LE LIBRERIE POSSONO RIVOLGERSI A LIBROSTORE
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LUNA PIENA DEL LUNISTIZIO – EVENTO DI ARCHEOASTRONOMIA


Corfinio l’11 giugno 2025, alle ore 21,00 presso i “Morroni”

A intervalli di circa 18.6 anni, la Luna compie un movimento orbitale straordinario: il lunistizio meridionale maggiore, un raro evento astronomico durante il quale il nostro satellite, visto dall’emisfero boreale fino a certe latitudini, sorge da una delle posizioni più meridionali possibili rispetto all’orizzonte montuoso, apparendo insolitamente basso nel cielo.

Nella serata dell’11 giugno, uno dei lunistizi meridionali del 2025, coinciderà con la fase del plenilunio: il disco lunare si mostrerà luminoso e visibile dai luoghi simbolici dell’antica Corfinium. Nei pressi dei Morroni, nuclei di imponenti mausolei funerari a torre risalenti al I–II secolo d.C., sarà possibile osservare la Luna levarsi dalla vetta del Monte Pizzalto in asse con questi monumenti, intorno alle ore 22,00.

Dopo l’osservazione della levata della Luna, seguirà una visita guidata al museo Lapidarium, dove è conservata un’interessante collezione di epigrafi dell’antica Corfinium.

La serata, ideata dal prof. Salvatore Marinucci, offrirà un’occasione speciale per coniugare narrazione e osservazione astronomica, alla riscoperta delle antiche connessioni tra cultura, paesaggio e cicli celesti.


Narratori: Dott. Francesco Di Nisio; Prof. Enzo Presutti e Prof. Salvatore Marinucci.

Per informazioni e prenotazioni: Tel. 350 1392252

Evento sostenuto da COELUM Astronomia

Si ringrazia il Comune di Corfinio per il gentile patrocinio

Il MULTIVERSO quali chiavi di lettura?

Istruzioni, ad usum Delphini, sul concetto di multiverso, le sue diverse versioni e le sue implicazioni riguardo all’interpretazione della vita nella nostra regione di universo.

Nel corso della storia, la nostra concezione dell’universo si è progressivamente modificata e perfezionata, passando da un oggetto finito, di volume fisso e abbastanza ordinato, apparso in un momento ben preciso – il fatidico big bang – a una profusione disordinata ed eterna, l’idea di un universo uniforme che si espande e si evolve e che, agli albori, avrebbe subìto per breve tempo un’espansione rapida e accelerata, chiamata inflazione, in grado di generare regioni “pulite”, a bassa entropia, di favorire la comparsa di strutture come galassie, stelle, rocce. La teoria dell’inflazione, originariamente introdotta da Alan Guth nel 1980 e successivamente sviluppata in uno schema fecondo da Andrei Linde, ha mostrato che l’universo può essere visto come un sistema che si autoriproduce, caratterizzato non da un unico big bang ma da un insieme di big bang multipli.
Una proprietà cruciale dell’inflazione sta nel fatto che il campo che la genera deve evolvere in modo che a un certo punto la sua densità di energia del vuoto possa sparire, o trasformarsi in un altro tipo di energia. Come conseguenza di questo, risulta molto improbabile che l’inflazione si fermi dappertutto nello stesso istante ed è possibile, per esempio, che nel tempo necessario a raddoppiare il volume, se il processo in grado di fermare l’inflazione agisce solo in metà di spazio, globalmente l’inflazione può non finire mai. A questo proposito, molti cosmologi invocano l’idea di bolle di non-inflazione, ovvero di strutture che possono formarsi spontaneamente per via quantistica e che poi crescerebbero a spese del volume esterno che subisce l’inflazione ma che, pur espandendosi, consumano solo una frazione fissa dello spazio che subisce l’inflazione. In questo quadro, ne deriva così che, col passare del tempo, le regioni soggette o meno all’inflazione danno luogo a una distribuzione complessa di tipo frattale di stati diversi dello spazio-tempo e l’inflazione non esaurisce mai lo spazio da espandere in quanto genera di volta in volta il proprio spazio. Questo processo, denominato originariamente da Linde inflazione eterna, comporta che abbiamo a che fare con la formazione di infinite chiazze post-inflazionarie simili a palle di fuoco, generate da regioni che subiscono l’inflazione eterna, ciascuna delle quali è più grande del nostro universo osservabile. In virtù di questo processo infinito di creazione e autoriproduzione di chiazze post-inflazionarie, per usare delle parole di Linde, si può dire che “nella Sua saggezza Dio ha creato un universo che non ha mai smesso di generare universi di tutti i tipi possibili”1 . L’idea dell’inflazione eterna implica cioè che l’intero universo sia enormemente più grande e complesso – non solo per dimensioni ma anche per diversità di caratteristiche – rispetto all’universo che siamo in grado di osservare con i nostri strumenti.

Le due prospettive generali e il principio antropico

Basandosi su un pugno di teorie fondamentali, vale a dire meccanica quantistica, relatività generale e inflazione, la fisica arriva all’esistenza di un “multiverso” che si estende all’infinito nel futuro (e magari nel passato), non ha confini nello spazio e magari, se è valida una teoria simile a quella delle stringhe (la quale invoca sei-sette dimensioni addizionali dello spazio, piccole, arrotolate, nascoste, la cui geometria è definita da centinaia di parametri che possono variare con continuità da un punto a un altro e da cui derivano le varie costanti della natura che figurano nel Modello Standard della fisica delle particelle) esibisce proprietà sorprendentemente variegate nel senso che avremmo tanti universi paralleli, caratterizzati da diversi valori delle costanti fondamentali e da un diverso contenuto di campi e particelle. In questo quadro, sembra del tutto ragionevole ipotizzare che solo qualche universo generato dall’inflazione eterna contenga esseri senzienti e forme di vita basate sulle interazioni chimiche tra molecole tenute insieme dalle forze elettromagnetiche.
Ma l’esistenza del multiverso può anche essere vista da un prospettiva diversa. Si può supporre che l’inflazione non sia eterna, che dopo l’origine dell’universo l’inflazione agisca per un po’ e poi si interrompa. Allora, sotto queste ipotesi, lo stato iniziale dell’universo evolverà in una sovrapposizione di numerose possibilità e questi universi sovrapposti avrebbero proprietà classiche abbastanza diverse. Si avrebbe cioè un multiverso quantistico in cui la fisica può ammettere diversi valori di proprietà come le costanti fondamentali, ecc…

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L’articolo è pubblicato in COELUM 274 VERSIONE CARTACEA


La Luna del Mese – Giugno 2025

LA LUNA DI GIUGNO 2025

Superato ormai il Novilunio del 27 Maggio, il Sole illumina porzioni sempre più ampie del suolo lunare col nostro satellite che in fase crescente di 4,8 giorni la prima notte del mese scenderà sotto l’orizzonte alle ore 01:00 circa dell’1 Giugno, ben visibile fin dalla sera precedente. Saranno pertanto già possibili interessanti osservazioni sulle imponenti e spettacolari strutture situate in prossimità del bordo lunare orientale, dal settore nordest fino al mare Crisium con gli adiacenti mari Marginis, Undarum, Spumans e Smythii, per proseguire poi lungo il lato est del mare Fecunditatis con i quattro vasti crateri Langrenus, Vendelinus, Petavius, Furnerius inoltrandoci poi nel settore sudest del nostro satellite. Per l’occasione la massima librazione coinciderà con l’area ad est del cratere Humboldt, diametro di 207 km e con pareti alte circa 5000mt.

cratere LANGRENUS lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio 01 giugno

PANORAMICA crateri lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio e 01 giugno

cratere PETAVIUS lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio e 01 giugno

