece rilevato per la prima volta un potenziale quarto tipo di aurora (definito come sinuosa discreta) la cui emissione osservata nell’ultravioletto si distendeva per una grande porzione dell’emisfero marziano in ombra. La spiegazione per questo nuovo fenomeno non è al momento chiara perché mostra caratteristiche simili a quelle delle aurore discrete, ovvero una precisa localizzazione, sebbene sia apparentemente generata dagli stessi meccanismi delle aurore globali. I prossimi mesi di attività solare e le osservazioni che seguiranno aiuteranno a far chiarezza.

Emirates Mars Mission

L’aurora nel visibile di Perseverance

Il 15 marzo un flare di intensità C4.9 (quindi circa 90 volte inferiore rispetto al fenomeno X3.8 legato alle aurore terrestri di maggio) originato dalla macchia solare AR3599 ha generato un’espulsione di massa coronale interplanetaria che ha viaggiato sino a Marte. Nel paper intitolato First Detection Of Visible-Wavelength Aurora On Mars (Knutsen, McConnochie, Lemmon et al., 2024) vengono riportati i risultati del quarto tentativo, stavolta riuscito, di rilevare un’aurora diffusa direttamente dalla superficie di Marte e, per la prima volta in assoluto, dell’emissione a 557.7 nm dell’ossigeno atomico responsabile della tinta verde comune anche alle aurore terrestri. Per farlo gli scienziati sono ricorsi a Perseverance e allo spettrometro della SuperCam, dotato tra le altre cose di un amplificatore ottico nell’intervallo 535-853 nm utile per aumentare l’intensità della debole emissione d’interesse. 

L’ora di arrivo della tempesta solare ha rispettato le previsioni e l’impatto con Marte è stato confermato anche da un incremento di errori nella memoria della sonda Mars Express di un fattore 4. Le osservazioni spettrali di Perseverance sono partite alle 00:34 del Sol 1094 e, dopo aver compensato il rumore di fondo e applicato gli opportuni filtraggi, mostra in modo eloquente il picco di luce alla lunghezza d’onda attesa.

In nero la media delle acquisizioni spettrali della SuperCam e in verde la curva di miglior adattamento. In basso in rosso il rumore residuo. Knutsen, McConnochie, Lemmon et al.

Al termine delle rilevazioni con la SuperCam, Perseverance ha eseguito acquisizioni anche con le MastCam-Z utilizzando i filtri RBG con cui produce le immagini nello spettro visibile. Nonostante la presenza in cielo del luminoso Fobos che ha aggiunto una tinta giallo-arancio alle immagini, al termine delle compensazioni anche le immagini della MastCam-Z hanno mostrato un eccesso di radiazione nel canale verde. 

I ricercatori hanno concluso che l’evento CME studiato ha prodotto un’emissione con intensità stimata di 93 Rayleigh (unità di misura per il flusso luminoso). Le rilevazioni oggetto di studio sono state parzialmente degradate dalla presenza di polveri in sospensione nell’atmosfera che hanno ridotto la luminosità dell’evento, ma si ritiene che in condizioni atmosferiche migliori o nel caso di CME di poco più potenti si potrebbe raggiungere la soglia di visibilità umana. Quindi, un giorno, astronauti e astronaute potrebbero vedere con i loro occhi aurore su Marte.

SHERLOC è di nuovo operativa

La comunicazione ufficiale è arrivata il 17 giugno attraverso gli aggiornamenti resi disponibili dalla NASA e conferma ciò che su queste pagine avevamo già ipotizzato a metà maggio in News da Marte #28. Succede spesso che nelle immagini grezze si nascondano piccole anticipazioni su ciò che verrà narrato più tardi nelle cronache dei rover…

Sono state proprio le immagini acquisite l’11 maggio che hanno confermato la ripresa funzionalità della camera SHERLOC che a inizio gennaio era rimasta con lo sportellino di protezione della lente bloccato in posizione socchiusa.

Posizione della camera SHERLOC ACI sulla torretta del braccio robotico, Sol 1044. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

I tentativi di ripristinare la funzionalità del piccolo motore che aziona lo sportellino, che permette inoltre il fondamentale controllo della messa a fuoco, hanno avuto parziale successo nel corso dei mesi di lavoro. I tecnici hanno scaldato l’attuatore coinvolto, hanno azionato il trapano nel tentativo di smuovere granelli di polvere che potessero ostacolare il movimento di apertura, eseguito particolari acrobazie con il braccio robotico…

Non si sa di preciso quale di queste azioni sia stata risolutiva, ma alla fine i tecnici sono riusciti ad aprire lo sportellino quanto bastava per non ostruire più la lente di SHERLOC che è sia una camera che uno spettrometro. Il motore non era però in grado di muoversi liberamente e perciò una precisa messa a fuoco era ancora impossibile da ottenere. È servito un piano B.

Se l’obiettivo fotografico non può agire sulla messa a fuoco allora si può intervenire avvicinando o allontanando la camera al soggetto. Sfruttando l’estrema precisione dei movimenti del braccio robotico, capace di spostamenti minimi di 0.25 millimetri, i tecnici hanno eseguito un test sul target di calibrazione di SHERLOC individuando in 40 mm la distanza dal soggetto per ottenere una precisa messa a fuoco.

La prima immagine nuovamente a fuoco di SHERLOC viene acquisita nel Sol 1047. NASA/JPL-Caltech/Piras

Per il primo test vero e proprio su una roccia bisogna aspettare qualche giorno marziano, il Sol 1153. Il risultato dà esito positivo.

18 maggio, Perseverance fotografa di nuovo una roccia con SHERLOC ACI. NASA/JPL-Caltech

Quasi un mese dopo, il 17 giugno, si presenta l’occasione di testare anche lo spettrometro di SHERLOC. Anche questo test ha successo, e la NASA può così dichiarare ufficialmente riuscito un debug hardware eseguito su un apparato distante centinaia di milioni di km. Pur con la limitazione di non poter agire sulla messa a fuoco diretta tramite l’obiettivo, Perseverance continuerà a produrre dati di immutata qualità scientifica con SHERLOC. Avanti tutta!

Anche per questo appuntamento è tutto, alla prossima!

Bentornati su Marte nella sezione News da Marte #29!

Questo aggiornamento sulle attività dei rover NASA sarà un po’ più mirato del solito e si focalizzerà principalmente su due tipi di tempeste, di sabbia e solari, e le loro conseguenze. Nella seconda parte ci divertiremo poi a indagare il Sole grazie all’occhio acutissimo di Perseverance. Si parte!

Il massimo del ciclo solare

Maggio è stato un mese di grandissimo interesse per chi si occupa di scienza del Sole. Ci avviciniamo al picco di attività della nostra stella all’interno del ciclo di 11 anni, e gli strepitosi fenomeni di aurore e SAR osservati sulla Terra sino a latitudini tropicali ne sono stati la prova. Su Marte la NASA non si farà trovare impreparata in quanto ha due apparati pronti non solo per rilevare ma anche misurare l’intensità delle eruzioni solari e i fenomeni che ne conseguono.

MAVEN

Il primo di questi apparati si trova in orbita ed è la sonda MAVEN, acronimo di Mars Atmosphere and Volatile Evolution. La missione del satellite, iniziata nel settembre 2014, è focalizzata sulla misurazione della fuga dell’atmosfera di Marte, cercare di comprenderne l’evoluzione nel tempo e da qui dedurre quale fosse il clima del pianeta nel suo passato.

NASA/GFSC

Non è poi un caso che MAVEN sia progettata anche per rilevare radiazioni e influenza del vento solare; infatti i picchi di attività della nostra stella, su un pianeta privo di campo magnetico globale come Marte, riescono a soffiare via l’atmosfera durante tempeste solari particolarmente violente. I modelli climatici prevedono che le stagioni marziane più calde, oltre a produrre le celebri tempeste di sabbia che talvolta arrivano ad avvolgere l’interno pianeta, riscaldino e “gonfino” significativamente l’atmosfera. In essa si trova miscelato anche il vapore acqueo che sublima dai ghiacci e che viene così investito dal vento solare e disperso nello spazio. Questo processo, ripetuto nel corso di miliardi di anni, potrebbe aver avuto il potenziale di trasformare un mondo umido nell’attuale deserto arido che è Marte. Un cruciale fattore di riscaldamento globale del pianeta giunge dal suo posizionamento in perielio, punto di massima vicinanza al Sole. L’orbita di Marte ha una marcata eccentricità e questo fa sì che nel punto di perielio il pianeta riceva quasi il 50% di radiazione e calore in più rispetto all’afelio. La stagione delle tempeste di sabbia è attualmente in corso. Siamo infatti a ridosso del perielio (avvenuto l’8 maggio) e quest’anno in concomitanza, come detto, di un periodo di intensa attività solare. MAVEN sta sfruttando questa sovrapposizione di eventi per compiere studi alla ricerca di conferme sperimentali sulla validità delle teorie attuali sulla fuga dell’atmosfera.

Curiosity

Il secondo apparato messo in campo dalla NASA per studiare gli attuali picchi di attività solare è il rover Curiosity. Insieme agli strumenti per l’analisi chimica delle rocce e le numerose camere, il robot monta sulla propria plancia uno strumento chiamato RAD. Il nome è l’acronimo di Radiation Assessment Detector e si tratta di un rilevatore di particelle altamente energetiche.

NASA/JPL-Caltech/MSSS

RAD studia la radiazione solare che filtra nell’atmosfera e colpisce la superficie di Marte. Queste particelle hanno sufficiente energia per spezzare le molecole organiche, inducendo dei processi che danneggiano le eventuali tracce fossili di vita batterica che rappresentano gli attuali obiettivi di studio sul Pianeta Rosso. Ma gli scopi di RAD non si fermano qui: lo strumento sta fornendo indicazioni sulle schermature di cui i futuri habitat umani dovranno essere dotati per fornire un sufficiente livello di sicurezza ai primi astronauti che metteranno piede su Marte. Prima ancora dell’atterraggio sul pianeta nel 2012 a bordo di Curiosity, RAD ha misurato la radiazione nello spazio interplanetario, anche in questo caso con lo scopo di quantificare la pericolosità di un viaggio spaziale per un equipaggio. Gli strumenti di MAVEN e il RAD di Curiosity si completano a vicenda, potremmo dire: i detector del satellite sono sensibili alle radiazioni a bassa energia mentre RAD rileva quelle estremamente più energetiche che riescono a penetrare l’atmosfera e arrivare sino alla superficie. Per questa ragione capita che i team del rover e della sonda lavorino fianco a fianco per caratterizzare da prospettive differenti un medesimo evento solare. Vedremo probabilmente in uscita nei prossimi mesi qualche news o paper scientifico basato sulle rilevazioni che questi due apparati stanno portando avanti.

A caccia dell’aurora

Il 14 maggio la macchia solare AR3664, balzata ai proverbiali onori delle cronache in quanto responsabile pochi giorni prima delle aurore più potenti dal 2003 a oggi, era ormai sul bordo orientale del Sole. Forse intenzionata a dare un saluto memorabile alla Terra, quel giorno ha prodotto un flare di classe X8.79, il più potente del Ciclo Solare 25.

news da marte
Immagine a 131 Å del satellite Solar Dynamics Observatory. NASA/SDO/AIA team

Ma mentre la conseguente espulsione di massa coronale non ha interessato la Terra a causa della posizione al confine del disco solare, AR3664 era orientata in direzione di Marte. Sul Pianeta Rosso, a causa dell’assenza di un campo magnetico, l’interazione tra le particelle cariche del vento solare e l’atmosfera non è concentrata sui poli come sulla Terra ma appare come un’aurora diffusa globale. Gli aggiornamenti NASA sulle attività del rover Curiosity riportano che i tecnici abbiano deciso qualche giorno dopo la CME di svolgere un’osservazione notturna del cielo con le MastCam del rover alla ricerca dell’elusivo bagliore aurorale. L’attività è stata eseguita nella tarda serata del Sol 4189, producendo complessivamente 24 immagini a lunga esposizione (12 per ciascuna camera) a intervalli di 105 secondi che sono state rese disponibili nelle pagine dedicate alle foto grezze. Nel database NASA non ho purtroppo trovato disponibili dei dark frame per rimuovere il rumore digitale dei sensori e provare così a ripulire le immagini. Ogni tentativo di elaborazione di queste foto è stato inutile e tutto ciò che si vede è il disturbo di acquisizione che sovrasta anche l’eventuale segnale prodotto dalle stelle. Da parte mia non posso fare assunzioni se queste riprese abbiano avuto successo, vedremo in future news ufficiali quali siano stati i risultati.

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Una delle 24 immagini notturne acquisite da Curiosity nel Sol 4189. Right MastCam. NASA/JPL-Caltech/MSSS

C’è da aggiungere che, nonostante queste foto siano state scattate sia dalla MastCam di destra che da quella di sinistra, probabilmente solo la Left ci avrebbe permesso di apprezzare il fenomeno astronomico dell’aurora grazie alla lunghezza focale di 34 mm opposta al 100 mm della Right. Dal punto di vista della tecnica fotografica un teleobiettivo è estremamente limitante qualora si vogliano osservare ampie parti del cielo come sarebbe stato opportuno in questo caso. Ma da settembre 2023 la Left MastCam continua a presentare il problema della ruota portafiltri bloccata a metà del filtro trasparente L0 (problema descritto per la prima volta in News da Marte #23). Attualmente i tecnici stanno continuando a impiegare la camera con l’accorgimento di scaricare perlopiù solo dei ritagli delle foto per non sprecare risorse con le porzioni oscurate delle immagini.

