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29 marzo eclissi parziale di Sole: Sole e Luna si sfiorano in una coreografia celeste!

Il 2025 ci ha regalato un mese di marzo ricco di eventi astronomici: dopo il lunistizio maggiore settentrionale e meridionale del 7 e del 22, rispettivamente, il 29 marzo il Sole e la Luna a braccetto ci offriranno lo spettacolo di un’eclissi solare che, seppur parziale, animerà l’entusiasmo di tutti gli appassionati.
Immaginiamo di essere in una stanza illuminata da una lampada e che qualcuno ci passi davanti. In quel momento, ovviamente, la luce si affievolirà e vedremo un’ombra proiettarsi nella nostra direzione, fino a quando la persona non si sarà spostata. A seconda di come si posiziona, il nostro “disturbatore” potrebbe oscurare completamente o solo parzialmente la lampada. Se nel frattempo siamo noi metterci in un’altra posizione, potremmo intravedere nuovamente la lampada o parte di essa.
La lampada potrebbe essere il Sole e la persona che vi passa davanti la Luna: abbiamo simulato un’eclissi solare!
In termini pratici, si verifica un’eclissi solare quando la Luna si interpone tra la Terra e il Sole, coprendo quest’ultimo parzialmente o totalmente e facendo sì che venga proiettato un cono d’ombra sulla Terra.

Fig. 1 – Schema di un’eclissi totale di Sole. L’immagine non è in scala

Un’eclissi totale è possibile solo perché il diametro apparente del Sole e quello della Luna, per una pura casualità, coincidono e sono pari a circa mezzo grado. Le motivazioni sono intuitivamente chiare se consideriamo che il Sole è 400 volte più grande della Luna, ma è anche 400 volte più distante! Per calcolare il diametro apparente del Sole e della Luna in maniera più accurata, si veda il paragrafo di approfondimento.
Questo significa che se i due corpi sono perfettamente allineati, i loro dischi si sovrappongono.
È chiaro che in un’eclissi di Sole la disposizione dei tre corpi celesti è analoga a quella di una Luna nuova. Allora, ci potremmo chiedere: “Perché non abbiamo un’eclissi di Sole in occasione di ciascun novilunio?”.
La risposta sta nel fatto che il piano orbitale della Luna è inclinato di circa 5,14° rispetto a quello dell’eclittica, ovvero del percorso che la Terra compie intorno al Sole durante la sua rivoluzione (o del moto apparente del Sole visto dalla Terra). Pertanto, in occasione del novilunio, potremo avere un’eclissi di Sole solo al verificarsi di determinate condizioni aggiuntive.

Fig. 2 – Il piano orbitale della Luna è inclinato di circa 5,14° rispetto all’eclittica. Nella figura l’inclinazione è enfatizzata.

I due piani orbitali, come si può vedere nella figura 2, si intersecano esclusivamente in due punti, detti nodi. Quando la Luna è in corrispondenza di uno dei due nodi, allora in quel punto i due piani orbitali risultano allineati, e siamo a buon punto per un’eclissi solare. Tuttavia, come abbiamo visto sopra, è necessario che il nostro satellite sia anche in fase di novilunio. E ancora non è sufficiente…

Fig. 3 – Affinché possa aver luogo un’eclissi solare totale, è necessario che la Luna sia compresa tra i punti A e B.

Terza condizione, che si evince dalla Figura 3, è che la Luna deve trovarsi compresa tra i punti A e B, altrimenti non verrà proiettato alcun cono d’ombra sulla Terra.
Riassumendo, condizioni necessarie e sufficienti affinché si possa avere un’eclissi di Sole sono tre:
⦁ La Luna deve trovarsi in corrispondenza di uno dei nodi
⦁ La Luna deve essere nella fase di novilunio
⦁ La distanza della Luna dal nodo non deve essere superiore a 17° da una parte o dall’altra

Che tipi di eclissi possiamo avere?

Nelle figure di cui sopra abbiamo mostrato la situazione senz’altro più affascinante di un’eclissi totale, in cui il disco solare risulta completamente nascosto dalla Luna per un certo periodo di tempo.
Dalla Figura 1 si evince come la regione della Terra che rientra nel cono d’ombra vedrà il Sole completamente eclissato, mentre l’area circostante sarà in penombra. Il cono d’ombra e quello di penombra si sposteranno con il trascorrere del tempo, rendendo il fenomeno visibile in punti diversi della Terra in momenti differenti. Questa è un’eclissi totale.
Se la Luna è soltanto in prossimità di un nodo, e non in una posizione centrale come nella Figura 1, non coprirà completamente il disco solare perché i piani orbitali non sono perfettamente allineati e avremo un’eclissi solare parziale, la situazione in cui ci troveremo il 29 marzo.
Con un’eclissi di penombra, mostrata nella Figura 4, invece la Terra entra solo nel cono di penombra e non nel cono d’ombra prodotto dalla Luna. Ciò che si vede in questo caso è soltanto un abbassamento non significativo della luminosità del Sole.

Fig. 4 – Eclissi di penombra

Per comprendere cos’è, invece, un’eclissi anulare, ricordiamo che la distanza media tra Terra e Luna è di 384.400 km. Si parla di distanza media perché la Luna percorre un’orbita ellittica intorno alla Terra, che occupa uno dei fuochi. Pertanto, la Luna oscillerà tra una distanza minima (perigeo) di 363.300 km e una distanza massima (apogeo) di 405.500 km (la media di questi due valori è appunto 384.400 km).
Ferme restando le condizioni di cui sopra per un’eclissi totale, quando la Luna si trova in apogeo il suo diametro angolare è leggermente inferiore, ovvero 0,48°, rispetto al Sole. Questo significa che il disco della Luna non coprirà completamente quello del Sole, lasciando tutto intorno una corona sporgente. Stiamo assistendo alla cosiddetta eclissi anulare, che diventerà la sola tipologia possibile di eclissi totale solare quando la Luna si sarà allontanata dalla Terra di una quantità sufficiente.

Dove sarà visibile l’eclissi del 29 marzo?

Si tratterà di un’eclissi caratterizzata da un’ampia visibilità: le aree interessate sono l’America nord-orientale e sud-orientale, l’Europa centrale e settentrionale, l’Africa occidentale, l’Asia settentrionale, l’Artide, e parte della Russia.
Da notare che in USA e nell’est del Canada il sole sorgerà già parzialmente eclissato, garantendo uno spettacolo sicuramente inusuale.
L’Italia meridionale sarà particolarmente svantaggiata: Napoli si trova alla latitudine limite, sotto la quale il fenomeno non sarà visibile. Nella città partenopea, avremo una magnitudine di eclissi pari a 0,0232; in Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia purtroppo non ci sarà alcun accenno del fenomeno. La città tra quelle italiana che potrà raccontare di aver goduto dell’eclissi migliore è Aosta, con una magnitudine di eclissi pari a 12,54.
La tabella seguente, ordinata per ora di inizio, elenca per ciascuna delle città elencate gli orari di inizio, centralità e fine dell’eclissi, la magnitudine di eclissi e la percentuale di oscuramento.

Città Ora inizio Centralità Mag. % oscuramento Ora fine
AN 11:36 12:07 0,894 3,21% 12:38
AO 11:17 12:02 0,224 12,54% 12:49
BO 11:28 12:05 0,1405 6,27% 12:43
CA 11:24 11:53 0,816 2,80% 12:23
CB 11:47 12:05 0,0301 0,63% 12:24
FI 11:28 12:04 0,1285 5,50% 12:41
GE 11:21 12:02 0,177 8,82% 12:44
AQ 11:38 12:05 0,0672 2,10% 12:32
MI 11:21 12:04 0,1916 9,90% 12:48
NA 11:47 12:03 0,0232 0,43% 12:20
PD 11:29 12:08 0,1489 6,83% 12:46
PG 11:33 12:05 0,0979 3,67% 12:37
RM 11:35 12:03 0,0733 2,39% 12:31
TO 11:17 12:02 0,2081 11,18% 12:47
TN 11:27 12:08 0,1727 8,50% 12:49
UD 11:33 12:10 0,1405 6,27% 12:48
VE 11:31 12:08 0,1424 6,40% 12:46

 

Fig. 5 – Il percorso nell’eclissi attraverso il globo

 

Fig. 6 – Il momento della centralità ad Aosta
Fig. 7 – Il momento della centralità a Napoli

Terminologia

La magnitudine di eclissi indica la frazione di diametro del disco solare che viene coperta dalla Luna nel momento centrale. Un valore pari a 0 indica l’assenza di eclissi, mentre numeri maggiori o uguali a 1 indicano un’eclissi totale. A Napoli ad esempio, la magnitudine di eclissi sarà di 0,0232: significa che se il diametro del Sole è pari a 1.392.700 km, di esso ne verranno oscurati 32.310,64 km. Il valore della magnitudine è direttamente proporzionale alla durata dell’eclissi. Questo valore viene si presta a interpretazioni erronee. Infatti, in alcuni prospetti riepilogativi viene confuso con la percentuale di oscuramento del disco solare che, come vediamo nella Tabella 1, è differente. Altro errore da non fare è confonderla con la magnitudine di un oggetto celeste, ovvero con la misura della sua luminosità.


Come osservare un’eclissi di Sole


Sebbene durante un’eclissi solare la nostra stella sia parzialmente o totalmente oscurata, la quantità di radiazioni che arrivano all’occhio sono insostenibili, ed è elevato il rischio di una retinopatia attinica che danneggia irreversibilmente coni e bastoncelli, senza che si percepisca immediatamente una condizione dolorosa. Il Sole, anche in eclissi, non va mai osservato senza le dovute protezioni, a maggior ragione se usiamo uno strumento come un binocolo o un telescopio.
Sono da bandire, in maniera assoluta, gli occhiali da sole, le vecchie pellicole fotografiche, le lastre radiografiche, i vetri offuscati con la fiamma di una candela e perfino i vetrini da saldatore, a meno che non abbiano un fattore di oscuramento di almeno 12 din.
Il modo più sicuro per la visione è l’utilizzo di appositi occhialini, realizzati in Astrosolar o con altri filtri analoghi certificati per l’osservazione del Sole, che tagliano oltre il 99,999 della radiazione solare.
Stesso discorso se vogliamo usare strumentazione osservativa. In questo caso, il rischio non è solo quello di danneggiare lo strumento (ad esempio, l’oculare, il sensore della fotocamera, ecc.): un binocolo o un telescopio concentrano i raggi solari in direzione dell’occhio, aumentando in maniera drammatica il rischio di danni permanenti.
Possiamo proteggere i nostri occhi e la nostra strumentazione usando filtri acquistati già pronti oppure autocostruiti usando una pellicola in Astrosolar o analoghi. Se ci piace dedicarci al bricolage, è importante prestare attenzione alla realizzazione, accertandoci che non ci siano dei punti di passaggio della luce. E prima di ogni uso, verificare sempre che il filtro sia integro!

Vediamo adesso come sfruttare al meglio la nostra strumentazione per l’eclissi del 29 marzo, e facendo tesoro degli insegnamenti e dell’esperienza per gli eventi futuri. Alla luce, e mi si perdoni il gioco di parole, di quanto detto prima, si dà per scontato, anche laddove non precisato esplicitamente, che si farà uso di adeguati filtri.

  • Occhialini in Astrosolar e analoghi: tornano utili per osservare senza altra strumentazione il fenomeno, ma solo in quelle località dove la magnitudine di eclissi è elevata. Ad Aosta avremo una percezione sufficiente dell’eclissi anche con gli occhialini, mentre a Napoli sicuramente no.
  • Binocoli: già con un classico 10×50 riusciremo a goderci lo spettacolo, a patto di usare un cavalletto, così da avere una buona stabilità di visione. Se poi siete i fortunati possessori di un 25×100 montato su un cavalletto con testa di precisione a tre vie, come nel mio caso, il divertimento sarà assicurato. Vi ricordo che un binocolo, a differenza di un telescopio, offre una visione binoculare, e dunque stereoscopica: l’esperienza diventa immersiva e coinvolgente, più che con un telescopio!
  • Fotocamera: anche in questo caso, è importante usare un cavalletto adeguato, che riduca le vibrazioni e garantisca stabilità. Vi consiglio di usare un dispositivo di scatto automatico, in maniera da poter avere un elevato numero di fotografie da montare in un timelapse, senza un intervento continuo da parte vostra, che potrete continuare a osservare il cielo.
  • Telescopio: un basso ingrandimento ci consentirà di avere un quadro d’insieme del Sole, mentre con ingrandimenti più spinti potremo cogliere i dettagli dell’eclissi, specialmente nel momento del primo contatto. Attenzione a smontare il cercatore, a meno che non sia dotato anch’esso di filtro, per evitare che voi o altri possiate anche involontariamente usarlo.
  • Smart telescope: il vantaggio di questi strumenti è la loro autonomia. Potrete impostare un video o un timelapse e intanto dedicarvi ad altri tipi di osservazioni, senza ulteriore intervento da parte vostra, con risultati paragonabili o superiori a una buona fotocamera.


Una considerazione importante: il filtro solare va montato davanti a monte dell’ottica, e non all’oculare, per un motivo molto semplice. Se non filtriamo la luce a monte, la radiazione solare arriverà all’oculare già amplificata, danneggiando lo strumento e rischiando di provocare danni ai nostri occhi!
Il filtro che monterete sullo strumento osservativo vi renderà molto difficile puntare agevolmente il Sole: non vedrete assolutamente nulla fin quando il disco solare non sarà nell’oculare! Individuare il Sole spesso è una vera e propria impresa. Per quanto mi riguarda, con un telescopio manuale (ad esempio, il mio Dobson) riesco a trovare più facilmente un oggetto del cielo profondo (di notte, ovviamente), in quanto posso usare le stelle e le costellazioni come riferimento, che il Sole. E, quindi, come risolvere la questione? Dobbiamo fare attenzione all’ombra che lo strumento osservativo proietta a Terra man mano che tentiamo di puntare il Sole alla cieca (!): quando essa avrà raggiunto la sua dimensione minima, siamo orientati verso il Sole! Con un oculare a basso ingrandimento, quasi certamente ritroveremo il disco solare nel campo; qualche piccolo affinamento e potremo poi usare un oculare più spinto, se così ci piace!

Nel numero 273 di Coelum Astronomia lo speciale dedicato al 25° ciclo solare a cura di Valentina Penza.

Una spirale nel cielo: lo spettacolare fenomeno visibile in tutta Europa

Nella serata del 24 marzo 2025, i cieli italiani — e di gran parte dell’Europa — sono stati attraversati da una visione a dir poco mozzafiato: una spirale luminosa, apparsa intorno alle 21:00, ha lasciato senza parole migliaia di osservatori. Ma niente paura: non si è trattato di un evento misterioso, bensì della spettacolare “passivazione” del secondo stadio del razzo Falcon 9 di SpaceX, lanciato da Cape Canaveral alle 18:48 per la missione NROL-69.

La passivazione è una manovra tecnica, necessaria per liberare il razzo dal carburante residuo prima del rientro atmosferico. Il risultato, quando avviene ad alta quota e in condizioni favorevoli, è una vera e propria “danza cosmica”, visibile a occhio nudo da vaste aree del pianeta.

Vi presentiamo il suggestivo contributo video realizzato da Samuele Pinna, che ha ripreso l’intero fenomeno in altissima qualità. Un documento raro e affascinante, da non perdere.

Nel 2023 era già stato segnalato un altro avvistamento nei cieli dell’Alaska QUI

Discovery Simulations: nuove finestre sul mistero dell’energia oscura

a collage of stars in space

L’espansione accelerata dell’universo, scoperta alla fine degli anni ’90 (Riess et al., 1998; Perlmutter et al., 1999), continua a rappresentare uno dei più grandi enigmi della cosmologia moderna. Per affrontare questo mistero, un consorzio internazionale di ricercatori ha recentemente presentato le Discovery Simulations, una nuova coppia di simulazioni cosmologiche ad alta risoluzione sviluppate per approfondire la natura dell’energia oscura.

Il lavoro, guidato da ricercatori del Argonne National Laboratory (anl.gov) e del Dark Energy Spectroscopic Instrument (desi.lbl.gov), offre un banco di prova senza precedenti per testare modelli cosmologici alternativi. Le simulazioni sono state realizzate utilizzando il codice HACC (Hardware/Hybrid Accelerated Cosmology Code), ottimizzato per i supercomputer più potenti attualmente disponibili.

Due universi a confronto

Le Discovery Simulations consistono in due modelli evolutivi dell’universo, costruiti con condizioni iniziali identiche ma con parametri cosmologici differenti. Una simulazione segue il classico modello ΛCDM, in cui l’energia oscura è rappresentata da una costante cosmologica. L’altra esplora un modello più dinamico, w₀wₐCDM, dove l’energia oscura evolve nel tempo secondo una precisa equazione di stato, come suggerito dai recenti risultati del primo anno di osservazioni del DESI (DESI Collaboration et al., 2024).

Ogni simulazione ha elaborato 6720³ particelle in un volume cubico di 1,5 gigaparsec (circa 4,9 miliardi di anni luce per lato), con una risoluzione in massa di circa 4×10⁸ masse solari. L’operazione si è svolta su Aurora, il supercomputer exascale basato su GPU dell’Argonne Leadership Computing Facility, impiegando 960 nodi e oltre 5700 GPU in un tempo straordinariamente breve: circa due giorni per simulazione.

Confronto visivo di una piccola regione nelle simulazioni a z = 0.
A sinistra: modello ΛCDM; a destra: modello w₀wₐCDM.
Le differenze tra i due scenari cosmologici sono sottili, ma comunque visibili quando si osservano i dettagli più fini della struttura. Questo confronto evidenzia quanto sia difficile, nella cosiddetta “cosmologia di precisione”, ottenere misure cosmologiche in grado di rilevare anche i più piccoli cambiamenti nella formazione delle strutture dell’universo.
È disponibile anche un breve video che mostra l’evoluzione temporale di una piccola porzione dello spazio simulato.

Una mappa dettagliata dell’evoluzione cosmica

Grazie a queste simulazioni, i ricercatori hanno potuto analizzare con precisione le differenze tra i due modelli cosmologici in vari aspetti fondamentali: lo spettro di potenza della materia, la funzione di massa degli aloni di materia oscura e i tassi di accrescimento di massa degli stessi.

I risultati mostrano che il modello w₀wₐCDM genera differenze quantificabili rispetto a ΛCDM, con variazioni fino al 5–10% nella distribuzione della materia su larga scala, e fino al 20% nella frequenza di aloni massicci a determinate epoche cosmiche. Sebbene queste discrepanze possano sembrare contenute, esse offrono importanti spunti per migliorare la precisione degli strumenti di analisi cosmologica.

Influenza della cosmologia w₀wₐCDM sullo spettro di potenza della materia.
In alto: confronto degli spettri di potenza della materia ottenuti nelle due simulazioni: linea continua per il modello ΛCDM, linea tratteggiata per il modello w₀wₐCDM, mostrati a tre diverse epoche cosmiche: z = 0 (colore blu), z = 0.5 (rosa) e z = 1 (rosso).
In basso: differenza percentuale tra gli spettri di potenza delle due simulazioni a ciascun redshift, cioè quanto i due modelli divergono nella distribuzione della materia su varie scale spaziali.

Galassie simulate e formazione stellare

Un altro punto di forza delle Discovery Simulations è la possibilità di associare alle strutture simulate delle popolazioni galattiche plausibili. Utilizzando modelli innovativi come Diffstarpop (GitHub link), i ricercatori hanno generato galassie sintetiche basate sull’accrescimento di massa degli aloni, esplorando così come la cosmologia influenza la storia della formazione stellare.

I dati indicano che, nei modelli con energia oscura variabile, le galassie formano stelle con una leggera riduzione del tasso di formazione, specialmente agli alti redshift (z > 1). Questo effetto, sebbene modesto (∼2–4%), potrebbe diventare rilevante in studi statistici su larga scala, come quelli previsti da future survey del cielo.

Un patrimonio pubblico per la comunità scientifica

Le simulazioni non sono solo uno strumento teorico, ma un patrimonio messo a disposizione della comunità: i cataloghi degli aloni di materia oscura a tre epoche cosmiche (z = 1.0, 0.5, 0) sono pubblicamente accessibili attraverso l’HACC Simulation Data Portal, utilizzando un account Globus. L’importanza di queste simulazioni risiede nella loro capacità di accompagnare i dati osservativi con un supporto teorico all’avanguardia. Con missioni come Euclid, LSST e il Nancy Grace Roman Space Telescope pronte a esplorare l’universo con una precisione senza precedenti, strumenti come le Discovery Simulations saranno essenziali per interpretare i segnali cosmologici più sottili.

Gli autori, tra cui N. Padmanabhan, M. White, K. Heitmann e J. Alarcón, concludono auspicando che queste simulazioni rappresentino la base per futuri cataloghi galattici sintetici e per l’analisi di statistiche cosmologiche di ordine superiore, in grado di distinguere tra modelli di energia oscura oggi ancora in competizione.

Fonte: ArXiv

Una galassia fuori dagli schemi: il mistero di J2345−0449

La galassia a spirale J2345−0449 ospita un buco nero supermassiccio che genera getti radio lunghi oltre un megaparsec, un fatto rarissimo per una spirale. Priva di bulge classico, mostra una struttura regolare e una formazione stellare centrale soppressa, probabilmente a causa del feedback dell’AGN. Un caso unico per studiare l’evoluzione galattica.

Nel vasto panorama dell’Universo, alcune galassie brillano non solo per la loro luce, ma per la loro capacità di sfidare le regole della cosmologia. È il caso di 2MASX J23453268−0449256, nota anche come J2345−0449, una galassia a spirale estremamente massiccia e rapida nella rotazione, che ha catturato l’attenzione degli astronomi per un fatto davvero eccezionale: la presenza di getti radio colossali, estesi su scala megaparsec (oltre 3 milioni di anni luce), una caratteristica tipica delle galassie ellittiche e non delle spirali.

Immagine radio a 323 MHz della galassia J2345−0449 ottenuta con il radiotelescopio GMRT
Questa immagine mostra la sorgente radio gigante associata alla galassia a spirale J2345−0449, osservata alla frequenza di 323 MHz con il Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT). I dati rivelano un’emissione radio di ampiezza eccezionale, che si estende ben oltre i confini della galassia visibile.
Tra gli aspetti più sorprendenti, spicca la presenza – rarissima – di due coppie concentriche di lobi radio, una interna e una esterna, generate dai getti emessi dal buco nero centrale. I lobi più interni si estendono per circa 387 mila anni luce (circa 387 kpc), mentre quelli più esterni raggiungono una lunghezza di circa 1,6 milioni di anni luce (circa 1,6 Mpc), rendendo questa una delle più grandi sorgenti radio conosciute associate a una galassia spirale.
Il centro attivo della galassia, cioè il nucleo dell’AGN (Nucleo Galattico Attivo), è chiaramente rilevato come una sorgente compatta nel cuore dell’immagine.
Il contorno bianco tratteggiato mostra il profilo della galassia nella luce visibile, ingrandito di circa 4 volte per facilitarne la visione. La barra di scala indica una distanza di 500 kpc, utile per apprezzare l’enorme estensione dell’emissione radio.
Nell’immagine in dettaglio (riquadro in basso a sinistra) è visibile un ingrandimento dei lobi interni, ottenuto con il Very Large Array (VLA) alla frequenza di 4.8 GHz. Qui si osserva una morfologia tipica delle sorgenti di tipo FR-II (Fanaroff & Riley, 1974): i lobi sono luminosi ai bordi e alimentati da getti collimati provenienti dal nucleo galattico. I lobi esterni, invece, appaiono più filamentosi e diffusi, e potrebbero rappresentare resti fossili di un’attività radio passata, ormai spenta da milioni di anni.
Le curve di livello (contorni) rappresentano i livelli di intensità dell’emissione radio, a partire da valori molto deboli (−0.1 mJy/beam) fino ai livelli più intensi (3.2 mJy/beam). La seconda barra di scala, nel riquadro, indica 50 kpc, a confronto con le dimensioni della galassia visibile.

Un’identità sorprendente

Osservata grazie ai potenti strumenti del Telescopio Spaziale Hubble (HST) e con dati raccolti in varie lunghezze d’onda – dalla luce ultravioletta all’infrarosso – J2345−0449 è stata analizzata in dettaglio da un team internazionale di ricercatori, tra cui Bagchi et al. (2014), Walker et al. (2015) e Drevet Mulard et al. (2023). L’indagine ha rivelato che questa galassia non possiede un rigonfiamento centrale classico (bulge), ma un pseudo-bulge, cioè una struttura più piatta e disciforme, tipica di una formazione “tranquilla”, non dovuta a fusioni galattiche violente.

Questa immagine composita della galassia J2345−0449 è stata ottenuta combinando osservazioni in tre bande diverse effettuate con la camera WFC3 del Telescopio Spaziale Hubble (HST): due bande nel visibile (F438W e F814W) e una nell’infrarosso (F160W). Le singole immagini sono state sovrapposte e calibrate in intensità per riprodurre una colorazione quanto più naturale possibile.
Nell’immagine si notano chiaramente scure strisce di polvere che si avvolgono a spirale e piccole regioni compatte di formazione stellare, localizzate soprattutto nelle zone più esterne del disco galattico.
L’immagine copre un’area di circa 50 x 50 arcosecondi, con il nord in alto e l’est a sinistra.

Una macchina cosmica di grande massa

Grazie all’elevata risoluzione dell’Hubble, con una scala di circa 100 parsec, è stato possibile distinguere nel centro della galassia anche una piccola barra nucleare e un anello di risonanza, tracciati con precisione millimetrica. La struttura, che ricorda un orologio cosmico, è incastonata in un disco stellare ben ordinato, privo di segni di interazioni recenti o di detriti mareali. Questo suggerisce che J2345−0449 abbia avuto una evoluzione secolare, ovvero graduale e interna, senza fusioni con altre galassie.

La massa stellare totale è stimata in circa 4 × 10¹¹ masse solari, mentre la velocità di rotazione raggiunge i 430 km/s, uno dei valori più alti osservati in una galassia spirale. Tali numeri pongono J2345−0449 tra le galassie più massicce e dinamicamente stabili conosciute nel nostro Universo locale.


I giganti silenziosi dell’Universo

Ma ciò che rende J2345−0449 davvero straordinaria è la presenza di due coppie di lobi radio, visibili grazie alle osservazioni del Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT) e del Very Large Array (VLA). I lobi esterni si estendono per oltre 1,6 Mpc, mentre quelli interni – più giovani e attivi – coprono circa 400 kpc. Questi getti, alimentati da un buco nero supermassiccio (SMBH) centrale, hanno un asse quasi perpendicolare al disco stellare della galassia, un fatto raro che sfida le teorie classiche secondo cui solo le galassie ellittiche, con grandi bulge centrali, possono ospitare getti radio così estesi.

Immagine in scala di grigi della regione più interna della galassia J2345−0449
Questa immagine mostra il cuore della galassia, evidenziando la differenza (residuo) tra l’immagine reale ottenuta con il Telescopio Spaziale Hubble (HST) e il modello migliore ricostruito dagli astronomi (in questo caso, il modello A elaborato con il software GALFIT).
Nel pannello a sinistra è visibile l’immagine nella banda H (infrarosso), mentre nel pannello a destra si vede quella nella banda I (vicino infrarosso/visibile).
Le frecce indicano la presenza di una piccola barra nucleare e di un anello di risonanza formato da stelle, strutture dinamiche situate nel centro della galassia.
Da notare che l’immagine nella banda I è più influenzata dalla polvere interstellare, che oscura la luce visibile, in particolare nella zona scura attorno alla barra nucleare, che appare “vuota” proprio a causa di questa estinzione della luce.

Stelle che non nascono più

Una delle scoperte più interessanti è il rallentamento della formazione stellare nella regione centrale della galassia. Sebbene il gas caldo del suo alone – rilevato tramite osservazioni ai raggi X con i telescopi Chandra e XMM-Newton – si raffreddi, non si formano nuove stelle. Questa “quiescenza” sembra essere il risultato del feedback dell’AGN (nucleo galattico attivo): l’energia emessa dal buco nero, sotto forma di getti e radiazione, riscalda o espelle il gas, rendendolo inutilizzabile per la nascita stellare.

Secondo i modelli teorici, questi processi di feedback sono una delle cause principali della fine della formazione stellare nelle galassie massive, ma nel caso di J2345−0449 l’assenza di una fusione recente e la struttura a disco ben conservata rendono il caso ancora più interessante e raro.


Una galassia verde nel cuore

Sebbene la formazione stellare sia ridotta, la galassia non è completamente “spenta”. Le osservazioni nel vicino e lontano ultravioletto (UV), effettuate dal telescopio GALEX, indicano la presenza di giovani stelle nelle zone più esterne del disco. Tuttavia, nel centro della galassia si trovano popolazioni stellari molto vecchie, con età superiori ai 10 miliardi di anni. Questo colloca J2345−0449 nella cosiddetta “green valley” – una fase intermedia tra le galassie attive (blu) e quelle passive (rosse) – come riportato anche da Salim et al. (2016).


Il buco nero che sfida le regole

Nonostante l’assenza di un bulge classico, J2345−0449 ospita un buco nero supermassiccio stimato in oltre 10⁹ masse solari – una massa paragonabile a quella dei buchi neri nelle galassie ellittiche più grandi. Questo suggerisce un percorso di crescita alternativo, guidato non da fusioni, ma da processi interni e da un lento afflusso di gas. L’AGN della galassia rientra nella categoria delle radio-galassie a bassa eccitazione (LERG), alimentate da flussi di accrescimento deboli ma sufficienti a sostenere la produzione di getti potenti.


Una fabbrica di getti radio

La domanda centrale diventa allora: come può una galassia così diversa dalle radio-galassie classiche produrre getti tanto impressionanti? I modelli teorici ipotizzano che il meccanismo alla base sia magnetoidrodinamico, in cui il buco nero agisce come una dinamo cosmica, lanciando materia ad altissima velocità lungo i poli. La stabilità dell’asse dei getti, che non mostra segni di precessione, suggerisce che il buco nero agisca come un giroscopio cosmico, con spin elevato e ben allineato con il disco di accrescimento.


Un laboratorio cosmico per l’astrofisica

J2345−0449 si presenta così come un laboratorio naturale eccezionale per studiare l’evoluzione delle galassie massive e il ruolo del feedback da AGN. La sua configurazione isolata, la struttura a disco regolare, il pseudo-bulge, i getti radio colossali e l’assenza di eventi di fusione recente la rendono un oggetto unico per comprendere i meccanismi di regolazione della formazione stellare e dell’accrescimento dei buchi neri.


Prospettive future

Per rispondere ai molti interrogativi ancora aperti, saranno necessari studi futuri ad alta risoluzione, in particolare per determinare con precisione la massa, lo spin e la geometria del campo magnetico del buco nero centrale. L’uso di strumenti di prossima generazione, come il James Webb Space Telescope (JWST) o lo Square Kilometre Array (SKA), potrà fornire nuovi indizi cruciali.

Nel frattempo, J2345−0449 resta una galassia fuori dagli schemi, capace di mettere in discussione alcune delle più consolidate teorie sull’origine e l’evoluzione delle strutture cosmiche.


Riferimenti principali:

Fonte: Oxford Accademy

Bagchi et al. (2014); Walker et al. (2015); Nesvadba et al. (2021); Drevet Mulard et al. (2023)

NASA – Hubble Space Telescope ESA – Chandra X-ray Observatory XMM-Newton Mission – ESA IUCAA – Inter-University Centre for Astronomy and Astrophysics GMRT – NCRA NRAO – Very Large Array (VLA) ALMA Observatory

ESA presenta la nuova Strategia 2040 per l’esplorazione spaziale europea

Verso un’Europa più forte, sostenibile e protagonista nello spazio globale

L’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha pubblicato ufficialmente la sua nuova strategia di lungo termine: ESA Strategy 2040, un documento ambizioso che definisce le linee guida e gli obiettivi chiave per affrontare le sfide e cogliere le opportunità del settore spaziale da oggi fino al 2040.

La strategia, presentata dal Direttore Generale Josef Aschbacher, si propone come “documento vivo”, destinato ad aggiornarsi in base alle esigenze future dell’Europa e dei suoi Stati membri. Essa rappresenta l’evoluzione del percorso già tracciato con l’Agenda 2025, con l’obiettivo di trasformare ESA in un’agenzia più agile, efficiente e allineata alle priorità globali e continentali.

Cinque grandi obiettivi per il futuro dello spazio europeo

La visione dell’ESA si articola attorno a cinque obiettivi strategici principali, ciascuno dei quali comprende azioni concrete e obiettivi misurabili:


🔵 1. Proteggere il nostro Pianeta e il Clima
ESA investirà in tecnologie e missioni per contrastare il cambiamento climatico, monitorare l’ambiente e promuovere una economia spaziale circolare priva di detriti.
Obiettivi chiave:

  • Creare “gemelli digitali” della Terra per simulazioni avanzate.
  • Promuovere standard globali per la sostenibilità spaziale.
  • Rafforzare le capacità europee in ambito space weather e difesa planetaria.

🟠 2. Esplorare e Scoprire
L’ESA continuerà a guidare la ricerca scientifica spaziale, sviluppando missioni di frontiera e partecipando attivamente alla nuova era di esplorazione lunare e marziana.
Tra le missioni in programma: Euclid, Juice, Plato, LISA, EnVision, e la futura esplorazione di Encelado.
Focus:

  • Rafforzare la presenza europea in orbita terrestre bassa (LEO).
  • Costruire infrastrutture lunari per comunicazione e navigazione.
  • Preparare la tecnologia per le future missioni umane su Marte.