Alle ore 05:41 del 03 Giugno 2025 la Luna sarà in Primo Quarto ma a -36° sotto l’orizzonte in attesa di sorgere alle ore 13:10. Per effettuare osservazioni col telescopio, considerando la stagione estiva, basterà attendere almeno intorno alle ore 21:30 quando il disco lunare illuminato a metà si troverà ancora ad un’altezza di +44°, più che sufficiente per una piacevole serata osservativa che potrà essere estesa fin verso le prime ore della notte successiva. La fase crescente proseguirà fino alle ore 09:44 dell’11 Giugno 2025 con la Luna in Plenilunio a ben -47° sotto l’orizzonte, in fase di 15 giorni, alla distanza di 403805 km dalla Terra e con diametro apparente di 29,59’. Anche in questo caso basterà attendere che sorga (alle ore 21:33) per dedicarsi alle osservazioni di un’immensa quantità di strutture geologiche che, nonostante il Sole alto sull’orizzonte del nostro satellite e i tanti (forse troppi….) luoghi comuni che dipingono erroneamente la “Luna Piena” come un gran pallone abbagliante su cui non si vede nulla di interessante, farà bella mostra di sé in cielo per tutta la notte fin verso l’alba quando scenderà sotto l’orizzonte contestualmente al sorgere del Sole. Da qui inizierà la fase calante col nostro satellite che vedrà progressivamente ridursi di sera in sera la porzione illuminata dal Sole spostando sempre più la propria osservabilità verso orari tardo serali e poi notturni. Infatti alle ore 21:19 del 18 Giugno 2025 sarà in fase di Ultimo Quarto, ma anche in questo caso a ben -40° sotto l’orizzonte. Chi intendesse ammirare panoramiche o dettagli di questa particolare fase lunare dovrà attendere circa 4 ore o poco più, quando alle ore 01:21 della notte seguente (il 19 Giugno) la Luna sorgerà in fase di 22,8 giorni. Ormai non è più una novità che in Ultimo Quarto il principale target sia costituito dall’enorme estensione dell’oceanus Procellarum (circa 2 milioni 102.000 kmq di superficie), immediatamente individuabile dalle scure rocce basaltiche che ne ricoprono il fondo, in netto contrasto con la più elevata albedo degli altipiani in cui prevalgono le chiare rocce anortositiche. Si rendono visibili inoltre il mare Humorum e vaste porzioni dei mari Nubium e Imbrium. Al termine della fase calante, alle ore 12:31 del 25 Giugno 2025 la Luna sarà in Novilunio, completamente invisibile con l’altrettanto contestuale completa illuminazione dell’opposto emisfero. Da qui avrà inizio un ulteriore ciclo lunare che, come ormai avviene da oltre 4,5 miliardi di anni, riporterà gradualmente il nostro satellite verso le migliori condizioni osservative, andando pertanto a chiudere questo mese nella serata del 30 Giugno perfettamente osservabile fino a pochi minuti dopo la mezzanotte. Nell’occasione la massima librazione sarà in corrispondenza del mare Smythii, una zona relativamente pianeggiante di 370 km di larghezza sul confine fra i due emisferi della Luna.

Congiunzioni e Occultazioni Notevoli

La seconda parte dell’articolo di Francesco Badalotti, dedicato alla Luna di Giugno, con la descrizione delle Congiunzioni e Occultazioni notevoli, le Falci Lunari, e la tabella delle effemeridi è disponibile per i lettori abbonati alla versione digitale o al cartaceo.

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La Luna del Mese di Giugno è pubblicata in Coelum 274

–  Ogni fenomeno lunare e rispettivi orari sono rapportati alla Città di Roma, dati rilevati dai siti https://theskylive.com/http://www.marcomenichelli.it/luna.asp


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Coelum Astronomia 274 III/2025 Digitale

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Un Ascensore Spaziale tra Phobos e Marte

Uno degli obiettivi più ambiziosi dell’ingegneria spaziale moderna è realizzare infrastrutture che permettano di superare i limiti imposti dalla propulsione a razzo. Tra queste, l’idea di un ascensore spaziale affascina da oltre un secolo. Il progetto studiato recentemente da un gruppo di ricercatori si concentra su una versione “ridotta”, ma sorprendentemente realistica: un ascensore spaziale ancorato a Phobos, la più interna delle due lune di Marte, che si estende verso il pianeta rosso.

Il fine del progetto è dimostrare che, grazie alle condizioni gravitazionali favorevoli del sistema Marte–Phobos, è possibile costruire un’infrastruttura capace di collegare la luna alla superficie marziana. Per fare ciò, gli scienziati hanno sviluppato un modello fisico-matematico sofisticato che simula il comportamento dinamico di un sistema formato da una stazione spaziale, un cavo e un veicolo mobile detto “climber”.

Il modello considera la dinamica del sistema nel contesto del cosiddetto problema ellittico dei tre corpi, una rappresentazione matematica che tiene conto delle forze gravitazionali di Marte e Phobos. L’ascensore viene trattato come un doppio pendolo: un primo braccio collega la superficie di Phobos a una stazione posizionata oltre il punto di equilibrio gravitazionale tra i due corpi celesti (il punto L1), mentre il secondo può estendersi dalla stazione verso Marte.

Due sono le configurazioni principali analizzate. Nella prima, più tradizionale, il climber si muove lungo un cavo teso tra la superficie di Phobos e la stazione sospesa nello spazio. Questa struttura potrebbe servire come mezzo per trasportare strumenti scientifici o materiali da e verso Phobos, senza la necessità di lanciare razzi. La seconda configurazione è più audace: il cavo si estende dalla stazione verso Marte, permettendo al climber di muoversi in direzione del pianeta. Una volta raggiunta l’estremità, il veicolo può sganciarsi dal cavo e, sfruttando la gravità marziana, scendere direttamente verso la superficie.

Le simulazioni numeriche hanno confermato che il sistema può rimanere stabile, purché il baricentro dell’ascensore sia mantenuto oltre il punto L1. Inoltre, è possibile evitare che il cavo si rilassi o diventi instabile durante le operazioni, progettando con attenzione le fasi di accelerazione e decelerazione del climber.

Ciò che rende questo progetto particolarmente interessante è la concreta fattibilità tecnica. A differenza della Terra, dove un ascensore spaziale richiederebbe un cavo lungo circa 100.000 chilometri, la distanza tra Phobos e la superficie di Marte è di soli 6.000 chilometri. Inoltre, Phobos ha una gravità estremamente debole e un’orbita sincrona che la tiene sempre rivolta verso Marte, fattori che semplificano notevolmente la costruzione e la stabilità dell’infrastruttura.

Un ascensore spaziale tra Phobos e Marte avrebbe implicazioni enormi per l’esplorazione del pianeta rosso. Potrebbe abbattere drasticamente i costi delle missioni, permettere il trasporto continuo di materiali e strumenti scientifici, fungere da piattaforma per esperimenti in orbita stabile e persino rendere possibile il lancio di sonde verso altre destinazioni nel Sistema Solare.

In definitiva, il sogno dell’ascensore spaziale potrebbe non essere poi così lontano. Non sulla Terra, ma su una piccola luna che orbita silenziosamente attorno a Marte, dove la scienza e l’immaginazione si incontrano per tracciare una nuova via verso il futuro dell’esplorazione spaziale.

News da Marte #40: le notti marziane di Perseverance tra aurore e lune brillanti

Riprendiamo due news recentemente pubblicate dalla NASA nei suoi canali d’informazione. Queste notizie riguardano alcune rilevazioni fotografiche eseguite dal rover Perseverance, il gioiello tecnologico che dal 2021 guida il programma di esplorazione del Pianeta Rosso. Tuttavia una delle pubblicazioni non è una novità assoluta, ma ne approfittiamo per espandere e analizzare ulteriormente l’argomento. Iniziamo proprio con questa prima notizia, si parte!

La prima osservazione di un’aurora marziana nello spettro visibile

I lettori e le lettrici più assidue di Coelum potrebbero ricordare un paragrafo intitolato in modo simile in News da Marte #30 o nel numero 269 della nostra rivista. Al tempo avevamo documentato la rilevazione di cui nel titolo grazie ai risultati presentati nel lavoro intitolato First Detection Of Visible-Wavelength Aurora On Mars (Knutsen, McConnochie, Lemmon et al., 2024) presentato alla decima International Conference on Mars. Il 15 maggio l’articolo è stato finalmente pubblicato e grazie a questa versione estesa possiamo aggiungere alcuni elementi.

A sinistra la prima foto di un’aurora verde osservata su Marte, Sol 1094 di Mars 2020. A destra è riportata un’immagine di confronto del cielo notturno in cui il fenomeno è assente. La notte è illuminata dal satellite Deimos e dall’ancor più luminoso Fobos, fuori dall’inquadratura. Le tonalità rosse del cielo sono dovute all’abbondante polvere in sospensione nell’atmosfera. Foto eseguite con MastCam-Z. Crediti: NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/SSI

Il 15 marzo 2024, in seguito a un flare di intensità C4.9 originato dalla macchia solare AR3599, si è generata una potente espulsione di massa coronale che dal Sole ha viaggiato sino a Marte. Qui un’intera flotta di apparati era pronta a intercettare un fenomeno sino a quel momento solo teorizzato: l’emissione alla lunghezza d’onda di 557.7 nm, legata all’ossigeno atomico eccitato che anche sulla Terra produce il colore verde associato alle aurore.

Attraverso modelli matematici, il gruppo di lavoro guidato da Elise W. Knutsen (prima autrice dell’articolo) ha calcolato l’angolo ottimale con cui tentare l’osservazione dell’aurora dovuta alle SEP (solar energetic particle) in arrivo e massimizzare così la possibilità di rilevazione con lo spettrometro della SuperCam e le camere MastCam-Z.

La collaborazione tra team diversi è stata cruciale, garantendo l’opportunità di selezionare un fenomeno con intensità sufficiente a produrre l’emissione verde ricercata. Il Moon to Mars (M2M) Space Weather Analysis Office e il Community Coordinated Modeling Center (CCMC) hanno contribuito fornendo e analizzando in tempo reale i dati sulle eruzioni solari, producendo le simulazioni di CME (coronal mass ejection) e stimando i tempi d’impatto.