Foto del Sol 4191 della Left MastCam di Curiosity. NASA/JPL-Caltech/MSSS  
Simulazione del ritaglio a cui le immagini della Left MastCam vengono attualmente sottoposte. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras
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Recente immagine della Left MastCam con il ritaglio descritto. NASA/JPL-Caltech/MSSS

Nuove osservazioni solari di Perseverance

Curiosity non è stato l’unico rover che a maggio ha guardato il cielo di Marte. Anche Perseverance è stato impegnato in osservazioni con il naso all’insù, sia solari che stellari. Come visto in passato su queste pagine, le rilevazioni solari sono permesse dalle MastCam-Z, la coppia di camere montate sulla testa (da qui il termine Mast) del rover e dotate di uno zoom (da qui la lettera Z) con escursione 26-110 mm che si differenziano dalle focali fisse di Curiosity. Ciascuna camera monta una ruota di filtri con cui isolare specifiche lunghezze d’onda nello spettro, in modo da capire esattamente quali specie minerali siano più abbondanti in determinate rocce. Tra questi filtri ce ne sono anche due solari, con i quali il rover osserva quasi quotidianamente il Sole per studiare quante polveri siano presenti in sospensione nell’atmosfera e di conseguenza stimare il parametro dello spessore ottico indicato con la lettera greca tau. Alle migliaia di foto scattate da scienziati e semplici appassionati alla macchia AR3664 menzionata nelle cronache di Curiosity, è doveroso per noi esploratori marziani aggiungere le riprese eseguite da Perseverance. Questa macchia, talmente grande da essere stata visibile persino a occhio nudo (ma sempre, ricordo, con gli opportuni filtri), alla sua massima dimensione si è estesa su una lunghezza pari a quasi 18 Terre una a fianco all’altra.

Il Sole visto da Marte il 12 maggio

Tra le immagini che ho selezionato per l’articolo la prima è stata acquisita il 12 maggio (Sol 1147) quindi all’indomani dei fenomeni aurorali estremi. Quando ormai sulla Terra AR3664 si accingeva a tramontare sul lato orientale del disco solare (come illustrato nell’immagine di SDO) su Marte la macchia aveva da poco iniziato a dare bella mostra di sé.

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Foto della Left MastCam-Z del 12 maggio, Sol 1147. NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/Piras  
Il Sole del 12 maggio visto dallo strumento Helioseismic Magnetic Imager a bordo del satellite SDO. NASA/SDO/HMI team/SpaceWeatherLive

Vale la pena tornare un po’ indietro nel tempo con le immagini del satellite SDO della NASA e ripescare un’acquisizione dello strumento Helioseismic Magnetic Imager datata 4 maggio. In essa si riconosce quasi perfettamente la configurazione di macchie solari che 8 giorni dopo, in seguito alla rotazione della superficie della nostra stella, era rivolta verso Marte.

Immagine del 4 maggio. NASA/SDO/HMI team/SpaceWeatherLive

Il Sole visto da Marte il 14 maggio

11 ore prima che AR3664 producesse l’impressionante brillamento con intensità X8.79 menzionato a inizio articolo, Perseverance aveva fotografato ancora una volta il Sole. L’immagine risultante conferma l’ottimo allineamento della macchia solare in direzione di Marte e ci lascia a fantasticare su quali aurore l’eruzione avrebbe potuto produrre sulla Terra se fosse avvenuta pochi giorni prima!

NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/Piras

Rotazione solare: animazione

Le ultime immagini sul tema che desidero mostrarvi sono due animazioni realizzate a partire dalle foto solari di Perseverance dal 30 aprile al 22 maggio. I frame della prima gif sono quelli originali così come scaricati dalle pagine NASA, con l’unico accorgimento di aver centrato l’inquadratura sul Sole. Si notano i pixel colorati dovuti al rumore digitale del sensore, l’inclinazione variabile del Sole in base all’ora a cui le foto sono state scattate e soprattutto la mutevole luminosità legata a quanta polvere fosse presente in atmosfera.

NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

Ho quindi sottoposto i frame alla pulizia dagli hot pixel, uniformato l’esposizione e corretto l’inclinazione del disco in modo da rendere fluida la rotazione. Questo è il ben più gradevole risultato.

NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

Ma questa polvere nell’aria che la sta facendo da padrona…si riesce a vedere? Come spesso avviene, un’immagine vale più di mille parole. Ecco una foto realizzata dalla camera di navigazione di Perseverance che illustra come i rilievi all’orizzonte quasi svaniscano a causa dell’oscuramento atmosferico.

Ripresa con la Left NavCam nel Sol 1158, 23 maggio. In basso c’è un ritaglio della porzione superiore della stessa foto. NASA/JPL-Caltech/Piras

Astrofotografia da Marte

Apparentemente non legato all’osservazione di particolari fenomeni nei cieli marziani, nella notte del Sol 1153 Perseverance ha eseguito uno scatto a lunga esposizione con la MastCam-Z di sinistra. Stavolta, a differenza delle immagini notturne di Curiosity, i tecnici hanno prodotto anche dei rudimentali dark frame eseguendo preliminarmente degli scatti con il filtro solare che, grazie all’oscuramento estremo che fornisce, ha bloccato a sufficienza ogni potenziale luce in ingresso alla camera. Ho potuto utilizzare queste particolari immagini per provare a migliorare il light frame, ovvero la foto notturna vera e propria. L’immagine è rimasta comunque rumorosa perché ho aumentato molto il contrasto con lo scopo di evidenziare sia la scia delle stelle che parte del paesaggio. Ebbene sì, Perseverance ha osservato delle stelle all’orizzonte.

Left MastCam-Z, Sol 1153. NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/Piras

I metadati dell’immagine grezza ci aiutano a collocare lo scatto esattamente in direzione ovest e questo è coerente con l’inclinazione delle stelle le quali, viste dall’emisfero nord di Marte, stanno tramontando. Con l’ausilio del software di simulazione Stellarium possiamo ricostruire il cielo visto da Perseverance inserendo data e ora della foto (le 2:49 italiane del 18 maggio). Se con un po’ di pazienza inseriamo anche le specifiche del sensore, la lunghezza focale impiegata per quest’acquisizione e inseriamo un correttivo che tenga conto dell’inclinazione del rover rispetto al terreno, troviamo un’ottima corrispondenza con il campo inquadrato dalla MastCam-Z e scopriamo l’esatta zona di cielo puntata.

Simulazione della foto notturna di Perseverance. Stellarium/Piras
Costellazione australe della Gru vista da Marte

Andando a indagare nelle immagini diurne delle NavCam acquisite in quei giorni Sol (quando Perseverance è rimasto fermo alcuni giorni nella stessa posizione) troviamo il rilievo che compare nella foto e che, dopo un’opportuna compensazione della distorsione della lente, si sovrappone abbastanza bene con lo scatto notturno.
 

La foto notturna del Sol 1153 è qui sovrapposta a un’immagine della Right NavCam del Sol 1151. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

Tutte le news su Marte sono disponibili QUI.

Space Debries Viaggiare nello Spazio senza Scontrarsi

Nell’immaginario collettivo, lo spazio appare come un ambiente sconfinato e deserto. Tuttavia, la realtà dell’orbita terrestre è ben diversa: sempre più affollata, trafficata e caotica. Con quasi 40.000 oggetti spaziali catalogati secondo l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), il rischio di collisioni tra satelliti è in continuo aumento, specialmente a causa del lancio di megacostellazioni come Starlink e della miniaturizzazione dei satelliti.

Per garantire la sicurezza delle missioni spaziali e l’integrità dei satelliti in orbita, è fondamentale poter eseguire manovre di evitamento delle collisioni, note come CAM (Collision Avoidance Manoeuvres). Ma progettare queste manovre in modo rapido, preciso e con il minimo consumo di carburante è una sfida tecnica complessa.

Il problema delle collisioni orbitali

Quando due oggetti nello spazio si avvicinano troppo, gli operatori ricevono un messaggio di allerta chiamato CDM (Conjunction Data Message), che indica l’istante previsto di massimo avvicinamento (TCA) e la probabilità di collisione (PoC). Se questa probabilità supera una certa soglia (spesso fissata a 1 su 10.000), è necessario intervenire.

Le manovre correttive devono non solo ridurre il rischio di impatto, ma anche preservare carburante e mantenere il satellite sulla sua traiettoria prevista. Inoltre, l’incremento del numero di congiunzioni simultanee e ravvicinate richiede strumenti sempre più sofisticati e automatizzati per gestire le emergenze in tempo reale.

Un nuovo approccio matematico: le manovre sotto vincoli polinomiali

Nel lavoro pubblicato su Acta Astronautica, i ricercatori propongono un nuovo metodo per la progettazione automatizzata di CAM che combina efficienza computazionale e precisione. L’idea centrale è rappresentare tutti i vincoli della manovra (come la probabilità di collisione, la distanza minima di passaggio, e il ritorno all’orbita nominale) mediante polinomi di ordine arbitrario.

Questo approccio si basa su una branca avanzata della matematica chiamata algebra differenziale, che permette di approssimare le variabili coinvolte in modo estremamente accurato. I vincoli polinomiali vengono poi “linearizzati” iterativamente, creando una sequenza di programmi quadratici (cioè problemi di ottimizzazione con funzione obiettivo quadratica e vincoli lineari) sempre più precisi. In questo modo si riesce a trovare una soluzione ottima in tempi rapidissimi (spesso inferiori a mezzo secondo).

Efficienza e versatilità: manovre impulsive e a bassa spinta

Il metodo è flessibile e può gestire sia manovre impulsive (che simulano “colpi” di propulsione istantanei), sia a bassa spinta (tipiche dei satelliti con propulsione elettrica). Inoltre, consente di includere più congiunzioni consecutive, considerando i vincoli di mantenimento della posizione orbitale (station keeping).

Uno degli aspetti più innovativi è la possibilità di gestire più vincoli contemporaneamente, ad esempio:

  • Ridurre la probabilità di collisione con diversi oggetti.
  • Garantire che la traiettoria finale del satellite rispetti i parametri previsti, come semiasse maggiore ed eccentricità.
  • Minimizzare il consumo totale di carburante (espresso come somma dei Δv richiesti).

Risultati sperimentali: accuratezza e rapidità

Per testare il metodo, i ricercatori hanno utilizzato database reali di potenziali collisioni in orbita bassa terrestre (LEO), eseguendo oltre 2000 simulazioni. In tutti i casi, le manovre generate rispettavano i vincoli imposti con precisione sub-millimetrica e consumi di carburante ridotti (nella maggior parte dei casi inferiori a 50 mm/s di Δv totale).

I tempi di calcolo sono stati anch’essi impressionanti: il 95% delle soluzioni è stato calcolato in meno di 0,15 secondi. Inoltre, il metodo proposto è risultato in media il 30–40% più veloce rispetto a solutori commerciali come l’interior-point solver di MATLAB.

Un futuro sempre più automatico e autonomo

Il metodo presentato ha un enorme potenziale per l’adozione in sistemi autonomi a bordo dei satelliti, consentendo loro di valutare situazioni di rischio e prendere decisioni indipendenti in pochi istanti. Questo è particolarmente rilevante in un contesto operativo in cui i tempi di reazione sono cruciali, e l’intervento umano potrebbe non essere sufficientemente tempestivo.

Conclusione

Il futuro della gestione del traffico spaziale dipenderà sempre più da algoritmi intelligenti e ottimizzati. Il lavoro di Zeno Pavanello, Laura Pirovano e Roberto Armellin rappresenta un importante passo avanti verso manovre di evitamento delle collisioni sempre più affidabili, automatiche ed efficienti. In un cielo sempre più affollato, la matematica diventa lo strumento fondamentale per evitare che le nostre tecnologie si scontrino nello spazio, garantendo sicurezza, efficienza e sostenibilità alle attività spaziali.

Fonte: Science Direct

Quando un quasar spegne la nascita delle stelle: un’eccezionale fusione galattica a 11 miliardi di anni luce

Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Balashev e P. Noterdaeme et al.

 

Un gruppo internazionale di astronomi ha osservato, per la prima volta, l’effetto diretto delle radiazioni di un quasar sull’ambiente gassoso di una galassia vicina in fase di fusione. La scoperta, pubblicata da Sergei Balashev e Pasquier Noterdaeme insieme a ricercatori provenienti da diversi istituti di ricerca, getta nuova luce su come i quasar — tra gli oggetti più luminosi dell’Universo — possano interrompere la formazione stellare all’interno di galassie interagenti.

Una fusione galattica a redshift z ≈ 2.66

Le osservazioni, effettuate con i telescopi VLT (Very Large Telescope) e ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), hanno analizzato un quasar chiamato J012555.11−012925.00 e una galassia compagna in via di fusione. Le due galassie, separate da una distanza proiettata di appena 5 kpc (circa 16.000 anni luce), stanno convergendo con una velocità relativa di circa 550 km/s.

Entrambe le galassie sono molto massicce, con masse stellari intorno a 10¹¹ masse solari. Il buco nero supermassiccio al centro del quasar ha una massa stimata in 10⁸,3 masse solari e sta accrescendo materiale a un ritmo vicino al limite di Eddington, sprigionando una potenza di (5–10) × 10⁴⁶ erg/s.

L’effetto distruttivo della radiazione del quasar

Un aspetto chiave dello studio è l’osservazione, unica nel suo genere, di gas molecolare altamente eccitato e densissimo (fino a 10⁶ cm⁻³) nella galassia compagna. Questo gas, esposto alla potente radiazione UV del quasar, è stato trasformato in piccole “goccioline” di dimensioni inferiori a 0,02 parsec (circa 1200 volte la distanza Terra-Sole), troppo compatte per formare nuove stelle.