🟡 3. Rafforzare l’autonomia e la resilienza europea
Con l’obiettivo di rendere l’Europa indipendente nell’accesso e nella mobilità nello spazio, ESA svilupperà sistemi di trasporto spaziale autonomi e soluzioni per la gestione delle crisi terrestri.
Azioni previste:

  • Lanciatrici riutilizzabili e sistemi per servizi in orbita.
  • Infrastrutture per telecomunicazioni sicure e navigazione precisa.
  • Tecnologie quantistiche per comunicazioni e localizzazione.

🟢 4. Promuovere crescita e competitività
ESA vuole stimolare l’innovazione e rendere l’Europa un polo commerciale globale nel settore spaziale.
Iniziative:

  • Investimenti in tecnologie d’avanguardia (propulsione verde, habitat spaziali, VLEO).
  • Supporto a startup e PMI per accedere ai mercati.
  • Rafforzamento del ruolo europeo come attrattore di investimenti privati.

🔴 5. Ispirare l’Europa
L’obiettivo finale è coinvolgere cittadini, giovani e istituzioni in un ecosistema spaziale europeo più coeso e partecipativo.
Attività previste:

  • Programmi educativi e inclusivi per la prossima generazione.
  • Iniziative per la diversità, l’equità e la rappresentanza.
  • Collaborazioni diplomatiche internazionali attraverso la “space diplomacy”.

Uno strumento per il futuro dell’Europa

La Strategia 2040 sarà la base per le decisioni strategiche dei prossimi decenni, compresi i lavori preparatori per il Consiglio ministeriale dell’ESA previsto a novembre 2025, dove si discuteranno le risorse e i progetti futuri. L’attuazione sarà seguita da un aggiornamento continuo del piano a lungo termine dell’Agenzia.

«Lo spazio è diventato un pilastro fondamentale per la sicurezza, l’economia, la ricerca e la resilienza delle società moderne – ha dichiarato Aschbacher –. Con questa strategia, vogliamo fare in modo che l’Europa non resti spettatrice, ma protagonista della corsa allo spazio del XXI secolo.»

Il documento di sintesii è disponibile a questo LINK

Per approfondire scarica il documento completo QUI

Fonte: European Space Agency

I nuovi occhi sulla vita: ELTs pronti a cercare segnali di abitabilità su pianeti extrasolari

Nel prossimo decennio, una nuova generazione di telescopi terrestri estremamente grandi — i cosiddetti ELTs, Extremely Large Telescopes — sarà in grado di indagare per la prima volta la presenza di atmosfere abitabili e segnali di vita su pianeti extrasolari rocciosi che non transitano davanti alla loro stella. Questa rivoluzione si avvicina grazie all’uso di strumentazione ad altissimo contrasto e risoluzione spettrale, combinando tecniche avanzate di imaging coronografico e spettroscopia ad alta dispersione.

Uno studio pubblicato su The Planetary Science Journal da un team internazionale di ricercatori guidato da Meadows et al. mostra come questi strumenti possano rilevare firme molecolari indicative della presenza di vita, anche in mondi potenzialmente privi di transiti visibili. Tra i pianeti più promettenti analizzati spicca Proxima Centauri b, situato a soli 1,3 parsec dalla Terra.

Alla ricerca della vita con la luce riflessa

Finora, la maggior parte delle informazioni sulle atmosfere dei pianeti extrasolari è arrivata da osservazioni di transiti, come quelli del sistema TRAPPIST-1, studiato anche dal telescopio spaziale James Webb (JWST). Tuttavia, molti pianeti potenzialmente abitabili non transitano davanti alla loro stella dal nostro punto di vista: è il caso di Proxima b, GJ 1061 d e Teegarden’s Star c, tutti entro i 5 parsec dalla Terra.

Per superare questo limite, gli ELTs utilizzeranno un approccio detto High-Dispersion Coronagraphy (HDC), che unisce un coronografo per oscurare la luce stellare e uno spettrografo ad altissima risoluzione. Progetti come RISTRETTO sull’ESO Very Large Telescope e strumenti futuri come ANDES sul European Extremely Large Telescope (E-ELT), il TMT (Thirty Meter Telescope) e il Giant Magellan Telescope (GMT) saranno fondamentali.

Atmosfere simulabili, firme chimiche rilevabili

Usando una pipeline aggiornata chiamata SPECTR, gli autori hanno simulato osservazioni di vari tipi di atmosfere su pianeti rocciosi e sub-nettuniani orbitanti stelle di tipo M (piccole e fredde), come nel caso di Proxima b. Hanno analizzato atmosfere modellate sulla Terra moderna, l’Archeano (circa 3,5 miliardi di anni fa), scenari abiologici con possibili “falsi positivi” e mondi sub-nettuniani con spesse atmosfere di idrogeno.

Tra le molecole considerate: ossigeno (O₂), metano (CH₄), anidride carbonica (CO₂), vapore acqueo (H₂O), monossido di carbonio (CO) e ammoniaca (NH₃).

I risultati: segnali rivelabili in poche ore

Nel caso più favorevole, quello di Proxima b, la simulazione suggerisce che sia possibile:

  • escludere un’atmosfera sub-nettuniana in meno di un’ora di osservazione;
  • rilevare coppie di gas in disequilibrio chimico (O₂/CH₄ o CO₂/CH₄), che sono considerate potenziali biosignature, in circa 10 ore;
  • distinguere pianeti abitati da quelli abiologici, osservando gas come CO e H₂O che forniscono contesto ambientale.

Per esempio, l’acqua può essere rilevata nel vicino infrarosso (0.9 μm) in circa 1 ora, mentre l’ossigeno o il metano possono richiedere da 10 a 100 ore, a seconda delle condizioni e della strumentazione.

I falsi positivi e come evitarli

Alcuni gas, come l’ossigeno, possono accumularsi anche in assenza di vita. Lo studio ha quindi analizzato scenari alternativi, come pianeti che hanno perso gli oceani o hanno un’attività vulcanica intensa. In questi casi, gas come CO diventano indicatori utili per distinguere un mondo realmente abitato da uno che lo imita chimicamente.

Ad esempio, una combinazione di alta presenza di metano e monossido di carbonio può indicare processi vulcanici, non biologici. Al contrario, l’assenza di CO in presenza di CH₄ e CO₂ rafforza l’ipotesi biologica.

Un protocollo per la ricerca della vita

Gli autori propongono un protocollo osservativo efficace:

  1. Escludere un’atmosfera sub-nettuniana cercando molecole come NH₃;
  2. Verificare la presenza di acqua, per valutare l’abitabilità;
  3. Cercare biosignature, come le coppie O₂/CH₄ o CO₂/CH₄;
  4. Individuare gas discriminanti, come il monossido di carbonio, per riconoscere falsi positivi.

Verso una nuova era dell’astrobiologia

Lo studio evidenzia come l’osservazione da Terra, grazie agli ELTs, permetterà di caratterizzare in dettaglio le atmosfere di pianeti potenzialmente abitabili, anche quelli che non transitano. L’obiettivo finale: cercare la vita.

I ricercatori coinvolti provengono da istituzioni di primo piano, tra cui l’University of Washington, il NASA Goddard Institute for Space Studies e l’ESO – European Southern Observatory.

In conclusione, se Proxima b possiede un’atmosfera terrestre, potremmo identificare la presenza di gas legati alla vita in meno di 10 ore di osservazione. Una scoperta che segnerebbe l’inizio di una nuova era per l’astronomia e per la ricerca di mondi abitabili oltre il nostro.

La struttura dell’ELT supera i 50 metri di altezza, e l’apertura del tetto è larga ben 41 metri. Per salire a piedi, percorrendo scale e passerelle dall’ingresso fino alla sommità della cupola dell’ELT, servono circa 30 minuti. Altro che palestra… Crediti: ESO/G. Vecchia

Fonte: ARXIV

Saturno: scoperti 64 nuovi satelliti, molti retrogradi

Mappa celeste dei due campi osservativi utilizzati per questa indagine, in relazione alla posizione di Saturno (indicato con rettangoli grigi). Sono riportate tutte le osservazioni relative a 5 delle 64 nuove lune scoperte (indicate con cerchi), insieme alla miglior traiettoria orbitale calcolata per ciascuna (linee tratteggiate). Nota dell’autore (BJG): questo sottoinsieme di dati mette in evidenza le difficoltà nel collegare le osservazioni delle lune su un arco di più anni. Nota tecnica: l’apparente "incompletezza" delle orbite (cioè il fatto che non sembrino chiudersi perfettamente) è dovuta al fatto che le posizioni osservate sono proiettate dal punto di vista della Terra in movimento, e non da un sistema di riferimento centrato su Saturno.

Una ricerca internazionale condotta da Edward Ashton (Institute of Astronomy and Astrophysics, Academia Sinica, Taiwan), insieme a Brett Gladman (University of British Columbia, Canada), Mike Alexandersen (Center for Astrophysics | Harvard & Smithsonian, USA) e Jean-Marc Petit (Institut UTINAM, Université de Franche-Comté, Francia), ha individuato ben 64 nuovi satelliti irregolari intorno a Saturno. Le osservazioni sono state effettuate tra il 2019 e il 2021 grazie al Canada-France-Hawaii Telescope (CFHT), e i risultati, presentati nel 2025, stanno riscrivendo la nostra comprensione del sistema lunare saturniano.

Lune regolari e irregolari: che differenza c’è?

Le lune “regolari”, come Titano, si sono formate attorno a Saturno e seguono orbite circolari e ben allineate con l’equatore del pianeta. Al contrario, le “lune irregolari” sono oggetti catturati da Saturno in epoche remote, provenienti probabilmente dalla fascia di Kuiper o dalla regione dei pianeti giganti. Le loro orbite sono ellittiche, inclinate, e molte sono addirittura retrograde, cioè orbitano in senso opposto alla rotazione di Saturno.

La prima luna irregolare di Saturno, Febe, fu scoperta nel 1898. Da allora, solo due grandi campagne osservative avevano incrementato il numero delle lune irregolari conosciute: una all’inizio degli anni 2000 e una tra il 2004 e il 2007. Grazie a queste indagini, entro il 2019 si contavano 58 lune irregolari attorno a Saturno. Oggi, grazie al nuovo studio, quel numero è più che raddoppiato.

Una popolazione in gran parte retrograda

Il dato che più ha colpito i ricercatori è che la maggior parte delle nuove lune scoperte ha orbite retrograde. In particolare, è stato identificato un sottogruppo, chiamato Mundilfari, in cui abbondano i satelliti di piccole dimensioni (inferiori a 4 km di diametro) rispetto a quelli più grandi. Questo gruppo si estende su un’inclinazione orbitale tra 157 e 172 gradi rispetto al piano dell’eclittica.

Questa distribuzione così particolare suggerisce un’origine violenta: “La pendenza molto ripida della distribuzione delle dimensioni delle lune del gruppo Mundilfari indica una frantumazione recente,” spiega Ashton, facendo riferimento a un evento di collisione catastrofica avvenuto forse negli ultimi miliardi di anni. Il gruppo prende il nome dalla sua luna più grande, Mundilfari, e sarebbe l’esito di un impatto che ha frammentato un oggetto più grande.

Mappa celeste dei due campi osservativi utilizzati per questa indagine, in relazione alla posizione di Saturno (indicato con rettangoli grigi).
Sono riportate tutte le osservazioni relative a 5 delle 64 nuove lune scoperte (indicate con cerchi), insieme alla miglior traiettoria orbitale calcolata per ciascuna (linee tratteggiate).
Nota dell’autore (BJG): questo sottoinsieme di dati mette in evidenza le difficoltà nel collegare le osservazioni delle lune su un arco di più anni.
Nota tecnica: l’apparente “incompletezza” delle orbite (cioè il fatto che non sembrino chiudersi perfettamente) è dovuta al fatto che le posizioni osservate sono proiettate dal punto di vista della Terra in movimento, e non da un sistema di riferimento centrato su Saturno.

Come sono state trovate queste lune?

Il team ha utilizzato la tecnica dello “shift and stack”, che consente di sommare immagini sequenziali per rilevare oggetti in movimento estremamente deboli. Le osservazioni si sono concentrate su due aree del cielo attorno a Saturno, ripetute in varie opposizioni (ossia i periodi migliori per osservare il pianeta dalla Terra) nel 2019, 2020 e 2021.

In totale, sono stati rilevati oltre 120 oggetti in movimento coerente con le orbite saturniane. Di questi, 64 sono stati confermati come nuove lune. Per altre 50+ non è stato possibile determinare orbite precise a causa di un numero insufficiente di rilevamenti.

Una parte delle lune scoperte in questo studio era già stata osservata tra il 2004 e il 2007 dal telescopio giapponese Subaru, ma non erano mai state confermate fino ad ora. Il Minor Planet Center è riuscito a collegare 42 delle nuove lune a quelle osservazioni passate, attribuendo loro ufficialmente l’anno di scoperta.

Collane di lune: le “famiglie collisionarie”

Analizzando i parametri orbitali delle lune scoperte, i ricercatori hanno individuato delle “famiglie” di satelliti con caratteristiche simili, che suggeriscono un’origine comune. Oltre al gruppo Mundilfari, si distinguono altri sottogruppi:

  • Il gruppo Gallico (orbitanti in senso diretto) mostra una concentrazione attorno alla luna Albiorix, suggerendo una frammentazione antica.
  • Il gruppo Inuit si divide in due sottogruppi attorno a Kiviuq e Siarnaq, entrambi probabili resti di collisioni passate.
  • Tra i retrogradi, spiccano anche il gruppo Kari e il gruppo Phoebe, quest’ultimo dominato dalla luna più grande e scura, Phoebe.

Ma è il gruppo Mundilfari a destare il maggior interesse. La distribuzione delle dimensioni dei suoi membri segue una legge di potenza con indice q ≈ 6, molto più ripida di quella delle altre famiglie (che si attestano tra q ≈ 2 e 3.5). Questo significa che, rispetto ad altri gruppi, il Mundilfari ha una quantità insolitamente alta di lune piccole, segno di una rottura violenta e relativamente recente.

Distribuzione delle dimensioni nei diversi gruppi e sottogruppi delle lune irregolari di Saturno. Nel grafico sono state aggiunte due linee di riferimento: una tratteggiata che rappresenta una distribuzione tipica di frammenti in equilibrio collisionale (con indice q = 3,5) e una linea tratteggiata lunga che mostra una pendenza simile a quella osservata per il sottogruppo Mundilfari (con q = 6). I membri del gruppo Norse con inclinazioni inferiori a 151 gradi non sono rappresentati nel grafico.

Una collisione recente?

Per testare l’ipotesi dell’impatto, i ricercatori hanno simulato un’esplosione orbitale di un oggetto progenitore, generando migliaia di frammenti con una velocità di espulsione di 200 m/s. Il risultato? La distribuzione orbitale dei frammenti riproduce bene quella osservata tra i membri del gruppo Mundilfari.

“Se la nostra interpretazione è corretta,” spiegano gli autori, “allora il gruppo Mundilfari rappresenta le tracce visibili di una collisione cosmica che ha avuto luogo non molto tempo fa, su scala astronomica.”

C’è però una complicazione: la dispersione orbitale del gruppo è piuttosto ampia, forse più di quanto ci si aspetterebbe da un’unica collisione. Questo apre la possibilità che ci siano stati più impatti, o che alcuni membri non siano direttamente legati all’evento principale.

In questo grafico, ogni punto rappresenta una luna retrograda, ovvero una luna che orbita attorno a Saturno in senso opposto rispetto alla rotazione del pianeta. I colori aiutano a distinguere i vari sottogruppi:
Rosso: lune appartenenti al sottogruppo di Phoebe
Magenta: lune del sottogruppo di Mundilfari
Blu: lune del sottogruppo di Kari
Azzurro chiaro: lune con inclinazioni inferiori a 151 gradi, dette “low-i”
Due lune classificate nel sottogruppo Phoebe ma che potrebbero appartenere al gruppo Mundilfari sono indicate con un pallino magenta aggiuntivo, suggerendo che potrebbero essere stati erroneamente attribuiti al gruppo sbagliato.

Lune blu?

Un altro indizio interessante è il colore. Le misurazioni precedenti indicano che Mundilfari ha una tonalità insolitamente blu, simile solo a quella della luna Phoebe. Se anche altri membri del gruppo avessero colori simili, questo rafforzerebbe l’idea di un’origine comune. Purtroppo, al momento mancano dati fotometrici completi per la maggior parte delle nuove lune.

Elenco delle lune irregolari di Saturno, con indicazione dei seguenti parametri orbitali:

  • AU: Astronomical Unit – distanza media dal pianeta
  • Asse semi-maggiore (a): la distanza media dal pianeta, espressa in unità astronomiche (au) o milioni di chilometri
  • Eccentricità (e): quanto l’orbita è ellittica (0 = orbita perfettamente circolare)
  • Inclinazione (i): l’angolo tra il piano dell’orbita della luna e il piano dell’eclittica, in gradi
  • Periodo orbitale (P): il tempo impiegato dalla luna per completare un’orbita attorno a Saturno, in giorni
  • Magnitudine assoluta nella banda V (HV): una misura della luminosità intrinseca della luna
  • Gruppo: la famiglia dinamica principale a cui la luna appartiene
  • Sottogruppo: un’eventuale suddivisione più specifica all’interno del gruppo

I valori orbitali sono tratti dal database del Jet Propulsion Laboratory (JPL), mentre le magnitudini HV provengono dal Minor Planet Center (MPC).

Tutte le inclinazioni sono riferite al piano dell’eclittica, ad eccezione di quella di Phoebe, che è calcolata rispetto al piano di Laplace (il piano medio attorno a cui oscillano le orbite dei satelliti nel tempo).

Denominazione AU a e i P HV Gruppo Sottogruppo
S/2007 S 8 0.1140 17.05 0.49 36.2 836.9 15.97 Gallic Albiorix
Bebhionn (37) 0.1138 17.03 0.482 37.4 834.9 14.99 Gallic Albiorix
S/2004 S 24 0.1560 23.34 0.071 37.4 1341.3 15.98 Gallic
Sat LX 0.1140 17.06 0.485 38.6 837.8 15.83 Gallic Albiorix
Tarvos (21) 0.1218 18.22 0.528 38.6 926.4 13.04 Gallic Albiorix
S/2006 S 12 0.1308 19.57 0.542 38.6 1035.1 16.2 Gallic Albiorix
Erriapus (28) 0.1170 17.51 0.462 38.7 871.1 13.71 Gallic Albiorix
Albiorix (26) 0.1092 16.33 0.47 38.9 783.5 11.17 Gallic Albiorix
S/2020 S 4 0.1219 18.24 0.495 40.1 926.9 17.01 Gallic Albiorix
S/2019 S 6 0.1214 18.11 0.120 46.4 919.7 15.73 Inuit Siarnaq
S/2020 S 3 0.1207 18.05 0.144 46.1 908.0 16.38 Inuit Siarnaq
S/2019 S 14 0.1193 17.85 0.172 46.2 893.1 16.32 Inuit Siarnaq
Paaliaq (20) 0.1003 15.00 0.384 47.1 687.1 11.71 Inuit
S/2005 S 4 0.0757 11.32 0.315 48 450.2 15.69 Inuit Kiviuq
S/2004 S 31 0.1170 17.50 0.159 48.1 866.1 15.63 Inuit Siarnaq
S/2020 S 5 0.1229 18.39 0.22 48.2 933.9 16.59 Inuit Siarnaq
S/2020 S 1 0.0758 11.34 0.337 48.2 451.1 15.92 Inuit Kiviuq
Siarnaq (29) 0.1195 17.88 0.311 48.2 895.9 10.61 Inuit Siarnaq
Kiviuq (24) 0.0756 11.31 0.182 48.9 449.1 12.67 Inuit Kiviuq
Ijiraq (22) 0.0758 11.34 0.353 49.2 451.5 13.27 Inuit Kiviuq
S/2019 S 1 0.0752 11.25 0.384 49.5 445.5 15.32 Inuit Kiviuq
Tarqeq (52) 0.1186 17.75 0.119 49.7 885.0 14.82 Inuit Siarnaq
Bestla (39) 0.1360 20.34 0.461 136.3 1087.5 14.61 Norse
Narvi (31) 0.1289 19.29 0.449 143.7 1003.8 14.52 Norse
S/2019 S 11 0.1381 20.66 0.513 144.6 1115.0 16.25 Norse
Skathi (27) 0.1041 15.58 0.265 149.7 728.1 14.41 Norse
Hyrrokkin (44) 0.1226 18.34 0.331 150.3 931.9 14.34 Norse
S/2019 S 19 0.1541 23.05 0.458 151.8 1318.0 16.51 Norse Kari
Kari (45) 0.1473 22.03 0.482 153 1231.0 14.49 Norse Kari
S/2004 S 21 0.1545 23.12 0.394 153.2 1325.4 16.21 Norse Kari
S/2004 S 36 0.1566 23.43 0.625 153.3 1352.9 16.11 Norse Kari
S/2004 S 45 0.1316 19.69 0.551 154 1038.7 15.97 Norse Kari
Geirrod (66) 0.1488 22.26 0.539 154.4 1251.1 15.89 Norse Kari
S/2019 S 18 0.1547 23.14 0.509 154.6 1327.1 16.56 Norse Kari
S/2019 S 17 0.1519 22.72 0.546 155.5 1291.4 15.86 Norse Kari
S/2006 S 1 0.1253 18.75 0.105 156.0 964.1 15.65 Norse Kari
S/2019 S 20 0.1583 23.68 0.354 156.1 1375.4 16.73 Norse Kari
S/2006 S 3 0.1427 21.35 0.432 156.1 1174.8 15.65 Norse Kari
S/2019 S 15 0.1416 21.19 0.257 157.7 1161.5 16.59 Norse Mundilfari
Farbauti (40) 0.1356 20.29 0.248 157.7 1087.3 15.75 Norse Mundilfari
S/2004 S 37 0.1066 15.94 0.447 158.2 754.5 15.92 Norse Mundilfari
S/2007 S 5 0.1059 15.84 0.104 158.4 746.9 16.23 Norse Mundilfari
Skoll (47) 0.1178 17.63 0.47 158.4 878.4 15.41 Norse Mundilfari
Bergelmir (38) 0.1288 19.27 0.144 158.7 1005.6 15.16 Norse Mundilfari
Thiazzi (63) 0.1576 23.58 0.511 158.8 1366.7 15.91 Norse Mundilfari
S/2019 S 5 0.1275 19.08 0.215 158.8 990.4 16.65 Norse Mundilfari
Beli (61) 0.1384 20.70 0.087 158.9 1121.8 16.09 Norse Mundilfari
S/2007 S 9 0.1348 20.17 0.36 159.3 1078.1 16.06 Norse Mundilfari
S/2019 S 9 0.1361 20.36 0.433 159.5 1093.1 16.27 Norse Mundilfari
S/2004 S 49 0.1497 22.40 0.453 159.7 1264.3 15.97 Norse Mundilfari
Gunnlod (62) 0.1413 21.14 0.251 160.4 1158.0 15.57 Norse Mundilfari
S/2004 S 47 0.1073 16.05 0.291 160.9 762.5 16.29 Norse Mundilfari
S/2006 S 15 0.1457 21.80 0.117 161.1 1214.0 16.22 Norse Mundilfari
S/2020 S 7 0.1163 17.40 0.5 161.5 861.7 16.79 Norse Mundilfari
S/2020 S 9 0.1700 25.43 0.531 161.4 1535.0 16.02 Norse Mundilfari
S/2006 S 10 0.1269 18.98 0.151 161.6 983.1 16.43 Norse Mundilfari
S/2020 S 8 0.1469 21.97 0.252 161.8 1228.1 16.41 Norse Mundilfari
S/2004 S 48 0.1480 22.14 0.374 161.9 1242.4 15.95 Norse Mundilfari
S/2019 S 16 0.1555 23.27 0.25 162 1341.2 16.68 Norse Mundilfari
S/2006 S 13 0.1334 19.95 0.313 162 1060.6 16.05 Norse Mundilfari
S/2004 S 53 0.1556 23.28 0.24 162.6 1342.4 16.16 Norse Mundilfari
Jarnsaxa (50) 0.1289 19.28 0.219 163 1006.9 15.62 Norse Mundilfari
Gridr (54) 0.1287 19.25 0.187 163.9 1004.8 15.77 Norse Mundilfari
S/2019 S 10 0.1384 20.71 0.249 163.9 1123.0 16.66 Norse Mundilfari
S/2004 S 50 0.1494 22.35 0.45 164 1260.4 16.4 Norse Mundilfari
S/2006 S 16 0.1452 21.72 0.204 164.1 1207.5 16.54 Norse Mundilfari
Hati (43) 0.1317 19.70 0.375 164.1 1040.3 15.45 Norse Mundilfari
Fenrir (41) 0.1493 22.33 0.136 164.3 1260.3 15.89 Norse Mundilfari
S/2004 S 12 0.1324 19.80 0.337 164.7 1048.6 15.91 Norse Mundilfari
S/2004 S 7 0.1426 21.33 0.511 164.9 1173.9 15.56 Norse Mundilfari
Eggther (59) 0.1326 19.84 0.157 165 1052.3 15.39 Norse Mundilfari
S/2004 S 52 0.1768 26.45 0.292 165.3 1634.0 16.5 Norse Mundilfari
S/2020 S 10 0.1692 25.31 0.295 165.6 1527.2 16.86 Norse Mundilfari
S/2004 S 41 0.1210 18.10 0.3 165.7 914.6 16.31 Norse Mundilfari
S/2004 S 42 0.1219 18.24 0.158 165.7 925.9 16.11 Norse Mundilfari
S/2004 S 39 0.1551 23.20 0.101 165.9 1336.2 16.14 Norse Mundilfari
S/2007 S 6 0.1239 18.54 0.169 166.5 949.5 16.36 Norse Mundilfari
S/2006 S 14 0.1408 21.06 0.06 166.7 1152.7 16.5 Norse Mundilfari
Aegir (36) 0.1381 20.66 0.255 166.9 1119.3 15.51 Norse Mundilfari
Loge (46) 0.1532 22.92 0.192 166.9 1311.8 15.36 Norse Mundilfari
S/2020 S 6 0.1422 21.27 0.481 166.9 1168.9 16.55 Norse Mundilfari
S/2019 S 3 0.1142 17.08 0.249 166.9 837.7 16.22 Norse Mundilfari
S/2019 S 12 0.1397 20.90 0.476 167.1 1138.8 16.33 Norse Mundilfari
S/2004 S 44 0.1305 19.52 0.129 167.7 1026.2 15.82 Norse Mundilfari
S/2004 S 17 0.1317 19.70 0.162 167.9 1040.9 15.95 Norse Mundilfari
S/2004 S 28 0.1462 21.87 0.159 167.9 1220.7 15.77 Norse Mundilfari
Sat LXIV 0.1614 24.15 0.279 168.3 1420.8 16.15 Norse Mundilfari
Surtur (48) 0.1521 22.75 0.449 168.3 1296.5 15.77 Norse Mundilfari
Mundilfari (25) 0.1243 18.59 0.21 168.4 952.9 14.57 Norse Mundilfari
S/2006 S 17 0.1496 22.38 0.425 168.7 1264.6 16.01 Norse Mundilfari
S/2004 S 13 0.1233 18.45 0.265 169 942.6 16.25 Norse Mundilfari
S/2007 S 7 0.1065 15.93 0.217 169.2 754.3 16.24 Norse Mundilfari
S/2004 S 40 0.1075 16.08 0.297 169.2 764.6 16.28 Norse Mundilfari
S/2005 S 5 0.1428 21.37 0.588 169.5 1177.8 16.36 Norse Mundilfari
S/2006 S 18 0.1421 22.76 0.131 169.5 1298.4 16.1 Norse Mundilfari
Fornjot (42) 0.1667 24.94 0.214 169.5 1494.0 15.12 Norse Mundilfari
S/2019 S 4 0.1201 17.96 0.409 170.1 904.3 16.46 Norse Mundilfari
S/2020 S 2 0.1195 17.87 0.152 170.7 897.6 16.89 Norse Mundilfari
S/2004 S 43 0.1266 18.94 0.432 171.1 980.1 16.34 Norse Mundilfari
S/2004 S 51 0.1685 25.21 0.201 171.2 1519.4 16.13 Norse Mundilfari
S/2019 S 21 0.1767 26.44 0.155 171.9 1636.3 16.18 Norse Mundilfari
S/2019 S 8 0.1356 20.28 0.311 172.8 1088.7 16.28 Norse Phoebe
Sat LVIII 0.1745 26.10 0.148 172.9 1603.9 15.7 Norse Phoebe
S/2006 S 9 0.0963 14.41 0.248 173 647.9 16.48 Norse Phoebe
Ymir (19) 0.1535 22.96 0.337 173.1 1315.2 12.41 Norse Phoebe
S/2006 S 20 0.0882 13.19 0.206 173.1 567.3 15.75 Norse Phoebe
S/2019 S 2 0.1107 16.56 0.279 173.3 799.8 16.49 Norse Phoebe
Greip (51) 0.1229 18.38 0.317 173.4 937.0 15.33 Norse Phoebe
S/2006 S 11 0.1318 19.71 0.144 174.1 1042.3 16.47 Norse Phoebe
S/2007 S 2 0.1066 15.94 0.232 174.1 754.9 15.59 Norse Phoebe
S/2019 S 7 0.1349 20.18 0.232 174.2 1080.3 16.29 Norse Phoebe
Gerd (57) 0.1400 20.95 0.517 174.4 1143.0 15.87 Norse Phoebe
Thrymr (30) 0.1359 20.33 0.467 174.8 1091.8 14.33 Norse Phoebe
Suttungr (23) 0.1296 19.39 0.116 175 1016.7 14.55 Norse Phoebe
Phoebe (9) 0.0864 12.93 0.164 175.2 550.3 6.73 Norse Phoebe
S/2006 S 19 0.1591 23.80 0.467 175.5 1389.3 16.07 Norse Phoebe
S/2007 S 3 0.1304 19.51 0.162 175.6 1026.4 15.74 Norse Phoebe
Skrymir (56) 0.1434 21.45 0.437 175.6 1185.1 15.62 Norse Phoebe
S/2004 S 46 0.1371 20.51 0.249 177.2 1107.6 16.4 Norse Phoebe
S/2019 S 13 0.1402 20.97 0.318 177.3 1144.9 16.68 Norse Phoebe
Angrboda (55) 0.1376 20.59 0.216 177.4 1114.1 16.17 Norse Phoebe
Alvaldi (65) 0.1471 22.00 0.238 177.4 1232.2 15.62 Norse Phoebe

Un nuovo capitolo per Saturno

Il sistema di Saturno si conferma sempre più complesso e affascinante. Grazie a questo studio, firmato da un team internazionale guidato da Edward Ashton, possiamo guardare con occhi nuovi al balletto orbitale delle lune più misteriose del nostro Sistema Solare. E chissà: forse dietro l’oscurità delle lune retrograde si nascondono ancora altre storie di violenza cosmica e formazione planetaria.

Lunistizio: quando la luna “si ferma”

L’immagine mostra la posizione della Luna in vari momenti della giornata, poco dopo l’alba all’1:46 e poco prima del tramonto alle 10:09 della Luna. La simulazione fa riferimento alle coordinate di osservazione di Napoli (40°50′49.20″ N 14°15′54.00″ E.)

Il 7 marzo abbiamo assistito a un interessante fenomeno astronomico, che ha coinvolto la Luna: il lunistizio maggiore settentrionale. Si tratta solo della prima parte di un fenomeno che si è concluso stamane, 22 marzo, con il lunistizio maggiore meridionale.

Per comprendere meglio di cosa si tratta, analizziamo anzitutto il termine: “lunistizio” deriva dalla combinazione di Luna con la locuzione latina “sistere”, che significa “fermarsi”, ovvero “Luna che si ferma”. Questa parola, poco diffusa, ci richiama alla mente un concetto più familiare: il solstizio (da Sole e sistere, “Sole che si ferma”). Naturalmente, ciò non implica che Luna e Sole fermino il loro moto apparente sulla volta celeste: piuttosto, la loro declinazione raggiunge un valore massimo o minimo, “si ferma” e poi inizia a variare nella direzione opposta.

Ed è proprio dal concetto di solstizio partiremo per rendere più agevole la comprensione del lunistizio.

Durante l’anno, ossia nel tempo che la Terra impiega per compiere una rivoluzione completa intorno al Sole, hanno luogo due solstizi: il solstizio estivo il 21 giugno e quello invernale il 21 dicembre.

A differenza delle altre stelle, che possiamo considerare fisse, il Sole non ha una declinazione fissa. A causa dell’inclinazione dell’asse terrestre di circa 23,5° rispetto alla perpendicolare al piano dell’eclittica, la declinazione del Sole nel corso dell’anno oscilla tra -23,5° e +23,5°. Il minimo e il massimo vengono raggiunti in corrispondenza del solstizio invernale e di quello estivo, rispettivamente.

Il grafico evidenza la posizione in cui sorgono Sole e Luna in corrispondenza dei solstizi, degli equinozi e dei lunistizi maggiori.

Consideriamo un altro aspetto importante. Spesso si afferma che il Sole (come la Luna) sorge a Est e tramonta a Ovest, ma si tratta di una imprecisione: in realtà, dovremmo parlare di orizzonte est e orizzonte ovest. Il Sole sorge a est e tramonta a ovest soltanto durante gli equinozi. Nel resto dell’anno, il punto di levata si sposta progressivamente verso nord o verso sud.

Un fenomeno analogo riguarda la Luna, il cui moto è tuttavia molto più complesso di quello del Sole: non solo ruota intorno alla Terra ma contemporaneamente si muove attorno al Sole. Ricordiamo che la Luna completa un’orbita intera intorno alla Terra in un mese siderale, pari a 27,32166 giorni. Durante questo periodo, il punto in cui la Luna sorge (e tramonta) varia continuamente: quando sorge nel suo punto più settentrionale in assoluto, descrive sulla volta celeste un arco più ampio e raggiunge la sua declinazione massima assoluta. Allo stesso modo, quando due settimane dopo sorge nel suo punto più meridionale in assoluto, la declinazione nel punto di culmine sarà la minima assoluta.