Quando è stata diramata l’allerta per la CME di metà marzo 2024 e “ne abbiamo visto l’intensità” – commenta Knutsen – “abbiamo stimato potesse generare un’aurora sufficientemente luminosa per essere rilevata dai nostri strumenti.”

Alcuni giorni dopo l’espulsione di massa coronale è giunta su Marte dove ha prodotto il fenomeno atteso e splendidamente documentato da Perseverance: un debolissimo bagliore verde presente quasi uniformemente in tutto il cielo esattamente alla lunghezza d’onda di 557.7 nm. L’arrivo della CME è stato confermato indipendentemente dagli strumenti a bordo dei satelliti MAVEN della NASA e da Mars Express dell’ESA.

“Le osservazioni dell’aurora nella luce visibile effettuate da Perseverance confermano un nuovo modo di studiare questi fenomeni, complementare a quanto possiamo osservare con i nostri orbiter marziani”, ha dichiarato Katie Stack Morgan, Project Scientist ad interim di Perseverance presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA. “Una comprensione più approfondita delle aurore e delle condizioni attorno a Marte che ne determinano la formazione è particolarmente importante mentre ci prepariamo a inviare lì, in sicurezza, degli esploratori umani”.

Questa rilevazione di successo, eseguita nel Sol 1094 della missione Mars 2020, è stata solo una di quattro complessive simili osservazioni che hanno tentato di rilevare il fenomeno dell’aurora nel cielo di Marte. Gli altri tentativi (eseguiti nei Sol 790, 900 e 1108) sono falliti ma hanno fornito dei profili di segnale medio indispensabili per discriminare l’eccesso nel canale verde dovuto all’aurora.

Profili del segnale in eccesso nel verde per tutti e quattro i tentativi di rilevamento dell’aurora. Il segnale medio in eccesso nel verde è espresso in funzione dell’angolo di elevazione. I profili Mastcam-Z e il modello sono mostrati come linee, mentre le misurazioni della radianza da parte di SuperCam sono indicate con rombi. I colori rappresentano diversi sol della missione. Solo il sol 1094 (linea verde continua) ha prodotto un rilevamento positivo. Le aree ombreggiate in verde e grigio rappresentano, rispettivamente, l’incertezza strumentale di Mastcam-Z per il miglior adattamento e l’intervallo di confidenza al 95% comprensivo delle incertezze dovute alle correzioni per la luce diffusa di Phobos. La linea tratteggiata arancione mostra il risultato di un modello di trasferimento radiativo per la riga aurorale adattato alla misurazione di SuperCam del sol 1094. (Knutsen EW, McConnochie TH, Lemmon M et al., Detection of visible-wavelength aurora on Mars. Sci Adv. 2025 May 16)

Alba marziana con Deimos e il Leone

Il rover Perseverance ci regala un’altra splendida immagine catturata prima dell’alba del Sol 1433 (1 marzo) all’ora locale 4:27. Sull’orizzonte est viene immortalata la piccola luna marziana Deimos, lunga appena 12 km e in quel momento distante circa 22000 km dal rover.

Alba marziana fotografata da Perseverance, Sol 1433. NASA/JPL-Caltech

Gli esperti elaboratori del JPL dichiarano che la foto è il risultato di 16 singole acquisizioni eseguite con la Left NavCam e combinate direttamente dal computer di bordo prima del loro invio. Per ciascuno scatto la camera di navigazione è stata impostata sul tempo massimo di acquisizione di 3.28 secondi, producendo così un’immagine che copre un intervallo complessivo di poco più di 52 secondi. Il campo inquadrato è di 90°x70°.

L’aspetto nebbioso dell’immagine è dovuto alla bassissima luminosità della scena che ha richiesto pesanti interventi di elaborazione. È presente un grande disturbo digitale legato sia al rumore elettronico del sensore che a qualche raggio cosmico che di tanto in tanto ha raggiunto il dispositivo di acquisizione. Quest’ultimo disturbo è visibile come brevi scie di pixel luminosi, non è difficile trovarne degli esempi quando si visiona l’immagine a piena risoluzione (disponibile a questo link).

Uno zoom spinto dell’immagine (reso possibile dal fatto che questa acquisizione non ha subito downscaling  ed è stata inviata alla massima risoluzione permessa dalla NavCam, 5120×3840 pixel) è in grado di rivelare dettagli aggiuntivi.

Andando a indagare nelle vicinanze di Deimos si individuano due corte scie stellari non dovute a raggi cosmici. Si tratta di Regolo e Algieba, due tra gli astri più luminosi della costellazione del Leone.

Vale la pena notare che Deimos, a differenza delle due stelle che hanno prodotto una scia di circa 0.2°, appare invece immobile. Questo è dovuto al periodo dell’orbita del satellite attorno al suo pianeta esattamente di 30,312 ore. È un tempo comparabile a quello del giorno marziano (24 ore e 39 minuti) e il risultato è che, visto da Marte, Deimos impiega circa 5,34 giorni marziani per tornare allo stesso punto nel cielo. Durante questo tempo il suo moto apparente, in direzione concorde con quello delle stelle, è estremamente lento e ciò fa sì che in lunghe esposizioni come quella qui analizzata sembri praticamente immobile.

Per questo aggiornamento da Marte è tutto, alla prossima!

News da Marte #39: il ciclo del carbonio marziano svelato da Curiosity

Grazie ai dati del rover Curiosity sono stati scoperti minerali che raccontano una storia affascinante: miliardi di anni fa su Marte era attivo un ciclo del carbonio.

È stato a lungo ritenuto che Marte possedesse un’atmosfera molto più densa di quella attuale e ricca di anidride carbonica. Le ricerche portate avanti sino a questo momento fallivano però nel trovare le evidenze fossili nelle rocce di questo composto. Lo studio pubblicato su Science il 17 aprile (Carbonates identified by the Curiosity rover indicate a carbon cycle operated on ancient Mars, Tutolo et al.) segna un punto di svolta nella comprensione della storia del clima e della geochimica del pianeta rosso.

Le tracce del passato in una roccia marziana

Se Marte avesse posseduto un’atmosfera con abbondanza di CO2, le prove sarebbero nelle rocce: l’anidride carbonica e l’acqua reagiscono e formano minerali carbonati. Le cronache delle attività dei rover marziani abbondano di rinvenimenti di questi minerali, ma sino a questo momento le rivelazioni spettrali compiute dagli orbiter e quelle in situ con gli strumenti in dotazione ai robot non avevano mai rilevato quantità di carbonati sufficienti a confermare le teorie.

Tra la fine del 2022 e l’autunno del 2023 Curiosity ha affrontato un’avanzata verso sud in direzione di Aeolis Mons che ha visto il rover risalire un centinaio di metri di quota. Durante la sua esplorazione della formazione sedimentaria denominata Mirador, Curiosity ha analizzato quattro campioni prelevati da diverse profondità con il suo strumento CheMin, in grado di identificare i minerali attraverso la diffrazione a raggi X.

Nella sua ricerca di carbonati alla base della formazione, il rover ha prelevato il primo campione il 19 ottobre 2022. Canaima, questo il suo nome, mostrava la presenza di cristalli di starkeyite.

Curiosity ha proseguito il suo spostamento entrando nella formazione geologica denominata Marker Band. In questa regione, tra i Sol 3752 e 3980 (marzo-ottobre 2023), il rover ha analizzato tre campioni: Tapo Caparo, Ubajara e Sequoia. Se tali nomi vi risultano familiari siete evidentemente assidui lettori e lettrici di questa rubrica perché in passato sono comparsi nelle pagine di News da Marte (ai relativi link potete comunque rinfrescarvi la memoria).

Foto del foro relativo al campione “Sequoia”, Sol 3980. NASA/JPL-Caltech

Ma torniamo ai nostri campioni.
In essi i ricercatori hanno individuato abbondanza di siderite (FeCO₃), un minerale carbonatico ferroso presente in concentrazioni fino al 10% in peso rispetto alla roccia. È la prima volta che questo tipo di carbonato viene trovato in quantità così elevate su Marte, e prima d’ora la sua rilevazione così abbondante era sfuggita alle osservazioni orbitali perché ricoperta superficialmente da differenti minerali.

(A) Colonna stratigrafica che mostra le altezze e le interpretazioni sedimentologiche della sezione verticale di 89 m attraversata dal rover. I gruppi, formazioni e membri rappresentano le unità sedimentarie, con stili di tratteggio indicanti la litologia. I cerchi neri segnano i luoghi di campionamento: CA (Canaima), TC (Tapo Caparo), UB (Ubajara) e SQ (Sequoia). Le linee verticali spesse segnano le elevazioni dove sono stati rilevati minerali di Mg-solfato (linea continua) e siderite (linea tratteggiata). (B) Mosaico di immagini ottiche orbitali del cratere Gale, con il percorso del rover Curiosity (linea bianca) su Mt. Sharp. I confini dei membri corrispondono alla sezione in (A). I punti di osservazione ChemCam sono riportati come cerchi colorati, indicanti la differenza rispetto alla composizione media del letto roccioso Chenapau. Tutolo et al.(2025)

Cosa racconta la siderite?