Questo fenomeno rappresenta un esempio di “feedback negativo” locale: la radiazione del quasar distrugge le nubi molecolari diffuse e impedisce la nascita stellare nei pressi del suo campo d’influenza, mentre il resto della galassia continua a formare stelle a un ritmo elevato, stimato in circa 250 masse solari all’anno.

Questa immagine, ottenuta con il radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), mostra il contenuto di gas molecolare di due galassie coinvolte in una collisione cosmica. La galassia a destra ospita un quasar — un buco nero supermassiccio che, mentre inghiotte materia, emette una radiazione intensa diretta verso l’altra galassia.
Gli astronomi, utilizzando lo spettrografo X-shooter al Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, hanno analizzato la luce del quasar mentre attraversava un alone invisibile di gas attorno alla galassia a sinistra. Questo ha permesso loro di osservare gli effetti devastanti della radiazione: le nubi di gas della galassia colpita vengono disturbate, ostacolando la formazione di nuove stelle.
Crediti:
ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Balashev e P. Noterdaeme et al.

Dati straordinari e tecniche avanzate

Colonna di idrogeno neutro: N(H I) ≈ 10²¹.8 cm⁻²
Colonna di H₂: N(H₂) ≈ 10²¹.2 cm⁻², tra le più alte mai rilevate nei quasar
Densità del gas molecolare: n_H ≈ 10⁵–10⁶ cm⁻³
Temperatura di eccitazione: oltre 4000 cm⁻¹, mai vista in osservazioni a redshift così elevato

Grazie all’uso di tecniche spettroscopiche avanzate e all’elaborazione di immagini ottiche e radio millimetriche, gli scienziati hanno potuto rivelare dettagli finissimi — 100.000 volte più piccoli rispetto a quanto normalmente risolvibile nei sistemi galattici lontani.

Implicazioni

La scoperta rappresenta una prova osservativa che le fusioni galattiche possono non solo innescare l’accensione dei quasar, ma anche alterare profondamente la struttura interna del gas galattico, con conseguenze drammatiche per la formazione stellare. Questo supporta l’idea che i quasar possano giocare un ruolo attivo nel plasmare l’evoluzione delle galassie.

Lo studio è frutto di una collaborazione tra:

Ioffe Institute, San Pietroburgo, Russia

Institut d’Astrophysique de Paris (IAP), CNRS-SU, Francia

Universidad de Chile

Inter-University Centre for Astronomy and Astrophysics (IUCAA), India

ENS de Lyon / Centre de Recherche Astrophysique de Lyon

Collège de France, Parigi

Departamento de Astronomía, Universidad de Chile

Fonte: ESO

Produzione di Alluminio sulla Luna: Il Progetto LISAP-MSE

Il progetto “Lunar In-Situ Aluminum Production through Molten Salt Electrolysis” (LISAP-MSE), sviluppato dalla Missouri University of Science and Technology, propone un metodo all’avanguardia per la produzione di alluminio direttamente sulla superficie lunare. Utilizzando l’anortite, un minerale ricco di alluminio abbondante negli altopiani lunari, il processo ha recentemente dimostrato la sua efficacia producendo sferoidi metallici con una purezza dell’85% di alluminio in massa, un risultato sperimentale significativo che conferma la validità concettuale e tecnica dell’approccio.

Contesto e Obiettivi

Con il programma Artemis della NASA volto a stabilire una presenza umana permanente sulla Luna, è essenziale sviluppare tecnologie per sfruttare le risorse locali (ISRU – In-Situ Resource Utilization). LISAP-MSE risponde a questa esigenza permettendo la produzione di materiali critici come l’alluminio e l’ossigeno direttamente dal suolo lunare.

Il Processo LISAP-MSE

Il cuore del processo è l’elettrolisi dell’ossido di alluminio (Al2O3) in un bagno di sale fuso di cloruro di calcio (CaCl2) a circa 900°C, secondo il metodo FFC Cambridge. Questo permette di ottenere alluminio metallico e ossigeno gassoso. La reazione avviene con un potenziale elettrico di circa 3 volt.

L’anortite viene inizialmente trattata con acido cloridrico (HCl), generando cloruro di alluminio esaidrato (AlCl3·6H2O), cloruro di calcio e silice. I composti di alluminio vengono trasformati in ossido di alluminio tramite riscaldamento progressivo fino a 400°C. Successivamente, l’ossido di alluminio viene ridotto elettrochimicamente.

Risultati Sperimentali Recenti

Le prove condotte con una cella elettrolitica sviluppata internamente hanno prodotto sferoidi metallici con l’85% di alluminio in massa, un traguardo importante che dimostra l’efficacia del processo end-to-end. Questi risultati indicano che LISAP-MSE è in grado di produrre alluminio di elevata purezza utilizzabile per la costruzione di infrastrutture lunari.

Risorse Derivate

Oltre all’alluminio, il processo produce anche:

  • Ossigeno, utile per la respirazione e la propulsione;
  • Acqua, essenziale per il supporto vitale;
  • Silice, con potenziale uso edilizio;
  • Cloruro di calcio, che può essere riciclato nel processo.

Importanza Strategica

Il LISAP-MSE è progettato per essere scalabile e sostenibile. Dopo un’iniziale fornitura di acqua e HCl, il sistema è in grado di auto-rigenerarsi, riducendo la necessità di rifornimenti terrestri. Questo rende il processo altamente adatto per missioni a lungo termine.

Prospettive Future

Attualmente il progetto sta finalizzando la raccolta fondi e l’acquisizione dei materiali. Sono previste ulteriori prove in laboratorio atmosferico e in camere a vuoto presso il campus della Missouri S&T, che mirano a confermare la stabilità e l’efficienza del sistema in condizioni analoghe a quelle lunari.

Distribuzione della produzione di Alluminio nel mondo. Fonte MineraliRari.com

Fonte: Science Direct

 

Completata la Struttura della Cupola dell’ELT

Durante la cerimonia del Tijerales, il Governatore Ricardo Díaz, in rappresentanza della Regione di Antofagasta, posa insieme al personale dell’ESO davanti all’ELT. Da sinistra a destra: Guido Vecchia (Responsabile del sito ELT), Ricardo Díaz (Governatore di Antofagasta), Bárbara Núñez (Responsabile delle relazioni regionali ESO) e Steffen Mieske (Responsabile delle operazioni scientifiche di Paranal). Crediti foto: I. Adell/CHEPOX/ESO

Il Extremely Large Telescope dell’ESO (ELT), destinato a diventare il più potente al mondo, ha recentemente raggiunto un traguardo simbolico nella sua costruzione: il punto più alto della sua imponente cupola. Con l’installazione completa della struttura di una delle gigantesche porte scorrevoli e gran parte dell’altra già montata, l’ELT ha ora raggiunto un’altezza vertiginosa di 80 metri.

Per celebrare questo momento chiave, conosciuto come “Topping Out” — o “Tijerales” in Cile — l’ESO ha organizzato una cerimonia sia nella sua sede centrale di Garching, in Germania, sia direttamente sul sito di costruzione, sul Cerro Armazones nel deserto cileno di Atacama. In entrambe le sedi, la giornata è stata dedicata al riconoscimento del lavoro straordinario di tutti coloro che stanno rendendo possibile questo ambizioso progetto.

Sul sito cileno, la cerimonia ha incluso il tradizionale innalzamento delle bandiere cilena e dell’ESO sulla sommità della cupola e un barbecue per il personale in loco. Tra i partecipanti c’era anche il Governatore Ricardo Díaz, rappresentante della Regione di Antofagasta, dove si trova l’ELT. A Garching, l’evento ha riunito rappresentanti di industrie, partner istituzionali e numerosi collaboratori, offrendo presentazioni, momenti di networking e un pranzo a buffet. Le due celebrazioni sono state unite da un collegamento in diretta, che ha permesso a tutti di condividere il successo raggiunto.

Il progetto dell’ELT, ormai oltre il 60% del completamento, rappresenta una straordinaria impresa ingegneristica e scientifica resa possibile grazie al contributo costante degli Stati Membri e Partner dell’ESO, delle industrie coinvolte nella progettazione e costruzione dei componenti, e del personale dell’ESO impegnato nel progetto.

Il rito del Topping Out ha origini antichissime, risalenti alla Scandinavia, e viene celebrato in tutto il mondo. Mentre in Cile si issa una bandiera sul punto più alto della struttura, in Germania — dove l’evento è noto come Richtfest — si utilizzano corone, rami d’albero o ghirlande sempreverdi. Un elemento comune? Un pasto meritato per i lavoratori che hanno contribuito alla costruzione.

Il cammino verso il primo sguardo dell’ELT sull’Universo prosegue, e ogni traguardo è un passo in più verso una nuova era dell’astronomia. Grazie alla sua straordinaria tecnologia e ai cieli bui del Cerro Armazones, l’ELT rivoluzionerà la nostra comprensione del cosmo, diventando davvero il più grande occhio del mondo rivolto al cielo.

Fonte: ESO

L’Asteroide 2025 KF transiterà in sicurezza tra la Terra e la Luna

Il 21 maggio 2025, un asteroide delle dimensioni di una casa, denominato 2025 KF, effettuerà un passaggio ravvicinato alla Terra, transitando tra il nostro pianeta e la Luna. Secondo la NASA, l’asteroide passerà a circa 115.000 chilometri dalla Terra, ovvero meno di un terzo della distanza media tra la Terra e la Luna

Caratteristiche dell’asteroide 2025 KF

  • Dimensioni: tra 10 e 23 metri di diametro, paragonabili a quelle di una casa
  • Velocità: circa 41.650 km/h
  • Distanza minima dalla Terra: 115.000 km
  • Distanza minima dalla Luna: circa 226.666 km
  • Data e ora del passaggio: 21 maggio 2025 alle 19:30 ora italiana (17:30 GMT)
  • Scoperta: 19 maggio 2025 dagli astronomi del progetto MAP nel deserto di Atacama, Cile

Nonostante la sua vicinanza, 2025 KF non rappresenta una minaccia per la Terra o la Luna. Anche in caso di impatto, la sua piccola dimensione lo farebbe disintegrare nell’atmosfera terrestre, senza causare danni al suolo

Osservazione dell’evento

Sebbene l’asteroide sia troppo piccolo e veloce per essere visibile a occhio nudo, gli appassionati di astronomia possono tentare di osservarlo con telescopi adeguati. Per chi desidera approfondire l’osservazione del cielo, esistono diverse opzioni di telescopi disponibili sul mercato.


Importanza del monitoraggio degli asteroidi

Eventi come il passaggio di 2025 KF evidenziano l’importanza del monitoraggio continuo degli oggetti vicini alla Terra (NEO). La scoperta dell’asteroide solo due giorni prima del suo passaggio sottolinea la necessità di migliorare le capacità di rilevamento e tracciamento di questi corpi celesti. Attualmente, la NASA e altre agenzie spaziali monitorano migliaia di NEO per valutare potenziali rischi e sviluppare strategie di difesa planetaria.

Il passaggio è descritto qui

Fonte: Space.com

CAMPIONATI ITALIANI DI ASTRONOMIA: I VINCITORI E LA SQUADRA AZZURRA

I componenti della squadra italiana che parteciperà alle IV IOAA JUNIOR (𝐼𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑂𝑙𝑦𝑚𝑝𝑖𝑎𝑑 𝑜𝑛 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑛𝑜𝑚𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑝ℎ𝑦𝑠𝑖𝑐𝑠) a Piatra Neamt, (Romania) dal 18 al 25 ottobre, sono: Palumbo Gaia, Costantini Ettore, Fabi Alessandro, Rucco Luca, Barberi Davide. I componenti della squadra italiana che parteciperà alle XVIII IOAA (𝐼𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑂𝑙𝑦𝑚𝑝𝑖𝑎𝑑 𝑜𝑛 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑛𝑜𝑚𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑝ℎ𝑦𝑠𝑖𝑐𝑠) a Mumbai (india) dal 11 al 21 agosto, sono: Lambertini Gabriele, Leccese Francesco, Trunfio Ilenia, Brunetta Riccardo, Cusimano Andrea. Crediti INAF

Diciotto giovani studenti e studentesse premiati con la Medaglia Margherita Hack dopo la Finale che si è svolta in Abruzzo dal 6 all’8 maggio. Dieci di loro sono stati convocati a rappresentare l’Italia alle due competizioni delle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica 2025, in India e Romania.

TERAMO, 09 maggio 2025 – Si è chiusa, con la cerimonia di premiazione a Giulianova (TE), la Finale della XXIII edizione dei Campionati Italiani di Astronomia, che dal 6 all’8 maggio ha coinvolto in Abruzzo 90 finalisti selezionati da un totale di 9754 studenti provenienti da 326 scuole (comprese cinque scuole italiane all’estero). Dopo intense prove pratiche e teoriche, sono stati proclamati i diciotto vincitori nazionali e selezionati poi i dieci membri delle due rappresentanze azzurre (divise per età) che parteciperanno alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica 2025, appuntamento prestigioso che riunisce i migliori giovani studenti del mondo: la competizione si terrà a Mumbai, in India, dall’11 al 21 agosto, mentre per la categoria Junior l’evento è in programma dal 18 al 25 ottobre a Piatra Neamț, in Romania. 

Promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, la competizione è organizzata dalla Società Astronomica Italiana (SAIt) e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). La fase di preselezione si è svolta il 18 dicembre 2024, la gara interregionale il 26 e 27 febbraio 2025. A seguito dei risultati della gara interregionale sono stati selezionati i finalisti (22 nella categoria Junior 1, 22 nella categoria Junior 2, 32 nella categoria Senior e 14 nella categoria Master). Le prove si sono svolte il 7 maggio presso il Liceo Statale “A. Einstein” di Teramo in Abruzzo e hanno previsto una sessione teorica e una pratica, con quesiti su astronomia, astrofisica, cosmologia, fisica moderna e analisi dati. Tutti problemi di difficoltà e contenuti diversi a seconda della categoria.

I 90 finalisti durante la prova teorica della Finale Nazionale dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia, che si è svolta lo scorso 7 maggio presso il Liceo Scientifico Statale “A. Crediti: INAF

Patrizia Caraveo, presidente della Società Astronomica Italiana, afferma: “Questa edizione ha confermato l’entusiasmo con cui i giovani si avvicinano all’astronomia, affrontando con passione e competenza prove complesse e multidisciplinari. È la dimostrazione che la scienza, quando proposta in modo coinvolgente, sa accendere curiosità autentica. I Campionati Italiani di Astronomia continuano a essere un’occasione preziosa per far emergere talenti e stimolare il pensiero critico. Noto con piacere che sono numerosi i partecipanti che ‘ritornano’ a cimentarsi nei campionati in categorie superiori, segno che l’esperienza nelle passate edizioni ha acceso il loro interesse nonostante l’astronomia non sia parte del curriculum scolastico. Il successo della manifestazione conferma il  potenziale formativo e culturale dell’astronomia, una scienza antichissima ma estremamente attuale che è  in grado di connettere il cielo alle sfide del futuro”.

Al termine della Finale sono stati premiati cinque studenti e studentesse per ciascuna delle categorie Junior 1, Junior 2 e Senior, e tre per la categoria Master. A tutti è stata conferita la “Medaglia Margherita Hack” per l’edizione 2025 e i loro nomi saranno inseriti nell’Albo Nazionale delle Eccellenze. Inoltre, ai diciotto studenti che si sono classificati immediatamente dopo i vincitori è stato assegnato un diploma di merito, in riconoscimento dei risultati di rilievo conseguiti durante la competizione. La giuria ha infine assegnato due menzioni speciali.

Le valutazioni sono state affidate a una giuria composta da esperti INAF e SAIt: Gaetano Valentini (Presidente), INAF – Osservatorio Astronomico d’Abruzzo, Giuseppe Cutispoto (Segretario), INAF – Osservatorio Astrofisico di Catania, Silvia Galleti, INAF – Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna, Giulia Iafrate, INAF – Osservatorio Astronomico di Trieste, Marco Lucente, INAF – Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali di Roma, Angela Misiano, SAIt – Planetario di Reggio Calabria, Agatino Rifatto, INAF – Osservatorio Astronomico di Capodimonte di Napoli, Daniele Spiga, INAF – Osservatorio Astronomico di Brera – Milano

Questa XXIII edizione si conferma tra le più partecipate degli ultimi anni, e Teramo – con il suo storico Osservatorio Astronomico D’Abruzzo e le sue scuole – ha saputo accogliere con entusiasmo e competenza questa grande sfida scientifica e formativa.

Vincitori dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia – medaglia M. Hack

I diciotto vincitori della Finale Nazionale dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia, che si sono svolti dal 6 all’8 maggio 2025 a Teramo-Giulianova (Abruzzo). Da sinistra in piedi: Palumbo Gaia, Trunfio Ilenia, Bortoluzzi Nicola, Lambertini Gabriele, Leccese Francesco, Di Maria Luca, Dandrea Giulio, Costantini Ettore, Fabi Alessandro, Barberi Davide. Da sinistra davanti: Cerrano Matteo, Matarazzi Rachele Pia, Di Egidio Irene, Di Silvestro Andrea, De Paoli Chiara. Nella foto sono assenti Rucco Luca, Brunetta Riccardo, Cusimano Andrea.
Crediti: INAF

Categoria Junior 1

  • Cerrano Matteo, Istituto Comprensivo Statale “Biancheri” – Ventimiglia (IM);
  • Di Silvestro Andrea, Istituto Compr. Statale “De Amicis – Don Milani” – Randazzo (CT);
  • De Paoli Chiara, Istituto Comprensivo Statale “Torre” – Pordenone;
  • Di Egidio Irene, Ist. Comp. Statale “Savini – San Giuseppe – San Giorgio” – Teramo;
  • Matarazzi Rachele Pia, Istit. Compr. Statale “F. Jerace – Capoluogo Brogna” – Polistena (RC).

Categoria Junior 2

  • Palumbo Gaia, Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria;
  • Costantini Ettore, Licei “Ampezzo e Cadore” – Cortina d’Ampezzo (BL);
  • Fabi Alessandro, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “P. Ruffini” – Viterbo;
  • Rucco Luca, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “E. Fermi” – Aversa (CE);
  • Barberi Davide, Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria.

Categoria Senior

  • Lambertini Gabriele, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “G. Bruno” – Budrio (BO);
  • Leccese Francesco, Liceo Scientifico Statale “G. Banzi Bazoli” – Lecce;
  • Bortoluzzi Nicola, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “Galilei – Tiziano” – Belluno;
  • Dandrea Giulio, Liceo Scientifico Statale “E. Fermi” – Pieve di Cadore (BL);
  • Di Maria Luca, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “E. Fermi” – Arona (NO).

Categoria Master

  • Trunfio Ilenia, Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria;
  • Brunetta Riccardo, Liceo Scientifico Statale “Leopardi – Majorana” – Pordenone;
  • Cusimano Andrea, Liceo Scientifico Statale “T. Levi Civita” – Roma.

Diplomi di Merito

Categoria Junior 1

  • Chemello Samuele, Istituto Comprensivo Statale di Vergiate – Vergiate (VA);
  • Bascià Gabriele, Ist. Compr. Statale “Carducci – Vittorino da Feltre” – Reggio Calabria;
  • Ciccone Thomas, Istituto Comprensivo Statale “Centro” – Casalecchio di Reno (BO);
  • Danaro Antonio, Istituto Compr. Statale “Giovanni XXIII” – Villa San Giovanni (RC);
  • Morgese Cristina, Istituto Comprensivo Statale “Poggiofranco -T. Fiore” – Bari.

Categoria Junior 2

  • Iorfida Andrea, Liceo Scientifico Statale “Aristotele” – Roma;
  • Tropenscovino Francesco, Liceo Scientifico Statale “T. Mamiani” – Roma;
  • Rosiello Marco, Liceo Scientifico Statale “A. Righi” – Roma;
  • Montalto Alessio, Liceo Scientifico Statale “P. Ruggieri” – Marsala (TP);
  • D’Argento Giovanni, Liceo Scientifico Statale “E. Fermi” – Bari.

Categoria Senior

  • Dolcin Matteo, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “A. Zanelli” – Reggio Emilia;
  • Pampersi Gianni, Liceo Scientifico Statale “G. Galilei” – Civitavecchia (RM);
  • Di Cicco Riccardo, Liceo Scientifico Statale “Galileo Ferraris” – Torino;
  • Manetti Francesco, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “G. Marconi” – Carrara;
  • Wang Andrea Zihan, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “P. Frisi” – Monza.

Categoria Master

  • Grillo Tiziano, Liceo Scientifico Statale “A. Moro” – Reggio Emilia;
  • Cerulli Alessandro, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “A. Gatto” – Agropoli (SA);
  • Paganelli Damiano, Liceo Scientifico Statale “Wiligelmo” – Modena.

Menzioni Speciali

  • Leccese Francesco, per la miglior prova teorica;
  • Liotta Vittorio, per la miglior prova pratica.

Squadra Italiana alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica 2025

IV IOAA Junior, Piatra Neamț (Romania) dal 18 al 25 ottobre 2025

  • Palumbo Gaia (Junior 2), Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria;
  • Costantini Ettore (Junior 2), Licei “Ampezzo e Cadore” – Cortina d’Ampezzo (BL);
  • Fabi Alessandro (Junior 2), Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “P. Ruffini” – Viterbo;
  • Rucco Luca (Junior 2), Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “E. Fermi” – Aversa (CE);
  • Barberi Davide (Junior 2), Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria.

XVIII IOAA, Mumbai (India) dal 11 al 21 agosto 2025

  • Lambertini Gabriele (Senior), Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “G. Bruno” – Budrio (BO);
  • Leccese Francesco (Senior), Liceo Scientifico Statale “G. Banzi Bazoli” – Lecce;
  • Trunfio Ilenia (Master), Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria;
  • Brunetta Riccardo (Master), Liceo Scientifico Statale “Leopardi – Majorana” – Pordenone;
  • Cusimano Andrea (Master), Liceo Scientifico Statale “T. Levi Civita” – Roma.

Fonte: MEDIA INAF

EINSTEIN TELESCOPE: INAUGURATO A FIRENZE IL LABORATORIO DI OTTICA ADATTIVA ADONI-ET

Crediti: INAF / INFN / ET Italy

Firenze, 13 maggio 2025 – Nel quadro del progetto PNRR ETIC è stato inaugurato, martedì 13 maggio, il laboratorio di ottica adattiva ADONI-ET all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali di Simone Esposito, direttore dell’INAF di Arcetri, e Giovanni Passaleva, direttore della sezione di Firenze dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). A seguire, prima del tradizionale taglio del nastro, Michele Punturo, coordinatore scientifico del progetto ETIC e responsabile internazionale di Einstein Telescope, e Armando Riccardi, responsabile di ADONI-ET, hanno illustrato rispettivamente le sfide del progetto ET e del nuovo laboratorio di ottica adattiva.

Crediti: INAF / INFN / ET Italy

La realizzazione del laboratorio ADONI-ET rientra nel progetto Einstein Telescope Infrastructure Consortium (ETIC), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR), nell’ambito della Missione 4 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), di cui l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è capofila. 

INAF partecipa al progetto PNRR ETIC attraverso il laboratorio nazionale per ottiche adattive ADONI, che ha nella propria missione il trasferimento delle tecnologie adattive sviluppate per i telescopi ottici in altri campi scientifici.

Nel campo degli interferometri gravitazionali come l’Einstein Telescope, l’obiettivo del laboratorio ADONI-ET è studiare un concetto innovativo per la correzione degli specchi di ET, che utilizza fasci infrarossi per controllare la forma di un elemento correttore mediante il riscaldamento locale. È previsto che il sistema funzioni in ciclo chiuso, regolando il riscaldamento locale utilizzando le informazioni di un canale di misura che verifica la forma effettiva degli specchi da controllare.

Crediti: INAF / INFN / ET Italy

«Il laboratorio, progettato e realizzato grazie ai fondi del PNRR-ETIC, nasce dall’esperienza consolidata dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e del suo laboratorio ADONI, punto di riferimento a livello nazionale e internazionale nel campo dell’ottica adattiva per applicazioni astronomiche», sottolinea il direttore di INAF Arcetri Simone Esposito. «Le tecniche sviluppate in questo ambito trovano nuova applicazione nel controllo dei fasci ottici degli interferometri gravitazionali. Il programma PNRR-ETIC ha quindi offerto un impulso molto importante allo sviluppo multidisciplinare dell’ottica adattiva, estendendone l’uso a strumenti scientifici d’avanguardia come gli interferometri gravitazionali».

«Come direttore della Sezione INFN di Firenze, sono particolarmente felice e orgoglioso dell’inizio delle attività del laboratorio ETIC-ADONI, presso l’Osservatorio di Arcetri. ETIC-ADONI è stato finanziato nell’ambito del progetto PNRR ETIC, con capofila l’INFN, che si occupa dello studio di fattibilità e della caratterizzazione del sito italiano candidato a ospitare Einstein Telescope e della creazione di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale, coinvolgendo molte università ed enti di ricerca italiani, tra cui l’INAF», aggiunge il direttore di INFN Firenze Giovanni Passaleva. «L’INAF è un partner fondamentale per ETIC e con il laboratorio ETIC-ADONI giocherà un ruolo chiave, trasferendo le proprie competenze di eccellenza nell’ottica adattiva nell’ambito della ricerca sulle onde gravitazionali. Si aggiunge così un altro tassello all’eccellenza della ricerca fiorentina, che vede INFN e INAF collaborare insieme a uno dei progetti scientifici più importanti e rivoluzionari dei prossimi decenni, sulla storica collina di Arcetri che ospitò giganti della scienza come Galileo, Fermi, Occhialini, Hack e Pacini».

«I segnali generati dalle onde gravitazionali sono talmente deboli da richiedere strumenti perfettamente isolati e privi di distorsioni ottiche, per evitare che gli effetti di tali “imperfezioni” riducano drasticamente la sensibilità della detezione. Questo è particolarmente vero per l’Einstein Telescope, che si propone di aumentare di un ordine di grandezza la sensibilità rispetto all’attuale generazione di telescopi gravitazionali (LIGO, Virgo), richiedendo soluzioni innovative per il controllo del sistema. In particolare ogni differenza delle ottiche del fascio di misura dalla loro forma ideale, che sia un inevitabile residuo di fabbricazione o una deformazione dovuta alla variazione della loro temperatura, deve essere compensata. L’ottica adattiva ha esattamente questo scopo: agire con un elemento correttore all’interno del sistema per compensare gli effetti delle deformazioni delle ottiche in tempo reale», spiega il responsabile di ADONI-ET Armando Riccardi. «Il laboratorio ADONI-ET, presso l’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, ha lo scopo di trasferire l’esperienza acquisita in INAF con le tecniche di ottica adattiva, per la correzione degli effetti della turbolenza atmosferica sulle immagini astronomiche, a Einstein Telescope. In particolare, nel laboratorio stiamo sviluppando e verificheremo la capacità di uno specchio deformabile di modulare la luce di un laser di potenza, per variare la mappa di temperatura di un’ottica da utilizzare come elemento correttore dei fasci di misura di ET (compensation plate) e verificare che le distorsioni del fronte d’onda ottenute siano in accordo con le accuratezze richieste da questo formidabile strumento per la detezione delle onde gravitazionali».