Mentre i due solstizi avvengono nell’arco di un anno, per la Luna i due lunistizi avvengono ogni 27 giorni. Il punto di levata della Luna nel corso tempo si sposta sempre di più verso nord e verso sud, alternandosi, e la declinazione aumenta (in valore assoluto). In questo intervallo di tempo, i due momenti in cui la Luna sorge più a nord e più a sud rispetto agli altri giorni definiscono rispettivamente il lunistizio settentrionale e quello meridionale. Quindi, nel corso di ciascun periodo orbitale della Luna (mese siderale) hanno luogo due lunistizi, a distanza di circa 14 giorni, così come durante ciascun periodo orbitale della Terra (anno) si verificano i due solstizi.

Il piano orbitale della Luna è inclinato di 5,14° rispetto al piano dell’eclittica. Ciò implica che gli estremi dell’intervallo di declinazione massima della Luna siano di +28,64° (+23,5°+5,14°) e -28,64° (–23,5°-5,14°). Questi valori, i punti estremi assoluti che possono essere raggiunti, definiscono i lunistizi maggiori.

Considerando la complessità dei moti lunari, i due lunistizi maggiori si verificano solo ogni 18,6 anni. A metà “strada”, tuttavia, si assiste ai lunistizi minori, durante i quali la declinazione della Luna è compresa tra -18,36° (-23,5°+5,14°) e +18,36° (+23,5°-5,14).

Il grafico mostra l’andamento della declinazione della Luna durante nel corso del mese di marzo. È evidente il picco massimo di circa +28° il 7 marzo, in occasione del lunistizio maggiore settentrionale, e l’equivalente picco minimo di circa -28° con il lunistizio maggiore meridionale.
NOTA: per definizione la declinazione non dipende dal luogo di osservazione (coordinate equatoriali), a differenza dell’altezza (coordinate alt-azimutali).

Cosa è accaduto all’alba del 22 marzo?

Dopo il Lunistizio maggiore settentrionale del 7 marzo, abbiamo assistito a quello meridionale: la Luna è sorta nel punto più meridionale degli ultimi 18,6 anni raggiungendo la declinazione di -28,64° e tramontando percorrendo un arco molto basso. La Luna ha raggiunto al culmine la declinazione più bassa degli ultimi 18,6 anni, ovvero dallo stesso luogo di osservazione non è mai vista così bassa negli ultimi due decenni, e dovremo attendere altrettanto perché l’evento si ripeta!

L’immagine mostra la posizione della Luna in vari momenti della giornata, poco dopo l’alba all’1:46 e poco prima del tramonto alle 10:09 della Luna. La simulazione fa riferimento alle coordinate di osservazione di Napoli (40°50′49.20″ N 14°15′54.00″ E.)

La Luna, con i suoi 22,09 giorni trascorsi dal novilunio, era illuminata per il 53,9% (gibbosa calante).

Dove Alba della Luna Tramonto della Luna Altezza sull’orizzonte 
Sicilia 01:25 10:35 23°
Campania 01:45 10:15 19°
Emilia Romagna 02:15 10:10 16°
Alto Adige 02:25 10:00 14°

Tianwen-2 missione cinese di atterraggio sull’asteroide 2016 HO3

la Cina si prepara a lanciare la missione Tianwen-2 nel 2025, con l’obiettivo di esplorare 2016 HO3 (469219 Kamo’oalewa), un asteroide di piccole dimensioni ma di grande interesse scientifico.

Perché 2016 HO3?

2016 HO3 è il quasi-satellite più vicino e stabile della Terra, il che lo rende un obiettivo perfetto per le missioni di esplorazione. La missione Tianwen-2 prevede un’operazione complessa di esplorazione ravvicinata, atterraggio e prelievo di campioni, con l’obiettivo di riportare sulla Terra materiale che potrebbe fornire informazioni cruciali sulla formazione degli asteroidi e sulla loro composizione. Inoltre, la missione studierà anche la cometa della fascia principale 311P, realizzando una doppia esplorazione con un solo lancio.

Uno dei principali ostacoli nell’esplorazione di 2016 HO3 è la sua scarsa luminosità, che rende difficile determinarne la composizione e la struttura. Per affrontare questa sfida, gli scienziati hanno sviluppato tecniche avanzate di analisi spettroscopica e intelligenza artificiale per ottenere dati più precisi.

Orbita dell’asteroide 2016 HO3 intorno alla Terra. L’asteroide viene considerato quasi un mini satellite. Credit: NASA

L’Intelligenza Artificiale nella Classificazione degli Asteroidi

Un team di ricercatori ha sviluppato una piattaforma innovativa basata su reti neurali profonde con meccanismo di attenzione Transformer, capace di analizzare in modo avanzato la composizione degli asteroidi. La piattaforma comprende tre modelli principali:

  • ASC-Net, per la classificazione spettrale degli asteroidi, con un’accuratezza del 94,58% per quattro classi e del 95,69% per undici classi.
  • AAE-Net, per la stima dell’albedo (la quantità di luce riflessa dalla superficie), con un errore medio assoluto di 0,0308 per gli asteroidi di tipo S.
  • AE-Trans, una rete specializzata nell’analisi della composizione chimica, che ha ottenuto un errore medio di 0,1759 nella stima dell’abbondanza degli elementi.

Questi algoritmi avanzati permettono di superare i limiti dei metodi tradizionali, fornendo una classificazione e un’analisi più dettagliata anche per asteroidi mai studiati in precedenza.

Test su Asteroidi Noti

Per verificare l’affidabilità della piattaforma, i ricercatori l’hanno testata su sei asteroidi già noti:

  • Ceres (1) e Bennu (101955), entrambi classificati correttamente come asteroidi di tipo C.
  • Itokawa (25143) e Eros (433), riconosciuti come asteroidi di tipo S con un’accuratezza superiore all’84%.
  • Kalliope (22) e Angelina (64), identificati come asteroidi di tipo X.

I risultati hanno confermato l’affidabilità del sistema, dimostrando la sua capacità di effettuare analisi accurate anche su dati mai visti prima.

Implicazioni per il Futuro

Se la missione Tianwen-2 avrà successo, non solo ci fornirà nuove informazioni su 2016 HO3, ma potrà anche aprire la strada a future missioni di estrazione mineraria dagli asteroidi, offrendo opportunità concrete per lo sfruttamento delle risorse spaziali e lo sviluppo di nuove tecnologie per l’esplorazione interplanetaria.

Per approfondire lo studio originale: IOP Science.

Nuovi confini per i pianeti ultra-short period: uno studio riconsidera la soglia di 1 giorno

Un nuovo studio ad opera degli autori Armaan V. Goyal e Songhu Wang dell’Università di Yale, pubblicato su The Astronomical Journal e in collaborazione con le missioni spaziali Kepler, K2 e TESS, suggerisce una nuova catalogazione per i pianeti con periodi ultra corti.

Introduzione: un nuovo sguardo ai pianeti con periodo ultra-corto

Gli Ultra-Short-Period Planets (USPs), o pianeti ultra-corti periodo, sono mondi estremamente vicini alla loro stella madre, completando un’intera orbita in meno di 24 ore. Tradizionalmente, gli astronomi hanno utilizzato questo valore come confine per distinguere gli USPs dagli altri pianeti con periodi più lunghi. Tuttavia, una nuova ricerca di Armaan V. Goyal e Songhu Wang, pubblicata su The Astronomical Journal, suggerisce che questa soglia potrebbe essere arbitraria e propone una classificazione più basata sui dati.

Architetture orbitali dei 49 sistemi di pianeti ultra-corti periodo (USP) considerati in questo studio.
Le dimensioni dei marcatori nella figura corrispondono al raggio dei pianeti. I marcatori pieni rappresentano oggetti confermati all’interno del NASA Exoplanet Archive (NEA) (R. L. Akeson et al. 2013), mentre i marcatori vuoti si riferiscono a candidati individuati dalle missioni Kepler (J. J. Lissauer et al. 2024), TESS (dal catalogo aggiornato TESS Input Catalog di K. G. Stassun et al. 2019) o dal database dei candidati del programma K2 (R. L. Akeson et al. 2013).
Dall’analisi emerge che gli USPs (in rosso) sono quasi esclusivamente più piccoli di 2 raggi terrestri (2R⊕) e tendono a mostrare ampie separazioni orbitali rispetto ai loro pianeti compagni non-USP (in nero).

Lo studio: analisi di centinaia di sistemi planetari

I ricercatori hanno analizzato 376 sistemi planetari scoperti grazie alle missioni spaziali della NASA Kepler, K2 e TESS, che hanno identificato migliaia di esopianeti (pianeti al di fuori del nostro Sistema Solare). L’obiettivo era verificare se esistano limiti naturali nei periodi orbitali degli USPs, piuttosto che basarsi su un valore scelto in modo arbitrario.

Dai dati emerge che gli USPs tendono ad essere più piccoli rispetto ai pianeti con periodi leggermente più lunghi. Inoltre, sono spesso isolati, nel senso che non hanno compagni planetari molto vicini. La loro separazione architettonica all’interno dei sistemi suggerisce una possibile origine ed evoluzione diversa rispetto agli altri pianeti a corto periodo.

Le nuove soglie proposte: non solo 1 giorno, ma anche 2

L’analisi statistica di Goyal e Wang ha evidenziato due confini naturali:

  • 1 giorno: questo valore corrisponde a un cambiamento significativo nelle dimensioni dei pianeti. Quelli con periodi inferiori a 24 ore sono più piccoli, probabilmente a causa della perdita di materiale dovuta alla forte radiazione stellare.
  • 2 giorni: oltre questa soglia, i pianeti non mostrano più la tendenza all’isolamento. Ciò significa che i pianeti con periodi compresi tra 1 e 2 giorni potrebbero rappresentare una classe intermedia, definita dagli autori come “proto-USPs”.

Questa scoperta suggerisce che i pianeti con orbite di 1-2 giorni potrebbero essere una fase di transizione tra i pianeti più vicini e quelli leggermente più distanti, con possibili implicazioni sulla loro formazione ed evoluzione.

Perché gli USPs sono così piccoli e isolati?

Gli autori propongono diversi scenari per spiegare la natura degli USPs:

  1. Perdita di massa per evaporazione: la vicinanza estrema alla stella provoca temperature elevatissime, sufficienti a far evaporare gli strati più esterni del pianeta, riducendone le dimensioni nel tempo.
  2. Migrazione orbitale: alcuni USPs potrebbero essersi formati più lontano dalla stella e successivamente essere migrati verso l’interno a causa di interazioni gravitazionali con altri pianeti.
  3. Tidal decay (decadimento mareale): le forze gravitazionali della stella potrebbero aver influenzato lentamente l’orbita di questi pianeti, portandoli sempre più vicini.

Implicazioni e futuro della ricerca

Questi risultati offrono una nuova prospettiva sulla classificazione degli esopianeti e suggeriscono che l’attuale confine di 1 giorno potrebbe non essere sufficiente a descrivere la diversità dei pianeti ultra-corti periodo. La scoperta di un possibile confine a 2 giorni invita a riconsiderare i modelli di formazione ed evoluzione di questi mondi estremi.

Le future missioni spaziali, come il telescopio spaziale James Webb (JWST), potranno fornire ulteriori dettagli sulla composizione e l’atmosfera degli USPs, confermando o modificando le teorie attuali.

In conclusione, questo studio di Goyal e Wang non solo ridefinisce il modo in cui classifichiamo gli USPs, ma apre nuove strade per comprendere come i pianeti si evolvono in ambienti estremi. Una scoperta che ci avvicina sempre di più alla comprensione della straordinaria varietà di mondi che popolano la nostra galassia.

JADES-GS-z14-0: Una Finestra sul Primo Universo da ALMA

Questa immagine mostra la posizione esatta nel cielo notturno della galassia **JADES-GS-z14-0**, un minuscolo punto luminoso nella costellazione della Fornace. Ad oggi, è la galassia confermata più distante che conosciamo. La sua luce ha viaggiato per **13,4 miliardi di anni** prima di raggiungerci, offrendoci uno sguardo sulle condizioni dell’Universo quando aveva appena **300 milioni di anni**. Nel riquadro dell’immagine è visibile un primo piano di questa galassia primordiale, catturato con l’**Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA)**. L’ingrandimento è sovrapposto a un'immagine ottenuta con il **Telescopio Spaziale James Webb** (NASA/ESA/CSA). Quando due gruppi di ricerca hanno studiato questa galassia con **ALMA**, gestito dall'**ESO** e dai suoi partner internazionali, hanno fatto una scoperta inaspettata: il **suo spettro mostrava la presenza di ossigeno**. Si tratta della rilevazione di ossigeno più distante mai effettuata, un risultato che sfida le nostre conoscenze sulla formazione delle galassie nell’Universo primordiale. La presenza di elementi pesanti come l'ossigeno suggerisce che queste galassie primordiali si siano **evolute molto più rapidamente di quanto pensassimo**. È come **trovare un adolescente dove ci si aspetterebbe solo neonati**. **Crediti:** ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).

L’Universo primordiale continua a stupirci. Gli astronomi hanno recentemente ottenuto nuove osservazioni della galassia JADES-GS-z14-0, un oggetto celeste che risale a soli 300 milioni di anni dopo il Big Bang. Questa galassia, la più lontana mai confermata fino ad oggi, offre uno sguardo prezioso sulle prime fasi della formazione delle strutture cosmiche.

Grazie alle osservazioni del telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), gli scienziati hanno potuto identificare con estrema precisione la distanza di GS-z14, ottenendo un redshift di z = 14.1793 ± 0.0007. Ciò rappresenta un miglioramento di ben 180 volte rispetto alle precedenti stime effettuate con il telescopio spaziale James Webb (JWST).

Una delle scoperte più sorprendenti riguarda la presenza di ossigeno ionizzato nella galassia. Questa rilevazione non solo conferma la sua esistenza, ma dimostra che anche nelle prime fasi dell’Universo si erano già formati elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, indicando una rapida evoluzione chimica.

Una Misurazione Straordinariamente Precisa

L’ossigeno rilevato in JADES-GS-z14-0 non è solo un’indicazione della sua composizione chimica, ma ha anche permesso agli astronomi di calcolare con un’incredibile precisione la sua distanza.

“La rilevazione con ALMA ha permesso di misurare la distanza di questa galassia con un margine di errore dello 0,005 percento. È una precisione straordinaria, paragonabile all’accuratezza di una misura al centimetro su una distanza di un chilometro”, spiega Eleonora Parlanti, dottoranda presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e autrice dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics.

Questa precisione aiuta gli scienziati a comprendere meglio le proprietà delle galassie lontane e a migliorare le nostre teorie sulla loro evoluzione.


Un Profilo Unico tra le Galassie Primordiali

JADES-GS-z14-0 si distingue per una serie di caratteristiche insolite rispetto ad altre galassie dell’epoca primordiale:

  • È sorprendentemente luminosa: la sua magnitudine ultravioletta è MUV = −20.81 ± 0.16, rendendola la seconda galassia più brillante oltre z > 8, superata solo da GN-z11.
  • Ha una struttura estesa e diffusa: a differenza di molte altre galassie giovani che appaiono compatte, GS-z14 è distribuita su un’area più ampia. Questo indica che la sua luce proviene da una popolazione stellare diffusa e non da un buco nero attivo.
  • È più ricca di elementi pesanti del previsto: nonostante la giovane età dell’Universo in cui si trova, ha già una certa quantità di ossigeno e carbonio, suggerendo una formazione stellare molto rapida.
  • Non mostra segni di polvere cosmica: le osservazioni ALMA non hanno rilevato alcuna emissione significativa di polvere, sollevando domande su come e quando questa componente sia comparsa nelle galassie primordiali.

La Scoperta dell’Ossigeno e la Conferma della Galassia

La chiave della conferma di JADES-GS-z14-0 è stata la rilevazione della riga di emissione dell’ossigeno ionizzato [OIII] a 88 micron con ALMA. Questa linea è stata rilevata con una certezza del 6.6σ, il che significa che la scoperta è altamente affidabile.

Questa nuova misurazione ha anche confermato una precedente rilevazione fatta dal telescopio JWST. JWST aveva individuato un possibile segnale di emissione del doppietto CIII]1907,1909 (ioni di carbonio), ma con una certezza minore di 3.6σ. Il fatto che il redshift misurato con ALMA coincida con quello stimato tramite il carbonio rafforza enormemente l’affidabilità della scoperta.

L’ossigeno ionizzato è particolarmente importante perché indica la presenza di regioni HII, nuvole di gas ionizzato attorno a stelle giovani e calde. Questo suggerisce che GS-z14 stia attraversando un’intensa fase di formazione stellare.

L’immagine mostra nel riquadro JADES-GS-z14-0, la galassia più distante conosciuta fino ad oggi, osservata con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). I due spettri riportati derivano da analisi indipendenti dei dati di ALMA condotte da due gruppi di astronomi. Entrambi hanno identificato una linea di emissione dell’ossigeno, rendendola la rilevazione più lontana di questo elemento, risalente a un’epoca in cui l’Universo aveva solo 300 milioni di anni.
Crediti:
ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).

Cosa Significa la Mancanza di Polvere?

Uno degli aspetti più sorprendenti di JADES-GS-z14-0 è l’assenza di polvere cosmica. Le osservazioni ALMA hanno stabilito un limite superiore alla quantità di polvere, suggerendo che questa rappresenti meno dello 0.2% della massa totale delle stelle della galassia.

Ci sono diverse possibili spiegazioni per questa scoperta:

La polvere potrebbe non essersi ancora formata in grandi quantità.
In molte galassie giovani, la polvere viene prodotta principalmente dalle supernovae e dalle stelle morenti, ma GS-z14 potrebbe essere ancora troppo giovane perché questo processo abbia avuto un impatto significativo.

La polvere potrebbe essere stata espulsa da venti stellari intensi.
Se la galassia sta formando stelle a un ritmo molto alto, potrebbe generare venti così forti da spazzare via la polvere, lasciandola più “trasparente” rispetto ad altre galassie simili.

Forse la polvere è distribuita in modo molto ampio e non concentrata nella regione osservata.
Se la polvere fosse sparsa su una grande area, potrebbe risultare più difficile da individuare con ALMA.

Questa mancanza di polvere suggerisce che, all’epoca di JADES-GS-z14-0, i processi di formazione della polvere nell’Universo fossero ancora in fase iniziale.


Le Implicazioni della Scoperta

La scoperta di JADES-GS-z14-0 ha importanti implicazioni per l’astronomia e la cosmologia:

1. Le prime galassie si sono formate più rapidamente del previsto?

L’elevata quantità di ossigeno suggerisce che JADES-GS-z14-0 abbia attraversato un periodo di formazione stellare estremamente rapido. Questo contrasta con alcune teorie che prevedevano una crescita più lenta delle prime galassie.

2. L’assenza di polvere cambia il nostro modello dell’Universo primordiale?

Molte osservazioni a redshift inferiori hanno mostrato abbondanza di polvere nelle galassie antiche. JADES-GS-z14-0 suggerisce che la polvere non fosse ancora diffusa nell’Universo così presto nella sua storia.

3. ALMA e JWST sono strumenti complementari per esplorare l’Universo primordiale.

La combinazione di dati di ALMA e JWST si è rivelata fondamentale per confermare questa galassia e studiarne le caratteristiche. Questo dimostra che, per esplorare l’Universo primordiale, non basta un solo telescopio, ma è necessario combinare osservazioni in diverse lunghezze d’onda.

Questa immagine mostra la posizione esatta nel cielo notturno della galassia **JADES-GS-z14-0**, un minuscolo punto luminoso nella costellazione della Fornace. Ad oggi, è la galassia confermata più distante che conosciamo. La sua luce ha viaggiato per **13,4 miliardi di anni** prima di raggiungerci, offrendoci uno sguardo sulle condizioni dell’Universo quando aveva appena **300 milioni di anni**.
Nel riquadro dell’immagine è visibile un primo piano di questa galassia primordiale, catturato con l’**Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA)**. L’ingrandimento è sovrapposto a un’immagine ottenuta con il **Telescopio Spaziale James Webb** (NASA/ESA/CSA).
Quando due gruppi di ricerca hanno studiato questa galassia con **ALMA**, gestito dall’**ESO** e dai suoi partner internazionali, hanno fatto una scoperta inaspettata: il **suo spettro mostrava la presenza di ossigeno**. Si tratta della rilevazione di ossigeno più distante mai effettuata, un risultato che sfida le nostre conoscenze sulla formazione delle galassie nell’Universo primordiale. La presenza di elementi pesanti come l’ossigeno suggerisce che queste galassie primordiali si siano **evolute molto più rapidamente di quanto pensassimo**. È come **trovare un adolescente dove ci si aspetterebbe solo neonati**.
**Crediti:**
ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Carniani et al. / S. Schouws et al. / JWST: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA).

JADES-GS-z14-0 è una delle scoperte più straordinarie degli ultimi anni. Questa galassia sfida le nostre teorie sulla formazione dell’Universo primordiale, mostrando una sorprendente abbondanza di ossigeno e l’assenza di polvere.

Grazie alla precisione senza precedenti delle osservazioni ALMA, gli scienziati hanno confermato che GS-z14 è la galassia più lontana mai osservata con un margine di errore incredibilmente ridotto. Questa scoperta segna un passo fondamentale nello studio delle prime fasi dell’evoluzione cosmica, offrendo una finestra unica sul passato più remoto dell’Universo.

Fonti: Articolo Carniani et al. ; Articolo Schouws et al. ; ESO

Il telescopio Euclid dell’ESA svela nuovi dettagli sul web cosmico e la materia oscura

Questa immagine mostra un ingrandimento del campo profondo nord di Euclid, con la Nebulosa Occhio di Gatto al centro, a circa 3.000 anni luce di distanza. Conosciuta anche come NGC 6543, questa nebulosa rappresenta un "fossile visivo" delle dinamiche e dell'evoluzione finale di una stella morente. La stella in fase di morte sta infatti espellendo i suoi strati esterni colorati. Descrizione immagine: La Nebulosa Occhio di Gatto occupa la posizione centrale in un mare scintillante di stelle e galassie. Al centro della nebulosa si trova un punto, il nucleo della stella morente. Attorno ad essa si estendono strati e anelli complessi e colorati di gas e polvere che sono stati espulsi dalla stella nel corso del tempo. Più lontano, si vedono fili e macchie di gas e polvere di varie forme e dimensioni, che danno l'impressione di frammenti di un palloncino esploso, congelati intorno al punto di esplosione. Sullo sfondo, milioni di galassie popolano l'immagine. Numerose stelle brillanti con picchi di diffrazione distintivi sono chiaramente visibili. CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell'immagine a cura di J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi.

Il 19 marzo 2025, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha rilasciato il primo lotto di dati provenienti dalla missione Euclid, una delle missioni spaziali più ambiziose dedicate allo studio dell’Universo. In particolare, i dati includono una panoramica dei “deep fields” (campi profondi), aree del cielo osservate in dettaglio che rivelano centinaia di migliaia di galassie in varie forme e dimensioni. Questi dati offrono uno spunto sulle forze invisibili che plasmano l’Universo.

Euclid sta mappando una vasta area del cielo, e il rilascio iniziale copre 63,1 gradi quadrati, equivalenti a oltre 300 volte l’area della Luna piena. Con una sola settimana di osservazioni, il telescopio ha già individuato 26 milioni di galassie, molte delle quali si trovano fino a 10,5 miliardi di anni luce di distanza. I campi profondi includono anche quasar luminosi, che si trovano ancora più lontano, e galassie in formazione. A lungo termine, Euclid osservando queste regioni centinaia di volte, produrrà un atlante cosmico che coprirà un terzo dell’intero cielo.

Valeria Pettorino, scienziata del progetto Euclid per l’ESA, ha commentato: “È impressionante come una sola osservazione delle aree profonde abbia già fornito una grande quantità di dati utilizzabili in astronomia, dalle forme delle galassie, ai cluster, alla formazione stellare e altro ancora.

Euclid è equipaggiato con due strumenti principali: l’Imaging ad Alta Risoluzione Visibile (VIS) e lo Spettrometro e Fotometro Infrarosso a Vicino (NISP). Questi strumenti permettono di studiare la distribuzione, la forma e le distanze delle galassie con un dettaglio senza precedenti. L’obiettivo finale di Euclid è mappare la struttura su larga scala dell’Universo, compreso il misterioso web cosmico, costituito da filamenti di materia ordinaria e oscura che attraversano lo spazio.

L’importanza di Euclid si estende anche al ruolo che l’intelligenza artificiale (AI) e la scienza dei cittadini stanno giocando nell’analisi dei dati. Grazie all’uso di algoritmi avanzati di AI e a un impegno globale di migliaia di volontari, Euclid è riuscito a classificare oltre 380.000 galassie, analizzando le loro caratteristiche come braccia a spirale e barre centrali. Mike Walmsley, scienziato del Consorzio Euclid presso l’Università di Toronto, ha dichiarato: “Stiamo vivendo un momento decisivo per affrontare i grandi sondaggi in astronomia. L’AI è fondamentale per sfruttare pienamente i vasti dati di Euclid.

Questa immagine mostra esempi di galassie di diverse forme, tutte catturate da Euclid durante le sue prime osservazioni delle aree dei Deep Field.
Come parte del rilascio dei dati, è stato pubblicato un catalogo dettagliato di oltre 380.000 galassie, classificate in base a caratteristiche come le braccia a spirale, le barre centrali e le code di marea, che indicano galassie in fase di fusione.
Descrizione immagine: Un collage di 9 righe per 5 colonne contenente galassie di forme molto diverse, viste da diverse angolazioni. Ad esempio, la prima colonna mostra cinque galassie viste di lato, che appaiono sottili come una matita. Le galassie della seconda colonna hanno un aspetto più sfocato e diffuso. Le colonne centrali presentano galassie a spirale viste frontalmente, con molteplici forme e densità di stelle. Le ultime due colonne includono galassie interagenti o galassie con braccia a spirale o code di marea insolite.
CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell’immagine a cura di M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre.

Euclid ha anche iniziato a raccogliere dati su un fenomeno noto come lente gravitazionale, che si verifica quando la luce proveniente da galassie distanti viene distorta dalla materia oscura e ordinaria. Questa distorsione può creare effetti spettacolari come gli anelli di Einstein. Con l’ausilio di modelli AI e scienza dei cittadini, Euclid ha già identificato 500 candidati di lente gravitazionale forte, quasi tutti precedentemente sconosciuti.

Questa immagine mostra esempi di lenti gravitazionali catturate da Euclid durante le sue prime osservazioni delle aree dei Deep Field.
Grazie a un primo monitoraggio tramite modelli di intelligenza artificiale, seguito da un’analisi tramite scienza dei cittadini, convalidata da esperti e modellata, è stato creato un primo catalogo contenente 500 candidati di lenti gravitazionali forti tra galassie, quasi tutti precedentemente sconosciuti. Questo tipo di lente gravitazionale si verifica quando una galassia in primo piano e il suo alone di materia oscura agiscono come una lente, distorcendo l’immagine di una galassia sullo sfondo lungo la linea di vista verso Euclid.
Con l’ausilio di questi modelli, Euclid prevede di catturare circa 7.000 candidati nel grande rilascio dei dati cosmologici previsto per la fine del 2026, e circa 100.000 lenti gravitazionali forti tra galassie entro la fine della missione, circa 100 volte in più rispetto a quanto conosciuto attualmente.
Descrizione immagine: Un collage di 14 righe per 8 colonne contenente esempi di lenti gravitazionali. Ogni esempio mostra un centro brillante con sbavature di stelle disposte in un arco o in più archi intorno ad esso, a causa della luce che viaggia verso Euclid da galassie distanti, piegata e distorta dalla materia ordinaria e oscura in primo piano. In alcuni casi rari, la distorsione forma un anello completo, creando un cosiddetto “Anello di Einstein”.
CREDIT: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, elaborazione dell’immagine a cura di M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre.

 

NB: In Coelum Astronomia 273 l’articolo completo dedicato alla ricerca di lenti gravitazione grazie all’uso di Euclid, dell’intelligenza artificiale e della science citizen. Articolo a cura di Crescenzo Tortora.

 

Clotilde Laigle, scienziata del Consorzio Euclid e esperta di elaborazione dati presso l’Istituto di Astrofisica di Parigi, ha aggiunto: “Il pieno potenziale di Euclid per imparare di più sulla materia oscura e sull’energia oscura sarà raggiunto solo al termine dell’intero sondaggio. Tuttavia, la quantità di dati rilasciati finora ci offre una visione unica sull’organizzazione delle galassie su larga scala.

Euclid è il risultato di una collaborazione internazionale, con il coinvolgimento di oltre 2000 scienziati provenienti da 300 istituti in 15 paesi europei, oltre a Stati Uniti, Canada e Giappone. Il consorzio Euclid ha progettato e gestito gli strumenti scientifici, mentre NASA ha contribuito con i rilevatori del NISP.

Fonte: ESA

Firefly Blue Ghost: primo lander lunare privato a completare la missione

Il lander Blue Ghost di Firefly ha catturato un'immagine al tramonto, con la Terra visibile all'orizzonte. Crediti: Firefly Aerospace.

Grande successo per l’azienda americana Firefly Aerospace che con il suo lander Blue Ghost diventa la prima realtà completamente privata a completare una missione sulla Luna.

Il Lancio

Il 15 gennaio 2025, la missione ha avuto inizio con il decollo del razzo Falcon 9 di SpaceX dal Kennedy Space Center. Dopo la separazione dal veicolo di lancio, il lander Blue Ghost ha stabilito il contatto con il centro di controllo missione di Firefly Aerospace a Cedar Park, Texas. Nei giorni successivi, ha eseguito le manovre orbitali necessarie per uscire dall’orbita terrestre e iniziare il suo viaggio verso la Luna.

Blue Ghost posizionato nello SpaceX Falcon 9. Credit: SpaceX

Gli Obiettivi della Missione

Blue Ghost Mission 1, finanziata principalmente dalla NASA nell’ambito del programma Commercial Lunar Payload Services (CLPS), aveva il compito di trasportare e operare dieci payload scientifici sulla superficie lunare. Tra gli esperimenti principali vi erano il Lunar GNSS Receiver Experiment (LuGRE), sviluppato in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana, il Lunar Instrumentation for Subsurface Thermal Exploration (LISTER) della Texas Tech University e il Lunar Magnetotelluric Sounder (LMS) dello Southwest Research Institute. Inoltre, Blue Ghost ha testato la tecnologia Lunar PlanetVac di Honeybee Robotics per la raccolta e analisi del suolo lunare.

Firefly’s Blue Ghost cattura la Terra (Palla Blu) approsimativamente a 6,700 km di distanza il 23 gennaio 2025. Credit: Firefly Aerospace

L’Attività sulla Luna

Dopo un viaggio di circa sei settimane, Blue Ghost ha eseguito un atterraggio morbido nella regione del Mare Crisium il 2 marzo 2025. Durante le prime ore sulla superficie lunare, il lander ha attivato i suoi strumenti scientifici e ha trasmesso le prime immagini del sito di atterraggio. Tra i risultati più significativi, la missione ha catturato immagini spettacolari della Terra all’orizzonte, ha assistito a un’eclissi solare dalla superficie lunare e ha registrato la variazione di temperatura durante il fenomeno, con valori che oscillavano tra 40°C e -170°C.

Le operazioni scientifiche si sono protratte per oltre due settimane, durante le quali il lander ha completato tutte le sue attività previste, compreso lo studio dell’interazione delle polveri lunari con i gas di scarico dei motori tramite il sistema SCALPSS della NASA. Inoltre, ha contribuito a migliorare la comprensione della geologia lunare con il deployment degli elettrodi del Lunar Magnetotelluric Sounder.

Blue Ghost ha anche avuto l’opportunità di osservare un’eclissi solare totale dalla Luna, mentre dalla Terra lo stesso evento è stato visto come un’eclissi lunare. Questo ha rappresentato un momento storico per la missione, dato che nessuna compagnia commerciale aveva mai condotto un’osservazione di questo tipo direttamente dalla superficie lunare.

Firefly Aerospace si è distinta come la prima azienda privata a realizzare con successo un atterraggio morbido sulla Luna senza incidenti, un traguardo che non era stato raggiunto da altre compagnie nei tentativi precedenti. Finora, solo cinque nazioni – Stati Uniti, Russia, Cina, India e Giappone – avevano ottenuto un simile successo.

Il Tramonto della Missione

Man mano che il Sole scendeva all’orizzonte lunare, Blue Ghost ha iniziato a prepararsi alla fase conclusiva della missione. Il 16 marzo 2025, poco dopo l’inizio della notte lunare, il lander ha trasmesso il suo ultimo segnale, stabilendo un nuovo record per la durata operativa di una missione commerciale sulla Luna con 346 ore di attività continua in condizioni di luce diurna e oltre cinque ore di operazioni nel buio lunare. Il CEO di Firefly Aerospace, Jason Kim, ha annunciato il completamento della missione con un messaggio emozionante, sottolineando come “il Ghost vivrà nei nostri cuori e nelle nostre menti per il viaggio straordinario che ci ha fatto compiere”.

Le ultime immagini del tramonto lunare catturate dal lander saranno pubblicate da Firefly Aerospace nei giorni successivi alla fine della missione. Nel frattempo, l’azienda ha già iniziato a lavorare al suo prossimo lander lunare, con l’obiettivo di eseguire almeno un atterraggio sulla Luna all’anno.