La siderite si forma in ambienti poveri d’acqua ma ricchi di anidride carbonica e con condizioni chimiche riducenti, cioè in assenza di ossigeno. Le analisi suggeriscono che questi carbonati si sono depositati attraverso l’evaporazione di acque sotterranee, in una fase in cui l’ambiente era abbastanza alcalino da permetterne la precipitazione.

Questa scoperta dimostra che, miliardi di anni fa, su Marte esistevano fluidi che reagivano con le rocce del sottosuolo in modo simile a quanto avviene sulla Terra. Ma soprattutto, la presenza di questi minerali implica che una parte dell’atmosfera marziana fu sequestrata nelle rocce attraverso reazioni chimiche.
Le stime, basate su analisi spettrografiche orbitali, ipotizzano che i carbonati abbiano trattenuto tra 0,01 e 1 bar di anidride carbonica.

(A) I dati di diffrazione a raggi X ottenuti dallo strumento CheMin per tre campioni marziani. I picchi indicano la presenza di minerali specifici, come siderite, gesso, pirosseno e altri. (B) I diagrammi a torta mostrano le percentuali dei minerali (e delle componenti amorfe) presenti nei campioni Tapo Caparo, Ubajara e Sequoia. La quantità di siderite è evidenziata in ciascuno. (C) Il diagramma triangolare confronta la composizione dei carbonati trovati nei campioni con quella di carbonati già noti da meteoriti marziani e da Comanche, un sito precedentemente studiato nel cratere Gusev. Tutolo et al.(2025)

Nelle descrizioni dei ricercatori, miliardi di anni fa il pianeta rosso era molto diverso da Marte come lo conosciamo ora. L’attuale atmosfera contiene soli 6 mbar di CO2, ma in passato si stima che le sole eruzioni vulcaniche possano averne fornito sino a 10 bar. Anche tenendo conto del gas disperso nello spazio (circa 3 bar) ci sarebbe comunque stata sufficiente pressione affinché l’acqua potesse essere presente stabilmente allo stato liquido.

Un ciclo del carbonio marziano

Ma la storia non finisce qui. I ricercatori hanno anche identificato minerali come ematite, goethite e akaganeite che, detto in termini estremamente specialistici, sono derivati dalla diagenesi della siderite in condizioni ossidanti.
Per i non specialisti: con diagenesi si intendono i processi che trasformano i sedimenti in rocce compatte successivamente alla loro deposizione.

Questo indica che una parte del carbonio, inizialmente intrappolata nei carbonati, fu successivamente rilasciata nell’atmosfera marziana chiudendo così un ciclo del carbonio parzialmente simile a quello terrestre.

Lo schema illustra il ciclo del carbonio proposto per l’antico Marte. L’evaporazione delle acque sotterranee porta inizialmente alla formazione di siderite, che intrappola CO₂ atmosferica. Con l’aumento dell’evaporazione si depositano solfati di calcio e magnesio. I sedimenti trasportati dal vento fanno salire nel tempo la zona di evaporazione. In una fase successiva, fluidi poveri di siderite infiltrano i sedimenti, distruggendo parte della siderite formata e liberando nuovamente CO₂ nell’atmosfera. Tutolo et al.(2025)

Implicazioni globali

Anche se queste scoperte provengono da un’unica area del cratere Gale, i ricercatori ipotizzano che sedimenti simili possano essere presenti in molte altre regioni del pianeta. Se confermata, la presenza diffusa di siderite potrebbe significare che Marte ha sequestrato (e in parte rilasciato) quantità di CO₂ comparabili a quelle dell’atmosfera odierna del pianeta, offrendo nuove chiavi di lettura sulla sua evoluzione climatica.

“Perforare la superficie stratificata marziana è come sfogliare un libro di storia” ha enfatizzato il ricercatore Thomas Bristow, coautore dello studio. “Bastano pochi centimetri di profondità per darci un’ottima idea dei minerali che si sono formati sulla superficie o nelle sue immediate vicinanze circa 3,5 miliardi di anni fa.”

Questa scoperta rafforza l’idea che Marte non sia sempre stato il deserto gelido che conosciamo oggi. La sua storia geologica rivela un mondo dinamico, con acqua liquida, reazioni chimiche attive e un’atmosfera capace di trasformarsi. E chissà: dove c’è un ciclo del carbonio, potrebbe esserci stata anche una nicchia abitabile.

Continuate a seguire News da Marte e Bentornati su Marte, la rubrica ospitata sulla rivista Coelum Astronomia che ogni due mesi va nel dettaglio delle scoperte e delle notizie più interessanti relative al Pianeta Rosso.

News da Marte #38 – Curiosity trova lunghissime molecole organiche

Bentornati su Marte!
Il rover Curiosity della NASA ha colpito ancora. Stavolta (o per meglio dire nel 2013), frugando tra le polveri di un antico lago marziano, ha scovato le più grandi molecole organiche mai trovate sul Pianeta Rosso. La scoperta è stata pubblicata lunedì 24 marzo sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences e alimenta l’ipotesi che la chimica prebiotica su Marte possa essere stata più complessa di quanto immaginassimo.

Grandi molecole, domande ancora più grandi

Gli scienziati hanno analizzato un campione di roccia chiamato Cumberland e prelevato nel 2013 da Curiosity nella zona di Yellowknife Bay, all’interno del cratere Gale. A distanza di anni nuove analisi hanno rivelato la presenza di decano, undecano e dodecano, catene molecolari costituite rispettivamente da 10, 11 e 12 atomi di carbonio. Questi composti sembrano essere frammenti di acidi grassi, molecole fondamentali sulla Terra per la costruzione delle membrane cellulari. Questo però non implica necessariamente un’origine biologica: gli acidi grassi possono anche formarsi senza la presenza di vita, grazie a reazioni chimiche come quelle che avvengono nelle bocche idrotermali.

Il rover Curiosity della NASA ha perforato questa roccia, chiamata “Cumberland”, durante il 279° giorno marziano (o sol) della sua missione su Marte, il 19 maggio 2013, raccogliendo un campione di polvere dall’interno della roccia. Situata nella regione di Yellowknife Bay, all’interno del cratere Gale, questa zona era un tempo il fondo di un antico lago, offrendo condizioni ideali per la conservazione di molecole organiche. Le analisi successive hanno rivelato la presenza di composti organici complessi, tra cui decano, undecano e dodecano, le molecole organiche più grandi mai scoperte su Marte. Crediti: NASA/JPL-Caltech/MSSS

Un passo avanti verso la vita?

La cosa esaltante è che finora su Marte erano stati individuati solo composti organici piuttosto semplici. Questi nuovi ritrovamenti dimostrano che la chimica organica su Marte potrebbe essersi spinta più in là, forse fino a livelli compatibili con l’origine della vita. Inoltre, la scoperta dà una speranza concreta di trovare anche quelle molecole biologiche che possono essere considerate vere “firme” della vita passata, le cosiddette biosignature.

Questa grafica mostra le molecole organiche a catena lunga decano, undecano e dodecano. Si tratta delle molecole organiche più grandi scoperte su Marte fino a oggi. Crediti: NASA/Dan Gallagher

La ricerca fornisce un’altra buona notizia, ovvero che questi composti hanno resistito per miliardi di anni nonostante le difficili condizioni marziane. Significa che, se su Marte è mai esistita la vita, potremmo ancora avere una chance di trovarne le tracce.

Il fascino di Yellowknife Bay

La zona di Yellowknife Bay era risultata già molto interessante per gli scienziati. Si tratta di un’area che un tempo ospitava un lago, offrendo le condizioni ideali per preservare molecole organiche nel fango sedimentario. Le analisi precedenti su Cumberland avevano già rivelato un mix di argille (formatesi in acqua), zolfo (perfetto per conservare le molecole organiche), nitrati (importanti per la vita sulla Terra) e perfino metano con un tipo di carbonio che sulla Terra è associato ai processi biologici. Insomma, se dovessimo scegliere un posto su Marte dove un giorno scovare prove di vita passata, Yellowknife Bay sarebbe un candidato ideale.

Un aspetto esplorato dagli autori dello studio è la possibilità di trovare catene organiche ancora più lunghe di 13 atomi di carbonio. Questo rappresenterebbe una prova estremamente potente che potrebbe persino escludere per questi composti l’origine non biologica in quanto tali processi tipicamente generano catene più corte di 12 atomi. Purtroppo gli strumenti in possesso di Curiosity, in particolare il Sample Analysis at Mars (SAM) impiegato per queste analisi, non sono ottimizzati per rilevare moleecole più lunghe di quelle già individuate.