Con questo progetto del laboratorio ADONIINAF si candida concretamente a contribuire allo sviluppo di un sistema adattivo per ET anche attraverso la formazione di giovani ricercatrici e ricercatori.

Il consorzio ETIC è composto da quattordici università ed enti di ricerca italiani, con l’obiettivo di sostenere la candidatura italiana a ospitare il futuro osservatorio di onde gravitazionali di nuova generazione Einstein Telescope (ET), una delle più grandi e ambiziose infrastrutture di ricerca che saranno costruite in Europa nei prossimi decenni, incluso nella roadmap di ESFRI (European Strategy Forum on Research Infrastructure), l’organismo che indica su quali infrastrutture scientifiche è decisivo investire in Europa.

A fronte di un investimento totale di 50 milioni di euro, le attività di ETIC si stanno concentrando, da un lato, sulla caratterizzazione del sito candidato a ospitare ET, nell’area intorno alla miniera dismessa di Sos Enattos, nel Nuorese, in Sardegna, e dall’altro sulla realizzazione o potenziamento di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale.

Fonte: MEDIA INAF

Venti Estremi dal Quasar PDS 456: Nuovi Dati da XRISM

Grazie al satellite XRISM e allo spettrometro ad alta risoluzione Resolve, un team internazionale di scienziati – con il contributo dell’Università di Roma Tor Vergata  e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – ha osservato per la prima volta una tempesta cosmica generata da un buco nero supermassiccio, rivelando cinque distinti flussi di plasma espulsi a velocità pari al 20–30% della velocità della luce. La scoperta è stata pubblicata oggi su Nature.

Roma, 14 maggio 2025 – Immaginate una tempesta colossale che si scatena appena al di fuori di un buco nero supermassiccio: è proprio ciò che ha rivelato Resolve, il nuovo spettrometro ad altissima risoluzione nei raggi X a bordo del satellite XRISM, nel contesto di una missione spaziale guidata dall’agenzia spaziale JAXA (Giappone), con la partecipazione di NASA (Stati Uniti) ed ESA (Europa).

Grazie ai dati ad altissima precisione di XRISM, è stato possibile – per la prima volta – identificare cinque componenti distinte di questo vento nel cuore del quasar PDS 456, ognuna espulsa dal buco nero centrale a velocità relativistiche, comprese tra il 20% e il 30% della velocità della luce. Per fare un confronto, basti pensare che le tempeste più violente sulla Terra – come un uragano di categoria 5 – raggiungono al massimo 300 km/h. Questa “tempesta cosmica” è milioni di volte più veloce.

Lo studio nato da questa collaborazione internazionale (JAXA, NASA, ESA) nell’ambito della missione XRISM, a cui partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è pubblicato oggi sulla rivista internazionale Nature, con un articolo dal titolo “Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds”, che evidenzia la scoperta di cinque distinti flussi di plasma che fuoriescono dal disco di accrescimento del buco nero centrale a velocità estreme, pari al 20–30% di quella della luce.
 
“Il nostro gruppo ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione di questi dati, grazie a tecniche spettroscopiche avanzate nei raggi X e a modelli teorici innovativi per la fisica dei venti prodotti dai buchi neri.  Questi risultati aprono una nuova finestra sullo studio dell’universo estremo, e gettano le basi per comprendere meglio come i buchi neri influenzano l’evoluzione delle galassie”.  Commenta così
Francesco Tombesi, professore associato di Astrofisica presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e associato INAF. In qualità di XRISM Guest Scientist selezionato dall’ESA (uno dei soli due in Italia insieme a James Reeves, associato INAF), Tombesi ha partecipato alla pianificazione e all’analisi dell’osservazione del quasar PDS 456, il più luminoso dell’universo locale, utilizzando il nuovo spettrometro ad alta risoluzione Resolve.

Roma Tor Vergata ha avuto un ruolo di primo piano – prosegue Tombesi – anche grazie al contributo di due giovani ricercatori cresciuti all’interno del nostro Ateneo: Pierpaolo Condò, dottorando al secondo anno del PhD in Astronomy, Astrophysics and Space Science (AASS), e Alfredo Luminari, ricercatore post-doc presso INAF ed ex dottorando AASS”.

Un’energia così enorme e una struttura così complessa rivoluzionano la nostra comprensione dell’ambiente estremo intorno ai buchi neri supermassicci e mettono in seria discussione i modelli attuali di feedback tra buco nero e galassia. “Le teorie finora accettate – conclude Tombesi – non riescono a spiegare una simile combinazione di forza e frammentazione: è chiaro che serviranno nuovi modelli per descrivere questi mostri cosmici”.

PDS456 è un laboratorio prezioso per studiare nell’universo locale i potentissimi venti prodotti dai buchi neri supermassivi. Questa nuova osservazione ci ha permesso di misurare la geometria e distribuzione in velocità del vento con un livello di dettagli impensabile prima dell’avvento di XRISM”, aggiunge Valentina Braito, ricercatrice INAF a Milano.

Un ruolo vincente all’interno della campagna osservativa di PDS456 lo ha avuto ancora una volta l’osservatorio spaziale Neil Gehrels Swift, satellite NASA con una importante partecipazione dell’INAF con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). È stato infatti grazie a un programma osservativo Swift – ottenuto da Valentina Braito – che il team è riuscito a costruire i modelli specifici per PDS456 utilizzati nell’analisi dei dati XRISM. 

Fonte: MEDIA INAF



Nuove Mappe Gravitazionali della Luna e di Vesta

In questa illustrazione artistica è rappresentato l’interno caldo della Luna e l’intensa attività vulcanica che si ritiene abbia avuto luogo tra 2 e 3 miliardi di anni fa. Secondo gli studiosi, le eruzioni sul lato vicino della Luna (quello rivolto verso la Terra) avrebbero contribuito a creare un paesaggio dominato da vaste pianure basaltiche, note come maria.

Due recenti studi condotti dalla NASA offrono un’affascinante visione delle strutture interne della Luna e dell’asteroide Vesta, utilizzando una tecnica sorprendente: l’analisi dei dati gravitazionali raccolti da sonde in orbita, senza la necessità di atterrare sulla superficie dei corpi celesti.

Pubblicati su Nature e Nature Astronomy, questi lavori segnano un passo decisivo nella comprensione della formazione e dell’evoluzione dei corpi del Sistema Solare.

La Luna: Un Interno Asimmetrico e Caldo sul Lato Vicino

Nel primo studio, pubblicato il 14 maggio su Nature, i ricercatori hanno elaborato il più dettagliato modello gravitazionale della Luna mai realizzato. Questa nuova mappa è il risultato dell’analisi dei dati della missione GRAIL (Gravity Recovery and Interior Laboratory), che ha visto le due sonde gemelle Ebb e Flow orbitare il nostro satellite tra la fine del 2011 e il 2012.

Il team ha rilevato sottili variazioni nel campo gravitazionale lunare legate alla sua orbita ellittica intorno alla Terra. Queste variazioni provocano una lieve deformazione mareale del satellite, causata dall’attrazione gravitazionale terrestre, che a sua volta fornisce indizi preziosi sulla struttura interna profonda della Luna.

Una delle scoperte più sorprendenti riguarda l’asimmetria tra il lato vicino e quello lontano della Luna. Mentre il lato vicino è dominato da vasti mari di roccia solidificata, testimoni di un’intensa attività vulcanica avvenuta tra 2 e 3 miliardi di anni fa, il lato lontano appare più aspro e privo di ampie pianure.

Secondo Ryan Park, supervisore del Solar System Dynamics Group al Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA, «abbiamo scoperto che il lato vicino della Luna si flette di più rispetto al lato lontano, il che indica una differenza fondamentale nella loro struttura interna». Questo maggiore “cedimento” suggerisce la presenza di una regione mantellare più calda sul lato vicino, arricchita da elementi radioattivi capaci di generare calore.

Questa scoperta non solo fornisce la prova più solida finora della teoria secondo cui l’attività vulcanica ha modellato la faccia visibile della Luna, ma permetterà anche di migliorare i sistemi di navigazione e di determinazione del tempo per le future missioni lunari.

Vesta: Un Asteroide Diverso da Come lo Immaginavamo

Nel secondo studio, pubblicato il 23 aprile su Nature Astronomy, gli scienziati hanno applicato la stessa tecnica di analisi gravitazionale a Vesta, uno dei più grandi asteroidi della fascia principale tra Marte e Giove.

La missione Dawn della NASA ha ottenuto questa immagine del grande asteroide Vesta il 24 luglio 2011. La sonda ha trascorso 14 mesi in orbita attorno a Vesta, acquisendo oltre 30.000 immagini e realizzando la mappatura completa della sua superficie.
Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Utilizzando i dati radiometrici del Deep Space Network e le immagini raccolte dalla sonda Dawn, che ha orbitato Vesta tra il 2011 e il 2012, il team ha ottenuto risultati inaspettati: contrariamente a quanto previsto, l’interno di Vesta appare sorprendentemente uniforme, con un nucleo ferroso molto piccolo o forse addirittura assente.

Attraverso la misurazione delle oscillazioni di Vesta mentre ruota, il team ha calcolato il suo momento d’inerzia, una proprietà strettamente legata alla distribuzione interna della massa. «La nostra tecnica è estremamente sensibile ai cambiamenti del campo gravitazionale, che si manifestano sia nel tempo, come nel caso delle maree lunari, sia nello spazio, come nel moto oscillatorio di un asteroide», ha spiegato Park.

Questa analisi porta a rivedere le teorie finora accettate sull’evoluzione di Vesta e, più in generale, su come si formano e si differenziano i corpi rocciosi nel Sistema Solare.

Un Nuovo Futuro per l’Esplorazione Planetaria

Gli studi guidati da Ryan Park, frutto di oltre un decennio di lavoro e dell’impiego dei supercomputer della NASA, dimostrano come l’analisi dei dati gravitazionali possa svelare i misteri più profondi dei corpi celesti senza bisogno di costose e complesse missioni di atterraggio.

«La gravità è una proprietà fondamentale e unica che possiamo usare per esplorare l’interno di un corpo planetario», ha sottolineato Park. «Non abbiamo bisogno di dati raccolti sulla superficie: è sufficiente seguire con grande precisione il movimento delle sonde per ottenere una visione globale di ciò che si cela all’interno».

Fonte: ESA

Nel silenzio del cosmo, Voyager 1 risveglia i suoi vecchi motori: un atto di coraggio prima del lungo silenzio

Lontana, in una regione dello spazio dove il Sole è solo una stella tra le altre e il vento solare è ormai un sussurro impercettibile, la sonda Voyager 1 continua il suo viaggio solitario. Lanciata nel 1977, è oggi l’oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra, una messaggera silenziosa che da quasi cinquant’anni attraversa l’oscurità dell’infinito. E proprio quando sembrava che il tempo avesse ormai relegato alcune delle sue funzioni all’oblio, la sonda ha compiuto un piccolo grande miracolo: ha riattivato dei propulsori considerati inutilizzabili da oltre vent’anni.

È successo nelle scorse settimane, grazie al lavoro degli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA, in California. Una manovra tanto ardita quanto rischiosa, che ha richiesto ingegno e una buona dose di coraggio. L’obiettivo? Riportare in vita quei vecchi propulsori, messi da parte nel 2004, per far fronte a un problema ben più urgente: l’invecchiamento dei sistemi di spinta ancora attivi.

Il problema dei propulsori ostruiti

Nel cuore delle Voyager, che oggi sfrecciano nello spazio interstellare a una velocità vertiginosa di circa 56.000 km/h, si trovano i piccoli motori di orientamento. Sono loro a mantenere l’antenna puntata verso la Terra, permettendo il fragile filo di comunicazione che ci unisce a queste sonde così lontane. Ogni lieve rotazione, ogni delicato aggiustamento serve a far sì che Voyager possa continuare a inviare dati preziosi e ricevere i pochi, sempre più radi comandi da casa.

Ma il tempo, come sempre, presenta il conto. I tubi del carburante dei propulsori principali stanno accumulando residui. Se questa ostruzione dovesse peggiorare, le Voyager potrebbero perdere la capacità di orientarsi e quindi di comunicare. Gli ingegneri hanno calcolato che questo rischio potrebbe diventare realtà già nell’autunno di quest’anno.

Ecco perché, nonostante le difficoltà, si è deciso di tentare l’impossibile: rianimare i propulsori di riserva. Quegli stessi motori che non venivano utilizzati da oltre due decenni e che molti davano ormai per persi.

Una corsa contro il tempo (e il silenzio)

La missione aveva anche un’altra scadenza imminente: il 4 maggio, data in cui l’antenna terrestre responsabile di inviare comandi alla Voyager 1 (e alla sua gemella, Voyager 2) è stata messa offline per importanti lavori di aggiornamento. Una volta spenta, sarebbe rimasta silenziosa per mesi. Se i propulsori di backup non fossero stati riattivati in tempo, la finestra per intervenire si sarebbe chiusa irrimediabilmente.