Con la conclusione della missione, Firefly Aerospace ha consolidato il proprio ruolo nell’esplorazione spaziale commerciale, dimostrando la fattibilità di missioni lunari con lander autonomi in supporto a futuri programmi di esplorazione, come Artemis. Questo storico traguardo apre la strada a nuove opportunità per la ricerca scientifica e lo sviluppo di tecnologie per l’esplorazione del nostro satellite naturale e, in prospettiva, di Marte.

Il lander lunare Blue Ghost di Firefly ha catturato un’immagine della sua ombra sulla superficie della Luna, con la formazione vulcanica Mons Latreille visibile nella parte superiore destra.
Crediti: Firefly Aerospace

Fonte: Firefly Site

Un nuovo metodo di analisi dei dati rivela l’esopianeta AF Lep b con oltre un decennio di anticipo

Nel vasto universo della ricerca astronomica, il rilevamento degli esopianeti continua a essere una sfida affascinante e complessa. Un recente studio, pubblicato su The Astronomical Journal da Markus J. Bonse e un team di ricercatori internazionali, ha introdotto un’innovativa tecnica di analisi dei dati chiamata 4S (Signal-Safe Speckle Subtraction). Questo metodo ha permesso di individuare l’esopianeta gigante AF Lep b nei dati di imaging ad alto contrasto raccolti già nel 2011, anticipando di 11 anni la sua effettiva scoperta.

Il problema dell’imaging ad alto contrasto (HCI)

L’osservazione diretta degli esopianeti è ostacolata dalla luminosità delle stelle ospiti, che spesso supera di ordini di grandezza quella dei pianeti circostanti. Inoltre, il rumore speckle, generato dalla turbolenza atmosferica e dalle imperfezioni dell’ottica del telescopio, rappresenta una sfida ulteriore per gli astronomi.

Negli ultimi anni, sono state sviluppate varie tecniche di post-elaborazione per mitigare questo problema. Uno dei metodi più utilizzati è l’Analisi delle Componenti Principali (PCA), che tenta di separare il rumore dal segnale del pianeta. Tuttavia, come evidenziato dallo studio, la PCA può accidentalmente rimuovere anche una parte significativa del segnale planetario.

Il metodo 4S: un passo avanti

Grazie all’apprendimento automatico spiegabile (Explainable AI), Bonse e colleghi hanno analizzato le limitazioni della PCA e sviluppato il metodo 4S (Signal-Safe Speckle Subtraction). Questo nuovo algoritmo introduce tre innovazioni principali:

  1. Vincolo della ragione corretta: un filtro che impedisce al modello di apprendere la forma del rumore speckle in modo errato, evitando la rimozione del segnale del pianeta.
  2. Funzione di perdita invariante al segnale del pianeta: una nuova strategia che minimizza l’influenza del segnale planetario sulla stima del rumore.
  3. Regolarizzazione basata sulla conoscenza del dominio: un approccio che limita la complessità del modello, riducendo il rischio di sovradattamento ai dati.

Applicando il metodo 4S a 11 set di dati raccolti dallo strumento NACO del Very Large Telescope (VLT) nella banda L’ (La banda L fa parte dello spettro elettromagnetico delle onde UHF, ed in particolare va da 1 a 2 GHz), il team ha ottenuto risultati superiori rispetto alla PCA, con un miglioramento del contrasto fino a 1,5 magnitudini a separazioni ravvicinate dalla stella.

La scoperta anticipata di AF Lep b

Uno dei risultati più sorprendenti dello studio è stato il rilevamento di AF Lep b nei dati VLT-NACO del 2011. Questo esopianeta, scoperto ufficialmente solo nel 2022 con strumenti più moderni come VLT-SPHERE e Keck-NICR2, era già presente nei dati di archivio, ma il segnale era troppo debole per essere individuato con le tecniche di analisi tradizionali. Grazie all’applicazione di 4S, il pianeta è stato rivelato con un rapporto segnale-rumore sufficiente per confermare la sua presenza.

Immagini residue del set di dati AF Lep per diverse impostazioni degli iperparametri dell’algoritmo (componenti principali K per PCA e forza di regolarizzazione λ per 4S). Il pianeta AF Lep b è a malapena visibile nei residui della PCA. Per 4S, qualsiasi scelta di parametri porta a una rilevazione chiara, evidenziando la robustezza del metodo.

Implicazioni per la ricerca sugli esopianeti

Il successo di 4S apre nuove prospettive per la rianalisi dei dati di archivio, potenzialmente portando alla scoperta di altri esopianeti nascosti. Inoltre, il miglioramento nella riduzione del rumore speckle potrebbe permettere il rilevamento di pianeti più piccoli e vicini alle loro stelle, riducendo il divario tra le tecniche di imaging diretto e quelle basate sulla velocità radiale.

SpaceX Crew-9: Rientro previsto il 18 marzo alle 22:57 UTC+1

Il rientro della nona missione operativa di SpaceX con equipaggio dalla Stazione Spaziale Internazionale è previsto per martedì 18 marzo alle 22:57 ora italiana (UTC+1), con ammaraggio al largo della costa della Florida.

Chi sta tornando sulla Terra?

L’equipaggio della Crew Dragon Freedom include due astronauti che hanno lanciato con la navetta e due membri dell’equipaggio della ISS,  Butch Wilmore e Suni Williams, che erano arrivati lo scorso giugno a bordo della Starliner di Boeing, che allora era atterrata senza di loro.

Quando e dove avverrà l’ammaraggio?

  • Inizio del live streaming: A partire dalle 21:45 UTC+1 (16:45 EDT, 20:45 GMT).
  • Manovra di deorbitazione: Prevista per le 22:11 UTC+1 (17:11 EDT, 21:11 GMT).
  • Ammaraggio: Martedì 18 marzo alle 22:57 UTC+1 (17:57 EDT, 21:57 GMT) nel Golfo del Messico.

Il rientro segna il nono rientro operativo e il decimo complessivo di SpaceX nell’ambito del contratto con il programma commerciale della NASA.

Dove guardare il rientro in diretta?

L’ammaraggio della Crew-9 sarà trasmesso in diretta sul canale ufficiale NASA di youtube https://www.youtube.com/watch?v=IDYt1l_7UvU

Missione di salvataggio: il ritorno di Butch Wilmore e Suni Williams dalla ISS

Il 1° giugno 2024, gli astronauti della NASA Barry “Butch” Wilmore e Sunita “Suni” Williams hanno lasciato la Terra a bordo della navicella Starliner della Boeing, con una missione che inizialmente prevedeva una permanenza di soli otto giorni sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Tuttavia, il viaggio si è trasformato in un’odissea spaziale di ben nove mesi a causa di una serie di problemi tecnici alla navetta, che hanno costretto la NASA a rivedere i piani di rientro e a trovare una soluzione alternativa per riportarli a casa in sicurezza.

L’inizio dell’imprevisto: il guasto della Starliner

La Starliner, progettata come una delle due navicelle commerciali per il trasporto di astronauti insieme alla Crew Dragon di SpaceX, ha incontrato difficoltà ai propulsori poco dopo l’aggancio alla ISS. Questi problemi hanno indotto la NASA a sospendere il rientro della navetta con equipaggio a bordo, preferendo riportarla sulla Terra senza astronauti per valutare le anomalie in un ambiente controllato. Il risultato di questa decisione ha lasciato Wilmore e Williams bloccati sulla ISS senza una data certa di ritorno.

Nonostante l’inconveniente, i due astronauti hanno continuato a svolgere la loro missione, contribuendo agli esperimenti scientifici e alle operazioni di manutenzione della stazione. Williams, esperta ingegnere aerospaziale e veterana di numerose missioni, ha dichiarato in diverse interviste di essersi adattata alla situazione con spirito positivo, sottolineando che “la permanenza prolungata ha permesso di contribuire in modo ancora più significativo alla ricerca in microgravità”.

Il veicolo spaziale CST-100 Starliner. Credito: Boeing

La soluzione: il lancio della missione SpaceX Crew-10

Dopo mesi di pianificazione, la NASA ha deciso di affidarsi a SpaceX per il recupero degli astronauti. La missione Crew-10, con un equipaggio di quattro astronauti – Anne McClain e Nichole Ayers della NASA, Takuya Onishi della JAXA e Kirill Peskov di Roscosmos – è stata lanciata il 14 marzo 2025 dal Kennedy Space Center in Florida. Dopo circa 29 ore di viaggio, la capsula Crew Dragon ha attraccato con successo alla ISS il 16 marzo 2025.

Al loro arrivo, l’equipaggio della Crew-10 è stato accolto con entusiasmo e sollievo dai sette membri già presenti sulla stazione. Le immagini trasmesse dalla NASA hanno mostrato abbracci e sorrisi tra i nuovi arrivati e Wilmore e Williams, che per mesi avevano vissuto l’incertezza del loro ritorno.

Anne McClain, comandante della Crew-10, ha espresso la sua gioia per il successo della missione dichiarando: “È difficile esprimere a parole la sensazione di rivedere la stazione spaziale dalla nostra finestra e di sapere che stiamo portando a termine una missione tanto importante”.

SpaceX Crew-10. Credits: NASA

Il rientro sulla Terra: una lunga attesa che volge al termine

Ora, con il cambio di equipaggio avvenuto con successo, Wilmore e Williams sono pronti a lasciare la ISS per tornare finalmente sulla Terra. Il loro rientro è previsto per il 19 marzo 2025, a bordo della stessa Crew Dragon che ha portato la Crew-10 sulla stazione. Con loro viaggeranno anche Nick Hague della NASA e Aleksandr Gorbunov di Roscosmos, che hanno completato la loro missione sulla ISS.

Il rientro segnerà la fine di una permanenza durata oltre 270 giorni, durante i quali gli astronauti hanno affrontato non solo le sfide tecniche del volo spaziale, ma anche le difficoltà psicologiche legate all’incertezza del loro ritorno. “Non vedo l’ora di rivedere la mia famiglia e i miei due cani. Credo che per loro sia stato un periodo ancora più difficile che per me”, ha detto Williams in una recente conferenza stampa.

La politica e lo spazio: un caso internazionale

La vicenda ha avuto anche risvolti politici, con il presidente Donald Trump e l’imprenditore Elon Musk che hanno accusato, senza prove, l’amministrazione Biden di aver “abbandonato” Wilmore e Williams nello spazio per ragioni politiche. Le affermazioni sono state ampiamente smentite dagli esperti del settore e da astronauti veterani come il danese Andreas Mogensen, che ha liquidato le dichiarazioni come “una menzogna senza fondamento”.

Con il loro ritorno, Wilmore e Williams entreranno nella storia come alcuni degli astronauti con la più lunga permanenza sulla ISS, un’esperienza che servirà a migliorare le future missioni spaziali.

Mentre il mondo aspetta di vedere le immagini del loro atterraggio, una cosa è certa: la loro missione, iniziata con una semplice rotazione di equipaggio, si è trasformata in una delle più lunghe e imprevedibili permanenze sulla ISS, dimostrando ancora una volta che lo spazio è un ambiente in cui nulla può essere dato per scontato.

Il telescopio JWST rileva anidride carbonica nei giovani esopianeti giganti del sistema HR 8799

Il telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA ha ottenuto immagini dirette di pianeti giganti gassosi nel sistema planetario HR 8799, situato a 130 anni luce di distanza. Questa scoperta fornisce indizi fondamentali sulla loro formazione, suggerendo che questi pianeti si siano formati in modo simile a Giove e Saturno, attraverso un processo di accrescimento del nucleo.

Un sistema giovane e ricco di informazioni

HR 8799 è un sistema planetario giovane, con un’età di circa 30 milioni di anni, un valore molto inferiore rispetto ai 4,6 miliardi di anni del nostro Sistema Solare. Le osservazioni di Webb hanno rivelato la presenza di anidride carbonica nelle atmosfere di questi pianeti, un indizio che conferma la formazione tramite l’accrescimento del nucleo. Questo processo prevede la crescita di un nucleo solido che successivamente attrae gas dal disco protoplanetario circostante.

Questa tecnica osservativa dimostra anche la capacità di Webb di analizzare la chimica delle atmosfere esoplanetarie attraverso l’imaging, un metodo che integra le osservazioni spettroscopiche per determinare la composizione atmosferica.

Il telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA) ha fornito l’immagine più nitida mai ottenuta del celebre sistema multi-planetario HR 8799. Le osservazioni hanno rilevato anidride carbonica in tutti e quattro i pianeti giganti, fornendo una prova solida del fatto che si siano formati in modo simile a Giove e Saturno, attraverso la crescita graduale di un nucleo solido che ha poi attirato gas dal disco protoplanetario.
L’immagine è stata ottenuta utilizzando diversi filtri della fotocamera nel vicino infrarosso NIRCam di Webb, che rivelano le differenze intrinseche tra i pianeti. Un simbolo a forma di stella indica la posizione della stella madre, HR 8799, il cui bagliore è stato oscurato da un coronografo per permettere di osservare meglio i pianeti circostanti.
I colori assegnati all’immagine rappresentano diverse lunghezze d’onda della luce infrarossa catturate da Webb. Analizzandoli, i ricercatori possono determinare temperatura e composizione dei pianeti. HR 8799 b, che orbita a 10,1 miliardi di chilometri dalla sua stella, è il più freddo del gruppo ed è particolarmente ricco di anidride carbonica. HR 8799 e, invece, si trova a 2,4 miliardi di chilometri e probabilmente si è formato più vicino alla stella madre, in una regione con una composizione più variabile dei materiali. Credits:NASA, ESA, CSA, STScI, W. Balmer (JHU), L. Pueyo (STScI), M. Perrin (STScI).

L’importanza delle osservazioni di Webb

Le nuove scoperte indicano che i pianeti di HR 8799 contengono una quantità significativa di elementi pesanti, come carbonio, ossigeno e ferro. Secondo William Balmer della Johns Hopkins University, principale autore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal, ciò conferma che la formazione di questi pianeti è avvenuta tramite accrescimento del nucleo. “Questa scoperta ci aiuta a comprendere meglio come si formano i pianeti giganti e a confrontarli con quelli del nostro Sistema Solare”, ha affermato Balmer.

Oltre a HR 8799, Webb ha osservato anche il sistema 51 Eridani, situato a 97 anni luce di distanza. Lo studio di più sistemi esoplanetari permetterà agli scienziati di comprendere meglio i diversi meccanismi di formazione planetaria.

Un confronto con il nostro Sistema Solare

Esistono due principali modelli di formazione dei pianeti giganti. Il primo è il processo di accrescimento del nucleo, che ha caratterizzato la formazione di Giove e Saturno. Il secondo prevede la rapida coalescenza di gas in oggetti massicci direttamente dal disco di gas che circonda una giovane stella. Determinare quale di questi due modelli sia più comune aiuterà gli scienziati a interpretare la varietà di pianeti scoperti in altri sistemi.

Emily Rickman dell’Agenzia Spaziale Europea ha sottolineato l’importanza di HR 8799 come laboratorio per lo studio della formazione planetaria: “Queste nuove osservazioni dimostrano il valore di HR 8799 per comprendere meglio i meccanismi che governano la nascita dei pianeti”.

Tecnologia avanzata per l’osservazione diretta

Le immagini di HR 8799 e 51 Eridani sono state ottenute grazie al coronografo della NIRCam (Near-Infrared Camera) di Webb. Questo strumento blocca la luce delle stelle brillanti, permettendo di rivelare i pianeti orbitanti attorno a esse. Questa tecnologia consente di analizzare la luce infrarossa emessa dai pianeti e determinare la composizione delle loro atmosfere.

Laurent Pueyo dello Space Telescope Science Institute ha dichiarato che ulteriori osservazioni con Webb aiuteranno a determinare la frequenza con cui i pianeti giganti si formano attraverso l’accrescimento del nucleo. “Abbiamo trovato prove che suggeriscono che i pianeti di HR 8799 si siano formati in questo modo, ma vogliamo confermarlo con altre osservazioni”, ha detto Pueyo.

La fotocamera nel vicino infrarosso (NIRCam) del telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA) ha catturato questa immagine di 51 Eridani b, un giovane esopianeta freddo che orbita a 17,7 miliardi di chilometri dalla sua stella. Questa distanza è paragonabile a una posizione tra le orbite di Nettuno e Saturno nel nostro Sistema Solare.
Le osservazioni hanno rivelato che il pianeta è ricco di anidride carbonica, fornendo una prova solida che si è formato in modo simile a Giove e Saturno, attraverso l’accrescimento di un nucleo solido che ha poi attirato gas dal disco protoplanetario circostante.
Il sistema 51 Eridani si trova a 96 anni luce dalla Terra. L’immagine utilizza filtri che rappresentano la luce a 4,1 micron con il colore rosso. NASA, ESA, CSA, STScI, W. Balmer (JHU), L. Pueyo (STScI), M. Perrin (STScI)

Webb: una missione internazionale

Il telescopio James Webb è il più grande e potente mai lanciato nello spazio. La sua realizzazione è frutto di una collaborazione internazionale tra NASA, ESA e l’Agenzia Spaziale Canadese (CSA). L’ESA ha fornito il servizio di lancio con un razzo Ariane 5 e ha contribuito con strumenti scientifici fondamentali come lo spettrografo NIRSpec e parte dello strumento MIRI.

Grazie a Webb, gli astronomi stanno compiendo passi da gigante nello studio dei pianeti extrasolari, avvicinandosi sempre più alla comprensione della formazione e dell’evoluzione dei sistemi planetari, incluso il nostro.

Fonte: ESA/NASA/WEBB

Alla scoperta dell’Universo con SKA-Low: il primo sguardo del telescopio rivoluzionario

Un passo epocale nella ricerca astronomica è stato compiuto con la pubblicazione della prima immagine del telescopio SKA-Low, parte del rivoluzionario osservatorio internazionale SKAO (Square Kilometre Array Observatory). Questo risultato segna una tappa fondamentale nel cammino verso una visione senza precedenti del cosmo.

Un’anteprima del futuro dell’astronomia

L’immagine appena rilasciata proviene da una versione iniziale del telescopio SKA-Low, utilizzando solo 1.024 delle previste 131.072 antenne. Nonostante ciò, ha già offerto una visione sorprendente del cielo, anticipando le straordinarie scoperte scientifiche che il telescopio, una volta completato, renderà possibili.

Situato in Australia occidentale, SKA-Low è uno dei due telescopi attualmente in costruzione sotto l’egida dello SKAO, con il suo corrispettivo, SKA-Mid, in fase di realizzazione in Sudafrica. Questi strumenti rivoluzionari lavorano in sinergia, combinando i dati raccolti da migliaia di antenne per creare un’unica immagine altamente dettagliata del cosmo.

Un’immagine senza precedenti

La prima immagine copre un’area del cielo di circa 25 gradi quadrati, equivalente a 100 volte la dimensione apparente della Luna piena. In essa sono visibili circa 85 delle galassie più luminose in quella regione, ognuna delle quali ospita un buco nero supermassiccio. Tuttavia, quando il telescopio sarà pienamente operativo, gli scienziati stimano che la stessa porzione di cielo rivelerà oltre 600.000 galassie.

I dati per questa immagine sono stati raccolti dalle prime quattro stazioni connesse di SKA-Low, composte da 1.024 antenne alte due metri, installate nel corso dell’ultimo anno presso l’Inyarrimanha Ilgari Bundara, il CSIRO Murchison Radio-astronomy Observatory, situato nel territorio Wajarri Yamaji. Questa prima configurazione rappresenta meno dell’1% del progetto finale.

La prima immagine da un prototipo del telescopio SKA-Low dell’Osservatorio SKA, in costruzione nel territorio Wajarri Yamaji, Australia. È stata ottenuta con dati raccolti dalle prime quattro stazioni collegate, che includono 1.024 delle 131.072 antenne previste, distribuite su circa 6 km.
L’immagine mostra circa 85 galassie in un’area di 25 gradi quadrati, equivalente a 100 Lune piene. I punti visibili sono galassie radio luminose, ciascuna con un buco nero supermassiccio. SKA-Low rileva le onde radio emesse dal gas caldo orbitante intorno a questi buchi neri. Al centro si trova una rara galassia con getti visibili sia in ottico che in radio.
Prodotta con il supercomputer Pawsey di Perth, l’immagine è stata verificata con dati del Murchison Widefield Array. Quando completato, SKA-Low potrà rivelare fino a 600.000 galassie nella stessa regione. SKAO riconosce i Wajarri Yamaji come Custodi Tradizionali del sito. Credits: SKAO

Le reazioni degli scienziati

Dr. George Heald, Lead Commissioning Scientist di SKA-Low, ha espresso entusiasmo per l’efficienza delle prime quattro stazioni: “La qualità di questa immagine è stata persino superiore a quanto speravamo con questa versione iniziale del telescopio.”

Ha aggiunto che le galassie visibili nell’immagine attuale sono solo la punta dell’iceberg e che, una volta completato, SKA-Low permetterà di osservare le galassie più deboli e lontane, risalendo fino alle prime epoche dell’Universo, quando stelle e galassie iniziarono a formarsi.

Dr. Sarah Pearce, Direttrice del telescopio SKA-Low, ha sottolineato il lavoro collettivo che ha reso possibile questo risultato: “Questo è il culmine di sforzi straordinari da parte di team di ingegneri, astronomi e informatici provenienti da tutto il mondo. È incredibile vedere tutto questo lavoro convergere per regalarci la prima di molte immagini straordinarie dello SKA-Low, offrendoci una prospettiva del cosmo mai vista prima.”

Anche il Direttore Generale dello SKAO, Prof. Philip Diamond, ha celebrato il momento, definendolo l’inizio effettivo dell’osservatorio come struttura scientifica: “Con questa immagine vediamo la promessa dello SKAO che inizia a realizzarsi. Man mano che i telescopi cresceranno e nuove antenne entreranno in funzione, la qualità delle immagini migliorerà enormemente, permettendoci di sfruttare al massimo la potenza dello SKAO.”

Una collaborazione globale per una scienza rivoluzionaria

Lo SKAO è un’organizzazione intergovernativa con membri e partner distribuiti in cinque continenti, con sede principale nel Regno Unito. La missione dello SKAO è costruire e gestire radio telescopi all’avanguardia per trasformare la nostra comprensione dell’Universo e contribuire alla società attraverso la collaborazione scientifica e l’innovazione tecnologica.

In Australia, la realizzazione di SKA-Low avviene in collaborazione con l’agenzia scientifica nazionale CSIRO e con il supporto dei governi australiano e del Western Australia. Il telescopio si espanderà progressivamente nei prossimi due anni, diventando il più grande radiotelescopio a bassa frequenza al mondo.

Collage di immagini simulate delle future osservazioni di SKA-Low, che mostrano le capacità previste del telescopio man mano che cresce. Le immagini rappresentano la stessa area di cielo osservata nella prima immagine del prototipo, pubblicata a marzo 2025.
In alto a sinistra: Entro il 2026/2027, con oltre 17.000 antenne, SKA-Low sarà il radiotelescopio più sensibile della sua categoria, rilevando oltre 4.500 galassie in questa regione.
In alto a destra: Entro il 2028/2029, con più di 78.000 antenne, potrà individuare oltre 23.000 galassie.
In basso: A pieno regime, con oltre 130.000 antenne distribuite su 74 km, SKA-Low potrà rilevare circa 43.000 galassie nella stessa area e, con indagini profonde dal 2030, fino a 600.000 galassie.

Un riconoscimento alla cultura e alla tradizione

Lo SKAO riconosce e rispetta le culture indigene che hanno tradizionalmente abitato i territori su cui sorgono le sue strutture. Il sito del telescopio si trova nell’osservatorio di CSIRO Murchison, in territorio Wajarri Yamaji, e il progetto è stato realizzato in stretta collaborazione con la comunità locale.

Jamie Strickland, CEO della Wajarri Yamaji Aboriginal Corporation, ha espresso soddisfazione per questa collaborazione: “Il popolo Wajarri Yamaji ha osservato il cielo e le stelle sulla nostra terra per innumerevoli generazioni. È fantastico vedere questa nuova era della conoscenza astronomica prendere forma dal nostro suolo, e siamo orgogliosi di collaborare con SKAO, il governo australiano e CSIRO per rendere tutto ciò possibile. Usare la tecnologia di oggi per raccontare le storie del passato e comprendere quelle del futuro è davvero straordinario.”

Con la sua capacità di esplorare le origini dell’Universo e di fornire risposte a domande fondamentali sulla nascita delle galassie e l’evoluzione del cosmo, SKA-Low si appresta a diventare uno degli strumenti più potenti mai costruiti per l’astronomia moderna. Questo primo sguardo all’Universo segna solo l’inizio di un’avventura scientifica che promette di rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo.

Fonte: SKAO Site

LUNA: ALLA SCOPERTA DEI NUMERI DI LOVE E DELLA MISSIONE CHANG’E 7

La Luna e il suo cuore nascosto

La Luna è il nostro satellite naturale e, nonostante sia l’oggetto celeste più vicino alla Terra, custodisce ancora molti segreti. Tra le tante domande che gli scienziati si pongono, una delle più affascinanti riguarda la sua struttura interna: com’è fatto il suo nucleo? Esiste un cuore liquido come quello della Terra? E come reagisce la Luna alle forze gravitazionali della Terra e del Sole?

Per rispondere a queste domande, gli scienziati utilizzano un particolare parametro chiamato numero di Love, che prende il nome dal matematico britannico Augustus Edward Hough Love. Questi numeri descrivono il modo in cui la Luna si deforma sotto l’effetto delle forze di marea esercitate dai corpi celesti circostanti. In altre parole, ci dicono quanto la Luna si “allunga” e si “comprime” sotto l’azione della gravita della Terra e del Sole.

Cosa sono i numeri di Love?

I numeri di Love sono tre parametri principali:

  • h₂: misura lo spostamento verticale della superficie della Luna dovuto alle maree. Più è grande questo numero, più la superficie lunare si solleva sotto l’azione della gravita terrestre.
  • l₂: indica lo spostamento orizzontale, ossia il modo in cui la Luna si muove lateralmente quando viene “tirata” dalle maree.
  • k₂: rappresenta la variazione del campo gravitazionale lunare in risposta alle maree. Questo parametro è fondamentale per capire quanto sia denso e rigido l’interno della Luna.

Studiare questi numeri ci permette di ottenere una vera e propria radiografia della Luna, dandoci indizi sulla sua composizione interna, sulla presenza di un nucleo liquido o solido e sulle caratteristiche del suo mantello.

Come si misurano i numeri di Love?

Misurare i numeri di Love non è un’impresa facile. Un metodo utilizzato dagli scienziati è la tecnica del Lunar Laser Ranging (LLR), che sfrutta i retroriflettori lasciati sulla superficie lunare dagli astronauti delle missioni Apollo e dalle sonde sovietiche Lunokhod. Inviando impulsi laser dalla Terra e misurando il tempo impiegato per tornare indietro, è possibile monitorare con estrema precisione i movimenti della Luna e quindi calcolare i numeri di Love.

Un altro metodo è l’analisi della gravità lunare, effettuata da satelliti come quelli della missione GRAIL della NASA, che ha fornito un modello ad alta risoluzione del campo gravitazionale della Luna.

Il contributo della missione Chang’e 7

Ora entra in gioco la missione Chang’e 7 della Cina, prevista per il 2026. Questo ambizioso progetto prevede di esplorare il polo sud della Luna, una regione di grande interesse scientifico. Tra gli strumenti che porterà sulla superficie lunare ci saranno anche nuovi retroriflettori laser (vedi Coelum 270), che permetteranno di migliorare ulteriormente le misurazioni delle maree lunari e quindi di affinare i calcoli sui numeri di Love.

Uno dei problemi attuali con le misurazioni LLR è che i retroriflettori esistenti sono tutti posizionati sul lato vicino della Luna, quello sempre rivolto verso la Terra. Questo significa che abbiamo una visione parziale del comportamento della Luna. Grazie ai nuovi retroriflettori posizionati da Chang’e 7 sul polo sud, avremo dati più completi e precisi.

Inoltre, Chang’e 7 utilizzerà un satellite in orbita lunare come ripetitore per trasmettere i segnali tra la Terra e il lander sulla superficie, risolvendo il problema della visibilità limitata di alcune regioni lunari. Questo sistema di tracciamento a “relè a quattro vie” consentirà di migliorare la raccolta di dati e di ottenere misurazioni più dettagliate sulla struttura interna della Luna.

Tracciamento a relè a quattro vie
Il sistema di tracciamento a relè a quattro vie è un metodo utilizzato per comunicare con un lander lunare situato in una posizione non direttamente visibile dalla Terra, come il polo sud o il lato nascosto della Luna. Il processo avviene in più fasi:
Trasmissione iniziale: La stazione di terra invia un segnale di uplink al satellite relay in orbita lunare.
Propagazione: Il segnale si propaga attraverso il satellite relay.
Ricezione dal lander: Il lander lunare riceve il segnale e lo elabora tramite il collegamento diretto.
Ritrasmissione: Il segnale viene inviato nuovamente al satellite relay attraverso un collegamento di ritorno.
Ritorno alla Terra: Il satellite relay trasmette il segnale di risposta alla stazione di terra.
Ogni passaggio rappresenta un collegamento della catena di comunicazione e le misurazioni effettuate lungo questo percorso permettono di determinare con precisione la posizione del lander, la sua distanza dalla Terra e le variazioni della sua altitudine dovute alle forze mareali. Questo sistema consente di ottenere dati più dettagliati e costanti rispetto al tracciamento diretto, migliorando la precisione delle misurazioni geofisiche lunari.

 

 

 

L’uso combinato di LLR e Chang’e 7 per migliorare la precisione

La missione Chang’e 7 prevede di posizionare un array di retroriflettori laser al polo sud lunare, una posizione mai sfruttata prima per questo tipo di misurazioni. Finora, i cinque retroriflettori installati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica si trovano a latitudini medio-basse sul lato vicino della Luna. Tuttavia, il nuovo retroriflettore di Chang’e 7 fornirà dati unici e complementari, migliorando la comprensione della risposta mareale lunare.

Schema del laser a due vie e dell’inseguimento radiometrico a quattro vie.

Gli scienziati hanno condotto simulazioni per valutare il contributo della missione Chang’e 7 alla determinazione dei numeri di Love. Hanno confrontato le misurazioni laser bidirezionali dai retroriflettori Apollo con le nuove misurazioni al polo sud e hanno integrato anche dati di tracciamento radiometrico a quattro vie, sfruttando il satellite relay.

I risultati hanno mostrato che il modello bidirezionale fornisce una sensibilità maggiore rispetto al modello a quattro vie per alcune misurazioni, ma il tracciamento a quattro vie migliora la precisione di h₂ e l₂. Inoltre, il satellite relay garantisce una maggiore visibilità della regione polare, dove la Terra può osservare direttamente solo per una parte del ciclo lunare.

Gli esperimenti hanno dimostrato che con la tecnologia attuale, le incertezze nella determinazione di h₂ e l₂ possono essere ridotte fino a due ordini di grandezza. Se la precisione della misurazione radiometrica potesse essere migliorata fino a 0,1 m, la stima di questi parametri diventerebbe ancora più accurata, offrendo nuove opportunità per comprendere la composizione interna della Luna.

Perché è importante?

Capire la struttura interna della Luna non è solo una questione di curiosità scientifica. Queste informazioni possono aiutarci a comprendere meglio l’evoluzione della Luna e il suo rapporto con la Terra nel corso di miliardi di anni. Inoltre, studiare la geofisica lunare è cruciale per future missioni di esplorazione e per l’eventuale costruzione di basi permanenti sulla Luna.

Infine, le tecniche sviluppate per studiare la Luna possono essere applicate ad altri corpi celesti, come Marte, Ganimede o Encelado, dove la presenza di oceani sotterranei è un argomento di grande interesse per la ricerca di forme di vita extraterrestri.

Articolo Originale

L’ESO conferma: il complesso INNA minaccia il Paranal

Florentin Millour ha catturato questo panorama mozzafiato della cometa C/2024 G3 (ATLAS) nel gennaio del 2021 January 21 dal Osservatorio del Paranal in Cile. Il Very Large Telescope fa bella mostra di sè sulla cima del Cerro Paranal, sulla sinistra, mentre la cometa tramonta all'orizzonte occidentale appena dopo il tramonto. Crediti: F. Millour/ESO

Comunicato Stampa ESO 17/03/2025

Un’analisi tecnica approfondita dell’ESO (European Southern Observatory) ha valutato l’impatto del megaprogetto INNA sugli strumenti dell’Osservatorio del Paranal, in Cile, e i risultati sono allarmanti. L’analisi rivela che l’INNA aumenterebbe l’inquinamento luminoso sopra il VLT (Very Large Telescope) di almeno il 35% e di oltre il 50% sopra il sito sud del Cherenkov Telescope Array Observatory (CTAO-sud). L’INNA aumenterebbe anche la turbolenza dell’aria nell’area, degradando ulteriormente le condizioni per le osservazioni astronomiche, mentre le vibrazioni del progetto potrebbero compromettere seriamente il funzionamento di alcune delle strutture dell’Osservatorio del Paranata, come l’ELT (Extremely Large Telescope).

A gennaio, l’ESO ha lanciato pubblicamente l’allarme sulla minaccia posta ai cieli più bui e limpidi del mondo, quelli dell’Osservatorio Paranal dell’ESO (vedi Coelum 273 notizia a cura di Anna Wolter), dal megaprogetto industriale INNA. Il progetto, di AES Andes, una filiale della società elettrica statunitense AES Corporation, comprende molteplici impianti energetici e di trasformazione, distribuiti su un’area di oltre 3000 ettari, pari alle dimensioni di una piccola città. La sua ubicazione prevista è a pochi chilometri dai telescopi del Paranal.

Un’analisi preliminare effettuata all’epoca ha rivelato che, a causa delle sue dimensioni e della vicinanza al Paranal, il progetto INNA poneva rischi significativi per le osservazioni astronomiche. Ora, un’analisi tecnica dettagliata ha confermato che l’impatto di INNA sarebbe devastante e irreversibile.