La scoperta del rover non fa che confermare l’importante di portare sulla Terra campioni marziani, per analizzarli con strumenti avanzati impossibili da spedire sul Pianeta Rosso. Non a caso NASA e ESA stanno lavorando a Mars Sample Return, la missione di recupero dei materiali raccolti da Perseverance che mira a risolvere una volta per tutte il mistero della vita su Marte.

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News da Marte #37: nubi crepuscolari e nuovi crateri

Le attività di ricerca svolte sul Pianeta Rosso non riguardano solo le prove che possano indicare l’esistenza di una passata vita batterica marziana. Ci sono anche tanti altri aspetti affascinanti che vengono indagati, come l’atmosfera e l’interno del pianeta come testimoniano due recenti ricerche: il primo analizzato è stato analizzato dal rover Curiosity e il secondo dal lander Insight con un aiuto…dall’alto.

Nubi crepuscolari nel video di Curiosity

Non è la prima volta che il rover Curiosity osserva il fenomeno delle nubi crepuscolari (chiamate anche nottilucenti) nel cielo di Marte. Un esempio a riguardo si trova in questa stessa rubrica nell’uscita di marzo del 2023.

La rilevazione più recente risale a meno di un mese fa, il 17 gennaio, quando la Left MastCam ha immortalato in 33 fotogrammi il transito ad alta quota di questa particolare formazione nuvolosa. La ripresa è durata circa 16 minuti e le immagini sono state acquisite a intervalli di 30 secondi.

NASA/JPL-Caltech/MSSS/SSI

Nel video, ricomposto dagli specialisti del JPL e proposto velocizzato di 480 volte, si notano le nuvole transitare nella parte alta del fotogramma. Le nubi crepuscolari su Marte sono costituite da cristalli di anidride carbonica che, alle gelide temperature presenti a 60/80 km di quota, forma del ghiaccio. L’aggettivo “crepuscolare” fa riferimento al fatto che questo tipo di nube è troppo evanescente per essere visibile di giorno, e così la sua osservazione è possibile solo a ridosso dell’alba o del tramonto quando al suolo è buio ma gli alti strati dell’atmosfera vengono raggiunti dalla luce del Sole. A temperature superiori e quote leggermente inferiori, attorno ai 50 km, anche il debole vapore acqueo in atmosfera ghiaccia. Questo seconda tipologia di nubi si manifesta come pennacchi bianchi, anch’essi visibili nel video di Curiosity: sono le debolissime formazioni che compaiono nella parte inferiore dell’inquadratura e che si muovono in direzione opposta alle nubi crepuscolari.

Un secondo dettaglio del video riguarda non tanto il soggetto dell’acquisizione ma la visuale che risulta parzialmente oscurata da un cerchio. Non è un errore di elaborazione ma il modo con cui i tecnici di Curiosity stanno affrontando il problema alla ruota portafiltri della Left MastCam. Potreste ricordare da un vecchio articolo (News da Marte #23) che, dall’autunno 2023, la visuale della camera grandangolare del rover è parzialmente oscurata a causa della ruota che è rimasta bloccata a metà del filtro RGB. Questo intoppo sta tutt’ora privando il rover di oltre metà del campo permesso dalla camera a 34 mm oltre che della possibilità di eseguire osservazioni in alcune bande spettrali d’interesse per i geologi.
In ogni caso, per non sprecare bit nella trasmissione delle immagini dalla superficie di Marte verso la Terra, la porzione nera nella parte destra del frame viene esclusa già in fase di acquisizione. È una procedura di crop dell’area utile del sensore, ben familiare a chi si occupa di acquisizione di immagini planetarie al telescopio.

Entità del problema alla ruota portafiltri della Left MastCam di Curiosity, Sol 3998. NASA/JPL-Caltech

Un nuovo cratere ci aiuta a capire l’interno di Marte

Le rilevazioni del sismometro di InSight, il lander della NASA con cui si sono persi i contatti il 15 dicembre 2022, continua a produrre nuova scienza. In un articolo pubblicato il 3 febbraio sulla rivista Geophysical Research Letters si descrivono i dettagli relativi alla correlazione tra un cratere individuato dal Mars Reconnaissance Orbiter e una scossa rilevata da InSight.

Immagine del cratere acquisita dalla camera HiRise di MRO il 4 marzo 2021. NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

Non solo i terremoti, ma anche gli impatti meteorici di significativa potenza, producono un concerto di onde sismiche che si propagano nella crosta e nel mantello dei pianeti rocciosi. L’analisi spettrale di queste onde e i differenti tempi di propagazione in base alle loro frequenze permette di approssimare un modello dell’interno del pianeta.

Proprio il cratere in oggetto, largo 21.5 metri e individuato a 1640 km da InSight nella regione di Cerberus Fossae, ha fornito spunti interessanti ai ricercatori. Nonostante la notevole distanza, le onde sismiche sono stato rilevate dal sismometro del lander con livelli di intensità significativi. Tali livelli non sarebbero stati possibili se le onde avessero viaggiato prevalentemente in superficie, in quanto la crosta marziana agisce come uno smorzatore. La spiegazione è che le vibrazioni abbiano quindi preso una via differente penetrando attraverso il mantello di Marte e trasmettendosi così sino alla posizione di InSight. Attraverso quella che i ricercatori hanno definito “autostrada sismica” le vibrazioni causate dagli eventi di impatto riescono a insinuarsi nell’interno del pianeta e propagarsi più facilmente di quanto sinora stimato.

Tra gli strumenti che negli ultimi anni stanno aiutando i ricercatori a individuare nuove caratteristiche su Marte, che siano crateri o diavoli di polvere, ci sono gli algoritmi di intelligenza artificiale. Dal 2021 il lavoro di analisi di centinaia di migliaia di immagini, pesante ed estremamente lento, è supportato da tecniche di machine learning che riescono a filtrare le acquisizioni eseguite dai satelliti in orbita marziana. L’analisi di una singola immagine della Context Camera (che possiamo vedere come la camera grandangolare di MRO), che richiedeva sino a 40 minuti di lavoro da parte di un operatore umano, adesso viene eseguita in meno di 5 secondi da un supercalcolatore. Anche il cratere individuato nella regione di Cerberus Fossae è stato scoperto nelle immagini grazie a questo nuovo strumento di elaborazione: un primo filtraggio ha rilevato 123 crateri recenti e un’analisi successiva a ridotto a 49 i potenziali match con i dati di InSight. L’intervento umano finale da parte di sismologi e ricercatori coinvolti nella stesura del paper scientifico ha poi individuato il cratere di interesse permettendo le successive analisi.

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Bentornati su Marte! Nella serata italiana di martedì 7 gennaio la NASA ha annunciato un’importante revisione del programma Mars Sample Return, destinato a riportare sulla Terra campioni raccolti dal rover Perseverance. Con un focus su costi, complessità e tempistiche, l’agenzia spaziale americana sta valutando due nuove opzioni per semplificare e accelerare il progetto.

Il contesto della missione

Dal 2021, il rover Perseverance sta esplorando il cratere Jezero su Marte. Fino ad oggi, il rover ha raccolto 28 campioni sigillati in tubi di titanio, rappresentativi di rocce, regolite e atmosfera. L’obiettivo del programma è recuperare questi campioni e riportarli sulla Terra per analisi che potrebbero rivoluzionare la comprensione del Pianeta Rosso e della sua evoluzione geologica.

Collage con le foto delle dieci fiale che Perseverance ha rilasciato al suolo tra dicembre 2022 e gennaio 2023 per la raccolta da parte di un futuro lander. NASA/JPL-Caltech

Tuttavia, il progetto originale, che prevedeva l’uso di diverse missioni e un approccio molto complesso, ha incontrato ostacoli significativi che abbiamo raccontato in numerosi appuntamenti di questa rubrica. I costi stimati avevano superato gli 11 miliardi di dollari e la data prevista per il recupero era slittata fino al 2040.

Nuova strategia: riduzione dei costi e maggiore efficienza

Nel briefing Bill Nelson, amministratore della NASA, ha spiegato come sia stato necessario “staccare la spina” al progetto originale e ripensare l’architettura della missione. Da aprile 2024 il team ha lavorato su due approcci principali:

  • Utilizzo della “Sky Crane”
    Questa opzione si basa sulla tecnologia già impiegata con successo per l’atterraggio dei rover Curiosity e Perseverance. Il sistema prevede l’uso di un lander dotato di un braccio robotico per trasferire i campioni su un veicolo di ascesa marziano (Mars Ascent Vehicle), che li trasporterà nell’orbita di Marte. Da lì, un orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea, li raccoglierà e li riporterà sulla Terra. Questa opzione offre un costo stimato di 6,6-7,7 miliardi di dollari e riduce la complessità del sistema.
Rappresentazione della Sky Crane in azione mentre depone Perseverance sul suolo marziano. NASA/JPL-Caltech
  • Coinvolgimento di partner commerciali
    L’altra opzione esplora l’uso di un grande lander commerciale fornito da aziende come SpaceX o Blue Origin. Questo approccio mira a sfruttare le capacità di carico elevate offerte dai veicoli commerciali. I costi stimati vanno dai 5,8 ai 7,1 miliardi di dollari.