Con una serie di comandi complessi, inviati a una distanza di oltre 24 miliardi di chilometri, gli ingegneri hanno trasmesso le istruzioni per far ripartire i vecchi propulsori. E contro ogni previsione, la risposta è arrivata: i motori si sono accesi. Un sussurro di vita meccanica nel grande vuoto cosmico.

Un ultimo gesto di resilienza

Questo intervento rappresenta molto più di una semplice manovra tecnica. È la testimonianza della resilienza di un progetto nato in un’altra epoca, quando i computer erano grandi come stanze e le missioni spaziali si affidavano ancora a calcoli fatti a mano. È il simbolo di come, anche nell’estremo silenzio dello spazio profondo, la mano dell’uomo riesca ancora a farsi sentire.

Oggi Voyager 1 continua a viaggiare, portando con sé il Golden Record, quel disco d’oro che racchiude i suoni e le immagini della Terra, nel caso qualche civiltà aliena dovesse mai trovarla. E anche se il silenzio radio è ora inevitabile per qualche mese, sappiamo che laggiù, oltre i confini del nostro Sistema Solare, c’è ancora una piccola nave solitaria che continua a puntare la sua fragile antenna verso casa.

E finché quella flebile voce continuerà a parlarci, anche solo con un battito meccanico di propulsori ritrovati, non saremo mai davvero soli nell’Universo.

Fonte: NASA JPL

Titano sotto la lente di Webb: nuvole di metano

Le immagini di Titano sono state riprese dal James Webb Space Telescope l’11 luglio 2023 (in alto) e dal telescopio terrestre Keck il 14 luglio 2023 (in basso). Mostrano nuvole di metano (indicate dalle frecce bianche) a diverse altitudini nell’emisfero nord. A sinistra, le immagini a colori mostrano l’atmosfera e la superficie. I colori rappresentano diverse lunghezze d’onda dell’infrarosso: Webb ha evidenziato luce a 1.4 µm (blu), 1.5 µm (verde) e 2.0 µm (rosso), mentre Keck ha utilizzato rispettivamente 2.13 µm, 2.12 µm e 2.06 µm. Al centro, le immagini a 2.12 µm rivelano emissioni dalla bassa troposfera, dove si formano le nubi più basse. A destra, le immagini a lunghezze d’onda più sensibili agli strati superiori (Webb a 1.64 µm, Keck a 2.17 µm) mostrano nubi più alte nella troposfera superiore e nella stratosfera. Il confronto dimostra che, tra l’11 e il 14 luglio, le nubi si sono spostate verso altitudini più elevate, segno di un moto ascensionale nell’atmosfera di Titano. Crediti immagine: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.

Un team internazionale di scienziati ha recentemente gettato nuova luce sull’affascinante atmosfera di Titano, la più grande luna di Saturno. Grazie ai dati combinati del telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA James Webb Space Telescope) e del telescopio terrestre Keck II (W. M. Keck Observatory), gli astronomi hanno osservato per la prima volta fenomeni di convezione nuvolosa nell’emisfero nord di Titano, proprio dove si concentrano la maggior parte dei suoi laghi e mari di idrocarburi.

Un meteo alieno, ma sorprendentemente familiare

Titano è l’unico altro luogo del Sistema Solare che presenta un clima simile a quello terrestre, nel senso che ha nuvole e precipitazioni che raggiungono la superficie,” ha spiegato Conor Nixon del Goddard Space Flight Center della NASA, autore principale dello studio.

A differenza della Terra, dove il ciclo climatico è dominato dall’acqua, su Titano l’elemento chiave è il metano (CH₄). A temperature prossime ai -180 °C, il metano evapora dalle superfici liquide, si condensa in atmosfera e cade sotto forma di una pioggia fredda e oleosa su un terreno in cui il ghiaccio d’acqua è duro come la roccia.

Le osservazioni, condotte nel novembre 2022 e nel luglio 2023, hanno mostrato formazioni nuvolose alle medie e alte latitudini settentrionali, proprio nell’estate boreale di Titano. I dati suggeriscono che le nuvole si stiano sollevando verso altitudini maggiori nel corso dei giorni, segno di attività convettiva. Questa è una scoperta cruciale, poiché i laghi e i mari del nord, ricchi di metano ed etano, rappresentano una potenziale fonte di rifornimento per l’atmosfera.

La troposfera di Titano: un mondo espanso

Mentre sulla Terra la troposfera si estende fino a circa 12 km di altitudine, su Titano, grazie alla sua bassa gravità, questa fascia atmosferica raggiunge i 45 km. Usando filtri infrarossi differenti, Webb e Keck sono riusciti a sondare vari strati dell’atmosfera e a stimare l’altitudine delle nubi osservate. Tuttavia, non sono state rilevate precipitazioni dirette durante le osservazioni.

Le osservazioni del Webb sono state effettuate alla fine dell’estate boreale di Titano, una stagione che non abbiamo potuto studiare durante la missione Cassini-Huygens,” ha sottolineato Thomas Cornet dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), co-autore dello studio. “Insieme alle osservazioni da Terra, Webb ci sta offrendo preziose nuove informazioni sull’atmosfera di Titano, che speriamo di esplorare più da vicino con una futura missione ESA nel sistema di Saturno.

Le immagini di Titano sono state riprese dal James Webb Space Telescope l’11 luglio 2023 (in alto) e dal telescopio terrestre Keck il 14 luglio 2023 (in basso). Mostrano nuvole di metano (indicate dalle frecce bianche) a diverse altitudini nell’emisfero nord.
A sinistra, le immagini a colori mostrano l’atmosfera e la superficie. I colori rappresentano diverse lunghezze d’onda dell’infrarosso: Webb ha evidenziato luce a 1.4 µm (blu), 1.5 µm (verde) e 2.0 µm (rosso), mentre Keck ha utilizzato rispettivamente 2.13 µm, 2.12 µm e 2.06 µm.
Al centro, le immagini a 2.12 µm rivelano emissioni dalla bassa troposfera, dove si formano le nubi più basse.
A destra, le immagini a lunghezze d’onda più sensibili agli strati superiori (Webb a 1.64 µm, Keck a 2.17 µm) mostrano nubi più alte nella troposfera superiore e nella stratosfera.
Il confronto dimostra che, tra l’11 e il 14 luglio, le nubi si sono spostate verso altitudini più elevate, segno di un moto ascensionale nell’atmosfera di Titano.
Crediti immagine: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.
Il James Webb Space Telescope (11 luglio 2023) e il telescopio Keck (14 luglio 2023) hanno ripreso nuvole di metano a diverse altitudini nell’emisfero nord di Titano (frecce bianche). Sinistra: immagini a colori combinati mostrano atmosfera e superficie. Centro: immagini a 2.12 µm evidenziano nubi nella bassa troposfera. Destra: emissioni a 1.64 µm (Webb) e 2.17 µm (Keck) rivelano nubi a quote più alte, salite nei tre giorni tra le osservazioni. Crediti: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.

I segreti chimici di Titano

Titano continua a suscitare grande interesse astrobiologico per la sua complessa chimica organica. Nonostante il gelo estremo, la sua atmosfera è un laboratorio naturale di reazioni che coinvolgono molecole contenenti carbonio, le stesse alla base della vita sulla Terra.

Il metano, in particolare, gioca un ruolo centrale: viene scomposto dalla luce solare o dagli elettroni energetici intrappolati nella magnetosfera di Saturno, producendo etano (C₂H₆) e molecole più complesse.

Per la prima volta, il telescopio Webb ha rilevato con certezza la presenza del radicale metile (CH₃), un elemento chiave di queste reazioni. Questo radicale, dotato di un elettrone libero, si forma proprio quando il metano si rompe.

È come vedere la torta mentre sta ancora cuocendo nel forno, invece di limitarsi a osservare solo la farina e lo zucchero all’inizio e la torta decorata alla fine,” ha commentato Stefanie Milam del Goddard Space Flight Center, co-autrice dello studio.

Il destino atmosferico di Titano

Questa intensa attività chimica ha conseguenze importanti sul lungo termine. Una parte dell’idrogeno prodotto dalla dissociazione del metano si perde nello spazio, riducendo progressivamente la quantità di metano disponibile. Se non esistono fonti interne in grado di rifornire l’atmosfera, come emissioni dalla crosta o dall’interno del satellite, Titano è destinato a diventare un mondo secco e polveroso, non troppo dissimile da ciò che è accaduto a Marte con la perdita di gran parte della sua acqua.

Su Titano il metano è un consumabile. È possibile che venga costantemente rifornito e risalga dalla crosta e dall’interno del satellite nel corso di miliardi di anni. Altrimenti, un giorno scomparirà del tutto e Titano diventerà un mondo per lo più privo di atmosfera, dominato da polveri e dune,” ha concluso Nixon.

Le osservazioni fanno parte del programma Guaranteed Time Observations guidato da Heidi Hammel e sono state pubblicate sulla rivista Nature Astronomy.

Addio a GSAT0104: il primo satellite Galileo a concludere la sua missione

Galileo è la più grande costellazione satellitare europea e il sistema di navigazione satellitare più preciso al mondo, in grado di fornire una precisione di posizionamento al livello del metro a circa quattro miliardi di utenti in tutto il pianeta. Attualmente è composta da 28 satelliti distribuiti su tre piani orbitali, garantendo che almeno quattro satelliti siano sempre visibili da qualsiasi punto della Terra. Credito immagine: ESA – F. Zonno
Ogni anno, i partner del programma Galileo valutano lo stato e l’efficacia dei satelliti più anziani, decidendo se prolungarne l’operatività di un ulteriore anno o procedere alla dismissione, trasferendoli su un’orbita più alta e sicura e spegnendoli definitivamente. Questo processo contribuisce a mantenere l’orbita pulita, in linea con l’impegno dell’ESA per la riduzione dei detriti spaziali.
Credito immagine: ESA

Il 12 marzo 2013, il satellite GSAT0104, insieme ai suoi compagni della fase di Validazione in Orbita (In-Orbit Validation, IOV), segnava un momento storico: per la prima volta, una posizione terrestre veniva determinata utilizzando esclusivamente il sistema di navigazione satellitare europeo Galileo. Oggi, dopo 12 anni di onorato servizio, GSAT0104 entra nuovamente nella storia diventando il primo satellite della costellazione Galileo a essere ufficialmente dismesso.

Una costellazione in continua evoluzione

Galileo rappresenta un’infrastruttura pubblica cruciale per l’Europa e il mondo, progettata per offrire servizi di navigazione affidabili e continui per decenni. In questo contesto, il decommissioning — ovvero la dismissione controllata dei satelliti giunti a fine vita — è tanto importante quanto il lancio di nuovi veicoli spaziali.

Nel 2023, per la prima volta, l’Agenzia dell’Unione Europea per il Programma Spaziale (EUSPA), l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e la Commissione Europea hanno stabilito il ritiro di un satellite Galileo. Le operazioni per GSAT0104 sono iniziate a marzo 2024 e si sono concluse ad aprile 2025.

Attualmente, la costellazione continua a garantire prestazioni elevate con satelliti operativi in tutte le posizioni principali, supportati da tre satelliti di riserva attivi. Inoltre, sei nuovi satelliti di Prima Generazione sono pronti al lancio, mentre dodici satelliti di Seconda Generazione sono in fase di sviluppo, a testimonianza di un sistema in costante aggiornamento.

Spazio sostenibile: una priorità per l’ESA

L’ESA ha fatto della sostenibilità spaziale una delle sue missioni centrali, impegnandosi a ridurre l’inquinamento orbitale e a prevenire la formazione di nuovi detriti. Questo obiettivo si traduce in pratiche di progettazione sostenibile, rigorose politiche di mitigazione dei detriti e protocolli di fine vita per i satelliti.

Quando un satellite Galileo termina il suo servizio operativo, viene trasferito in un’orbita sicura più elevata, chiamata “orbita cimitero”, situata almeno 300 km sopra la costellazione attiva. Qui, il satellite viene “passivato”, ovvero vengono eliminate tutte le fonti di energia residue per garantire la sua stabilità a lungo termine.

Nel caso di GSAT0104, grazie alle riserve di propellente ancora disponibili, è stato possibile posizionarlo ben 700 km sopra la costellazione operativa, su un’orbita altamente stabile. Successivamente, il serbatoio è stato svuotato e le batterie completamente scaricate. Le future dismissioni seguiranno la stessa procedura, variando leggermente le altitudini per mantenere distanze di sicurezza tra i satelliti non più operativi.

Perché è importante fare “ordine” nello spazio

La gestione accurata della costellazione Galileo non è solo una questione di sostenibilità ambientale, ma anche di efficienza operativa. “Abbiamo bisogno di mantenere le orbite libere e sicure per supportare il continuo rinnovamento della flotta. Solo una costellazione sana può garantire prestazioni ottimali e servizi affidabili per miliardi di utenti in tutto il mondo”, spiega Riccardo Di Corato, responsabile dell’Unità Analisi della Costellazione Galileo.

Ogni satellite ha una vita operativa prevista: 12 anni per quelli di Prima Generazione e 15 anni per quelli di Seconda Generazione. Ogni anno, i partner del programma valutano lo stato dei satelliti più anziani, decidendo se estenderne l’operatività o procedere alla dismissione.

“È fondamentale rimuovere i satelliti prima che i sistemi critici — come il controllo dell’assetto, i propulsori e le comunicazioni — smettano di funzionare correttamente. Se siamo sicuri che la dismissione potrà avvenire in sicurezza in un secondo momento, ne estendiamo l’uso il più possibile”, aggiunge Di Corato.