Inquinamento luminoso accecante

Secondo la nuova analisi dettagliata, il complesso industriale aumenterebbe l’inquinamento luminoso sopra il VLT, che si trova a circa 11 km dalla posizione pianificata di INNA, di almeno il 35% rispetto agli attuali livelli di base della luce artificiale. Un’altra delle strutture del Paranal, l’ELT dell’ESO, vedrebbe l’inquinamento luminoso sopra di sé aumentare di almeno il 5%. Questo aumento rappresenta già un livello di interferenza incompatibile con le condizioni richieste per osservazioni astronomiche di livello mondiale. L’impatto sui cieli sopra il CTAO-sud, situato a soli 5 km dall’INNA, sarebbe il più importante, con l’inquinamento luminoso che salirebbe di almeno il 55%[1].

“Un cielo più luminoso limita fortemente la nostra capacità di rivelare direttamente esopianeti simili alla Terra, osservare galassie deboli e persino monitorare asteroidi che potrebbero causare danni al nostro pianeta“, afferma Itziar de Gregorio-Monsalvo, rappresentante dell’ESO in Cile. “Costruiamo i telescopi più grandi e potenti, nel posto migliore sulla Terra per l’astronomia, per consentire agli astronomi di tutto il mondo di vedere ciò che nessuno ha mai visto prima. L’inquinamento luminoso da progetti come l’INNA non ostacola solo la ricerca, ma ci sottrae la visione condivisa dell’Universo“.

Per l’analisi tecnica, un gruppo di esperti guidato dal direttore operativo dell’ESO Andreas Kaufer ha lavorato insieme con Martin Aubé, un esperto di fama mondiale sulla luminosità del cielo nei siti astronomici, per eseguire simulazioni utilizzando i modelli di inquinamento luminoso più avanzati. Come input, le simulazioni hanno utilizzato informazioni disponibili al pubblico fornite da AES Andes quando ha presentato il progetto per la valutazione ambientale, che afferma che il complesso sarà illuminato da oltre 1000 fonti luminose.

I risultati sull’inquinamento luminoso che indichiamo assumono che il progetto installerà le lampade più moderne disponibili in modo da ridurre al minimo l’inquinamento luminoso. Tuttavia, siamo preoccupati che l’inventario delle sorgenti luminose pianificato da AES non sia completo e il più adatto allo scopo. In tal caso, i risultati già allarmanti sottostimerebbero il potenziale impatto del progetto INNA sulla luminosità del cielo del Paranal”, spiega Kaufer.

Aggiunge che i calcoli presuppongono condizioni di cielo sereno. “L’inquinamento luminoso sarebbe ancora peggiore se considerassimo cieli nuvolosi“, afferma. “Sebbene il cielo del Paranal è senza nuvole per la maggior parte dell’anno, molte osservazioni astronomiche possono comunque essere eseguite quando ci sono sottili cirri: in questo caso l’effetto dell’inquinamento luminoso è amplificato poiché le luci artificiali vicine si riflettono notevolmente sulle nuvole“.

Turbolenza in arrivo

L’analisi tecnica ha esaminato altri impatti del progetto, come l’aumento della turbolenza atmosferica, gli effetti delle vibrazioni sulla delicata attrezzatura dei telescopi e la contaminazione da polvere sulle ottiche sensibili del telescopio durante la costruzione. Tutto ciò aumenterebbe ulteriormente l’impatto dell’INNA sulle capacità di osservazione astronomica dal Paranal.

Oltre ai cieli bui e limpidi, l’Osservatorio di Paranal è il sito migliore al mondo per l’astronomia grazie alla sua atmosfera eccezionalmente stabile: ha ciò che gli astronomi chiamano eccellenti condizioni di visibilità (seeing) o un bassissimo “scintillio” degli oggetti astronomici causato dalla turbolenza nell’atmosfera terrestre. Con INNA, le migliori condizioni di visibilità potrebbero deteriorarsi fino al 40%, in particolare a causa della turbolenza dell’aria causata dalle turbine eoliche del progetto.

Un’altra preoccupazione è l’impatto delle vibrazioni causate da INNA sull’interferometro del VLT (VLTI) e sull’ELT, entrambi estremamente sensibili ai disturbi microsismici. L’analisi tecnica rivela che le turbine eoliche di INNA potrebbero far aumentare queste micro-vibrazioni del terreno abbastanza da compromettere le operazioni di questi due strumenti tra i migliori al mondo. Anche la polvere sollevata durante la costruzione è problematica poiché si deposita sugli specchi dei telescopi e ne ostruisce la vista.

Presi tutti insieme, questi disturbi minacciano seriamente la possibilità che oggi e a lungo termine il Paranal rimanga il leader mondiale nel campo dell’astronomia, causando la perdita di scoperte chiave sull’Universo e compromettendo il vantaggio strategico del Cile in quest’area“, afferma de Gregorio-Monsalvo. “L’unico modo per salvare i cieli incontaminati del Paranal e proteggere l’astronomia per le generazioni future è trasferire altrove il complesso INNA.”

Inoltre, la presenza delle infrastrutture dell’INNA potrebbero incoraggiare lo sviluppo di un polo industriale nella zona, che potrebbe trasformare il Paranal in un sito inutilizzabile per le osservazioni astronomiche di alto livello.

“L’ESO e i suoi Stati membri sostengono pienamente la decarbonizzazione energetica. Per noi il Cile non dovrebbe essere costretto a scegliere tra ospitare gli osservatori astronomici più potenti e sviluppare progetti di energia verde. Entrambe sono dichiarate dal paese priorità strategiche e sono pienamente compatibili, se le strutture sono situate a distanza sufficiente l’una dall’altra”, spiega il Direttore Generale dell’ESO Xavier Barcons.

Processo partecipativo dei cittadini

Il rapporto tecnico completo sarà presentato alle autorità cilene entro la fine del mese come parte del processo partecipativo dei cittadini (PAC) nella valutazione dell’impatto ambientale dell’INNA e reso pubblico in quel momento, prima della scadenza del 3 aprile. Oltre a questo comunicato stampa, l’ESO rende pubblico in anticipo un riassunto esecutivo del rapporto.

Siamo molto grati per il supporto che abbiamo ricevuto dalla comunità di ricerca cilena e da quella mondiale e in particolare dagli Stati membri dell’ESO. Ringraziamo anche le autorità cilene per aver esaminato la questione. Siamo più che mai impegnati a lavorare insieme per proteggere gli insostituibili cieli del Paranal“, conclude Barcons.

Missione di salvataggio: il ritorno di Butch Wilmore e Suni Williams dalla ISS

Butch Wilmore e Suni Williams. Credits: CNN, NASA

Il 1° giugno 2024, gli astronauti della NASA Barry “Butch” Wilmore e Sunita “Suni” Williams hanno lasciato la Terra a bordo della navicella Starliner della Boeing, con una missione che inizialmente prevedeva una permanenza di soli otto giorni sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Tuttavia, il viaggio si è trasformato in un’odissea spaziale di ben nove mesi a causa di una serie di problemi tecnici alla navetta, che hanno costretto la NASA a rivedere i piani di rientro e a trovare una soluzione alternativa per riportarli a casa in sicurezza.

L’inizio dell’imprevisto: il guasto della Starliner

La Starliner, progettata come una delle due navicelle commerciali per il trasporto di astronauti insieme alla Crew Dragon di SpaceX, ha incontrato difficoltà ai propulsori poco dopo l’aggancio alla ISS. Questi problemi hanno indotto la NASA a sospendere il rientro della navetta con equipaggio a bordo, preferendo riportarla sulla Terra senza astronauti per valutare le anomalie in un ambiente controllato. Il risultato di questa decisione ha lasciato Wilmore e Williams bloccati sulla ISS senza una data certa di ritorno.

Nonostante l’inconveniente, i due astronauti hanno continuato a svolgere la loro missione, contribuendo agli esperimenti scientifici e alle operazioni di manutenzione della stazione. Williams, esperta ingegnere aerospaziale e veterana di numerose missioni, ha dichiarato in diverse interviste di essersi adattata alla situazione con spirito positivo, sottolineando che “la permanenza prolungata ha permesso di contribuire in modo ancora più significativo alla ricerca in microgravità”.

Il veicolo spaziale CST-100 Starliner. Credito: Boeing

La soluzione: il lancio della missione SpaceX Crew-10

Dopo mesi di pianificazione, la NASA ha deciso di affidarsi a SpaceX per il recupero degli astronauti. La missione Crew-10, con un equipaggio di quattro astronauti – Anne McClain e Nichole Ayers della NASA, Takuya Onishi della JAXA e Kirill Peskov di Roscosmos – è stata lanciata il 14 marzo 2025 dal Kennedy Space Center in Florida. Dopo circa 29 ore di viaggio, la capsula Crew Dragon ha attraccato con successo alla ISS il 16 marzo 2025.

Al loro arrivo, l’equipaggio della Crew-10 è stato accolto con entusiasmo e sollievo dai sette membri già presenti sulla stazione. Le immagini trasmesse dalla NASA hanno mostrato abbracci e sorrisi tra i nuovi arrivati e Wilmore e Williams, che per mesi avevano vissuto l’incertezza del loro ritorno.

Anne McClain, comandante della Crew-10, ha espresso la sua gioia per il successo della missione dichiarando: “È difficile esprimere a parole la sensazione di rivedere la stazione spaziale dalla nostra finestra e di sapere che stiamo portando a termine una missione tanto importante”.

SpaceX Crew-10. Credits: NASA

Il rientro sulla Terra: una lunga attesa che volge al termine

Ora, con il cambio di equipaggio avvenuto con successo, Wilmore e Williams sono pronti a lasciare la ISS per tornare finalmente sulla Terra. Il loro rientro è previsto per il 19 marzo 2025, a bordo della stessa Crew Dragon che ha portato la Crew-10 sulla stazione. Con loro viaggeranno anche Nick Hague della NASA e Aleksandr Gorbunov di Roscosmos, che hanno completato la loro missione sulla ISS.

Il rientro segnerà la fine di una permanenza durata oltre 270 giorni, durante i quali gli astronauti hanno affrontato non solo le sfide tecniche del volo spaziale, ma anche le difficoltà psicologiche legate all’incertezza del loro ritorno. “Non vedo l’ora di rivedere la mia famiglia e i miei due cani. Credo che per loro sia stato un periodo ancora più difficile che per me”, ha detto Williams in una recente conferenza stampa.

La politica e lo spazio: un caso internazionale

La vicenda ha avuto anche risvolti politici, con il presidente Donald Trump e l’imprenditore Elon Musk che hanno accusato, senza prove, l’amministrazione Biden di aver “abbandonato” Wilmore e Williams nello spazio per ragioni politiche. Le affermazioni sono state ampiamente smentite dagli esperti del settore e da astronauti veterani come il danese Andreas Mogensen, che ha liquidato le dichiarazioni come “una menzogna senza fondamento”.

Con il loro ritorno, Wilmore e Williams entreranno nella storia come alcuni degli astronauti con la più lunga permanenza sulla ISS, un’esperienza che servirà a migliorare le future missioni spaziali.

Mentre il mondo aspetta di vedere le immagini del loro atterraggio, una cosa è certa: la loro missione, iniziata con una semplice rotazione di equipaggio, si è trasformata in una delle più lunghe e imprevedibili permanenze sulla ISS, dimostrando ancora una volta che lo spazio è un ambiente in cui nulla può essere dato per scontato.

Alla scoperta delle Hot DOGs: le galassie oscure e iperluminose

Immagine rappresentativa del concetto dell'articolo: una galassia Hot DOG con un nucleo iperluminoso avvolto da dense nubi di polvere cosmica, lasciando filtrare solo la radiazione infrarossa. I toni scuri e i dettagli puliti enfatizzano il contrasto tra le regioni oscure e luminose, evocando il mistero e la grandezza di questi rari fenomeni cosmici.

Le Hot Dust-Obscured Galaxies (Hot DOGs) rappresentano una rara e affascinante categoria di quasar oscurati iperluminosi. Scoperte grazie alla selezione “W1W2 dropout” ad alti redshift (z ~ 2-4) nell’ambito della missione Wide-field Infrared Survey Explorer (WISE), queste galassie potrebbero costituire una fase cruciale, seppur breve, nell’evoluzione galattica.

Il fenomeno delle Hot DOGs

Le Hot DOGs sono caratterizzate da un’intensa emissione infrarossa, causata dalla polvere che avvolge il nucleo galattico e nasconde la sorgente luminosa principale, il buco nero supermassiccio (SMBH). Secondo gli studi condotti da Eisenhardt et al. (2012) e Wu et al. (2012), queste galassie presentano temperature della polvere superiori ai 60K e luminosità bolometriche che superano i 10^13 L☉, con alcune che raggiungono addirittura i 10^14 L☉ (Tsai et al. 2015). Il loro numero è comparabile a quello dei quasar di tipo 1 con luminosità simile e rappresentano probabilmente una fase di transizione tra quasar oscurati e non oscurati (Assef et al. 2015; Wu et al. 2018).

Hot DOGs a basso redshift: una popolazione ancora poco esplorata

Nonostante siano state identificate numerose Hot DOGs ad alto redshift, la loro evoluzione verso epoche più recenti è ancora poco chiara. La selezione W1W2 dropout, infatti, tende a escludere oggetti con z < 2. Tuttavia, uno studio recente che ha combinato i dati di WISE e Herschel ha permesso di individuare 68 candidati Hot DOGs a basso redshift (z < 0.5), confermando tre casi attraverso osservazioni spettroscopiche (Li et al. 2023).

Questi oggetti presentano SMBH in fase di accrescimento vicino al limite di Eddington, con masse inferiori e luminosità bolometriche più basse rispetto alle loro controparti ad alto redshift. Inoltre, sembrano essere più vicini alla relazione locale tra massa stellare dell’ospite e massa del buco nero, pur rimanendo al di sopra di essa. Ciò suggerisce che le Hot DOGs possano rappresentare una fase critica nella crescita delle galassie e dei loro buchi neri centrali.

Le caratteristiche delle Hot DOGs a basso redshift

L’analisi delle tre Hot DOGs a z < 0.5 ha rivelato alcune peculiarità:

  • Emissione infrarossa dominante: la loro radiazione è principalmente assorbita e riemessa dalla polvere, rendendole quasi invisibili nelle bande ottiche e ultraviolette.
  • Elevata estinzione: l’alto contenuto di polvere oscura il quasar centrale, rendendolo difficile da rilevare nei dati ottici e nel vicino infrarosso.
  • Accrescimento del buco nero supermassiccio: l’energia rilasciata suggerisce un tasso di accrescimento vicino o superiore al limite di Eddington, fenomeno comune nei quasar ad alto redshift.

Dal punto di vista statistico, la densità superficiale di Hot DOGs a z < 0.5 è di circa 0.0024 deg⁻², un ordine di grandezza inferiore rispetto alle loro controparti ad alto redshift. Questo declino è coerente con l’evoluzione della densità di gas nelle galassie nel tempo cosmico, che raggiunge un picco intorno a z ~ 2 e diminuisce progressivamente fino al presente.

Implicazioni per l’evoluzione delle galassie

Lo studio delle Hot DOGs a basso redshift fornisce indizi fondamentali sull’evoluzione delle galassie e sul ruolo del feedback dei quasar nell’arrestare la formazione stellare. Diverse ipotesi possono spiegare il posizionamento di queste galassie rispetto alla relazione massa del buco nero – massa stellare:

  1. Feedback insufficiente per arrestare la formazione stellare: il quasar potrebbe non avere abbastanza energia per espellere il gas e interrompere la nascita di nuove stelle.
  2. Fasi ripetute di accrescimento e feedback: la Hot DOG phase potrebbe verificarsi più volte nella vita della galassia, contribuendo gradualmente a spegnere la formazione stellare.
  3. Deviazione dalla relazione locale: alcune Hot DOGs potrebbero rimanere al di sopra della relazione massa del buco nero – massa stellare anche a z = 0, suggerendo una crescita differenziata tra buchi neri e stelle.

Conclusioni

Le Hot DOGs rappresentano un’opportunità unica per studiare l’evoluzione delle galassie e l’interazione tra crescita del buco nero e formazione stellare. L’identificazione di queste galassie a basso redshift apre la strada a future indagini per comprendere meglio il ruolo di questi oggetti nell’evoluzione cosmica. Studi futuri, combinando dati ottici, infrarossi e X, potrebbero chiarire se le Hot DOGs siano effettivamente una fase di transizione universale o una classe di oggetti distinta con un’evoluzione peculiare.

Fonte: Astrophysical Journal

Microlightning d’Acqua: La Scintilla della Vita?

AI Generator Riproduzione artistica

L’acqua è una delle sostanze fondamentali per la vita sulla Terra, ma un recente studio condotto da Yifan Meng, Yu Xia, Jinheng Xu e Richard N. Zare della Stanford University ha rivelato un fenomeno sorprendente: quando l’acqua viene spruzzata, le sue minuscole gocce possono generare scariche elettriche luminose, simili a fulmini in miniatura. Questo fenomeno, che gli scienziati hanno denominato “microlightning” (microlampi), potrebbe aver avuto un ruolo chiave nella formazione delle prime molecole organiche, fornendo un nuovo scenario sulle origini della vita.

Un Fulmine in Ogni Goccia

Sappiamo che l’acqua pura è un cattivo conduttore di elettricità, ma quando viene dispersa in goccioline microscopiche, la situazione cambia. Già nel XIX secolo, il fisico William Thomson (Lord Kelvin) aveva dimostrato che l’acqua in caduta libera poteva generare cariche elettriche, un fenomeno osservabile nei temporali, dove le collisioni tra particelle d’acqua e ghiaccio portano alla formazione di fulmini.

Nel loro studio, Meng, Xia, Xu e Zare hanno scoperto che, quando si spruzza acqua nell’aria, le goccioline si caricano elettricamente: quelle più piccole tendono ad avere una carica negativa, mentre quelle più grandi risultano positive. Quando le gocce opposte si avvicinano abbastanza, si verifica un piccolo lampo di luce causato da una scarica elettrica.

Energia Senza Batterie

Ciò che rende straordinario questo fenomeno è che la luminescenza si manifesta senza bisogno di una tensione elettrica esterna. Gli esperimenti condotti presso Stanford University hanno mostrato che la separazione delle cariche nelle gocce d’acqua è sufficiente a creare un campo elettrico così intenso da eccitare, dissociare o persino ionizzare le molecole di gas circostanti. In pratica, queste scariche hanno energia sufficiente per innescare reazioni chimiche nell’aria intorno alle microgocce d’acqua.

Per verificare l’emissione di luce, i ricercatori hanno costruito un dispositivo in grado di levitare singole gocce d’acqua utilizzando onde sonore. Quando la distanza tra le gocce diminuiva, le loro cariche opposte generavano scintille luminose, catturate da una telecamera ad alta velocità e da sensori di fotoni.

Un Nuovo Percorso per la Chimica della Vita

Uno degli aspetti più affascinanti dello studio riguarda la possibile connessione tra questi microlampi e la formazione delle prime molecole organiche sulla Terra primordiale. Meng e colleghi hanno ricreato un ambiente simile a quello che si presume esistesse miliardi di anni fa, spruzzando microgocce d’acqua in un’atmosfera contenente azoto (N₂), metano (CH₄), anidride carbonica (CO₂) e ammoniaca (NH₃).

Il risultato? La formazione di molecole contenenti legami carbonio-azoto (C–N), tra cui acido cianidrico (HCN), glicina (NH₂CH₂COOH) – un amminoacido essenziale – e persino uracile (C₄H₄N₂O₂), una delle basi azotate dell’RNA. Questo scenario richiama da vicino il celebre esperimento di Miller-Urey del 1953, in cui una scarica elettrica in un’atmosfera primitiva portò alla sintesi di amminoacidi.

Il Mare, Una Centrale Chimica Naturale?

Se questi microlampi si verificano con l’acqua nebulizzata, è plausibile che fenomeni simili avvengano in natura in ambienti ricchi di spruzzi d’acqua, come cascate, onde oceaniche o tempeste. La continua produzione di scariche elettriche potrebbe aver favorito la sintesi di molecole organiche per miliardi di anni, fornendo una fonte di energia costante per le reazioni chimiche necessarie all’evoluzione della vita.

Conclusioni

Lo studio condotto da Meng, Xia, Xu e Zare offre una nuova prospettiva sulla chimica atmosferica e sulle origini della vita. Se i fulmini sono eventi sporadici e imprevedibili, la nebulizzazione dell’acqua è un fenomeno onnipresente sulla Terra. Questo suggerisce che l’energia necessaria per la formazione delle prime molecole organiche potrebbe essere stata disponibile in modo più diffuso di quanto si pensasse finora.

Fonte: ScienceAdvances

Lunar Magnetotelluric Sounder per l’analisi magnetotellurica dispiegato sulla superficie lunare

Dall'interno del bacino d'impatto di Mare Crisium, il Lunar Magnetotelluric Sounder (LMS), guidato dal Southwest Research Institute (SwRI), sta effettuando le prime misurazioni geofisiche rappresentative della massa complessiva della Luna. La maggior parte delle missioni Apollo è atterrata nella regione dei mari lunari interconnessi situata a ovest (immagine a sinistra), la cui crosta è stata successivamente identificata come compositivamente distinta (immagine a destra), come dimostrato dalla concentrazione dell'elemento torio. Mare Crisium offre un sito di atterraggio pianeggiante sul lato visibile della Luna, al di fuori di questa regione anomala. Credit: Courtesy of NASA

Poche ore dopo l’atterraggio sulla superficie lunare, avvenuto il 2 marzo a bordo del lander Blue Ghost 1 di Firefly Aerospace, il Lunar Magnetotelluric Sounder (LMS), sviluppato dal Southwest Research Institute (SwRI), è stato attivato e ha dispiegato i suoi cinque sensori per studiare l’interno della Luna misurando i campi elettrici e magnetici. LMS rappresenta la prima applicazione extraterrestre della magnetotellurica.

“Da oltre 50 anni gli scienziati utilizzano la magnetotellurica sulla Terra per vari scopi, tra cui la ricerca di petrolio, acqua, risorse geotermiche e minerarie, nonché per comprendere i processi geologici come la crescita dei continenti”, ha dichiarato il dott. Robert Grimm, responsabile principale del progetto LMS e direttore del programma presso la Solar System Science and Exploration Division dello SwRI. “Oggi, quattro sensori sono stati dispiegati a più di 18 metri di distanza dal lander Blue Ghost con angoli di 90 gradi – coprendo un’area pari a circa metà di un campo da calcio – per caratterizzare il sottosuolo lunare.”

Dall’interno del bacino d’impatto di Mare Crisium, il Lunar Magnetotelluric Sounder (LMS), guidato dal Southwest Research Institute (SwRI), sta effettuando le prime misurazioni geofisiche rappresentative della massa complessiva della Luna. La maggior parte delle missioni Apollo è atterrata nella regione dei mari lunari interconnessi situata a ovest (immagine a sinistra), la cui crosta è stata successivamente identificata come compositivamente distinta (immagine a destra), come dimostrato dalla concentrazione dell’elemento torio. Mare Crisium offre un sito di atterraggio pianeggiante sul lato visibile della Luna, al di fuori di questa regione anomala. Credit: Courtesy of NASA

La magnetotellurica utilizza le variazioni naturali dei campi elettrici e magnetici superficiali per calcolare la conducibilità elettrica dei materiali sotterranei, rivelandone composizione e struttura. LMS consentirà agli scienziati di analizzare l’interno della Luna fino a una profondità di circa 1.100 chilometri, pari a due terzi del raggio lunare. Queste misurazioni offriranno informazioni fondamentali sulla differenziazione dei materiali e sulla storia termica della Luna, elementi chiave per comprendere l’evoluzione dei corpi solidi nel Sistema Solare.

Attraverso l’iniziativa Commercial Lunar Payload Services (CLPS) della NASA, LMS è stato trasportato sulla superficie lunare nell’ambito di una missione di 14 giorni, mirata a studiare il sottosuolo lunare in una regione mai esplorata prima. Il Mare Crisium è un antico bacino da impatto con un diametro di circa 550 chilometri, successivamente riempito di lava, formando una macchia scura visibile a occhio nudo sulla Luna.

“Mare Crisium si distingue dalle vaste aree interconnesse di lava scura situate a ovest, dove sono atterrate la maggior parte delle missioni Apollo”, ha spiegato Grimm. “Questi immensi bacini lavici sono ora ritenuti anomali in termini di composizione e struttura rispetto al resto della Luna. Da questa posizione isolata, LMS potrebbe fornire le prime misurazioni geofisiche rappresentative della maggior parte della superficie lunare.”

Il carico utile LMS è stato finanziato per la consegna sulla superficie lunare dal programma CLPS. Lo SwRI ha progettato lo strumento, costruito l’elettronica e guida l’indagine scientifica. Il Goddard Space Flight Center della NASA, con sede a Greenbelt, Maryland, ha fornito il magnetometro LMS per la misurazione dei campi magnetici, mentre la Heliospace Corp. ha sviluppato l’asta del magnetometro e i quattro elettrodi utilizzati per la rilevazione dei campi elettrici.

Lo SwRI ha guidato lo sviluppo del Lunar Magnetotelluric Sounder (LMS), che comprende cinque sottosistemi e, insieme ai cavi di collegamento, ha un peso totale di circa 6,3 kg e un consumo energetico di circa 11 watt. L’LMS è atterrato ed è stato dispiegato nel bacino d’impatto di Mare Crisium con l’obiettivo di caratterizzare la struttura del sottosuolo lunare. Credit: Courtesy of SwRI

Seguendo il modello CLPS, la NASA sta investendo nei servizi commerciali di trasporto verso la Luna per favorire la crescita dell’industria spaziale e supportare l’esplorazione lunare a lungo termine. In qualità di principale cliente per le consegne CLPS, la NASA è solo uno dei tanti enti che utilizzeranno questi servizi nelle future missioni. Il Marshall Space Flight Center della NASA, con sede a Huntsville, Alabama, gestisce lo sviluppo di sette dei dieci carichi utili CLPS trasportati dal lander lunare Blue Ghost di Firefly.

Fonte: SwRI

Mariafelicia De Laurentis nominata Project Scientist di EHT e Nuova Direttrice Scientifica di Coelum

Mariafelicia de Laurentis Direttrice Scientifica di Coelum con l'Ing. Amalia Ercoli Finzi

A pochi giorni dall’annuncio ufficiale del nuovo incarico di Project Scientist dell’Event Horizon Telescope (EHT) conferito alla dott.ssa Mariafelicia De Laurentis, professoressa di astronomia e astrofisica all’Università degli Studi di Napoli Federico II e ricercatrice presso l’INFN (Comunicato Stampa INFN) con grande entusiasmo, la redazione di Coelum Astronomia annuncia che la Professoressa De Laurentis ha assunto il ruolo di Direttrice Scientifica della testata.

La dott.ssa De Laurentis a contribuito a determinare le prime immagini dirette dei buchi neri supermassicci, tra cui Messier 87 (M87*) e, soprattutto, Sagittarius A*, al centro della nostra galassia. Per SgrA*, ha avuto un ruolo chiave nella guida dei test di gravità, coordinando il gruppo di lavoro Gravitational Physics Input e dirigendo la pubblicazione scientifica dedicata. I suoi studi mirano a comprendere la fisica dei buchi neri, testando la relatività generale in condizioni estreme e indagando possibili deviazioni dalla teoria di Einstein. Precedentemente, è stata Deputy Project Scientist dell’EHT e componente del Consiglio scientifico della collaborazione. Ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, tra cui la Medaglia Einstein 2020 e il Breakthrough Prize in Fundamental Physics. Con oltre 250 pubblicazioni scientifiche, la sua ricerca si concentra sulla fisica della gravitazione e l’astrofisica relativistica, con particolare attenzione ai test della relatività generale in ambienti di campo forte, come quello dei buchi neri supermassicci. 

La sua esperienza e il suo prestigio internazionale porteranno un valore aggiunto inestimabile alla nostra missione di divulgazione scientifica, contribuendo a rafforzare il legame tra la comunità accademica e il pubblico degli appassionati di astronomia. Questo nuovo incarico rappresenta un’opportunità unica per ampliare e approfondire i temi trattati da Coelum, garantendo contenuti sempre più accurati, innovativi e al passo con le ultime scoperte scientifiche.

Sono onorata di assumere, insieme alla collega Molisella Lattanzi, il ruolo di Direttrice Scientifica di Coelum, una rivista che da anni rappresenta un punto di riferimento per la divulgazione astronomica.” le parole di Mariafelicia De LaurentisLa scienza dei buchi neri, della gravità e dell’Universo estremo è in continua evoluzione, e il nostro obiettivo sarà garantire che Coelum continui a offrire contenuti rigorosi, coinvolgenti e aggiornati sulle scoperte più recenti. Con il contributo di ricercatori e appassionati, vogliamo rendere l’astronomia accessibile, stimolando la curiosità e il dibattito su temi di frontiera. Crediamo fermamente che la conoscenza si costruisca attraverso il confronto e la condivisione, e Coelum sarà una finestra aperta sull’Universo, per specialisti e appassionati.

Molisella Lattanzi, Direttrice Editoriale di Coelum Astronomia, ha dichiarato: “Accogliere Mariafelicia De Laurentis nella nostra squadra rappresenta un momento di straordinaria crescita per tutta la redazione. La sua eccezionale carriera scientifica e il suo impegno nella ricerca di frontiera sui buchi neri la rendono una figura di riferimento a livello internazionale. Siamo certi che il suo contributo sarà fondamentale per rendere Coelum un punto di riferimento ancora più solido nella divulgazione astronomica, offrendo ai nostri lettori un’informazione sempre più accurata, stimolante e aggiornata. Collaborare con una scienziata del suo calibro è un grande onore e una straordinaria opportunità per tutti noi.

Rivolgiamo alla Professoressa De Laurentis i nostri più vivi complimenti per il nuovo incarico ricoperto. Siamo onorati di accoglierla nel nostro team e di intraprendere insieme questo nuovo percorso verso una divulgazione ancora più autorevole e appassionante.

Una Tazza di Tè Caldo al Buco Nero

I buchi neri supermassicci influenzano profondamente l’evoluzione delle galassie, riscaldando ed espellendo gas tramite potenti superventi. Un esempio notevole è la galassia “Tazza di Tè” (SDSSJ1430+1339), dove un quasar attivo ha generato un’enorme bolla di gas ionizzato.
Studi recenti, condotti con il MUSE del VLT, mostrano che questi venti trasportano elementi chimici nelle
regioni esterne, alterando la composizione della galassia. La scoperta dimostra il ruolo cruciale dei buchi
neri nel modellare la struttura e l’evoluzione dell’Universo.

Dentro ad un buco nero: is there anybody in there?

L’estremo interesse e fascino che suscitano i buchi neri è dovuto a tutto quello che accade, o dovrebbe accadere, al loro interno: uno spazio difficilmente accessibile per l’a­strofisica osservativa che si occu­pa di raccogliere i dati dalla luce proveniente dagli oggetti celesti. Nonostante ciò non può ricevere in­formazioni su tutto ciò che accade all’interno dell’orizzonte degli eventi, il limite spaziale calcolato da Karl Schwarzschild nel 1916, definito come il raggio che non può essere attraversato da niente e nessuno che si trovi all’interno di un buco nero, e quindi neanche dai fotoni di luce, nostro principale messaggero.
Questa caratteristica dei buchi neri ha dato origine a diverse congetture e speculazioni, più o meno compa­tibili con altre teorie scientifiche, ricamate ed arricchite da numerosi racconti di fantascienza. Per esem­pio: porte che conducono a universi paralleli, o cunicoli wormholes, vale a dire ‘buchi scavati da un verme dentro la mela’, i quali, unendo zone distanti dello spazio-tempo, ci permetterebbero di viaggiare in altri luoghi e tempi. In realtà queste idee sono del tutto estranee a quello che possiamo attualmente studiare mediante le osservazioni: tutto ciò che si trova al di là dell’orizzonte, cioè del raggio di Swartschild, resta per noi occulto, sebbene la teoria relativista continui a suggerirci i possibili scenari riguardo a ciò che potrebbe essere l’oltre.
L’astrofisica si occupa di studiare gli effetti che i buchi neri hanno sullo spazio circostante e sugli altri corpi celesti che si trovano sotto la loro influenza gravitazionale. Sono questi effetti che hanno permesso di passare dalla mera speculazione sulla loro esistenza, su cui lo stesso Einstein dubitava, ad avere prove inconfutabili e persino ad elaborare immagini dirette.

Composizione della galassia SDSSJ1430+1339 o Tazza da té, mediante due immagini: una prima nel rango ottico, ottenutadal telescopio spaziale Hubble HST, e colorata in rosso e verde, ed una seconda nel rango dei raggi X, ottenuta dal telescopio spaziale Chandra, e colorata in blu. Credits: immagine a raggi X NASA/CXC/Univ. of Cambridge/G. Lansbury et al; immagine ottica NASA/STScI/W. Keel et al.

Un primo indizio nel quasar galattico

Una delle prime prove si ottenne negli anni sessanta con la scoperta dei quasar. I quasar sono oggetti, distribuiti in tutto il cosmo e consi­stono in fonti puntiformi di emissio­ne elettromagnetica, inizialmente interpretate come prodotte da una nuova classe di stelle molto energe­tiche, da cui il loro nome: QUASAR (QUASi-stellAR objects, sorgenti quasi-stellari).

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Osserviamo il Lunistizio Maggiore – 7 marzo 2025

Domani sera, 7 marzo 2025, avremo l’opportunità di assistere a un evento astronomico raro e affascinante: il lunistizio maggiore di declinazione settentrionale. La Luna raggiungerà la sua declinazione massima di +28°29’32” alle ore 19:00 (ora italiana), apparendo insolitamente alta nel cielo.