Un focus su semplicità e rapidità

Indipendentemente dall’opzione scelta, il nuovo approccio mira a ridurre la complessità della missione e i rischi associati. È stato confermato un ruolo prioritario per il braccio robotico di Perseverance al fine di trasferire o comunque avvicinare i campioni direttamente al lander, riducendo la necessità di componenti aggiuntivi. A riguardo sembra accantonata l’idea di ricorrere a due piccoli elicotteri, sviluppati sul progetto di Ingenuity e dotati di un piccolo braccio robotico, per recuperare le dieci fiale rilasciate dal rover due anni fa.
Tra le innovazioni chiave discusse c’è l’introduzione di un sistema di alimentazione a radioisotopi che sostituiranno i pannelli solari, garantendo operatività anche durante le stagioni di tempeste di polvere marziane. A livello di trasferimento orbitale è stato poi scartata l’idea di un passaggio intermedio nell’orbita cis-lunare, che avrebbe comportato costi e complessità aggiuntivi, preferendo il ritorno diretto verso la Terra.

La NASA prevede di scegliere definitivamente l’architettura della missione entro la metà del 2026. Le prime missioni di lancio potrebbero avvenire già nel 2030 (orbiter di ritorno) e nel 2031 (lander e sistema di ascesa). Questo permetterebbe di recuperare i campioni entro la metà degli anni 2030, in anticipo rispetto alle previsioni più recenti piano originale. L’amministratore Nelson evidenzia che già a partire dal 2025 sarà necessario uno stanziamento di almeno 300 milioni di dollari da parte del Congresso per evitare ulteriori ritardi.

Concorrenza internazionale: la pressione della Cina

Un tema cruciale emerso durante il briefing è la competizione con la Cina, che ha annunciato piani per una propria missione di ritorno di campioni marziani entro la fine del decennio. Sebbene la NASA sottolinei la superiorità scientifica del proprio approccio, la pressione per accelerare il progetto è evidente. “Non possiamo lasciare che il primo ritorno di campioni avvenga su una navicella cinese” ha dichiarato Nelson, evidenziando l’importanza scientifica e politica del programma.

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News da Marte #35

Bentornati su Marte! Questo nuovo aggiornamento dal Pianeta Rosso è interamente dedicato un rapporto preliminare presentato dalla NASA che fa luce sulla dinamica dell’incidente fatale che ha messo fine ai quasi 1000 giorni di operazioni di volo dell’elicotterino Ingenuity. Si parte!

L’ultimo volo di Ingenuity

È passato quasi un anno dal 18 gennaio 2024, il giorno in cui l’elicottero Ingenuity eseguì il suo ultimo volo. Si trattò della sua 72esima attività, programmata dagli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory con lo scopo di confermare la posizione dell’elicottero che nel precedente volo si era, diciamo così, smarrito. Il volo 71 era stato interrotto bruscamente con un atterraggio di emergenza perché, dopo 35 secondi dal decollo, il sistema di navigazione ottica non riusciva più a calcolare lo spostamento rispetto al terreno a causa dell’assenza di dettagli al suolo. Per verificare con precisione la posizione di atterraggio di Ingenuity viene così programmata una breve attività aerea della durata di 32 secondi.

Come detto, l’elicottero si trovava a operare in una zona con un suolo privo di caratteristiche superficiali significative e con in più la presenza di importanti variazioni nel livello del terreno a causa delle dune di sabbia. Un ambiente estremamente diverso da quello che aveva ospitato i primi 5 voli di test di Ingenuity, pianeggiante e ricco di piccoli sassi.

La programmazione del volo 72 consisteva in una rapida ascesa alla quota di 12 metri, lo stazionamento di alcuni secondi per catturare le immagini aeree e l’inizio della discesa 19 secondi dopo il decollo. Al 32esimo secondo, ad atterraggio quasi completato, la telemetria però si interruppe improvvisamente. Nei giorni che seguirono la NASA riuscì a riprendere contatto con l’elicottero e scattare alcune foto che documentavano lo stato dell’apparato: con grande delusione si scoprì che le punte delle quattro eliche erano spezzate. Terminava così la missione di esplorazione di Ingenuity.

Ingenuity sulla destra dell’immagine, adagiato su un crinale sabbioso. Sul lato opposto una delle sue eliche, scagliata a 15 metri di distanza. NASA/JPL-Caltech/LANL/CNES/CNRS

Cos’è successo quel giorno

Ci aiuta a ricostruire i fatti un’indagine dell’incidente, la prima a riguardare un velivolo su un altro pianeta. L’ha eseguita dalla NASA in collaborazione con AeroVironment, la compagnia che ha collaborato alla progettazione di Ingenuity. Il dettagliato rapporto sull’incidente sarà rilasciato nelle prossime settimane ma una news pubblicata dall’agenzia spaziale statunitense l’11 dicembre ci dà una prima interessante panoramica.

La catena di eventi che ha portato al danneggiamento dell’elicottero inizia probabilmente dal problema con il sistema di navigazione, basato sulla camera in bianco e nero puntata verso il basso, che non è riuscito a tracciare lo spostamento di Ingenuity nel corso del volo. Combinando l’informazione dell’altitudine con lo spostamento relativo dei sassi che riusciva a individuare, il sistema calcolava lo spostamento reale dell’elicottero e ne permetteva anche la stabilizzazione.

I dati di volo inviati da Ingenuity mostrano che dopo 20 secondi dal decollo l’apparato non riusciva più a trovare dei punti di riferimento e questo potrebbe aver causato una decisa deriva nello spostamento laterale mentre l’elicottero stava ancora discendendo al suolo.

Infografica con la sequenza dell’incidente occorso a Ingenuity. NASA/JPL-Caltech, traduzione Piras

Lo scenario più plausibile suggerisce un impatto violento sulla duna che combinato con la traslazione orizzontale ha portato Ingenuity a inclinarsi su un lato. Le eliche in rapidissima rotazione avrebbero quindi toccato il terreno spezzandosi tutte e quattro nel punto strutturalmente più fragile (a circa un terzo della loro lunghezza a partire dalla punta). Le eliche in queste condizioni, molto sbilanciate, avrebbero indotto forti vibrazioni nel sistema a doppio rotore comportando il distacco completo di una delle quattro eliche che è stata così scagliata a circa 15 metri di distanza. Durante questa sequenza di eventi un eccessivo assorbimento di corrente ha probabilmente portato al riavvio del computer di bordo e con esso alla perdita delle comunicazioni e delle immagini acquisite sino a quel momento.

NASA/JPL-Caltech/LANL/CNES/IRAP/Piras
Uno dei fotogrammi acquisiti da Ingenuity nel Sol 1059 (11 febbraio) durante le fasi di indagine sull’incidente. L’ombra delle due eliche mostra chiaramente le punte spezzate. NASA/JPL-Caltech

Ingenuity non vola più ma lavora ancora da terra

Evidentemente impossibilitato nel proseguire le sue attività aeree, alcuni mesi fa l’elicotterino è stato riprogrammato dai tecnici NASA per svolgere dei compiti di monitoraggio meteorologico. Nel dare aggiornamenti sull’indagine relativa all’incidente di Ingenuity è stato anche rivelato che i contatti radio con il rover Perseverance stanno proseguendo al ritmo di circa uno alla settimana, il che permette di scaricare dati meteo e di avionica (non è chiaro in cosa consistano). Ogni minima informazione sarà preziosa per lo sviluppo dei futuri esploratori aerei che voleranno nei cieli di Marte, il primo dei quali potrebbe essere Mars Chopper. Si tratterà di un apparato con sei motori quasi 20 volte più pesante di Ingenuity (quindi oltre 35 kg!) pensato per eseguire voli giornalieri di 3 chilometri trasportando un carico scientifico significativo.

Rendering del futuro Mars Chopper. NASA/JPL-Caltech

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News da Marte #34

Siamo di nuovo sul Pianeta Rosso! In queste ultime settimane Perseverance ha proseguito il suo spostamento verso ovest che stiamo documentando ormai da fine settembre. Tra spettacolari panorami e un insolito campo di candide rocce, vediamo quali sono state le sue attività più recenti. Partiamo!

Un panorama per la missione

Riguardo appunto alle immagini, un nuovo mosaico è stato recentemente diffuso nei canali NASA e in un colpo solo ci permette di osservare quasi tutte le regioni di Marte che Perseverance ha attraversato nei suoi anni sul Pianeta Rosso. Quest’ultima non è un’iperbole perché, grazie alle annotazioni, siamo in grado di individuare persino il sito di atterraggio dove il 18 febbraio 2021 il rover toccò la polvere marziana per la prima volta.