L’ultimo servizio di GSAT0104

Lanciato il 12 ottobre 2012 dalla base europea di Kourou, nella Guyana Francese, GSAT0104 è stato il quarto e ultimo satellite della fase IOV. Proprio grazie a lui, è stato possibile determinare per la prima volta una posizione a terra usando esclusivamente i satelliti Galileo.

Dopo anni di servizio nella navigazione, un guasto all’antenna L-band lo ha portato a essere assegnato principalmente alle attività di Ricerca e Soccorso (Search and Rescue). Nel 2021, è stato spostato da una posizione primaria a una di riserva per fare spazio ai nuovi satelliti entrati in funzione nell’aprile 2024.

Ancora una volta, GSAT0104 ha svolto un ruolo pionieristico: la sua dismissione ha stabilito un modello di riferimento per le future operazioni di fine vita della costellazione, offrendo un prezioso bagaglio di esperienza che sarà fondamentale negli anni a venire.

Gli altri tre satelliti IOV continueranno a operare almeno fino a ottobre 2025, con due di essi già oltre la vita operativa prevista, ma ancora perfettamente funzionanti. Le prestazioni del sistema Galileo sono monitorate in modo indipendente dal Galileo Reference Centre (GRC) e consultabili tramite il GNSS Service Centre (GSC).

Galileo: il sistema di navigazione più preciso al mondo

Dal 2017, Galileo è ufficialmente in Open Service e serve oltre quattro miliardi di utenti nel mondo. Tutti gli smartphone venduti nell’Unione Europea sono compatibili con il sistema, che fornisce servizi essenziali anche nei settori del trasporto ferroviario e marittimo, nell’agricoltura di precisione, nei servizi finanziari e nelle operazioni di emergenza e soccorso.

Galileo è un programma di punta dell’Unione Europea, gestito e finanziato dalla Commissione Europea. L’ESA ne cura lo sviluppo e la progettazione, mentre EUSPA coordina la gestione operativa e la fornitura dei servizi. Con un occhio sempre rivolto al futuro, le attività di ricerca e sviluppo proseguono nell’ambito del programma Horizon Europe, per garantire che Galileo continui a rappresentare l’eccellenza europea nella navigazione satellitare.

Fonte: ESA

LUGO: Esplorare i Misteri Geologici della Luna

Nuove Prospettive sulla Geologia Lunare per l’Esplorazione Umana

Nonostante decenni di esplorazioni spaziali e missioni robotiche, la Luna continua a custodire misteri geologici irrisolti. Due tra i più affascinanti sono gli Irregular Mare Patches (IMPs) e i presunti tunnel di lava sotterranei, strutture che potrebbero rivoluzionare la nostra comprensione dell’evoluzione termica del nostro satellite e aprire nuove prospettive per la futura colonizzazione umana. È con questi obiettivi che nasce il progetto LUnar Geology Orbiter (LUGO), un’iniziativa proposta nell’ambito del programma Open Space Innovation Platform (OSIP) dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) (esa.int).

IMPs: Le Enigmatiche Formazioni Vulcaniche

Gli IMPs sono tra le strutture vulcaniche più misteriose della superficie lunare, localizzate principalmente sul lato visibile del nostro satellite. Scoperte per la prima volta nel 1971 dall’astronomo E.A. Whitaker durante l’analisi delle immagini della missione Apollo 15, queste formazioni presentano depressioni di forma irregolare, caratterizzate da colline lisce e circondate da terreni accidentati e rocciosi.

Nonostante siano noti da oltre cinquant’anni, l’origine e l’età di queste strutture restano oggetto di dibattito. Alcuni studi ne collocano la formazione circa 3,5 miliardi di anni fa, mentre altri suggeriscono che siano sorprendentemente giovani, con meno di 100 milioni di anni. Se quest’ultima ipotesi fosse confermata, metterebbe seriamente in discussione le attuali teorie sull’evoluzione termica della Luna.

I Tunnel di Lava: Rifugi Naturali per la Vita Umana sulla Luna?

Un altro tema centrale del progetto LUGO è la ricerca di tunnel di lava sotterranei, strutture vuote formatesi durante antichi episodi di attività vulcanica. Queste cavità potrebbero rappresentare rifugi naturali per future basi lunari, offrendo protezione da radiazioni cosmiche, micrometeoriti e sbalzi termici estremi. Inoltre, potrebbero nascondere risorse preziose, come riserve d’acqua sotto forma di ghiaccio.

Sebbene la loro esistenza sia stata ipotizzata per decenni e alcuni crolli superficiali sembrino confermare la loro presenza, le dimensioni, la frequenza e le caratteristiche fisiche di questi tunnel restano largamente sconosciute.

Gli Strumenti di LUGO

Per affrontare queste sfide scientifiche, la missione LUGO prevede un carico strumentale altamente tecnologico, comprendente:

  • Radar Penetrante (GPR): Operante tra 15 e 30 MHz, permetterà di indagare la struttura stratigrafica del sottosuolo fino a diversi metri di profondità.
  • Telecamera a Stretta Angolazione (NAC): Con una risoluzione superiore ai 25 cm per pixel, offrirà immagini dettagliate delle superfici degli IMPs e delle aree candidate alla presenza di tunnel di lava.
  • Telecamera Iperspettrale (HSC): Coprendo uno spettro da 500 a 1650 nm, aiuterà a determinare la composizione mineralogica delle aree osservate.
  • LiDAR a Singolo Fotone: Operante a 1550 nm, sarà fondamentale per la creazione di mappe tridimensionali ad altissima precisione delle superfici osservate.

Prospettive Future

I dati ottenuti da LUGO supporteranno progetti di esplorazione più ambiziosi, come la missione DIMPLE della NASA (nasa.gov), destinata a sbarcare direttamente su un IMP per datare con precisione queste affascinanti strutture.

Fonte: ScienceDirect

AT2024tvd: Il Primo TDE Off-Nuclear Scoperto da Indagini Ottiche

Crediti: Zwicky Transient Facility (ZTF)

Un team internazionale di astronomi ha recentemente annunciato la scoperta di AT2024tvd, il primo evento di distruzione mareale (Tidal Disruption Event, TDE) off-nuclear rilevato grazie a survey ottiche di ampio campo. L’evento è stato inizialmente identificato dalla Zwicky Transient Facility (ZTF) presso il Palomar Observatory e successivamente confermato tramite osservazioni multi-banda, tra cui i telescopi spaziali Hubble Space Telescope (HST), Chandra X-ray Observatory, e il radiotelescopio Very Large Array (VLA).

Un TDE Lontano dal Nucleo Galattico

AT2024tvd è stato rilevato per la prima volta il 25 agosto 2024 con una magnitudine gZTF = 19.68 ± 0.23, nell’ambito del programma ad alta cadenza della ZTF. Ma ciò che ha destato l’interesse della comunità scientifica è stata la sua posizione: l’evento si trova a 0.914 ± 0.010 arcosecondi dal centro del bulge galattico della sua galassia ospite, una distanza proiettata di circa 0.808 ± 0.009 kiloparsec.

Questo offset è stato confermato con precisione dal Hubble Space Telescope, mentre osservazioni radio del VLA hanno identificato un’emissione radio coincidente con la posizione del TDE, consolidando l’interpretazione di un evento realmente fuori dal centro galattico.

Caratteristiche Spettrali e Osservazioni Multi-Banda

L’evento è stato successivamente classificato come TDE da S. Faris et al. (2024), grazie alla presenza di ampie linee di idrogeno e possibili tracce di elio nello spettro, oltre a una persistente emissione ultravioletta. Tuttavia, un’analisi più approfondita ha messo in dubbio la presenza chiara delle linee di elio.

Lo spettro UV ottenuto con HST presenta forti somiglianze con quello del noto TDE ASASSN-14li, con linee larghe di Lyα, N V, Si IV, C IV, He II e N III], che confermano l’origine del fenomeno.

In banda X, le osservazioni con Swift/XRT e Chandra hanno mostrato un’emissione soffice con temperature del disco comprese tra 0.1 e 0.2 keV e luminosità X intorno a 10⁴³ erg/s, tipiche dei TDE. È stata osservata anche una significativa variabilità su scale temporali di ore, simile a quella di TDE noti come AT2022lri.

Al tempo t = 105 giorni dalla scoperta, l’emissione radio misurata dal VLA a 10 GHz ha mostrato una luminosità di L₁₀GHz ≈ 3 × 10³⁸ erg/s, compatibile con TDE radio-brillanti non associati a getti, come ASASSN-15oi e AT2019dsg.

La Galassia Ospite e la Massa dei Buchi Neri Coinvolti

La galassia ospite è una galassia lenticolare di massa elevata, con una massa stellare stimata in log(M_gal/M_☉) = 10.93 ± 0.02 e una dispersione stellare σ = 192.74 ± 5.11 km/s, misurata dallo Sloan Digital Sky Survey (SDSS).

Applicando la relazione M-σ di J. E. Greene et al. (2020), la massa del buco nero centrale è stata stimata in log(M_BH/M_☉) ≈ 8.37 ± 0.08 (stat) ± 0.43 (sys), ovvero circa 2 × 10⁸ M_☉. Tuttavia, il buco nero associato a AT2024tvd è molto meno massivo. L’analisi dei dati con il modello MOSFiT suggerisce una massa compresa tra 10⁵ e 10⁷ M_☉, con un valore più probabile attorno a 10⁶ M_☉.

Origine dell’Evento: Merger Minori o Interazioni Gravitazionali?

Due sono le ipotesi principali per spiegare la posizione off-nuclear di AT2024tvd:

  1. Residuo di un Merger Minore: Il buco nero associato a AT2024tvd potrebbe provenire dal centro di una galassia nana cannibalizzata. In questo scenario, il buco nero secondario non è ancora spiralizzato verso il centro a causa di un lungo tempo scala associato alla frizione dinamica. Simulazioni cosmologiche (Ricarte et al., 2021b) suggeriscono che nei grandi aloni galattici (con masse fino a 10¹³ M_☉) si possono trovare decine di questi buchi neri vaganti.

  2. Slingshot Gravitazionale da un Sistema Triplo: In questo scenario, il buco nero è stato espulso da interazioni dinamiche tra tre MBH, ricevendo una “spinta” gravitazionale che lo ha collocato nella posizione osservata.

La terza ipotesi, quella di un recoil gravitazionale successivo alla fusione di due MBH, è stata esclusa per l’evidenza della presenza di un MBH ancora attivo nel nucleo galattico.

AT2024tvd: Un Caso Unico tra i TDE Off-Nuclear

Finora, solo due altri eventi TDE off-nuclear sono stati documentati: 3XMM J2150 e EP240222a, entrambi scoperti nei raggi X. A differenza di questi casi, AT2024tvd è stato identificato grazie a survey ottiche e si trova all’interno del bulge della galassia, non nei suoi esterni.

La posizione ravvicinata al centro galattico e la massa stimata del buco nero coinvolto suggeriscono che questo evento rappresenti una popolazione distinta di buchi neri erranti, meno massicci e localizzati più vicino ai centri delle galassie ospiti.

Prospettive Future

La scoperta di AT2024tvd apre nuovi orizzonti nello studio dei buchi neri erranti e nella comprensione delle dinamiche di fusione galattica. Con l’arrivo dell’Osservatorio Vera C. Rubin e la sua Legacy Survey of Space and Time (LSST), dotata di una precisione astrometrica di 10 milliarcosecondi e una profondità fino a r ≈ 24.5 mag, si prevede la scoperta di molti nuovi TDE off-nuclear.

Questi eventi forniranno importanti vincoli sui tassi di fusione dei buchi neri supermassicci e sull’efficienza dei meccanismi di frizione dinamica, contribuendo in modo significativo alla nostra comprensione dell’evoluzione delle galassie e delle loro componenti più enigmatiche.

Fonte: ArXiv

Roman Space Telescope alla Scoperta dei Pianeti Erranti

Roman Space Telescope. Crediti: NASA

I pianeti liberi, o free-floating planets (FFPs), rappresentano una delle popolazioni più misteriose di esopianeti nella nostra Galassia. Questi mondi vagano nello spazio interstellare senza essere legati a una stella, rendendoli difficili da osservare. Tuttavia, grazie alla prossima missione della NASA, il Nancy Grace Roman Space Telescope, questa situazione è destinata a cambiare.

Un Censimento dei Mondi Perduti

Secondo lo studio di Scott Perkins, William DeRocco e colleghi, il telescopio Roman, con il suo programma Galactic Bulge Time Domain Survey (GBTDS), potrebbe rilevare centinaia, se non migliaia, di questi oggetti durante i suoi cinque anni di missione. Roman sfrutterà la tecnica del microlensing gravitazionale, l’unica in grado di individuare pianeti che non emettono luce propria.

Le simulazioni indicano che Roman sarà in grado di migliorare le attuali stime sulla quantità di FFP di sei ordini di grandezza per masse inferiori a quella terrestre. Questo significa che i dati raccolti permetteranno per la prima volta di ricostruire la distribuzione delle masse di questi oggetti, fornendo preziose informazioni sulla loro origine.

Come Nascono i Pianeti Erranti?

Le teorie principali suggeriscono due meccanismi di formazione:

  • Collasso diretto delle nubi di gas, tipico degli oggetti più massicci (oltre 300 masse terrestri).
  • Espulsione dinamica dai sistemi planetari durante le prime fasi di formazione, un fenomeno che riguarda in particolare i pianeti con massa inferiore a 10 masse terrestri.