Il lunistizio è un fenomeno astronomico che riguarda le variazioni estreme nella declinazione della Luna, ossia la sua posizione apparente rispetto all’equatore celeste. Questo evento avviene in cicli di circa 18,6 anni, determinati dalla combinazione dell’inclinazione dell’orbita lunare (circa 5,1° rispetto all’eclittica) e dell’obliquità dell’asse terrestre (circa 23,5°).

Durante un lunistizio maggiore, la Luna raggiunge declinazioni estreme, sia verso nord che verso sud, rispetto all’orizzonte locale. Questo significa che il nostro satellite sorge e tramonta in posizioni più lontane rispetto al solito, percorrendo archi più ampi o più ristretti nel cielo. Il fenomeno è particolarmente evidente quando la Luna è piena, poiché appare molto più alta o più bassa rispetto alla sua posizione abituale.

Al contrario, nei lunistizi minori, che avvengono circa 9,3 anni dopo i lunistizi maggiori, la Luna segue un percorso più contenuto, con variazioni declinazionali meno marcate.

Perché i Lunistizi sono Importanti?

Interesse storico e culturale: Molti siti archeologici, come Stonehenge, sembrano essere stati costruiti in allineamento con questi eventi, suggerendo che le antiche civiltà li osservassero con attenzione.
Effetti geofisici: Le variazioni nella declinazione lunare influenzano le maree e possono avere impatti su fenomeni climatici e geologici.

L’ultimo ciclo di lunistizi maggiori ha avuto inizio nel 2024 e proseguirà fino al 2025, offrendo agli appassionati di astronomia un’occasione unica per ammirare uno dei più affascinanti movimenti del nostro satellite naturale.

L’approfondimento sui LUNISTIZI è a cura di Salvatore Marinucci e disponibile QUI

SOLARIS: LE PRIME IMMAGINI IN BANDA RADIO DEL SOLE DAL NUOVO OSSERVATORIO ITALIANO IN ANTARTIDE

Vista di SOLARIS installato. Credits: Luca Teruzzi.

Da oggi, l’osservazione del Sole alle alte frequenze radio si arricchisce dei dati di Solaris, progetto scientifico coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica nell’ambito del Piano Nazionale di Ricerca in Antartide (PNRA). Partendo dal Polo Sud, Solaris punta a espandersi anche nell’emisfero settentrionale, creando una rete globale per un monitoraggio continuo del Sole, con importanti applicazioni per la meteorologia dello spazio.

Milano, 3 marzo 2025 – L’osservatorio Solaris è un innovativo progetto scientifico e tecnologico – frutto di una collaborazione tra diverse istituzioni scientifiche nazionali coordinate dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dall’Università degli Studi di Milano e dall’Università di Milano-Bicocca nell’ambito del PNRA (Piano Nazionale di Ricerca in Antartide) – finalizzato allo sviluppo di un sistema di monitoraggio continuo del Sole alle alte frequenze radio, per studi di fisica fondamentale, climatologia spaziale e interazioni Terra-Sole.

SOLARIS strumento di indagine sito in Antartide – Credits: Luca Teruzzi

Nonostante sia attivo da pochissimo tempo e ancora nelle fasi iniziali di sviluppo (è infatti passato poco più di un anno dalla sua costituzione), Solaris ha già prodotto dati interessanti dal punto di vista scientifico per applicazioni di climatologia spaziale, in particolare mappe solari che consentono di studiare in banda radio a 95 gigahertz l’evoluzione della regione attiva che ha prodotto le tempeste solari responsabili dell’aurora di capodanno, visibile anche alle nostre latitudini. Le immagini sono state ottenute nelle scorse settimane, e sono tuttora in fase di analisi e interpretazione da parte di un team multidisciplinare di esperti.

La possibilità di monitorare, comprendere e prevedere la mutevole fenomenologia solare e il suo notevole impatto con l’ambiente spaziale e il nostro pianeta è una sfida che acquista sempre più importanza” dice Alberto Pellizzoni, astrofisico INAF e responsabile scientifico del progetto Solaris, che prosegue: “Per affrontare questa sfida è necessario investire per trasformare e potenziare strumenti già esistenti o crearne di nuovi in una efficiente rete solare internazionale, anche nel contesto degli accordi in essere tra diversi Enti in Italia (INAF, INGV, ASI, Aeronautica Militare e varie Università) per sviluppare servizi dedicati allo Space Weather, e capire come il Sole influisca sulle nostre tecnologie e la nostra vita sulla Terra”.

Il progetto Solaris prevede l’implementazione di ricevitori radioastronomici dedicati e intercambiabili su piccoli radiotelescopi della classe di 2.6 metri di diametro, già presenti in Antartide nelle basi italiane Mario Zucchelli e Concordia e adattati per osservazioni solari ad alta frequenza, dell’ordine delle decine di giga hertz (Ghz). Ciò consente di ricevere onde radio emesse dal Sole, la cui lunghezza d’onda varia da qualche centimetro a qualche millimetro. Con questo tipo di osservazioni è possibile avere una nuova “finestra” in cui studiare il Sole e i suoi fenomeni, rilevando con precisione la temperatura e i brillamenti della corona solare e fare previsioni sulle possibili tempeste geomagnetiche. Al progetto, oltre alle sedi INAF di Cagliari, Bologna, Trieste, Milano e alle Università degli Studi di Milano e Milano-Bicocca, partecipano le Università di Roma Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, l’Agenzia Spaziale Italiana, l’Aeronautica Militare Italiana, l’Università Cà Foscari di Venezia, il Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Prima immagine del Sole in banda radio, osservato alla frequenza di 95 GHz in Antartide il 27 dicembre 2024. Crediti: Team Solaris

Francesco Cavaliere e Marco Potenza, del Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano, affermano: “Vediamo finalmente venire alla luce i primi risultati di un lungo progetto a cui abbiamo lavorato per quasi dieci anni, dopo che il PNRA ci aveva chiesto di prenderci carico delle infrastrutture nelle due basi. Il lavoro da fare è ancora moltissimo, ma i primi risultati sono di grande soddisfazione anche in funzione delle scarsissime risorse che abbiamo avuto a disposizione. La riuscita di questa prima fase è anche una valorizzazione delle attività svolte proprio a Milano, dove abbiamo un telescopio prototipo con cui validare tutte le procedure e risolvere gran parte dei problemi prima di arrivare a lavorare al Polo”.

Solaris rappresenta uno dei progetti di punta del PNRA in campo astrofisico ed uno tra i più promettenti programmi astrofisici che operano nelle aree polari a livello internazionale – sostiene Massimo Gervasi, docente dell’Università di Milano-Bicocca e membro del Physical Science Group dello SCAR (Scientific Committee on Antarctic Research) -. L’analisi delle immagini di Solaris, correlata con le immagini fornite dai satelliti a più alte energie da un lato e i dati sulle particelle energetiche solari dall’altro, aiuterà a comprendere meglio i fenomeni fisici che stanno alla base delle emissioni solari energetiche”.

In presenza di condizioni di visibilità del cielo ottimali come quelle antartiche, Solaris sarà l’unica installazione a offrire un monitoraggio continuo del Sole ad alte frequenze radio permettendo di osservare le variazioni che avvengono nella cromosfera solare, uno strato dell’atmosfera della nostra stella in cui si formano fenomeni altamente energetici come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. Monitorare le variazioni in questa banda radio permette di identificare segnali precursori di tempeste geomagnetiche, che potrebbero interferire con le nostre tecnologie nello spazio e a terra.

La cupola che custodisce SOLARIS. Credits: Luca Teruzzi.

La scelta di posizionare a una latitudine così meridionale Solaris non è dovuta solo alla limpidezza dell’atmosfera, garantita dalla bassa umidità che altrimenti assorbirebbe i segnali radio ad alta frequenza, ma anche e soprattutto alla lunga persistenza del Sole nel cielo durante l’estate antartica (che corrisponde al nostro periodo invernale), seppure molto basso rispetto all’orizzonte. Nei pressi dei poli terrestri, infatti, è possibile – durante i rispettivi periodi estivi – osservare la nostra stella per oltre 20 ore al giorno.

Per poter offrire un monitoraggio solare costante durante tutto l’anno, il progetto Solaris sarà dunque implementato anche nell’emisfero settentrionale con lo sviluppo di una stazione sulle Alpi (presso l’Osservatorio climatico Testa Grigia del CNR, a 3500 metri s.l.m., in Valle D’Aosta) e altre in Scandinavia e regioni Artiche, grazie all’interesse internazionale destato da queste prospettive.

Fonte: SOLARIS

Vita su Marte: la Risposta dalle Rocce?

Gli autori da oltre vent’anni cerchiamo indizi sulla presenza di vita sul Pianeta Rosso. Grazie
a continui sviluppi tecnologici e nuove osservazioni, è stato possibile ampliare il panorama
delle ipotesi sulla vita marziana. Nel recente libro Compelling Evidence of Fossils and
Microbialites on Ancient Mars (Cambridge Scholars, settembre 2024), vengono discussi
nuovi ritrovamenti e reinterpretati i dati già esistenti, offrendo uno scenario più ampio sull’evoluzione
della vita su Marte. Il libro contiene oltre 100 immagini, descritte e commentate e
analisi matematiche delle forme evidenziate dalle fotografie ottenute dai Rover NASA. Il tutto
sembra indicare la possibile presenza di microorganismi in epoche antiche. Tuttavia, l’interpretazione
di tali evidenze richiede cautela e ulteriore approfondimento.
Ma facciamo un passo indietro e partiamo quindi dalla domanda: ha senso cercare vita su
Marte? Ci sono o ci sono state condizioni di abitabilità nel Pianeta Rosso?

di Giorgio Bianciardi e Vincenzo Rizzo 

Condizioni di abitabilità: le quattro età di Marte.

Condizioni di abitabilità: le quattro età di Marte. Quali sono le possibilità che Marte abbia mai ospitato la vita? Numerose sonde hanno esplorato il pianeta, sia americane che europee, utilizzando rover per scandagliare la superficie e orbiter per catturare immagini dettagliate. Questi studi hanno permesso di ricostruire con grande precisione la storia del pianeta. È noto1 che nell’antico Marte, miliardi di anni fa, l’acqua liquida era diffusa, vi era un campo magnetico globale che proteggeva dalle radiazioni ostili, un’atmosfera più densa e una temperatura probabilmente simile a quella terrestre. Tuttavia, queste condizioni favorevoli alla vita non sono durate per sempre. Oggi si conoscono quattro fasi principali della storia marziana:

Pre-Noachiano (4,5 – 4,1 miliardi di anni fa)

Un periodo caratterizzato da un’atmosfera molto densa e un possibile oceano globale di acqua allo stato liquido, sicuramente fiumi e un ciclo idrogeologico. La temperatura media almeno in alcune zone maggiore di 0° C. Fiumi e un ciclo idrogeologico attivo potrebbero aver creato una finestra per la comparsa della vita, addirittura centinaia di milioni di anni prima che la vita sorgesse sulla Terra.

Noachiano (4,1 – 3,7 miliardi di anni fa)

Anche nel Noachiano sembra persistere una condizione favorevole alla presenza di acqua corrente sulla superficie marziana, È un periodo di bombardamenti pesanti, con numerosi impatti di asteroidi e comete (come avvenne sulla Terra a quel tempo). A giocare un ruolo significativo in questa era sono le eruzioni dei molti vulcani in grado di arricchire l’atmosfera di vapore acqueo e minerali. Alcuni studi sostengono tuttavia che dopo i 4 miliardi di anni le temperature non superarono più lo zero.

Esperiano (3,7 – 2,9 miliardi di anni fa)

L’attività geologica globale rallenta, sia pur in presenza ancora di un notevole vulcanismo: enormi quantità di acqua e anidride solforosa ricadono sulla superficie. Il clima inizia a diventare più freddo, l’acqua si trasforma così in permafrost oppure ghiaccio sotterraneo. Non è da escludere però che nuovi impatti, sciogliendo permafrost e ghiaccio, possano aver rigenerato condizioni favorevoli allo sviluppo di forme di vita.

Figura 1. Cratere Mojave, Marte, oggi. Credit: ESA, Mars Express.

Amazzoniano (2,9 miliardi di anni fa-presente)

La superficie del pianeta diventa secca e arida. Le rocce si alterano molto lentamente per effetto di agenti atmosferici poco attivi, intervallati solo da occasionali e brevi ritorni a condizioni più calde e umide. L’atmosfera diviene così sottile che l’acqua ora si vaporizza istantaneamente dalla superficie. Inizia l’aspetto attuale di Marte. Tuttavia, il clima e la stabilità dell’acqua sulla superficie continuano a variare nel corso di migliaia e milioni di anni, ad esempio per come l’inclinazione assiale del pianeta subisce i suoi cambiamenti, ciclici.

 

Prime indagini: VIKING

Il 20 luglio 1976, il lander Viking 1 atterrò nella regione marziana di Chryse Planitia. Pochi mesi dopo, il 3 settembre 1976, il Viking 2 atterrò a Utopia Planitia, una regione distante migliaia di chilometri. Entrambi i lander erano equipaggiati per condurre tre esperimenti biologici sulla regolite marziana triturata: Gas Exchange, Pyrolytic Release e Labeled Release.

Tra questi, il più promettente risultò essere il Labeled Re lease, guidato dal Principal Investigator Gilbert V. Levin. L’esperimento mirava a determinare se l’aggiunta di sostanze nutritive, come aminoacidi semplici (glicina e alanina) e altre molecole organiche facilmente metabolizzabili, avrebbe indotto una risposta nel suolo marziano, come la liberazione di anidride carbonica o altri composti carboniosi. Un risultato che sarebbe stato indicativo della presenza di forme di vita capaci di metabolizzare proprio tali sostanze.  Durante il giorno marziano 8 (Sol 8), venne aggiunto terreno nutritivo al campione prelevato dal Viking 1. Ogni 16 minuti furono misurati i livelli di gas marcati rilasciati, i quali mostrarono fluttuazioni significative.

Figura 2. I 3 esperimenti biologici su Marte compiuti dai Lander dei
Viking.

Due giorni dopo, il risultato sembrava indubitabile: una liberazione di anidride carbonica coerente con quella prodotta da microorganismi terrestri in condizioni simili. Levin celebrò il risultato con una bottiglia di champagne e raccolse le firme dei membri del team per commemorare quella che sembrava essere una scoperta rivoluzionaria: la vita su Marte. Entrambi i Viking confermarono più volte il rilascio di gas con l’aggiunta di sostanze organiche a nuovi campioni di regolite. Tuttavia, il gas cromatografo-spettrometro di massa a bordo dei due lander non rilevò tracce di composti organici. Fu una doccia fredda che indusse a interpretazioni alternative dei dati e a una crescente cautela nelle affermazioni. Solo anni dopo, si scoprì che alcuni bias metodologici avrebbero potuto influenzare le analisi del tempo.

Figura 3. Un evidente
rilascio di anidride carbonica
dopo l’aggiunta
della “pappa nutritizia”,
come avrebbe fatto un
qualunque microorganismo
terrestre. E’ il 30
luglio 1976: Levin e i suoi
collaboratori: abbiamo
scoperto la vita su Marte.
(cortesia di Gilbert Levin
all’Autore).

Nel 1996, un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Science riaprì il dibattito sulla presenza di vita su Marte. Una meteorite, ALH 84001, trovata in Antartide e datata a circa 3,6 miliardi di anni fa, sembrava fornire nuove prove. Si scoprì che la roccia, proveniente da Marte, era stata immersa in acqua liquida e conteneva composti organici autoctoni, oltre a cristalli di magnetite analoghi a quelli costruiti sulla Terra da batteri. Una scoperta che, seppur controversa, contribuì a rilanciare l’interesse per la ricerca di vita su Marte.

Entrambi i Viking confermarono più volte il rilascio di gas con l’aggiunta di sostanze organiche a nuovi campioni di regolite. Tuttavia, il gas cromatografo-spettrometro di massa a bordo dei due lander non rilevò tracce di composti organici. Fu una doccia fredda che indusse a interpretazioni alternative dei dati e a una crescente cautela nelle affermazioni. Solo anni dopo, si scoprì che alcuni bias metodologici avrebbero potuto influenzare le analisi del tempo.

Nel 1996, un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Science riaprì il dibattito sulla presenza di vita su Marte. Una meteorite, ALH 84001, trovata in Antartide e datata a circa 3,6 miliardi di anni fa, sembrava fornire nuove prove. Si scoprì che la roccia, proveniente da Marte, era stata
immersa in acqua liquida e conteneva composti organici autoctoni, oltre a cristalli di magnetite analoghi a quelli costruiti sulla Terra da batteri. Una scoperta che, seppur controversa, contribuì a rilanciare l’interesse per la ricerca di vita su Marte.

Figure 4-5. Rocce di Marte piovono sulla Terra! “Tissint”, una roccia
marziana. A sinistra, la crosta di fusione prodotta dall’attraversamento
dell’atmosfera terrestre, punto in cui la roccia sulla sua superficie raggiunge
temperature superiori a 1000°C. A destra la sua faccia interna
(64X), “megacristalli” di olivina ovoidale, caratteristici di questa roccia
marziana, immersi nella matrice limpida di piccoli pirosseni cristallini.
G. Bianciardi, collezione privata.

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L’articolo è pubblicato in COELUM 272 VERSIONE CARTACEA

OSSERVAZIONE DEL VANGUARD 1, IL PIÙ VECCHIO SATELLITE ARTIFICIALE ANCORA IN ORBITA

Cenni storici

Nei piani degli USA il primo satellite artificiale della storia ad orbitare attorno alla Terra doveva essere loro. Sarebbe stato il contributo americano per l’Anno Geofisico Internazionale previsto tra il 1957 e il 1958. Tra le proposte prese in esame venne scelto il progetto Vanguard, alla cui direzione c’era la marina statunitense. Consci che anche l’Unione Sovietica stava lavorando, pur molto più silenziosamente, allo stesso obbiettivo, gli americani erano però convinti di essere in grande vantaggio sui rivali e rimasero scioccati quando il 4 ottobre 1957 vennero anticipati dalla messa in orbita dello Sputnik 1, che girò attorno al nostro pianeta per 3 mesi prima di distruggersi rientrando in atmosfera. Un mese dopo, il 3 novembre 1957, i sovietici lanciarono lo Sputnik 2 con a bordo la cagnolina Laika, che si distrusse rientrando in atmosfera più di cinque mesi dopo. Messi sotto pressione, il 6 dicembre 1957 gli americani affrettarono troppo i tempi rimediando una figuraccia. Il razzo TV3 che doveva segnare la riscossa a stelle e strisce esplose infatti al decollo deludendo le eccessive aspettative. Finalmente il primo febbraio 1958 fu il razzo Jupiter-C a portare nello spazio il primo satellite americano, l’Explorer 1, che rimase in orbita per dodici anni prima del distruttivo rientro sulla Terra. Un mese e mezzo dopo, il 17 marzo 1958, gli americani lanciarono il Vanguard 1. Il minuscolo satellite era costituito da una sfera di alluminio di nemmeno 17 centimetri di diametro del peso di 1,5 kg da cui fuoriuscivano sei antenne di 30 cm. Venne inserito su un’orbita ellittica di 654 x 3969 km. E fu il primo a montare pannelli fotovoltaici per alimentare la propria strumentazione. L’ultimo suo segnale fu ricevuto nel maggio del 1964. A differenza dei suoi predecessori però, il manufatto è ancora in orbita e si ritiene che vi resterà ancora per qualche secolo.

Il tentativo

L’osservazione dei satelliti artificiali è un campo che da anni mi affascina, soprattutto se sono luminosi e/o prestigiosi. Nel febbraio del 2023 accedendo al noto ed affidabile sito heavens-above.com, che riporta e traccia i passaggi di tanti oggetti lanciati dall’uomo, entrai nel database notando che erano presenti satelliti molto vecchi di cui era possibile ricostruire il passaggio e conoscere la luminosità prevista. Mi interessai al Vanguard 2, il primo satellite meteorologico della storia lanciato nel febbraio del 1959, che veniva dopo il più antico della lista, il Vanguard 1, meno luminoso. Proprio la luminosità migliore mi fece concentrare sul primo, che secondo i dati forniti da HeavensAbove arrivava talvolta a sfiorare la decima magnitudine. Ne tentai l’osservazione poco tempo dopo servendomi di un binocolo dal diametro generoso. Seppure un po’ meno luminoso delle previsioni rimasi molto soddisfatto nell’avvistare il secondo oggetto più antico lanciato dall’uomo ancora in orbita. Motivato dal successo vinsi i dubbi e mi concentrai sul più vecchio in assoluto il Vanguard 1, decisamente più difficile, che nei momenti migliori, secondo i dati riportati, si avvicina all’undicesima magnitudine. Tentai sia di osservarlo direttamente che di registrarlo fotograficamente, ma non riuscii in nessuno dei due intenti. Mi chiesi a quel punto se i dettagli del passaggio fossero davvero corretti e po’ deluso richiusi nel cassetto il progetto. Quel cassetto lo avrei riaperto tempo dopo, quando gli stimoli sarebbero tornati.

Il sogno si avvera

Pomeriggio del 24/1/2024. Dopo aver scaricato dal sito la traccia del passaggio del Vanguard 1, tramite il mio software astronomico (Perseus) affino i dettagli del passaggio. Aspetterò il satellite in un punto prestabilito non distante dalla stella Zeta Virginis di magnitudine 3,37. Vanguard 1 raggiungerà in quel momento la dodicesima grandezza, non il massimo assoluto possibile ma alla portata del riflettore da 30 cm. che userò per il tentativo. L’orario del transito è di quelli davvero scomodi, le 3.40 della notte. Sono sul posto ovviamente prima per preparare tutto nei dettagli. Il cielo è splendido, buio e limpido. Tramite lo star-hopping muovo lo strumento da Zeta Virginis fino alla stellina nei cui pressi è previsto il transito del satellite. Applico poi l’oculare da 15 mm. che mi fornirà 80 ingrandimenti. Sarei facilitato con un ingrandimento più basso ed un conseguente campo maggiore, ma non voglio rischiare che la luminosità del fondo cielo, aumentando, renda meno nitido lo sfondo. Di contro il campo minore, se le coordinate fossero anche solo leggermente sbagliate, potrebbe negarmi la visione del satellite. Cinque minuti prima del momento topico comincio nervosamente ad osservare, regolando nei minimi dettagli la messa a fuoco e la posizione. Due minuti prima mi attacco all’oculare non staccandomi più. L’orario del passaggio potrebbe magari differire rispetto a quello previsto. Il tempo trascorre veloce, chissà se stavolta verrò premiato. D’un tratto ecco un flebile puntino comparire e subito sparire nella zona bassa dell’oculare. Stacco l’occhio incredulo, il Vanguard 1 si è materializzato per un istante, quel tanto che mi ripaga della levataccia, del freddo, dei lunghi preparativi e dei dubbi. Continuo a ripetermi, –L’ho visto davvero…-. Si, è così, a quasi sessantasei anni dal lancio ho visto il più antico reperto spaziale esistente sfrecciare tra le stelle.

La MezzaLuna e la Stella: Astronomia Islamica

Didascalia: Testo e astrolabio dal libro della nascita di Iskandar, nipote di Tamerlano Data: XV secolo Fonte: https://wellcomecollection.org/works/aayxb8gn Autore: Wellcome Collection

Trovare soluzioni realistiche tra inquinamento luminoso e illuminazione del patrimonio culturale.

Sappiamo già che il Medioevo non esiste. O meglio, certamente non esiste nella versione parodistica e deformata a cui si era portati a pensare da una lettura limitata e parziale della Storia: guerre, pestilenze, carestie, inquisizioni, e in generale un periodo di ignoranza e oscurantismo. Grazie ad un rinnovato interesse per il racconto storico, e anche al lavoro di diversi divulgatori, si sta finalmente diffondendo una rivalutazione del periodo storico che va dal quinto al quindicesimo secolo, e che viene scolasticamente indicato come Medioevo. Che non era certamente un periodo oscuro tra la luce della Classicità e i lumi della Modernità, ma un millennio che ci ha regalato un’arte sublime, una letteratura affascinante, una tecnica raffinata, e una creatività politica senza precedenti. Anche la scuola si è aperta a questa diversa visione del Medioevo, e questo ha dato la possibilità a docenti e discenti di esplorare nuove letture di un periodo storico così ampio e differenziato.

Didascalia: Fasi lunari
Data: XI secolo
Fonte: Biblioteca Museo del Parlamento Iraniano
Autore: Muhammad al-Biruni
Credits: pubblico dominio

C’è inoltre un altro aspetto che bisogna considerare: quello di una visione profondamente euro-centrica della Storia. Anche in questo campo, molti passi sono stati fatti e molti altri si stanno facendo per offrire ai discenti una prospettiva che sia davvero rappresentativa di una Storia umana molto più complessa e ramificata di quanto fosse tradizionalmente insegnato. Ancora di più, questo aspetto non può essere trascurato nel contesto scolastico contemporaneo, nel quale sappiamo che una percentuale, ampia di studenti e studentesse provengono per prima o seconda generazione dal Mediterraneo, o paesi del Medio Oriente, quindi generalmente (ma non necessariamente) sono di cultura islamica e di lingua araba. Esistono numerosi punti di interesse nei discorsi che si possono fare riguardo le questioni di immigrazione, integrazione, inclusione, cittadinanza, emancipazione, ma in questo caso mi voglio concentrare su un aspetto molto preciso e molto particolare, ma che può risultare interessante da approfondire.

Didascalia: Mappa zodiacale e case lunari
Data: XVI secolo
Fonte: Museo dell’Arte Turca e Islamica di Istambul
Autore: manoscritto Zubdat-al Tawarikh
Credits: pubblico dominio

È infatti ragionevole concludere che la storia della scienza, come viene tradizionalmente insegnata, abbia subito gli effetti di due pregiudizi: da una parte, il Medioevo come epoca dei “secoli bui”, e dall’altra la Storia intesa sostanzialmente come “storia dell’Europa”. Da questo combinato disposto risulta quindi spesso che l’influenza dei paesi di cultura islamica e di lingua araba nella storia della scienza durante il periodo medioevale venga derubricato ad un breve capitolo, che suona sostanzialmente come “durante il Medioevo si persero tutte le conoscenze degli antichi greci e romani, finché finalmente arrivò il Rinascimento che fece riscoprire tutte quelle conoscenze che erano in parte state conservate dalle traduzioni in lingua araba”, che ovviamente non solo è una visione parziale della storia, ma è anche umiliante per tutta la produzione originale di conoscenza che ci è arrivata dai paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. L’astronomia, in particolare, contiene al suo interno un contributo enorme dovuto alle osservazioni, agli studi, e alle intuizioni di figure di fondamentale importanza nate in seno alla cultura islamica, e i cui nomi sono spesso sconosciuti ai più se non appassionati di storia dell’astronomia, come Muhammad al-Khwarizmi, Ahmad al-Farghani, Muhammad al-Battani, Ali Ibn al-Shatir, Nur al-Bitruji.

 

Parlarne può essere un ottimo esercizio, con molteplici vantaggi. Non solo costruire competenze trasversali per tutto il gruppo di discenti, ma anche aiutare ragazze e ragazzi con un retroterra familiare diverso ad acquisire consapevolezza dei contributi scientifici portati dalla cultura del paese di origine della loro famiglia, nonché ovviamente allargare gli orizzonti interculturali degli studenti e delle studentesse inserendo nuove prospettive sulla costruzione condivisa del capitale di competenze della scienza moderna.

Didascalia: Astrolabio persiano
Data: XVIII secolo
Fonte: Museo Whipple di storia della scienza, Cambridge
Autore: Andrew Dunn

Il segno impresso con efficacia dalla cultura islamica nell’astronomia è ad esempio il nome attribuito ad un gran numero di stelle, che hanno spesso una radice nella lingua araba, riconoscibile facilmente dal prefisso al- corrispondente all’articolo determinativo. Tra i casi più noti e famosi, troviamo Aldebaran (“colei/colui che seguace”), Altair (“[l’aquila] che vola”), Alcor (“la debole”), Algol (“il demone”), Arrakis (“la danzatrice”), Betelgeuse (“la mano del gigante”), Deneb (“la coda”), Dubhe (“l’orso”), Fomalhaut (“la bocca del pesce”), Mizar (“la cinta”), Rigel (“il piede [del gigante]”), Vega (“[l’aquila] che si posa”), ma ce ne potrebbero essere moltissimi altri per essere spunto su una riflessione non solo storica e scientifica, ma anche linguistica.

Infine, è interessante notare come un’immagine che rappresenta oggetti astronomici sia diventato un simbolo utilizzato per rappresentare la cultura islamica: la mezzaluna e la stella . Come per tutti i simboli culturali, esistono varie e diverse interpretazioni sul suo significato, da quelli storici a quelli spirituali, ma in ogni caso è indubbio come questa scelta sottolinei e metta in risalto il fortissimo legame tra la cultura islamica e l’astronomia.

Nelle immagini a corredo di questo articolo molti altri esempi di strumenti e studi astronomici sviluppati nei primi secoli sopo l’anno mille. L’alto livello di comprensione è testimoniato da l’accuratezza delle rappresentazioni.

Didascalia: Moschea di Kota Kinabalu, Malaysia.
Data: 15 febbraio 2009
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Golden_Crescent_Moon.jpg
Autore: Dcubillas

L’idea quindi di sviscerare e meglio inquadrare il ruolo del contributo medio-orientale nello sviluppo delle discipline astronomiche presenta non solo una importante occasione di apprendimento interdisciplinare, ma una tema organico per l’inclusione sociale nel contesto della scuola contemporanea che va attentamente approfondito.

L’articolo è pubblicato in Coelum 257

Il Pianeta dei Robot: Robotica e coding per la didattica dell’astronomia

Locandina del Laboratorio dedicato alla robotica, organizzato da Pierdomenico Memeo durante l'edizione di Galassica del 2021.

Trovare soluzioni realistiche tra inquinamento luminoso e illuminazione del patrimonio culturale.

Gruppo nutrito, età variabile, assortimento umano in età scolare. In mezzo, una ragazzina sugli 8 o 9 anni: salopette, treccine, e occhioni, completo d’ordinanza della fanciullezza.
Allora: abbiamo visto quali sono i rover sbarcati su Marte nel corso degli anni. Adesso è il momento di costruire! Che cosa servirà al nostro rover per andarsene in giro sul pianeta rosso?
Silenzio.
Forza. Nessuna timidezza. Non ci sono risposte sbagliate, solo soluzione da valutare insieme. Tu, per esempio: prova a fare un’ipotesi.
Io? Boh. Non so. Le ruote?
Benissimo. Mi sembra un’ottima idea. E cosa serve per muovere le ruote?
Il motore?
Eccellente. Questo è il cacciavite, là ci sono i pezzi che servono. Comincia a montare.
Ma… io?
Certamente. Chi, se no? Ora sei tu l’ingegnera. Al lavoro.
Oh. Ok!

Pierdomenico Memeo autore dell’articolo durante un’attività simulata in ambiente marziano. Galassica Festival dell’Astronomia.

Lo so, lo so: troppo bello per essere vero. Eppure, sotto un sottile strato di vernice editoriale necessaria alla trascrizione della conversazione, questa è la rappresentazione fedele di una delle tante esperienze che mi sono capitate negli anni come divulgatore ed educatore scientifico. Ho scelto proprio questa esperienza personale per inaugurare questa rubrica dedicata alla didattica dell’astronomia perché credo che racchiuda molte delle chiavi di lettura per una vera educazione alla scienza: a partire dal metodo socratico, fino al superamento degli stereotipi di genere, tutti aspetti imprescindibili per una didattica efficace e inclusiva. Ci sono molti modi per insegnare la scienza: dalla lezione tradizionale al laboratorio didattico, dalla classe ribaltata all’apprendimento collaborativo. Io non credo che esista un metodo migliore o peggiore; l’insegnamento, come un abito su misura, deve soddisfare due condizioni: calzare alle necessità di chi lo utilizza, ed essere adeguato alla situazione nella quale si usa. Sia che indossiamo una toga accademica o una tuta da lavoro, quando queste due condizioni sono allineate, allora stiamo facendo della buona didattica. In questa rubrica parlerò quindi di numerose modalità di insegnamento, senza alcuna velleità di completezza, ma limitandomi a presentare esperienze di apprendimento per facilitare lo scambio di buone pratiche necessarie al conseguimento degli obiettivi didattici dell’educazione alla scienza.

In questa prospettiva, voglio quindi cominciare con un aspetto che mi è particolarmente caro, quello dell’apprendimento laboratoriale. Nella didattica delle scienze, infatti, mi sono sempre avvalso di un approccio pratico: montare, provare, riprovare, sbagliare, ricominciare. Non sempre è possibile, ma l’attività di laboratorio rende più chiaro e più solido il senso di quello che viene spiegato durante le ore di scienze: la scienza, mi piace ricordare, si fa soprattutto, e prima di tutto, con le mani. Vale la pena ricordare altresì che il laboratorio di scienze non è necessariamente solo cavi e brugole, ma esiste tutta una categoria di attività pratiche che si estende all’informatica e alla programmazione: la competenza digitale è ormai infatti un capacità che non può essere ignorata in nessun laboratorio.

il laboratorio “Il Pianeta dei robot”, a cura di Pierdomenico Memeo, presentato in occasione dell’edizione 2021 di Galassica – il Festival dell’Astronomia

Quando si parla di didattica dell’astronomia, l’immagine che abbiamo è spesso quella del laboratorio di ottica geometrica. Vale invece la pena ricordare che esiste tutto l’ambito della tecnologia spaziale, e in particolare quella legate all’esplorazione robotica. Questa rappresenta, per il secondo ciclo della scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado, l’opportunità di sperimentare modalità di apprendimento pratiche e interattive: in questo contesto, l’immagine che più di tutte si presta alla curiosità e al coinvolgimento è certamente quella dei rover marziani. Dal 1997 con la missione Pathfinder, attraverso l’epopea dei rover gemelli Spirit e Opportunity, il successo enorme di Curiosity, fino ad arrivare al nostro 2021 con Perseverance e Zhurong, i piccoli (o non tanto piccoli) robot semoventi sulla superficie di Marte hanno sempre creato empatia e partecipazione, specialmente nei giovani e giovanissimi. Risulta quindi naturale utilizzare proprio questi protagonisti per le attività didattiche, per ricostruire la progettazione e la pianificazione delle missioni, dal loro aspetto ingegneristico a quello informatico, per acquisire le competenze scientifiche e tecnologiche.