Panorama composto da 44 immagini acquisite il 27 settembre (Sol 1282) che spazia per decine di km. NASA/JPL-Caltech
Piccolissimo ritaglio di una porzione dell’immagine. Al centro, distante 8.7 km, c’è persino il sito di atterraggio di Mars 2020. NASA/JPL-Caltech

In questa immagine, e più precisamente la versione annotata con quasi 50 punti di interesse, riconosciamo alcune delle caratteristiche che ci hanno accompagnato in questi anni in cui abbiamo affiancato il rover nel corso della sua esplorazione di Marte. Per esempio la piana sopraelevata Kodiak, vista da vicino nell’aprile 2021, l’affioramento roccioso Enchanted Lake toccato nell’aprile 2022, o la regione di South Seitah sorvolata a 12 metri di altezza dall’elicottero Ingenuity il 5 agosto 2021.

Il panorama a piena risoluzione è grande 164 MB ma vale la pena perdersi al suo interno, lo trovate sul sito della NASA a questo link.

Nuove rocce a Pico Turquino

Sembra di  aver fatto un viaggio nel tempo, ma torniamo ora a cronache ben più recenti.

Per esempio alla foto di una roccia osservata nel Sol 1302 (18 ottobre) a cui viene assegnato il nome Observation Rock. Ci troviamo nella località Curtis Ridge, circa 200 metri a nord-est della posizione attuale individuata dalla mappa sottostante. Pico Turquino è invece il nome della più ampia regione in cui il rover sta transitando.

Mappa aggiornata al 13 novembre (Sol 1326). NASA/JPL-Caltech
Immagine di Observation Rock nell’elaborazione prodotta dagli esperti grafici. NASA/JPL-Caltech

Le tonalità apparentemente anomale sono dovute all’elaborazione, finalizzata ad aumentare il contrasto ed esaltare le deboli variazioni cromatiche. Insomma, non si tratta affatto di “rocce blu” scoperte da Perseverance come titolato in modo decisamente improprio da alcune testate qualche settimana fa riguardo a simili immagini marziane.

Strani ciottoli chiari

Dieci giorni dopo la ripresa di Observation Rock, e a meno di 80 metri di distanza in linea d’aria, Perseverance si trova impegnato in nuovi rilievi fotografici: alla base dell’area sopraelevata denominata Mist Park le camere del rover inquadrano un campo di sassi brillanti il cui colore molto chiaro risalta rispetto al rosso della polvere marziana e degli altri massi.

Non è la prima volta che queste regioni mostrano di ospitare delle rocce particolari, oseremmo dire fuori posto rispetto al resto delle caratteristiche geologiche. E questo è un piccolo mistero per gli scienziati.

Campo di rocce chiare catturato dalla Right NavCam nel Sol 1311 (27 ottobre)

Sulla Terra siamo abituati alla diversità geologica perché questa è perfettamente giustificata dai complessi processi indotti dall’attività tettonica, che “mescolando” i materiali che costituiscono la crosta sono in grado di produrre minerali dall’ampia varietà chimica e cromatica. Ma su Marte, con tettonica a placche fondamentalmente inesistente e una chimica della crosta dominata dal basalto, abbondano minerali scuri come olivina e pirosseni mentre i materiali chiari sono estremamente più rari.

Panoramica della regione di Mist Park. Left MastCam-Z, Sol 1311. NASA/JPL-Caltech/Piras

Questa chicca inattesa ha portato gli scienziati a richiedere al rover ulteriori investigazioni fotografiche (la cosiddetta remote science) con i filtri spettrali delle MastCam-Z e con il laser vaporizzatore della SuperCam. Purtroppo la scienza di prossimità non è stata possibile perché i sassolini sono troppo piccoli per essere ispezionati in sicurezza dagli strumenti montati sopra il braccio robotico di Perseverance. L’auspicio è che rocce più grandi ma con analoga composizione saranno trovate più avanti lungo il tragitto programmato così da poter procedere con analisi di maggior dettaglio anche del loro interno.

Un secondo mistero legato a queste rocce riguarda le modalità con cui sono arrivate qui venendo sparpagliate in un’area di soli pochi metri quadrati. Anche in questo caso, come per recenti ritrovamenti fuori posto, una delle ipotesi è che questi sassi siano arrivati qui per rotolamento da regioni a maggior altitudine esposte a un materiale bianco di qualche tipo. Un’altra possibile spiegazione è che siano ciò che resta di un’erosione che ha interessato una vena rocciosa, con i materiali più deboli che sarebbero stati dissolti portando alla luce queste rocce più solide.

Dettaglio su alcune delle rocce di Mist Park fotografate con la MastCam-Z di sinistra impostata a 110 mm di focale. NASA/JPL-Caltech/Piras

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News da Marte #33

Facciamo di nuovo tappa sul Pianeta Rosso con nuove notizie sui rover Perseverance e Curiosity. Si parte!

Un panorama

Terreno scivoloso

Nel Sol 1285 (30 settembre) Perseverance è impegnato ad aggirare un promontorio e sta cercando una via verso ovest dopo la faticosa ascesa raccontata in News da Marte #32. I piloti della NASA programmano il rover per una salita ma qualcosa sembra non vada per il verso giusto. La telemetria e le foto scattate dalle camere di navigazione tracciano un quadro chiaro dimostrando che il nostro robot non sia riuscito a completare il percorso previsto e che abbia slittato alcune volte durante i tentativi di avanzamento. Queste perdite di trazione sono visibili nella mappa dello spostamento come delle apparenti lievi correzioni di rotta.

Le due tracce gialle mostrano il percorso di Perseverance nei Sol 1285 e 1286 (rispettivamente la porzione a destra e a sinistra). NASA/JPL-Caltech

La sabbia di questa regione dimostra delle proprietà particolari e si comporta in modo imprevisto, quasi come se fosse umida. Incastrandosi tra le righe trasversali del battistrada delle ruote genera un corpo compatto che slitta al suolo rallentando l’avanzamento del rover.
La soluzione più semplice sarebbe stata quella di prendere atto delle complicazioni, fare “inversione” e cercare un’altra strada. Ma questo avrebbe voluto dire allungare i tempi di spostamento e rinunciare a degli obiettivi scientifici che il team di geologi aveva evidentemente molto a cuore.

Quindi i piloti non si sono persi d’animo ed escogitano una soluzione brillante che consiste nel far procedere Perseverance…in retromarcia. Possiamo ipotizzare che si sia trattato di un discorso di bilanciamento, sfruttando magari il peso del generatore a radioisotopi (45 kg) che in questa inedita configurazione di spostamento si trovava quindi a generare una significativa leva sulle ruote posizionate più in alto. Sta di fatto che la mossa, eseguita nel Sol 1288, ha successo e permette al rover di risalire il crinale quanto basta prima di compiere una rotazione su sé stesso e proseguire verso ovest in assetto più convenzionale.

Sol 1287, dettaglio della ruota posteriore destra di Perseverance. La sabbia si è compattata in mezzo agli inserti in titanio del battistrada, compromettendo la trazione. Anche le tracce delle ruote sono estremamente confuse rispetto a quelle molto precise a cui siamo abituati. NASA/JPL-Caltech/Piras
Sol 1288, la ripresa con la Left NavCam mostra la parte posteriore del rover. Alle sue spalle mancano le consuete tracce nella sabbia o almeno i segni di una rotazione sul posto, a dimostrazione che Perseverance ha percorso questo tratto in retromarcia. NASA/JPL-Caltech/Piras
Foto del Sol 1288. Con la freccia gialla è indicata la posizione da cui l’immagine è stata acquisita al termine della giornata di spostamenti. In evidenza anche (marcato con la freccia rossa) lo stesso dettaglio nella sabbia con riferimento sia alla foto che alla mappa. Quello è presumibilmente il punto da cui Perseverance ha iniziato lo spostamento in retromarcia. NASA/JPL-Caltech/Piras

La Terra e Fobos osservati da Curiosity

Non è raro che i rover marziani vengano usati per fotografare il cielo del Pianeta Rosso. Questo avviene spesso di giorno per misurare il tau (il tasso di oscuramento legato alle polveri, rilevato quasi quotidianamente) o riprendere i transiti dei due satelliti di fronte al disco solare.

L’ultima osservazione di questo tipo risale al 30 settembre ad opera di Perseverance che ha ripreso un passaggio della luna maggiore di Marte, Fobos. Il video che vi propongo qui sotto consiste di 64 frame acquisiti in 47 secondi ed è velocizzato di 4 volte. I fotogrammi sono stati ripuliti dal rumore digitale e le transizioni interpolate per ottenere un risultato più fluido.

Video del transito di Fobos di fronte al Sole. Sol 1285 (NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras)

Sono più rare, e forse per questo parecchio più affascinanti, le riprese del cielo notturno di Marte.