Misurare la distribuzione delle masse degli FFP aiuterà a capire quale di questi processi sia prevalente e in quale fase della storia della Galassia si siano verificati.

I Numeri del Censimento Roman

Lo studio, basandosi su diverse ipotesi di distribuzione delle masse, ha stimato il numero di FFP che Roman potrà rilevare:

Massa del pianeta (in masse terrestri) N. eventi attesi (MOA) N. eventi attesi (Coleman & DeRocco) N. eventi attesi (Distribuzione uniforme)
< 0.1 266 1 2
1 1537 6 13
10 1497 22 58
100 526 136 214
1000 87 10 2799
Totale 4184 272 6197

Le differenze fra i modelli evidenziano quanto sia ancora incerta la nostra comprensione di questa popolazione. Il modello MOA prevede una netta predominanza di FFP di massa terrestre, mentre i modelli teorici di Coleman & DeRocco (2025) suggeriscono un picco di eventi attorno a 8 masse terrestri, legato ai meccanismi di migrazione planetaria nei sistemi binari.

Una Sfida Osservativa Senza Precedenti

La tecnica del microlensing pone notevoli difficoltà: i segnali durano poche ore e spesso mancano di informazioni sufficienti per stimare direttamente la massa dei pianeti. Tuttavia, come spiegano gli autori, “l’analisi statistica su vasta scala permetterà comunque di distinguere tra diverse ipotesi sulla distribuzione delle masse con elevata significatività statistica”.

Il team ha sviluppato un innovativo metodo di analisi basato su simulazioni avanzate e tecniche bayesiane, sfruttando anche le risorse del centro di calcolo Advanced Research Computing at Hopkins (ARCH).

Il Futuro della Ricerca sui Mondi Vaganti

Il telescopio Roman rappresenta una vera svolta: per la prima volta sarà possibile studiare i pianeti erranti in modo sistematico e comprendere il loro ruolo nell’evoluzione dei sistemi planetari. Come sottolinea il team, “questi dati permetteranno di aprire una nuova finestra sull’origine di questi mondi solitari e sui processi che governano la formazione planetaria nell’intera Galassia”.

Fonte: ArXiv

Quanto è Spessa la Crosta di Venere?

Un recente studio guidato da Alexandra Plesa e colleghi, pubblicato nel 2024, ha finalmente posto nuovi vincoli sulla composizione e lo spessore massimo della crosta di Venere, uno dei pianeti più enigmatici del Sistema Solare. Il lavoro è frutto di una collaborazione tra il German Aerospace Center (DLR), l’Università di Münster, e l’ETH di Zurigo.

Un Pianeta di Fuoco e Mistero

Venere è avvolto da una densa atmosfera (circa 92 bar) che mantiene la sua superficie a temperature estreme, superiori ai 460 °C. Le sue vaste pianure vulcaniche, datate a meno di un miliardo di anni, e i segnali di attività vulcanica in corso, sollevano interrogativi cruciali sulla struttura della sua crosta e sulle dinamiche interne.

Quanto può Crescere la Crosta di Venere?

Utilizzando modelli petrologici basati su transizioni metamorfiche e condizioni di fusione parziale, il team ha stimato che lo spessore massimo della crosta di Venere è fortemente legato al gradiente termico:

  • Con un basso gradiente termico di 5 °C/km (tipico di un regime tettonico stagnante), la crosta può raggiungere al massimo 40 km di spessore prima che l’elevata densità inneschi un processo di delaminazione, ovvero il distacco e l’affondamento degli strati più profondi nel mantello.
  • Con un alto gradiente termico di 25 °C/km (associato a un regime tettonico più mobile), lo spessore massimo scende a circa 20 km a causa dell’avvio della fusione parziale che favorisce l’attività vulcanica.
  • Il valore massimo assoluto di spessore per una crosta basaltica si raggiunge con un gradiente intermedio di 10 °C/km, arrivando fino a 65 km.

Secondo gli autori, “la crosta basaltica venusiana non può superare uno spessore compreso tra 20 e 65 km senza innescare processi di delaminazione o fusione, con conseguente riciclo crostale o eruzioni vulcaniche”.

Un Pianeta in Equilibrio Instabile

Le simulazioni mostrano che le variazioni nella composizione della crosta e nella quantità di volatili (acqua e CO₂) giocano un ruolo marginale, poiché l’attuale litosfera venusiana è considerata prevalentemente secca. Le transizioni mineralogiche verso assemblaggi più densi (dominati da granato e pirosseni) causano un rapido aumento della densità con la profondità, limitando la possibilità di sostenere croste più spesse.

Il team ha anche confrontato le proprie stime con i dati di missioni storiche come Venera e Vega, che indicano la presenza di basalti tholeiitici e alcalini sulla superficie. Tuttavia, non sono state rilevate prove definitive di rocce più leggere e ricche di silice (simili ai graniti terrestri), che potrebbero giustificare spessori maggiori in alcune aree.

Cosa Significa per la Tectonica di Venere?

Questo studio fornisce forti indizi sul fatto che Venere non sia mai stato dominato da una tettonica a placche simile a quella terrestre, ma piuttosto da cicli intermittenti di attività geologica intensificata, con lunghi periodi di quiete. I risultati sono compatibili con un regime definito come episodic-lid, dove la litosfera passa ciclicamente da fasi stabili a eventi catastrofici di riciclo crostale.

Prospettive Future

Le missioni di prossima generazione, come NASA VERITAS e ESA EnVision, forniranno nuovi dati geofisici e spettroscopici per testare le previsioni di questo modello. Come sottolineano gli autori, “comprendere la storia termica e geodinamica di Venere è essenziale per svelare le condizioni che distinguono un pianeta vulcanicamente attivo da uno potenzialmente abitabile come la Terra”.

Fonte: Nature

58º Congresso Nazionale dell’Unione Astrofili Italiani

Nei giorni 9 – 10 – 11 maggio, sotto il cielo stellato partenopeo, gli appassionati di astronomia si riuniranno come costellazioni in un firmamento di sapere e passione per il 58º Congresso Nazionale dell’Unione Astrofili Italiani (UAI).

Questo evento di rara bellezza è un faro splendente per la comunità astronomica, un’occasione per abbracciarsi, condividere esperienze celestiali, e intrecciare nuove idee come fili d’oro nel tessuto dell’universo. Il congresso avrà luogo presso l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte a Napoli, un tempio di scienza e meraviglia sotto il manto azzurro del cielo partenopeo.

La scelta di questa cornice prestigiosa è un tributo alla grandezza dell’evento e offre l’opportunità di attingere alle fonti di sapere di una delle istituzioni scientifiche più illustri d’Italia. L’evento si arricchirà della collaborazione dell’Unione Astrofili Napoletani (UAN), una delle gemme tra le delegazioni dell’UAI. Il loro contributo sarà il vento sotto le ali di questo incontro, grazie alla loro esperienza e alla loro intima conoscenza del territorio. La collaborazione tra l’Unione Astrofili Napoletani e l’Unione Astrofili Italiani è un esempio di come le organizzazioni locali e nazionali possano lavorare insieme per raggiungere obiettivi comuni, promuovendo la cultura scientifica e l’amore per l’astronomia in tutta Italia.

Il Congresso Nazionale dell’UAI si conferma, anche in questa edizione, come un appuntamento irrinunciabile per chi sogna di contribuire all’evoluzione dell’astronomia in Italia. Non mancare a questo viaggio tra le stelle!

In bocca al lupo a tutti!

ShaRA@ Team Party #2

A due anni dal primo ritrovo fisico del Team ShaRA, la storia si ripete! Il prolifico ed attivissimo gruppo di astrofotografi remoti capitanati dall’astrofilo Alessandro Ravagnin, si ritroverà ai piedi del grande telescopio nazionale Galileo, dell’Osservatorio Astrofisico di Asiago, per il secondo meeting in presenza. Sarà un’occasione per incontrarsi dal vivo e ripercorrere tutti assieme la strada percorsa finora, confrontandosi su temi di interesse comune e parlando coi professionisti dell’astronomia.
Il programma prevede una visita guidata all’Osservatorio, un workshop dove interverranno Luca Fornaciari, Molisella Lattanzi e Stefano Ciroi (Professore Associato presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia “Galileo Galilei” dell’Università di Padova), la cena a base di prodotti locali dell’Altopiano e quindi una chiusura in bellezza sotto la cupola del Galileo per una sessione di riprese spettroscopiche.
 
Sarà una bellissima occasione per darsi nuovamente la mano nonché conoscere i nuovi entrati nel gruppo!

Kepler-10: un sistema planetario antico che potrebbe ospitare un mondo d’acqua

Autori principali: A. S. Bonomo, L. Malavolta, V. Nascimbeni, R. F. Díaz, M. Damasso e collaboratori.
Istituti coinvolti: INAF – Osservatorio Astrofisico di Torino, Telescopio Nazionale Galileo.


Situato a circa 186 parsec di distanza nella costellazione del Drago, il sistema planetario Kepler-10 orbita attorno a una stella vecchia di oltre 10 miliardi di anni. Grazie a un’osservazione paziente durata 11 anni e condotta principalmente con lo spettrografo HARPS-N montato sul Telescopio Nazionale Galileo, un team internazionale ha potuto ottenere nuove misure di massa e densità per i pianeti noti del sistema, e ha identificato un nuovo candidato non in transito, Kepler-10d. I risultati arricchiscono la nostra comprensione della formazione ed evoluzione dei piccoli pianeti intorno alle stelle di tipo solare.

Un pianeta roccioso e un potenziale mondo d’acqua

Kepler-10b, il pianeta più interno, completa un’orbita in meno di un giorno terrestre. Con un raggio di 1,47 raggi terrestri e una massa di 3,24 ± 0,32 masse terrestri, si conferma come una super-Terra rocciosa, simile per densità alla Terra, ma priva di un grande nucleo ferroso. Il suo ambiente è estremamente ostile: l’equilibrio termico di superficie supera i 2000 K, rendendo improbabile la presenza di atmosfera.

Kepler-10c, invece, ha attirato particolare attenzione: con un raggio di 2,35 raggi terrestri e una massa di 11,29 ± 1,24 masse terrestri, presenta una densità di 4,75 g/cm³. Questa combinazione di massa e volume non si adatta a un pianeta roccioso puro né a un gigante gassoso, ma suggerisce la presenza di una quantità significativa di acqua o ghiaccio. Kepler-10c potrebbe quindi rappresentare uno dei rari “mondi d’acqua” identificati fino a oggi, con una percentuale d’acqua stimata tra il 40% e il 70% della sua massa.

La posizione orbitale di Kepler-10c, ben al di fuori dalla “valle dei raggi” che separa i pianeti rocciosi da quelli dominati da volatili, rafforza l’ipotesi di una formazione oltre la linea del ghiaccio, con successiva migrazione verso l’interno del sistema.

Un nuovo pianeta: Kepler-10d

Oltre ai due pianeti già noti, i ricercatori hanno individuato prove convincenti della presenza di un terzo corpo, Kepler-10d, grazie a un’analisi combinata delle variazioni nei tempi di transito di Kepler-10c (Transit Timing Variations, TTVs) e delle velocità radiali. Questo nuovo pianeta avrebbe una massa minima di 12,00 ± 2,15 masse terrestri e un periodo orbitale di circa 151 giorni.

Anche se Kepler-10d non è stato osservato in transito, la sua massa suggerisce che potrebbe essere simile a Kepler-10c, forse anch’esso ricco d’acqua o dotato di un’atmosfera più densa. L’assenza di un transito è compatibile con una piccola inclinazione orbitale differente rispetto a quella degli altri pianeti, sufficiente a evitare l’allineamento con il nostro punto di osservazione.

Un sistema senza giganti

Un altro aspetto fondamentale dello studio è l’assenza di pianeti giganti nel sistema. L’analisi della sensibilità delle osservazioni ha escluso la presenza di pianeti simili a Giove entro 10 unità astronomiche dalla stella madre. Questa caratteristica è significativa: l’assenza di giganti gassosi suggerisce che i pianeti più piccoli di Kepler-10 abbiano potuto migrare verso le loro orbite attuali senza essere disturbati da masse gravitazionali maggiori, un comportamento coerente con diversi modelli di formazione planetaria.

Un risultato di alta precisione

Gli autori hanno utilizzato diverse tecniche di analisi statistica avanzata, tra cui:

  •  Analisi delle velocità radiali con diversi modelli di rumore;
  • Modellizzazione con algoritmi MCMC e Nested Sampling;
  • Analisi combinata delle TTVs e delle RVs con il codice dinamico TRADES.

Queste metodologie hanno permesso di raggiungere una precisione del 9-10% nella determinazione delle masse planetarie, un risultato raro per pianeti di così piccole dimensioni e periodi orbitali relativamente lunghi.

Implicazioni future

Questo studio non solo migliora la nostra comprensione di Kepler-10, ma dimostra anche l’importanza delle campagne di osservazione a lungo termine per caratterizzare mondi di dimensioni terrestri attorno a stelle simili al Sole. In particolare, sistemi come Kepler-10 rappresentano obiettivi ideali per missioni future come PLATO dell’ESA, che si concentrerà sulla ricerca di pianeti abitabili intorno a stelle solari.

La presenza di un possibile mondo d’acqua nel sistema Kepler-10, a basse temperature rispetto a molti sub-Netuniani noti, fornisce un importante laboratorio naturale per lo studio della diversità planetaria e dei processi di formazione planetaria in ambienti relativamente tranquilli e stabili.

Fonte: arxiv.org

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