Ma come trasformare un’idea in una attività didattica strutturata? L’approccio orientato alla risoluzione dei problemi può darci un mappa per orientarci in questa transizione. La prima fase, quindi, non può che essere quella di ricerca, utilizzando, in autonomia o in maniera guidata, semplici motori di ricerca o wiki/ipertesti realizzati appositamente e di cui non è difficile trovare esempi in rete. La comprensione delle soluzioni adottate fornisce la base delle azioni successive, costituite da “missioni” di difficoltà crescente, che costituiscono il cuore delle attività.

Per la loro realizzazione, esistono da tempo in commercio piattaforme robotiche modulari ad uso educativo, veri e propri piccoli robot programmabili, che possono essere utilizzati come strumenti per varie attività di costruzione e programmazione. Ce ne sono diversi, ognuno con le proprie caratteristiche, ma certamente quelli più adatti alle attività relative alla didattica dell’esplorazione spaziale sono quelli che è possibile modificare in modo da rispondere alle necessità delle “missioni marziane”. Se da una parte infatti l’utilizzo di robot didattici in kit permette di concentrarsi sulla qualità della programmazione che, a causa delle distanze letteralmente siderali, costituisce una parte imprescindibile dell’esplorazione spaziale, la possibilità di unire anche una parte di meccanica rende l’aspetto laboratoriale più pratico e creativo, capace di adattarsi a gruppi differenti. Uno degli aspetti più arricchenti di queste attività, infatti, è la possibilità di utilizzare metodologie di apprendimento collaborativo, con le quali dare ad ogni elemento del gruppo classe un ruolo all’interno dei gruppi di lavoro, rispettando abilità e inclinazioni di ciascuno, affiancando alle attività tecnologiche anche lo studio e la realizzazione degli aspetti “divulgativi”, come il disegno di loghi o storyboard della “missione marziana”.

Partendo quindi da una attività didattica di astronomia, è possibile alla fine progettare laboratori pratici orientati all’acquisizione di competenze scientifiche, tecnologiche, digitali, ma anche sociali e comunicative, in una visione organica e integrata dell’apprendimento. Perché la “scienza delle stelle” non può e non deve essere solo una curiosità per appassionati e cultori della materia, ma un patrimonio comune di tutti i cittadini di oggi, e soprattutto di domani.

L’articolo è pubblicato in Coelum 254

La Luna del Mese – Marzo 2025

LA LUNA DI MARZO 2025

Dopo la Luna Nuova con cui si è chiuso il mese scorso (il 28 alle 01:45) Marzo parte subito con un nuovo ciclo lunare che, come ormai sappiamo, ci presenterà il nostro satellite con porzioni della sua superficie sempre più illuminate dalla luce solare fino a ripristinare le condizioni gradualmente più favorevoli all’osservazione telescopica. Infatti alle ore 17:32 del 06 Marzo la Luna sarà in Primo Quarto in fase di 6,6 giorni ad un’altezza di +73° sopra l’orizzonte. Per effettuare osservazioni col telescopio basterà attendere poco più di un’ora e, dopo il transito in meridiano delle ore 18:08 a +75°, si renderà visibile per tutta la serata e fino alle prime ore della notte seguente quando poco dopo le 02:00 scenderà sotto l’orizzonte.

Dopo avere puntato il telescopio sull’area del bacino da impatto comunemente noto come “mare Nectaris” di 350 km di diametro con superficie di 101.000 kmq, potrà rivelarsi estremamente interessante cercare di individuare quanto oggi rimane dei vari anelli concentrici di questa eccezionale struttura geologica la cui formazione deriva dalla forza dell’onda d’urto sprigionatasi in seguito all’impatto originario. Infatti venne accertata (Baldwin 1949) la presenza di un anello più interno di 240 km di diametro oltre a più ampie strutture concentriche di 400 km, 620 km, 860 km fino all’anello più esterno esteso su un diametro di 1320 km il quale comprende anche l’imponente e notevole scarpata della Rupes Altai. Inoltre nella medesima serata la massima librazione coinciderà con l’area del bacino da impatto noto come “mare Australe” situato nel settore sudest della Luna ma esteso anche nell’altro emisfero.

Il procedere della fase crescente porterà il nostro satellite in Plenilunio alle ore 07:55 del 14 Marzo ad una distanza dalla Terra di 402308 km, diametro apparente 29.70’ ma si troverà a -16° sotto l’orizzonte. Come sempre accade in casi analoghi per le osservazioni al telescopio sarà sufficiente attendere il tardo pomeriggio quando alle ore 18:38 sorgerà in fase di 14,7 giorni presente in cielo fin verso l’alba del mattino seguente quando, contestualmente al sorgere del Sole, la Luna scenderà sotto l’orizzonte. Molto è già stato scritto riguardo l’utilità o meno delle osservazioni telescopiche sulla Luna Piena e sappiamo benissimo come varia la percezione anche di un medesimo dettaglio al variare dell’altezza del Sole sull’orizzonte lunare, pertanto non sarà proprio il caso di scandalizzarsi se qualche appassionato in una notte di Plenilunio orienterà il proprio telescopio verso quel pallone biancastro apparentemente insignificante ma invece sempre ricco di informazioni sulla variegata storia geologica del nostro satellite, basta andare a cercarle.

Ripartita la fase calante, alle ore 12:30 del 22 Marzo la Luna sarà in Ultimo Quarto a -21° sotto l’orizzonte (dopo essere tramontata alle 10:18), mentre per andare alla ricerca di dettagli sulla sua superficie con un telescopio si renderà necessario attendere fino alle ore 02:50 della notte seguente (il 23 Marzo) quando sorgerà in fase di 22,7 giorni. Segnalo che l’occasione può essere interessante per effettuare osservazioni nel settore nordovest della Luna e precisamente in prossimità della zona più settentrionale dell’oceanus Procellarum ora nota come “Lavoisier-Mairan Impact Basin” in cui il fenomeno della librazione favorevole potrà agevolare (seeing permettendo….) l’individuazione di strutture situate oltre il bordo lunare.

Terminata la fase calante, alle ore 11:58 del 29 Marzo il nostro satellite, allineato fra il Sole e la Terra, sarà in Novilunio con l’emisfero buio in questo caso rivolto verso il nostro pianeta, andando così a chiudere questo mese la sera del 31 Marzo con una sottile falce di poco più di 2 giorni e con un nuovo ciclo lunare appena iniziato.

Congiunzioni Notevoli

Congiunzione Luna-Giove

Alle ore 12:30 del 6 Marzo il pianeta Giove sarà in congiunzione abbastanza larga (separazione di 5,6°) con la Luna in fase di 7 giorni ad un’altezza di +22/23° sull’orizzonte ma questa volta in orario diurno e col Sole alla distanza di 88°. Con un telescopio l’utilizzo di un filtro IR Pass potrà rivelarsi molto utile per scurire drasticamente il fondo cielo in modo particolare per l’individuazione di Giove, facendo attenzione a non intercettare la luce solare.

Congiunzione Luna-Marte

Congiunzione fra il pianeta Marte ed il nostro satellite alle ore 01:26 del 9 Marzo con la Luna in fase di 9,8 giorni ad un’altezza di +26/27°. I due oggetti giungeranno ad una separazione minima di 1,20° garantendo pertanto un altro spettacolare evento lunare a cui potremo assistere nel corso del mese.

Congiunzione Luna-Saturno

Congiunzione fra il pianeta Saturno e la Luna nel primo pomeriggio (ore 13:14) del 28 Marzo col nostro satellite in fase di 28,4 giorni (mancherà 1 solo giorno al Novilunio del 29 Marzo ore 11:58 !!) e ad un’altezza di +38°. La separazione fra Saturno e la Luna sarà di 1,12° mentre entrambi si troveranno a 13/14° di distanza dal Sole. Si tratterà pertanto di una congiunzione alquanto problematica considerando che osservazioni al telescopio richiederanno l’utilizzo di un filtro IR Pass per scurire il fondo cielo illuminato dal Sole in quanto si tratterà di individuare una sottile falce lunare di 28,5 giorni e il pianeta Saturno posizionato a 1,12° di distanza. Osservazione decisamente stimolante anche se di non semplice attuazione che richiederà in ogni caso la massima attenzione per evitare danni irreversibili alla propria vista.

Le FALCI lunari di MARZO

Per chi segue le falci lunari primo appuntamento per il tardo pomeriggio dell’1 Marzo con una sottile falce in Luna crescente di 1,7 giorni che alle ore 19:58 scenderà sotto l’orizzonte. La successiva serata, il 2 Marzo, alle ore 21:16 tramonterà una falce di 2,8 giorni sulla cui superficie si potranno già individuare le innumerevoli strutture geologiche del settore orientale della Luna. Riguardo la Luna calante, alle ore 04:10 del 25 Marzo sorgerà una falce di 25 giorni ed una falce ancora più sottile (età 26 giorni) sorgerà alle ore 04:40 della successiva nottata, il 26 Marzo, mostrando in entrambi i casi i settori più occidentali del nostro satellite. Infine alle ore 05:06 del 27 Marzo uno spettacolo da non perdere: Il sorgere in contemporanea di una falce di 27 giorni e del pianeta Venere separati da circa 26°. Per questa tipologia di osservazioni, oltre agli ormai noti parametri osservativi, risulterà determinante disporre di un orizzonte il più possibile libero da ostacoli. Sarà inoltre di fondamentale importanza evitare nel modo più assoluto di intercettare la luce solare al fine di prevenire gravi danni, anche irreversibili, alla propria vista.

TABELLA DEGLI EVENTI LUNARI DI MARZO

Fase Data Ore Sorge Culmina Tramonta Distanza dalla Terra Diam App
Primo Quarto 06-mar 17:32 09:59 10:08 01:11 369279 km 32.36’
Luna Piena 14-mar 07:55 18:38 00:07 06:28 402308 km 29.70’
Ultimo Quarto 22-mar 12:30 01:57 06:08 10:18 395755 km 30.19’
Luna Nuova 29-mar 11:58 05:53 12:14 18:49 354275 km 33.73’
Luna Crescente dal 01 al 14
Luna Calante dal 14 al 29
Luna Crescente dal 29 al 31
Perigeo 01-mar 21:18 361964 km 33’00”
Apogeo 17-mar 16:36 405754 km 29’26”
Perigeo 30-mar 05:25 358130 33’21”

LIBRAZIONI di MARZO

Si precisa che, per ovvi motivi, non vengono indicati i giorni in cui i punti di massima Librazione si discostano dalla superficie lunare illuminata dal Sole.

– 04 Marzo: Massima Librazione a sud del mare Australe.
– 05 Marzo: Massima Librazione mare Australe.
– 06 Marzo: Massima Librazione mare Australe.
– 07 Marzo: Massima Librazione mare Australe.
– 08 Marzo: Massima Librazione mare Australe.
– 09 Marzo: Massima Librazione mare Australe.
– 10 Marzo: Massima Librazione a est del cratere Furnerius.
– 11 Marzo: Massima Librazione a sudest del cratere Petavius.
– 12 Marzo: Massima Librazione a est del cratere Petavius.
– 13 Marzo: Massima Librazione mare Smythii.
– 14 Marzo: Massima Librazione a est del mare Crisium.

– 15 Marzo: Massima Librazione a est del cratere Endymion.
– 16 Marzo: Massima Librazione Regione Polare Settentrionale (Meton).
– 17 Marzo: Massima Librazione Regione Polare Settentrionale (Anaximenes, Philolaus).
– 18 Marzo: Massima Librazione a nord del cratere Pythagoras.
– 19 Marzo: Massima Librazione a W-NW del cratere Pythagoras.
– 20 Marzo: Massima Librazione a nord del cratere Xenophanes.
– 21 Marzo: Massima Librazione a nord del cratere Xenophanes.
– 22 Marzo: Massima Librazione a nord del cratere Galvani.
– 23 Marzo: Massima Librazione a ovest del cratere Galvani.
– 24 Marzo: Massima Librazione a nordovest del cratere Gerard.
– 25 Marzo: Massima Librazione a ovest del cratere Gerard.


–  Ogni fenomeno lunare e rispettivi orari sono rapportati alla Città di Roma, dati rilevati dai siti https://theskylive.com/http://www.marcomenichelli.it/luna.asp


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Svelato il segreto del Colore di Marte!

Ci siamo sempre sbagliati sull’origine del colore di Marte? Una nuova ricerca ha sfruttato lo stato dell’arte delle conoscenze su Marte e i potenti strumenti con cui NASA e ESA studiano da decenni la sua superficie. Siamo così probabilmente venuti a capo del mistero che nei millenni ha indotto innumerevoli popoli ad associare il Pianeta Rosso al sangue, la guerra e la violenza. E tutto per colpa di banale…ruggine.

Immagine di Marte scatta il 24 febbraio 2007 dalla sonda Rosetta. Il pianeta è stato sorvolato durante il viaggio verso la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko

Primo autore dello studio, pubblicato oggi sulla rivista Nature Communications, è il ricercatore post-doc Adomas Valantinas che ha iniziato il suo lavoro all’Università di Berna concludendolo alla Brown University in Rhode Island.

Sino ad ora si riteneva che l’ossido di ferro, il composto abbondantissimo su Marte e che conferisce il caratteristico colore, si fosse generato in un’epoca posteriore a quella in cui il pianeta aveva ospitato acqua allo stato liquido, quindi in un ambiente cosiddetto iper-arido. Queste condizioni ambientali permettono la formazione di un particolare ossido chiamato ematite che si produce dall’interazione del ferro con l’ossigeno atmosferico. Le osservazioni spettrali da satellite e con gli strumenti ottici in dotazione ai rover fallivano nell’individuazione diretta di acqua nella firma chimica delle rocce, quindi la genesi secca nel periodo Amazzoniano (stimato da 3 miliardi di anni fa ai giorni nostri) era la conclusione più cauta a cui giungere sebbene la questione restasse aperta. La risposta porta infatti con sé implicazioni importanti relative alla possibile, antichissima, abitabilità di Marte. 

Il recente studio ha fatto un passo avanti inedito riuscendo a ricreare sulla Terra un fedelissimo campione di suolo marziano. I ricercatori hanno replicato non solo la chimica ma persino la dimensione delle particelle. Questo dettaglio importante è stato reso possibile grazie all’uso di un sofisticato “macinino” che ha prodotto granelli di dimensioni inferiori al micron.

Planetary Grinder Retsch PM100, lo strumento usato per tritare con altissimo controllo la miscela di ferridrite e basalto

L’indicazione per tale dimensione è stata prodotta dal satellite ESA Trace Gas Orbiter, la cui particolare orbita consente l’osservazione delle regioni di Marte in svariate condizioni di illuminazione e da vari angoli. Questo ha permesso agli scienziati di stimare dimensione e composizione delle particelle, un passo fondamentale nel ricreare la regolite marziana. 

Polvere marziana ricreata in laboratorio. Crediti: A. Valantinas

Come dei cuochi che tirano a indovinare gli ingredienti di una ricetta, i ricercatori hanno fatto esperimenti con nove diversi tipi di ossidi di ferro in proporzioni variabili rispetto al basalto. Ogni tentativo di miscela tra roccia e ossidi è stato poi analizzato confrontando misurazioni in situ, orbitali e in laboratorio, queste ultime eseguite con strumenti che replicano fedelmente le capacità di misura su Marte. Il risultato è stato che una miscela superfine di basalto e ferridrite in rapporto 2:1 si sovrappone in modo praticamente perfetto agli spettri ottici che abbiamo rilevato negli anni. Gli apparati che hanno prodotto le misure di riferimento sono parecchi: IMP di Mars Pathfinder, PANCAM di Opportunity e MER di Curiosity relativamente alle analisi in superficie; OMEGA di Mars Express e CRISM di Mars Reconnaissance Orbiter per quanto riguarda le rilevazioni satellitari.

Il mix di ferridrite e basalto (linea blu nel grafico di sinistra) replica perfettamente gli spettri attesi a differenza del mix con ematite (linea rossa nel grafico di destra). Crediti: ESA/A.Valantinas

La ferridrite, il composto che ha fornito una perfetta aderenza alle curve spettrali, è un altro tipo di ossido di ferro che, a differenza dall’ematite, si forma in presenza di acqua allo stato liquido. La sua formazione è legata strettamente al passato in cui Marte abbondava di acqua, permettendo di datare molto presto nella sua storia la formazione di questo composto. Inoltre i ricercatori hanno dimostrato, tramite esperimenti di laboratorio e calcoli cinetici, che la struttura cristallina debole della ferridrite è sufficientemente solida da conservarsi stabile per miliardi di anni nelle attuali condizioni di deserto arido che Marte presenta. Le rocce ricche di ossidi si sarebbero prodotte in prossimità di mari e laghi, e successivamente rotte e polverizzate nell’arco di miliardi di anni. A questo punto i venti le avrebbero facilmente distribuite sull’intera superficie del pianeta, fatto confermato dalla sostanziale uniformità delle rilevazioni spettrali.

Crediti: ESA. Traduzione: Antonio Piras per Coelum Astronomia

I geologi planetari aspettano con interesse i risultati delle prossime analisi sul suolo marziano, sia quelle che svolgerà Rosalind (il rover dell’ESA che potrebbe vedere il lancio nel 2028) che quelle sui campioni di Mars Sample Return. Perseverance ha già messo al sicuro un campione di regolite che tra qualche anno ci permetterà di svelare quanta ferridrite contiene e rispondere alle domande sulla storia dell’acqua, e forse della vita, su Marte.

Fonte: ESA

Aggiornamento Definitivo: ridotte a nulle le probabilità di impatto per 2024 YR4

ESA-Science Office

AGGIORNAMENTO 25 febbraio 2025

La probabilità di impatto con la Terra è scesa al di sotto dello 0.002%, un valore che rientra nei margini di rischio considerati trascurabili.

La classificazione dell’asteroide sulla Scala di Torino è stata quindi ridotta a 0, in quanto 2024 YR4 non rappresenta più una minaccia diretta per il nostro pianeta. Sebbene il monitoraggio proseguirà allo scopo di perfezionare ulteriormente le previsioni orbitali, i dati attuali indicano che il rischio di collisione con la terra è stato sostanzialmente annullato. Rimane, al momento, una probabilità di impatto con la Luna quantificata intorno all’ 1%.

AGGIORNAMENTO 23 febbraio 2025

Le recenti osservazioni hanno permesso di ridurre significativamente la probabilità di impatto con la Terra previsto per il 22 dicembre 2032. Nelle scorse settimane queste erano cresciute fino a raggiungere il 3,1%, per poi iniziare a decrescere, fino ad attestarsi, alla data di oggi 23 Febbraio, sotto sotto la soglia dello 0.2% (0.19% Esa, 0.18% Neodys, 0.13% Sentry). Parallelamente la pericolosità è scesa al livello 1 della scala Torino.

Il fenomeno per cui le probabilità di impatto di un asteroide iniziano con l’aumentare, per poi ridursi con l’acquisizione di nuovi dati è una conseguenza diretta del modo in cui vengono calcolate le orbite e dell’incertezza iniziale associata a queste previsioni. Quando un nuovo asteroide viene scoperto, la sua orbita viene determinata sulla base di un numero limitato di osservazioni, spesso raccolte in un arco di tempo molto breve. Questo implica una significativa incertezza sulla sua traiettoria, poiché piccoli errori nei dati iniziali possono tradursi in grandi variazioni nel lungo termine.

Nei primi giorni o settimane dopo la scoperta, si utilizzano i dati disponibili per calcolare una serie di possibili traiettorie future, ciascuna delle quali ha una certa probabilità di verificarsi. In questa fase, è possibile che alcune delle traiettorie ipotizzate passino molto vicino alla Terra o addirittura indichino un impatto. Poiché il numero di osservazioni è ancora insufficiente per determinare con precisione l’orbita effettiva, la probabilità di impatto può apparire inizialmente più alta rispetto alla realtà, semplicemente perché lo spettro di possibilità considerate in base ai dati disponibili non permette di escludere gli scenari più pericolosi.

Con l’aggiunta di nuove misure e con l’allungamento dell’arco osservativo, l’incertezza sulla traiettoria dell’asteroide si riduce progressivamente. Ogni nuova osservazione permette di affinare i calcoli orbitali, restringendo il range delle possibili traiettorie. In genere, ciò porta a escludere progressivamente quelle soluzioni che prevedevano un impatto, poiché diventa chiaro che l’asteroide transiterà a una distanza sicura dalla Terra. Questo spiega perché, dopo un iniziale aumento della probabilità di collisione – che riflette più che altro la nostra iniziale mancanza di dati precisi – il rischio tende progressivamente a diminuire fino ad azzerarsi nella maggior parte dei casi.

È importante notare che questo processo non è casuale, ma una diretta conseguenza del metodo scientifico utilizzato per determinare le orbite dei corpi celesti. I modelli matematici impiegati per il calcolo delle traiettorie si basano su equazioni che descrivono le leggi del moto gravitazionale e includono strumenti statistici che permettono di valutare il margine di errore delle previsioni. Più il tempo passa e più dati vengono raccolti, più la traiettoria dell’asteroide viene vincolata con precisione, riducendo l’incertezza e permettendo di determinare con sempre maggiore sicurezza se vi sia o meno un rischio concreto di impatto.

Adesso l’analisi della regione di possibile localizzazione di 2024 YR4 al 22 dicembre 2032 mostra una importante riduzione dell’incertezza rispetto alle stime precedenti e con il progressivo accumulo di dati osservativi, la fascia di possibili traiettorie continuerà a restringersi ulteriormente.

Parallelamente, le simulazioni indicano l’esistenza una probabilità attorno allo 0,8% che l’asteroide possa colpire la Luna.

Affinché un rischio di impatto venga annullato del tutto, è comunque necessario che la Terra e la Luna escano completamente dalla regione delle possibili traiettorie dell’asteroide.

Il monitoraggio continuerà nelle prossime settimane fintanto che resterà osservabile dai grandi diametri, con l’obiettivo di ottenere dati sempre più precisi sulla sua orbita e sulle sue caratteristiche fisiche.

AGGIORNAMENTO 12 febbraio 2025

Il James Webb Space Telescope (JWST) sarà utilizzato per studiare l’asteroide 2024 YR4, con l’obiettivo di affinare la nostra comprensione della sua dimensione, composizione e orbita. Uno degli aspetti più importanti dello studio riguarda la determinazione precisa delle dimensioni di 2024 YR4. Attualmente, il diametro stimato varia tra 40 e 90 metri, questa incertezza è dovuta al fatto che le misurazioni attuali si basano esclusivamente sulla luce visibile emessa dal nostro sole che viene naturalmente riflessa dall’asteroide. Poiché la luminosità apparente di un asteroide dipende dalla sua albedo, un corpo piccolo ma molto riflettente può sembrare simile a uno più grande ma meno riflettente. Webb sarà in grado di osservare l’asteroide nell’infrarosso, rilevando il calore che emette e ottenendo una stima molto più accurata delle sue dimensioni reali.

Il telescopio utilizzerà il suo strumento MIRI per ottenere dati termici dettagliati, mentre il NIRCam fornirà misurazioni di posizione. Queste osservazioni saranno fondamentali non solo per capire il potenziale di impatto di 2024 YR4, ma anche per affinare i modelli che determinano la pericolosità degli asteroidi.La prima serie di osservazioni avverrà a marzo 2025, quando l’asteroide sarà al massimo della sua luminosità e ancora osservabile da Webb. Un secondo ciclo avrà luogo a maggio 2025, allo scopo di monitorare come varia la temperatura dell’asteroide con l’allontanarsi dal Sole e per ottenere gli ultimi dati sull’orbita prima che diventi inosservabile fino al 2028.Le osservazioni sono state richieste da un team internazionale di astronomi, incluso l’ESA Planetary Defence Office, nell’ambito del programma di Director’s Discretionary Time del JWST, riservato a studi urgenti che non possono attendere il normale ciclo di proposte scientifiche. Il tempo totale di osservazione sarà di circa quattro ore, e i dati raccolti saranno poi resi pubblici.

Fonte ESA

L’asteroide 2024 YR4 sotto osservazione: monitoraggio in corso per escludere un possibile impatto con la Terra nel 2032

L’asteroide 2024 YR4, con un diametro di circa 100 metri, è stato scoperto il 27 dicembre 2024 da un telescopio automatico in Cile. Le analisi iniziali indicano una probabilità dell’1,3% di impattare la Terra il 22 dicembre 2032, il che significa che c’è un 99% di probabilità che passi senza causare danni.

Secondo Colin Snodgrass, professore di astronomia planetaria all’Università di Edimburgo, l’asteroide molto probabilmente non rappresenterà una minaccia, ma è necessaria un’osservazione più accurata per ridurre le incertezze sulla sua traiettoria.

Sulla scala di rischio di impatto di Torino, l’asteroide è stato classificato con un livello 3, che indica un incontro ravvicinato meritevole di attenzione, poiché la probabilità di collisione è superiore all’1% entro il prossimo decennio. L’unico asteroide a ricevere una valutazione più alta in passato è stato Apophis, che nel 2004 aveva raggiunto il livello 4, ma successivamente è stato declassato dopo nuove osservazioni.

Gareth Collins, professore di scienze planetarie all’Imperial College di Londra, ha sottolineato come l’incremento della sorveglianza sugli oggetti vicini alla Terra renderà rilevazioni simili sempre più comuni. Il monitoraggio di 2024 YR4 continuerà nei prossimi mesi per definire meglio la sua traiettoria.

Sebbene un impatto con un asteroide di queste dimensioni non provocherebbe un evento di estinzione globale, potrebbe comunque causare danni significativi su scala cittadina. Eventi di questo tipo si verificano con una frequenza di una volta ogni poche migliaia di anni.

Il rilevamento di 2024 YR4 ha attivato i protocolli di difesa planetaria dell’ONU, coinvolgendo l’International Asteroid Warning Network, che raccoglierà ulteriori dati per ridurre le incertezze orbitali, e lo Space Mission Planning Advisory Group, incaricato di studiare possibili strategie di intervento.

Una delle opzioni potrebbe essere la deviazione dell’asteroide attraverso un veicolo spaziale, un metodo già sperimentato con successo dalla missione DART della NASA, che nel 2022 ha modificato l’orbita dell’asteroide Dimorphos.

Attualmente, 2024 YR4 si sta allontanando dalla Terra lungo una traiettoria quasi rettilinea, rendendo più complesso il calcolo preciso della sua orbita. Gli astronomi continueranno a osservarlo fino alla sua scomparsa dalla vista nei prossimi mesi. Se le misurazioni non riuscissero a escludere un impatto, l’asteroide rimarrà nelle liste di rischio fino al 2028, quando tornerà osservabile.

Come affermato da Snodgrass, il primo passo nella difesa planetaria è ottenere osservazioni più dettagliate. Se il rischio non venisse escluso, le agenzie spaziali potrebbero considerare missioni di caratterizzazione più approfondite e, se necessario, un intervento di mitigazione. Fortunatamente, grazie alle tecnologie testate, esistono già strumenti efficaci per deviare un asteroide di queste dimensioni.

Fonte: ESA



Stelle sul Palcoscenico: Astronomia a teatro

"Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, regia di Gabriele Lavia, foto di Tommaso Le Pera, courtesy of Fondazione Teatro della Toscana

La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle,
Ma in noi stessi, che siamo uomini dappoco.
(Giulio Cesare, scena II)

Il rapporto tra astronomia e teatro è una relazione di lunga data, le cui radici culturali sono antiche e profonde. Per secoli, il cielo stellato è stato il palcoscenico sul quale intere generazioni hanno messo in scena storie di vita quotidiana e di miti lasciando alle familiari sagome delle costellazioni il ruolo di attori protagonisti. Qualcosa di indefinibile ci ha condotto alla ricerca delle stesse emozioni, paure, speranze, passioni: lassù nelle profondità del cielo stellato, o quaggiù negli abissi dello spirito umano.

I miti sono diventati leggende, le leggende sono diventate storie, e le storie hanno continuato ad accompagnarci, incarnandosi in forme diverse, ma restando sempre fedeli a quel filo sottile che unisce, oggi come allora, le stelle al palcoscenico.

Quel filo che si è mostrato, a volte, come metafora: similitudini legate alla posizione e al movimento degli astri, comprese un tempo in egual modo dai dotti e dal popolo. Già, in egual modo, perché non dobbiamo dimenticare che se è vero che oggi la luminescenza arancione dell’inquinamento luminoso e quella azzurrognola dei nostri dispositivi personali hanno consegnato all’oblio l’apparenza del cielo stellato, nel lungo viaggio dell’umanità i movimenti delle stelle hanno sempre accompagnato la vita dell’uomo. Sono stati punti di riferimento o strumenti di misura del tempo, ugualmente per il matematico che per il contadino, per il pastore come per il marinaio. Ne è testimone, ad esempio, Shakespeare e il suo teatro, che autore amato dagli aristocratici quanto dal popolo, ha letteralmente costellato le proprie opere di citazioni astronomiche (e astrologiche, nel labile confine di un tempo fra le due discipline).

Ma l’Astronomia in teatro non è stata solo fonte di ispirazione e di metafore: è stata invece anche tema di dialogo raccontato dai personaggi. L’istanza più celebre è di certo Vita di Galileo, opera teatrale di Bertolt Brecht sulla vita e le vicissitudini dello scienziato pisano. Ma guardando più in profondità, scopriamo anche che lo stesso Galileo Galilei, nella sua opera più significativa  per la diffusione delle idee della rivoluzione copernicana, ovvero il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, scelse una forma è vero non concepita specificamente per il teatro, ma ciò nonostante in grado di adattarsi con grande organicità al palcoscenico. Ne ha dato dimostrazione, con incredibile talento, l’attore ed autore come Marco Paolini nel suo ITIS Galileo, ospitato anche ai Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). Tre personaggi: Simplicio, Salviati, Sagredo e due filosofi, uno aristotelico e uno copernicano, discutono con un nobile veneziano su quale dei due sistemi, geocentrico o eliocentrico, sia quello corretto, sfidandosi con argomentazioni, esperimenti, e arguzie. Teatro allo stato puro!

“Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, regia di Gabriele Lavia, foto di Tommaso Le Pera, courtesy of Fondazione Teatro della Toscana

Da questi nobili natali, discendono varie generazioni di “teatro scientifico”, rappresentato in varie e stravaganti forme, partendo da quello più classico con personaggi e intrecci, sino a quello più spontaneo che confina nell’improvvisazione teatrale.

Spesso associato alle attività per i più piccoli, il teatro scientifico è esso stesso divulgazione, uno spazio in cui ogni comunicatore si mette in gioco con il corpo e la parola per trasmettere qualcosa al pubblico. In un simile contesto oggi si può notare come anche le istituzioni abbiano portato avanti la relazione tra teatro e astronomia. Per esempio, recentemente è nato il Gruppo Storie spin-off dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), impegnato nella didattica e divulgazione scientifica attraverso le storie, la letteratura e il teatro.

Cover del Portfolio teatrale INAF, realizzato dal Gruppo Storie in collaborazione con i responsabili INAF degli spettacoli (https://edu.inaf.it/inaf-teatro/)

Le parole di Daria Guidetti, astrofisica e divulgatrice:

«Il nostro gruppo è nato nel 2020 con lo scopo di valorizzare e rendere fruibile il patrimonio artistico-letterario creato negli anni da INAF, nonché di sperimentare nuovi progetti per coinvolgere e interagire con il pubblico e le scuole. Nell’ambito delle nostre attività, abbiamo pubblicato il Portfolio di spettacoli INAF che raccoglie un’ampia gamma di spettacoli scientifici che le varie strutture INAF hanno ideato e messo in scena nell’ultimo decennio, spesso in co-produzione con le realtà associative o le compagnie teatrali del territorio. Rappresenta quindi un’idea strategica nel ramo didattica e divulgazione. Il nostro portfolio comprende più di 30 spettacoli in vari formati, dal teatro classico a quello estemporaneo, passando per la musica, il cinema e la danza, che si differenziano per tema, linguaggio e destinatari, ma tutti con l’obiettivo ambizioso ma realistico di raccontare in modo non convenzionale la meraviglia del Cosmo e la bellezza dell’indagine scientifica».

Perché, come sa chiunque abbia a cuore l’astronomia nella storia e nella cultura, l’Universo è fatto di materia ed energia, ma anche di storie ed emozioni. E le stelle, brillanti nella notte o sul palcoscenico, hanno tanto da raccontare.

Ma io sono costante come la Stella Polare,
Che per il suo essere fedele, fissa, e immobile
Non ha eguali in tutto il firmamento.
I cieli sono trapunti di innumerevoli scintille.
Fuochi sono tutte quante, e brilla ciascuna,
Ma solo una tra tutte mantiene il suo posto.
(Giulio Cesare, Atto III, Scena I)

L’articolo è pubblicato in Coelum 255

Occhi per vedere: L’arte della visualizzazione scientifica

Giannandrea Inchingolo CREDIT IMMAGINE: ©Beatrice Fanari/G. Inchingolo

La sala è avvolta nel buio. Un suono basso, diffuso, penetrante, a metà strada tra il brusio della statica e la vibrazione del basso di un concerto elettronico. Il suono sale, si gonfia, diventa onnipresente. Infine, il buio viene squarciato da un lampo di energia: chiara, tersa, purissima. Poi, la voce: Io sono la Luce.

Ragazza in silhouette. Alle sue spalle, la cosmic web, ovvero l’insieme a macro scala dell’Universo. I nodi della rete rappresentano gli ammassi dì galassie, mentre i rami che li collegano sono campi magnetici.
CREDIT IMMAGINE: ©Daniele Chioetto/G. Inchingolo

Questo è l’inizio dell’esperienza, potente e inaspettata, che si è presentata a chi ha partecipato ad una delle iterazioni della mostra Into the (Un)Known. Ma prima di immergerci in un viaggio nel cosmo con il suo creatore, Giannandrea Inchingolo, facciamo un passo indietro.

 

Fare divulgazione scientifica vuol dire tante cose, e le modalità sono varie quanto sono diverse le persone che la praticano. Ci sono ricercatori e ricercatrici che, in ossequio alla terza missione degli enti di ricerca e delle università, prestano la loro voce per spiegare i loro studi e i loro risultati. Ci sono giornalisti e giornaliste, che dalle pagine delle riviste e attraverso le frequenze delle trasmissioni, prestano la loro penna per raccontare la scienza, le sue notizie, e le sue scoperte. Ci sono animatori ed animatrici, che all’interno dei festival e delle manifestazioni, prestano il loro entusiasmo per coinvolgere il pubblico nel grande gioco della scienza. E, soprattutto negli ultima anni, c’è una nuova generazione di divulgatori e divulgatrici, che sulle piattaforme di social media e negli spazi ibridi della comunicazione, partecipano ad una grande discussione collettiva sulla scienza, i suoi metodi, e il suo ruolo nella società. In questa rubrica, cercherò quindi di coinvolgere alcuni di questi diversi operatori e operatrici della divulgazione, cogliendone per quanto mi riesce gli aspetti interessanti e innovativi Per questo, la mia prima scelta non poteva che essere il lavoro di chi opera a metà strada tra ricerca scientifica ed espressione artistica, cercando sempre nuovi modi per coinvolgere ed emozionare.

Arte e scienza hanno un rapporto che va all’origine di entrambe, nelle profondità dell’animo umano, e nonostante alcuni insistano nel cercare opposizioni tra le due modalità di pensiero e di espressione, la realtà è che una non può esistere senza l’altra. La “bellezza”, qualunque cosa essa sia, alberga nel cuore di entrambe, e per quanto possano apparire diverse nei modi, sono facce della stessa medaglia. Ma il rapporto può essere delicato, per evitare superficialità e fraintendimenti, e deve essere trattato con rispetto sia dell’una che dell’altra. Lo sa bene Giannandrea Inchingolo, ricercatore scientifico e artista digitale, la mente dietro alla mostra Into the (Un)Known, un progetto realizzato presso l’Università di Bologna in collaborazione con INAF Istituto Nazionale di Astrofisica e CINECA, il consorzio interuniversitario per il calcolo ad alte prestazioni, e in particolare con VisitLab, il dipartimento di visualizzazione scientifica dell’ente.

Ho avuto l’occasione di partecipare alla mostra in più occasioni e in setting diversi, e la fortuna di parlare con Giannandrea più volte. La prima impressione è la straordinaria naturalezza con cui parla di entrambi gli ambiti, espressione artistica e astrofisica dei plasmi, che per lui sono entrambe parti inseparabili della sua esperienza. Pur essendo cresciuto in un ambiente familiare culturalmente stimolante e coltivando diversi interessi artistici, Giannandrea ha intrapreso la carriera accademica in maniera abbastanza tradizionale: laurea in fisica dei plasmi all’Università di Pisa, dottorato di ricerca all’Instituto Superior Técnico di Lisbona, ora post-doc all’Università di Bologna. Ma già qui le cose diventano interessanti, perché la sua qualifica diventa “Creative Scientist”, segno che qualcosa di interessante sta succedendo.

Turbolenza. Il moto caotico di un campo magnetico all’interno della materia (plasma) attorno ad un buco nero
CREDIT IMMAGINE: ©G. Inchingolo/IST Lisboa

Giannandrea la racconta così, con un risata: “Durante il mio dottorato ho passato un anno al MIT, il Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti, e sono stato invitato a tenere una piccola conferenza per non addetti ai lavori. È stata un disastro. O meglio, è stata molto interessante, ma i partecipanti alla fine mi hanno confessato di non averci capito molto, ma di essere rimasti affascinati soprattutto dalle immagini: non tanto i grafici, che per chi mastica di scienza sono un modo efficace e sintetico di presentare i risultati, ma dalle immagini che mostravano il comportamento dei campi magnetici nei plasmi astrofisici che stavo studiando. Allora ho iniziato a pensare che forse in quelle immagini c’era qualcosa, un modo di raccontare la scienza in maniera diversa.” Quello ovviamente è stato solo l’inizio, ma già racchiude una parte del lavoro di Giannandrea, la sua intuizione, che poi ha avuto la capacità di trasformare prima in una parte del suo lavoro di dottorato, e poi in un progetto a sé stante, grazie anche al lavoro di altri ricercatori, professori, e collaboratori.

Un lavoro che, grazie alle tecniche di visualizzazione dei dati astrofisici, li racchiuda in una esperienza da fruire con tutti i sensi: la vista, l’udito, il senso del tempo, il fascino della narrazione. Perché la scienza, pur essendo una disciplina affascinante, è spesso vincolata ad un linguaggio complesso, che non tutti parlano, ma che tutti hanno il diritto di ascoltare: l’emozione dell’esperienza artistica diventa così l’alfabeto con cui la scienza si fa conoscere.

Quello che viene fatto quindi è prendere l’enorme quantità di dati numerici prodotti dalle osservazioni e dalle analisi astrofisiche, e darli in pasto ai software di visualizzazione: per lo scienziato, questo serve a “vedere” i dati, ossia disporli in una maniera che lo aiuti a comprenderne il senso; per l’artista, questo diventa anche uno strumento di espressione, in modo che i dati comunichino non solo con gli addetti ai lavori, ma che grazie alla scelta dei colori, dei suoni, delle dimensioni, dei movimenti, i fenomeni fisici che avvengono al di là delle nostre possibilità di percezione possano essere “sperimentati” anche dal pubblico. Perché, e Giannandrea ci tiene estremamente a questo aspetto, tutto ciò che ci arriva durante l’esperienza è frutto della traduzione del dato fisico: tutte le immagini, tutti i suoni, perfino il racconto, ha un riscontro scientifico rigoroso. Questo sigilla la mostra come una vera forma di comunicazione scientifica, meno didascalica e più coinvolgente, che porti le frontiere della ricerca scientifica a disposizione di un pubblico più ampio possibile.

Scienza come fonte di ispirazione dell’arte, ma anche arte come strumento di intuizione per la scienza, perché queste nuove tecniche di visualizzazione immersiva e multisensoriale possono aiutare i ricercatori a comprendere meglio i propri dati, a far scoccare la scintilla della scoperta scientifica. Occhi per vedere l’universo, al di là dei nostri sensi, oltre le nostre percezioni limitate, seguendo le traiettorie della meraviglia e della passione. Per dire, infine: Io sono la Luce.

L’articolo è pubblicato in Coelum 254

 

Di ogni occhio è il cielo intero: Astronomia contro la dispersione scolastica

Installazione (CHEAP/Baumhaus)

Interno giorno. Laboratorio didattico.

Oggi si guarda lontano, nel tempo e nello spazio, raccontando le foto che hanno fatto la storia dell’esplorazione spaziale: Blue Marble, The Man on the Moon, Pale Blue Dot, e altre.

C’è anche una delle più famose: la Terra, illuminata a metà, sospesa nel buio oltre l’orizzonte lunare.

Una ragazza la guarda. “Ma è una foto reale? Cioè, non è un fotomontaggio?”

“Assolutamente reale. È stata scattata dall’equipaggio della missione Apollo 8, quando sono ritornati in vista della Terra dopo essere passati per la prima volta dietro alla faccia nascosta della Luna. L’hanno chiamata Earthrise, l’Alba della Terra.”

La guarda di nuovo. Ride. “Wow.”

Ed eccola lì. La scintilla. La sorpresa. La meraviglia.

Non importa se è solo un momento, ma è successo: una consapevolezza che prima non c’era, e adesso c’è. La consapevolezza che viviamo in un universo pieno di bellezza e di stupore, che possiamo vedere cose meravigliose, che possiamo compiere imprese straordinarie. Tutto dentro quel momento. Tutto dentro quella risata.

“Wow.”

Murale (CHEAP/Baumhaus)

Una delle verità che sappiamo, ma che non ci piace raccontare riguardo alla scuola, è che non offre a tutti le stesse possibilità. Lo sappiamo, lo viviamo, ne vediamo le conseguenze. Ma è una cosa che offende in maniera così diretta il nostro senso di giustizia, il nostro ruolo di adulti, che spesso evitiamo di pensarci troppo a lungo o di parlarne in maniera così esplicita. Spesso addossiamo gli effetti di questa situazione ai giovani svogliati, alle famiglie disinteressate, agli insegnati incapaci, ai politici disonesti, voltando lo sguardo da questa realtà sgradita. E poi ci sono gli altri. Quelli che guardano in faccia alle disparità senza ipocrisie, che affrontano il divario formativo senza ambiguità, e lavorano ogni giorno per colmarlo. Gruppi, associazioni, istituti, singoli operatori che si mettono in gioco personalmente per aiutare ragazzi e ragazze ad emanciparsi dalla povertà educativa e sfuggire alla dispersione scolastica.

Dall’ultimo report ISTAT emerge che nel 2020 in Italia la dispersione scolastica (ossia gli studenti e studentesse che non terminano il corso di studi obbligatorio) si attesta intorno al 13%, pari a più di mezzo milione di giovani: un miglioramento rispetto agli anni 2000 nei quali arrivava quasi al 20%, ma è ancora al di sopra della media UE del 10%. A questi vanno aggiunti i dati della “dispersione implicita”, ossia quella dei giovani che non abbandonano gli studi ma li terminano senza aver conseguito i traguardi minimi di competenze previste per il loro corso di studi. Di fronte a questa situazione drammatica, tantissime realtà del sistema scolastico e del mondo dell’educazione si prodigano per arginare quella che è una vera e propria emergenza sociale: non solo per la formazione culturale dei singoli individui, ma per gli effetti che questo ha sulla società in generale, che si trova ad affrontare una realtà sempre più complessa e in rapido cambiamento.

Buchi neri (Paola Pagani)

In questo contesto, in cui mancano a volte le competenze di base, sembra che il ruolo dell’educazione speculativa, e in particolare dell’astronomia e delle scienze dello spazio, debba essere necessariamente marginale. Eppure, non tutti la pensano così. Un movimento di educatori e formatori che pensano che la scienza sia un diritto, non un privilegio, che per andare lontano sia necessario guardare lontano. Che la chiave per il contrasto alla dispersione scolastica non passi solo dall’insegnamento di abilità immediatamente spendibili, ma attraverso la capacità di catturare l’interesse, la fantasia, la curiosità, e l’immaginazione dei giovani, che rischiano di abbandonare il loro percorso scolastico proprio perché non fornisce più stimoli e interessi che possano sollevarli dalla mera esecuzione di compiti e mansioni. Una educazione alla cultura, artistica e scientifica, che possa riabilitarli a guardare oltre, lontano, in alto. Nascono così le iniziative di educazione astronomica contro la dispersione scolastica: laboratori didattici, incontri di ispirazione, attività di gruppo, spesso integrati con percorsi artistici (pittorici, musicali, performativi) per stimolare una visione organica della cultura,  senza separazioni artificiali tra le discipline. Si tratta ancora spesso di iniziative di frontiera, spesso curate da educatori visionari e supportate da docenti illuminati. Ma i riscontri sono positivi, e sempre più istituti si dimostrano disponibili a collaborate con esperti esterni che possano portare una prospettiva educativa innovativa. Perché la povertà educativa non è solo mancanza di possibilità, ma anche carenza di motivazione: e le motivazioni non possono essere legate solo all’immediato, soprattutto quando parliamo di ragazzi e ragazze in età evolutiva, per i quali il circuito della ricompensa è principalmente stimolato dal coinvolgimento emotivo piuttosto che dall’utilità pratica (al netto, comunque, del fatto che l’educazione alla scienza, con il suo approccio fondato sullo scetticismo razionale, abbia una innegabile ricaduta per la formazione al pensiero critico).

Astronauta (BAUM Festival/Baumhaus)

Si tratta certamente di uno sforzo, economico per la collettività e strutturale per gli istituti, ma le ricompense posso essere ampie e significative. Non solo dal punto di vista scolastico, ma anche sociale e culturale: una scuola di scienza è una scuola di democrazia. E se l’educazione è un diritto, “allora deve essere di tutti, proprio di tutti, altrimenti chiamateli privilegi.”

Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.

Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.

Gianni Rodari

L’articolo è pubblicato in Coelum 256

Stelle di Carta Stampata: Riviste Storiche di Astronomia

Copertina del primo numero di L'Astronomie Data: 1882 Fonte: Archivio della Società Astronomica di Francia

La Storia delle Riviste di Divulgazione Astronomica

La divulgazione astronomica è antica quanto l’astronomia stessa. Anzi, in un certo senso è precedente, almeno per quanto riguarda l’astronomia scientifica come la intendiamo oggi. Lo spettacolo del cielo notturno è stato da sempre fonte di meraviglia e di interesse, e fin dall’alba dei tempi le conoscenze erano raccontate e tramandate da chi ne era custode a tutto il resto della comunità.

Queste conoscenze, che all’atto pratico erano un miscuglio di osservazioni empiriche, misurazioni rudimentali, consigli agricoli, miti della creazione, e racconti morali, ci appaiono oggi quanto di meno scientifico possa essere, ma non dobbiamo mai dimenticare che rappresentavano il miglior tentativo a disposizione all’epoca di trovare un senso e un ordine nella realtà, ed erano frutto dello stesso desiderio di conoscenza che accomuna ancora oggi gli scienziati e le scienziate.

Al contrario dello studio delle trasformazioni della materia nei primi laboratori alchemici, o dell’esplorazione dei meandri dei corpi umani nei teatri anatomici, la conoscenza dei cieli non ha mai posseduto la stessa aura di pericolo innaturale che aleggiava intorno a queste altre pratiche, e mente certamente agli astronomi/astrologi del passato venivano riconosciuti saperi segreti, spesso non portavano su di sé il marchio sinistro che le altre discipline pre-scientifiche imprimevano ai loro praticanti. Il racconto dei miti e delle leggende del cielo è sempre stato quindi un aspetto assolutamente naturale dell’astronomia, e ha costituito nel tempo un fondamento culturale robusto su cui si è inserita quella che oggi chiameremo divulgazione astronomica.

In senso più stretto, la divulgazione scientifica si può dire che sia nata al tempo dell’Illuminismo. Prima di allora, la “filosofia naturale” era oggetto di interesse per le classi elevate, e faceva parte degli studi a cui si potevano dedicare gli aristocratici e in generale gli intellettuali dell’epoca. Il termine “scienza”, come lo intendiamo oggi, non esisteva ancora, basti pensare che lo stesso Isaac Newton intitola Principi matematici di filosofia naturale quello che per noi oggi è ovviamente un trattato di fisica, seppur attraverso la cornice culturale dell’epoca. Ma ancora non si poteva parlare di divulgazione scientifica. È stato solo nell’Ottocento che i progressi di quella che iniziava ad essere chiamata “scienza”, come la locomotiva a vapore o l’illuminazione elettrica, divennero così chiari e pervasivi che cominciò a nascere l’idea che la conoscenza scientifica potesse essere di interesse pubblico.

John Herschel
Data: 1846
Fonte: The Year-book of Facts in Science and Art By John Timbs

Anche in questo caso, gli astronomi avevano evidentemente lo sguardo lungo in questo campo. Già intorno al 1830, l’astronomo inglese John Herschel scriveva in una lettera come fosse necessario per la collettività “assimilare ciò che oggi è conosciuto in ciascuna delle branche della scienza […] in modo da avere una visione complessiva di cosa già è stato compiuto, e di cosa resta da compiere.” In questo contesto, le istituzioni scientifiche come l’Accademia Nazionale delle Scienze americana o l’Associazione Britannica per l’Avanzamento della Scienza, iniziarono a pubblicare riviste e opuscoli per comunicare le nuove scoperte. Bisogna qui distinguere due elementi, anche se spesso in questo periodo non era così facile separarli: i veri e propri “giornali scientifici” (science journals), che si occupano di pubblicare nuovi studi e ricerche sottoposte alla revisione paritaria, e che sono destinati alla comunità dei ricercatori per contribuire al capitale globale delle conoscenze scientifiche, e le “riviste scientifiche” (science magazines), che oggi chiameremmo di divulgazione scientifica, che invece erano destinati al pubblico, per soddisfarne la curiosità riguardo alla scienza ed arricchirne la cultura e l’educazione.

Copertina del primo numero di Scientific American
Data: 1845
Fonte: Archivio Scientific American

Gli avanzamenti tecnologici permisero di aumentare in maniera esponenziale la tiratura delle stampe, contribuendo quindi a diffondere anche questo genere di pubblicazioni, abbassando i prezzi e dando la possibilità anche alle classi meno abbienti di accedere alla lettura di giornali e riviste. Questo si trasformò in una vera e propria esplosione della carta stampata, dando un contributo significato alla crescita culturale delle classi operaie e proletarie. A questo periodo risale ad esmpio il Penny Magazine (la “rivista da un penny”), destinato a soddisfare la curiosità del pubblico sulle nuove scoperte della scienza e sulle nuove invenzioni della tecnica. Il grande successo di queste riviste di “divulgazione” portò quindi nella seconda metà dell’Ottocento ad una fioritura di titoli, alcuni dei quali conosciamo ancora oggi: Scientific American (1845), Popular Science (1872), National Geographics (1888). Per quanto riguarda le scienze del cielo, sono da ricordare The Observatory (1877) e Popular Astronomy (1893), entrambi in lingua inglese, e L’Astronomie (1883), fondata dall’astronomo francese Camille Flammarion. In Italia, ci si perdonerà certamente la citazione della rivista storica Coelum (1931), fondata dall’astronomo triestino e celebrato direttore dell’Osservatorio Astronomico di Bologna, Guido Horn d’Arturo.

Copertina del primo numero di L’Astronomie
Data: 1882
Fonte: Archivio della Società Astronomica di Francia

Le riviste di divulgazione astronomica hanno conosciuto negli anni alterne vicende, ma sono rimaste tuttavia un punto di riferimento per la diffusione della cultura e delle scoperte astronomiche per il grande pubblico. Ma, come l’invenzione della macchina rotativa ha portato all’esplosione della carta stampata, così in tempi molto più recenti, la diffusione dei sistemi di comunicazione digitale e l’utilizzo dei dispositivi di accesso personale come tablet e cellulari hanno lanciato una nuova rivoluzione della comunicazione, compresa la divulgazione. In un certo senso si poteva pensare che questa rivoluzione sia iniziata in realtà con la radio e la televisione, ma in effetti questi sistemi di comunicazione erano più rigidi e monodirezionali, e avevamo affiancato ma non soppiantato la carta stampata. I siti internet, e ancora più recentemente le piattaforme social, hanno invece dato un colpo durissimo alle tradizionali riviste di divulgazione. In un’era caratterizzata da una comunicazione sempre più rapida, interattiva, sincopata, partecipativa, è lecito domandarsi il futuro della divulgazione attraverso canali così lenti e tradizionali.

Copertina del primo numero di National Geographic
Data: 1888
Fonte: Archivio National Geographic
Copertina del primo numero di Popular Science
Data: 1872
Fonte: Archivio Popular Science

Tuttavia, così come la velocità della comunicazione digitale ha portato a riscoprire e rivendicare il diritto alla lentezza, alla riflessione, alla disconnessione dal leviatano digitale che ci fagocita in ogni istante, anche per quanto riguarda la divulgazione scientifica c’è ancora spazio per un modo diverso di comunicare. Una divulgazione che non si metta in competizione con le piattaforme social, ma che invece le completi e le integri, dando ai lettori la possibilità di approfondire, di rileggere e, come ha avuto la lungimiranza di scrivere John Herschel quasi 200 anni fa, di “assimilare ciò che oggi è conosciuto […] in modo da avere una visione complessiva […] di cosa resta da compiere.” In contrasto ad una comunicazione votata al “consumo” costante, una visione della divulgazione che si metta invece nella prospettiva della “conservazione”. Perché per allungare i rami verso il cielo, è necessario avere radici solide, robuste, lente. E perché no, fatte di cellulosa.

L’articolo è pubblicato in Coelum 257

LUCE TRA CIELO E TERRA

Trovare soluzioni realistiche tra inquinamento luminoso e illuminazione del patrimonio culturale.

Quando parliamo di inquinamento luminoso, ci sembra naturale metterci nella prospettiva degli enormi problemi che questo crea alle osservazioni del cielo. A causa delle diffusione sempre più aggressiva delle luci artificiali, non solo astronomi e astronome incontrano crescenti difficoltà ad osservare gli oggetti celesti più deboli, ma anche tutti i cittadini e le cittadine si trovano derubati della possibilità di ammirare il cielo stellato nella sua reale bellezza. Queste sono critiche assolutamente corrette, così come comprensibili sono le relative proteste.

Ma ogni volta che ci approcciamo ad un problema con la reale intenzione di risolverlo, abbiamo il dovere di considerare in maniera seria e obiettiva le ragioni che ne stanno alla base, per trovare la soluzione più consona (e quindi più efficace!). Per quanto siano corrette le obiezioni sulla proliferazione delle fonti di luce artificiale, è necessario trovare una soluzione che sia applicabile realtà alle esigenze culturali e di promozione del territorio.

Empire state Biulgind New York le luci riflesse sul vapore acqueo dell’atmosfera creano un velo arancione Foto di Charlie Brown

La principale causa dell’inquinamento luminoso è l’illuminazione stradale: nel corso degli anni numerose ricerche hanno cercato di misurare in maniera quantitativa come l’illuminazione artificiale influenzi una serie di metriche che riguardano la sicurezza, come il numero di incidenti nel traffico veicolare e pedonale, o la probabilità di comportamenti criminali contro le persone e contro la proprietà, ma finora studi diversi hanno trovato disposte differenti (si veda ad esempio il report Artificial Light at Night: State of the Science 2022, sezione Traffic safety and crime). Tuttavia, anche in assenza di risposte definitive sulla correlazione tra illuminazione stradale e sicurezza, ciò non toglie che sia possibile (e in relazione al problema dell’inquinamento luminoso, auspicabile) l’implementazione di misure che, pur non riducendo l’illuminazione al livello del suolo, limitano in maniera robusta il flusso luminoso verso l’alto. Anche la semplice applicazione alle luci stradali di una copertura superiore che direzioni tutto il fascio luminoso verso il basso avrebbe un impatto significativo sull’inquinamento luminoso; un’altra possibilità sarebbe inoltre quella di attuare interventi per rendere meno riflettenti le superfici esterne (ad esempio la pavimentazione stradale e le pareti degli edifici) e ridurre così la luce riflessa verso l’alto. In entrambi i casi, si andrebbe ad attenuare il fenomeno dello skyglow, ossia della luce che si diffonde verso l’alto e viene successivamente riflessa e diffusa dalle particelle disperse nell’atmosfera (per tutti gli approfondimenti leggi l’articolo a pagina ??? dedicato all’Inquinamento Luminoso).

Ma c’è un altro aspetto dell’illuminazione pubblica, che non è legata alla sicurezza ma fa parte comunque della relazione che si instaura tra cittadini e spazio pubblico, ed è quella dell’illuminazione del patrimonio culturale architettonico quali monumenti, edifici pubblici, e palazzi storici. Un aspetto sul quale ci fermiamo raramente a riflettere: o meglio, ci riflettiamo in momenti diversi, e spesso con risultati diversi, a seconda del punto di vista che ci troviamo ad assumere. Come osservatori e osservatrici del cielo, rivendichiamo con giustizia il diritto ad avere cieli bui per godere dello spettacolo della notte stellata; altresì come cittadini e cittadine di uno dei Paesi a vocazione turistica con la più alta concentrazione mondiale di patrimonio culturale, ci aspettiamo che l’illuminazione notturna metta in risalto il fascino delle nostre architetture storiche nelle città e nei borghi. Sono entrambi approcci con un peso significativo, e che si portano dietro implicazioni sul valore che diamo ad aspetti diversi della nostra società: storia, cultura, natura, economia, identità.

La necessità di conciliare queste due tensioni non è sfuggita a chi si occupa di accesso e valorizzazione del patrimonio culturale, e diverse amministrazioni si sono mosse per includere queste considerazioni nelle azioni di installazione, rinnovamento, o modifica dei sistemi di illuminazione dei monumenti ed edifici pubblici. Anche l’UNESCO,  l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, ha portato avanti una lunga e approfondita riflessione sul tema, sviluppando una serie di linee guida di riferimento sulle quali confrontarsi. Alcune di queste raccomandazioni sono inserite nel compendio Alternative Ways of Lighting the UNESCO Sites in occasione dell’Anno Internazionale della Luce (2015):

  • L’illuminazione non deve compromettere la relazione dell’edificio con l’ambiente. Numerosi siti storici e culturali sono caratterizzati da una relazione profonda con l’ambiente naturale e con la possibilità di osservare il cielo stellato. Questo vale in particolar modo per strutture edificate secondo precise direzioni geografiche o in modo da allinearsi con specifici eventi astronomici;
  • I monumenti non dovrebbero mai essere illuminati dal basso verso l’alto, fatta eccezioni per edifici storici che non permettono alternative. In questo caso, il fascio luminoso dovrebbe essere intercettato completamente dalle pareti dell’edificio, in modo da evitare luci spurie in direzione del cielo;
  • I sistemi di illuminazione dovrebbero essere sempre spenti quanto non necessari alla loro funzione, e l’illuminazione dovrebbe essere variabile per adattarsi (per intensità e colorazione) a diverse condizioni ambientali. Questi sistemi di spegnimento e variazione dovrebbero per quanto possibile essere automatici, per garantirne la funzionalità in ogni occasione;
  • Tale illuminazione deve essere evitata il più possibile in ambienti rurali o naturali, dove può essere una fonte di disturbo per la fauna notturna locale e per l’integrità del paesaggio.

Apod Astronomical Picture of the Day di Foto di Jeff Dai (TWAN) del 16 maggio 2019 mostra la differenza di cielo in funzione di un uso differente dell’illuminazione

Si tratta di raccomandazioni di buon senso, ma che forniscono una base di riflessione per gli interventi specifici nei diversi ambienti e territori. Queste indicazioni possono essere messe in atto attraverso soluzioni tecniche sull’impianto di illuminazione, ma resta chiaro che la scelta di farlo è un atto politico, e come tale può (e deve!) essere influenzato dalla voce della collettività. Probabilmente conosciamo tutti esempi poco virtuosi in questo ambito, e per questo risulta assolutamente necessario comunicare non solo i problemi, ma soprattutto che i problemi sono risolvibili, e possono trovare soluzioni comuni tra le diverse necessità. Per colmare, senza riempire, lo spazio di luce tra cielo e terra.

L’articolo è pubblicato in Coelum 258

Il Sistema Solare. Si ma Quanto Grande?

Pianeti fai da te di Pierdomenico Memeo

I modelli didattici del Sistema Solare 

Che i pianeti siano grandi lo sappiamo tutti; che siano lontani, anche di più. Ma per la maggior parte di noi, se dovessimo dire di aver compreso, realmente, effettivamente, le dimensioni enormi dei corpi celesti, e le distanze incommensurabili che li separano, probabilmente sarebbe una bugia.

Sistema Solare Casalingo di Pierdomenico Memeo

Non dobbiamo prendercela a male: non è colpa nostra: queste grandezze e queste distanze sono così smisurate, sono così lontane dalla nostra esperienza comune, che è impossibile afferrarle se non in maniera puramente astratta. Se vogliamo, questo già di suo è un fatto straordinario: la matematica ci permette di padroneggiare numeri completamente al di fuori della nostra esperienza, e usarli per descrivere la realtà intorno a noi. Tuttavia, specialmente nelle età dello sviluppo, avere un aggancio con l’esperienza quotidiana è un importante fattore di supporto per ancorare alcuni concetti troppo astratti, e interiorizzare alcune rappresentazioni della realtà che altrimenti rischiano di essere assorbite solo superficialmente.

Per il Sistema Solare, questo aiuto può venire in due modi: per la grandezza relativa dei pianeti, e per le distanze tra le orbite degli stessi.

Le grandezze relative dei pianeti sono spesso rappresentate in maniera corretta sui libri di testo (anche se non sempre): ma si tratta comunque in ogni caso di immagini bidimensionali. Per fissare nella mente le grandezze relative degli oggetti, è invece molto più efficace utilizzare oggetti reali. In questo modo, oltre alla vista, possiamo stimolare tutta un’altra serie di canali (percezione spaziale tridimensionale, componente tattile, sensazione del peso) che contribuiranno a rendere più “reale” l’esperienza, e quindi molto più profonda l’impressione lasciata dall’idea. Questo si può fare, in prima approssimazione, in maniera molto facile: esistono certamente sussidi didattici ricchi di dettagli che possono essere acquistati, ma è possibile farlo anche semplicemente con oggetti quotidiani. In particolare per le classi delle Scuole Primarie, può essere una attività partecipata e divertente, da realizzare con pochissima difficoltà, raccogliendo oggetti che si possono trovare in casa come biglie, palline, e palloni di dimensioni appropriate; oppure utilizzando bacche e frutti, anche questi con le giuste grandezze relative. La rete è ricca di suggerimenti e idee in questo senso. Oppure, per le classi più avanzate delle Scuole Secondarie di Secondo Grado, può diventare un progetto di più lungo respiro in cui i vari pianeti vengono realizzati in scala corretta con sfere di materiale vario (polistirene, cartapesta, ecc) e dipinte con i colori corretti (magari pianificandolo come progetto interdisciplinare), sfruttando inoltre l’occasione per integrare informazioni sulla composizione delle atmosfere dei pianeti e le loro caratteristiche chimiche.

Giove in Strada. Crediti Alessio Zanol

Per le distanze tra le orbite dei pianeti, specialmente in ambito didattico, le cose si fanno più complicate. Per mantenere le corrette dimensioni relative dei pianeti, infatti, sono necessarie distanze molto ampie, difficilmente replicabili in un plesso scolastico. Ad esempio, se vogliamo rappresentare la grandezza di Mercurio, il più piccolo tra i pianeti, con una sferetta dal diametro di 1 millimetro (considerando questa la dimensione minima perché il modello fisico del pianeta sia un oggetto da toccare con le mani), allora l’orbita di Nettuno, il più lontano dei pianeti, sarà correttamente posizionata a circa 922 metri dal Sole (914 metri per il perielio, 930 metri per l’afelio, più precisamente). Il Sole, per confronto, sarebbe una sfera di 28,5 centimetri di diametro. Ci sono quindi diverse soluzioni che è possibile considerare.

Giove e Classe: Alessio Zanol

La prima, e certamente la più semplice, è quella dell’auto-costruzione: in rete si trovano diverse risorse didattiche (anche in italiano, comprese quelle di EduINAF, il magazine di didattica e divulgazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica). Alla semplicità dei materiali e alla possibilità di realizzarlo in loco si contrappone però la grandezza del modello, quasi un chilometro in totale: una distanza che molti istituti avrebbero difficoltà a rappresentare all’interno delle proprie pertinenze. La seconda, all’estremo opposto, è quello di organizzare una visita esterna ad un modello già costruito. Ne esistono diversi in Italia, in genere realizzati da osservatori astronomici o associazioni di astrofili, che solitamente si occupano anche di accompagnare scolaresche in visita lungo il percorso (in rete è facile trovare contatti e informazioni). Il vantaggio è ovviamente la buona realizzazione tecnica, ma d’altro canto le distanze da percorrere per raggiungere la struttura possono essere problematiche dal punto di vista logistico. Una terza soluzione, intermedia possiamo dire, è quella di appoggiarsi alla collaborazione di esperti esterni, che possano realizzare un percorso in un luogo vicino alla Scuola (ma non necessariamente all’interno di essa), accompagnando le classi in una “passeggiata spaziale”, specialmente se questa è legata ai luoghi riconoscibili del territorio (paese, quartiere) in cui la Scuola è situata: un modo per legare indissolubilmente una esperienza quotidiana come passeggiare nel vicinato con l’idea delle grandi distanze dello spazio interplanetario (anche in questo caso, in rete è possibile trovare contatti e informazioni).

Infine, per concludere: per quanto validi, tutti i modelli didattici del sistema solare realizzati nelle modalità descritte presentano delle criticità. La prima e più problematica, è che per motivi di opportunità pratica questi percorsi rappresentano quasi sempre i pianeti perfettamente allineati fra loro, un evento che statisticamente non avverrà mai nella vita del nostro Sistema Solare. Questo è spesso fonte di confusione. Un altro è che nel posizionare i pianeti, ci si dimentica spesso che le orbite sono traiettorie su un piano, e quindi il modello di Sistema Solare dovrebbe estendersi in modo circolare intorno al Sole, occupando quindi una superficie estremamente più ampia rispetto alla “striscia” che spesso viene rappresentata. Tuttavia, pur consapevoli dei difetti, queste attività sono comunque utili per dissipare alcune concettualizzazioni errate della realtà del nostro Sistema Solare.

L’articolo è pubblicato in Coelum 259

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