Una di queste occasioni è capitata di recente a Curiosity che il 5 settembre (Sol 4295 di missione) è stato programmato per puntare il suo “sguardo” verso l’alto dopo il tramonto del Sole. Dalla sua posizione su Texoli, una collina isolata alle pendici del Monte Sharp, il rover ha eseguito una serie di scatti che hanno spaziato dall’orizzonte fino a circa 15° di elevazione. E in un piccolo angolo di cielo, grande appena mezzo grado, Curiosity ha eseguito la prima osservazione in assoluto di Fobos insieme alla Terra. I due corpi sono visibili nella parte alta dell’immagine, processata dagli esperti della NASA a partire da 17 foto. E qui si svela un piccolo “trucco” perché 5 di queste foto sono state eseguite di giorno mentre le restanti 12 sono esposizioni lunghe (comunque solo pochi secondi per evitare l’effetto scia) acquisite otto ore dopo, di notte, quando il Sole era tramontato da svariate ore e a più di 20° sotto l’orizzonte.

Le due immagini così come processate magistralmente dai grafici del JPL. NASA/JPL-Caltech

Però vediamo di aggiungere qualcosa alle cronache della NASA sin qui riportate, nello spirito di questa rubrica che spesso indaga dettagli nascosti ma (spero) di grande fascino.

L’elaborazione dell’immagine con lo zoom su Fobos e la Terra, in mezzo al notevole disturbo che emerge schiarendo le aree buie, rivela un piccolo “grumo” di pixel sospetto. Si tratta di distribuzione casuale del rumore digitale o c’è dell’altro?

Una possibile risposta viene dalla simulazione della scena immortalata da Curiosity tramite il software Stellarium. I dati della posizione possono essere ricavati dalla mappa messa a disposizione dalla NASA con la posizione del rover, le informazioni di scatto (con la data e l’ora in formato UTC) sono invece incluse nei metadati che corredano ogni singola immagine raw.

Il simulatore fornisce una risposta insperata: quel piccolo gruppo di pixel potrebbe essere la nostra Luna terrestre che brillava con magnitudine 2.8. Gli altri corpi erano invece estremamente più luminosi, con la Terra stimata a -1.7 e Fobos -4.1. Queste misure non tengono però conto dell’estinzione dovuta alla presenza di polveri nell’atmosfera di Marte, attualmente causa di un significativo oscuramento dovuto alle temperature in aumento.

Stellarium si conferma uno strumento di simulazione astronomica di notevole fedeltà. L’immagine qui mostrata è stata ottenuta modificando solo di una decina di arcominuti (corrispondenti all’incirca ad altrettanti km) la latitudine ricavata dalla mappa in modo da avvicinarsi quanto più possibile alla foto reale. L’ora di scatto è stata inserita esattamente come riportata nei metadati.

Sopra: elaborazione dell’immagine NASA con in evidenza l’area più chiara descritta. Sotto: simulazione da Stellarium. NASA/JPL-Caltech/Stellarium-Fabien Chereau/Piras

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Bentornati su Marte nella sezione News da Marte #32!

Gli ultimissimi aggiornamenti da Perseverance e un po’ di notizie relative a missioni spaziali del presente e del futuro. Si parte!

La scalata di Perseverance e una strana roccia con le strisce

Il rover della NASA ha iniziato circa un mese fa la sua ascesa verso sud che rappresenta l’inizio del quinto capitolo della sua esplorazione di Marte, la Crater Rim Campaign.
Perseverance sta affrontando alcune delle sue salite più ripide di sempre e ha già guadagnato decine di metri in altezza nell’arco di poche settimane. Lungo la strada è stata anche eseguita l’abrasione di una roccia sedimentaria in modo da dare agli scienziati elementi per valutare come la geologia muti mentre il rover si allontana dagli scenari familiari che ha frequentato i mesi passati tra Neretva Vallis e Bright Angel (l’area in cui tra le altre cose ha eseguito il suo ultimo prelievo, individuata dal piccolo marker rosso nella mappa sottostante).

Mappa con la posizione di Perseverance aggiornata al 26 settembre (sol 1280 di missione). NASA/JPL-Caltech
Filmato con l’operazione di abrasione eseguita dal rover nel Sol 1257. NASA/JPL-Caltech/Piras
Foto della camera WATSON che documenta l’abrasione eseguita nel Sol 1257 (2 settembre). NASA/JPL-Caltech
Foto simile alla precedente ma scattata da due punti di vista distanti pochi cm l’uno dall’altro ed elaborata in modo da generare un’immagine stereografica chiamata anaglifo. Per ammirarne l’effetto di profondità sono necessari i comuni occhialini 3D rosso/ciano. NASA/JPL-Caltech/Piras

Grazie alle posizioni sopraelevate che sta raggiungendo possiamo godere di spettacolari paesaggi attorno al rover acquisiti per mezzo delle NavCam e delle MastCam-Z. Le montagne più lontane risultano oscurate a causa delle tempeste di sabbia che stanno attualmente affliggendo questa a zona di Marte. Vi propongo una breve selezione di immagini della regione.

Visuale verso sud nel Sol 1264 (9 settembre). C’è un moderato effetto fisheye in questa foto della NavCam, ma quella che si vede è la montagna che Perseverance sta scalando. NASA/JPL-Caltech/Piras
Mosaico di immagini della Left MastCam-Z scattate nel Sol 1266 (11 settembre), la camera era puntata verso est. L’inquadratura inclinata non è un errore di processamento ma testimonia la reale inclinazione del rover che in quel momento era impegnato nella salita in direzione sud (verso destra rispetto all’immagine). NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

La navigazione non procede a grande velocità, come intuibile nei tratti a nord della mappa dove si vede un’alta densità di pallini bianchi (ogni pallino rappresenta la posizione in un determinato Sol. La distanza di un pallino da quello che lo precede indica quasi sempre lo spostamento compiuto in quella giornata). Possiamo ragionevolmente supporre che la ragione dell’apparente lentezza non sia dovuta agli ostacoli del terreno che il rover si è trovato a dover evitare, poiché le immagini panoramiche non ne mostrano, ma piuttosto alle precauzioni adottate dai piloti che hanno fatto avanzare il robot su una collina parecchio scoscesa.

Intorno al Sol 1264 (9 settembre) Perseverance arriva in un’area più pianeggiante e può così aumentare considerevolmente le distanze percorse giornalmente superando i 150 metri per Sol. Ma dopo alcuni giorni di terreni abbastanza monotoni c’è qualcosa che cattura l’attenzione dei geologi: una roccia molto particolare, come mai ne erano state osservate prima su Marte, che viene battezzata Freya Castle.

Freya Castle osservata dalla Right MastCam-Z nel sol 1268 (13 settembre). NASA/JPL-Caltech/Piras
Un’altra immagine di Freya Castle, ma stavolta è un anaglifo. NASA/JPL-Caltech/Piras

Gli appassionati su internet vanno in estasi per questa roccia grande circa 20 cm che iniziano a chiamare amichevolmente “roccia zebrata”. I geologi formulano alcune ipotesi sulla sua origine e sulla ragione per cui si trovi qui. Si pensa che possa essere di formazione magmatica, oppure metamorfica, oppure una combinazione dei due processi. Ciò che è quasi certo è che, date le profonde differenze con il terreno circostante, non si è formata nella zona in cui è stata individuata da Perseverance. Potrebbe piuttosto essere rotolata qua da regioni a quota maggiore. È una spiegazione elettrizzante perché significa che il rover potrebbe rinvenire interi campi di rocce simili mentre continuerà la salita verso il bordo del cratere.

Poco è noto della chimica di Freya Castle e, in attesa di poter analizzare più nel dettaglio rocce simili, il team scientifico ha programmato Perseverance per una serie di acquisizioni in banda stretta per mezzo delle due MastCam-Z. Le camere montate sulla “testa” del rover integrano dei filtri e con ciascuno di essi è possibile isolare bande molto strette dello spettro. A noi queste foto potrebbero sembrare tutte uguali, al massimo con alcune variazioni di luminosità, ma per i geologi sono la chiave per individuare le specie chimiche che compongono le rocce.

Raccolta delle immagini acquisite da Perseverance con tutti i filtri a banda stretta a sua disposizione. Sol 1268. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

In questa raccolta mancano quattro filtri: si tratta dei due RGB con cui le camere realizzano le foto normali e i due filtri solari.

Mentre Perseverance continua la sua avanzata gli scienziati si tengono pronti per la prossima tappa molto attesa: Dox Castle. Sarà quasi certamente un argomento per le prossime cronache.

La Cina vuole fortissimamente Marte

Sono trascorsi solo pochi mesi dalla conclusione della missione Chang’e-6 (se n’è parlato in questo articolo), con la quale l’agenzia spaziale cinese CNSA è riuscita nell’obiettivo di portare sulla Terra della regolite lunare (per la precisione 1935 grammi) raccolta per la prima volta sul lato lontano del nostro satellite. Ma i piani spaziali del gigante asiatico non si fermano: i progetti di espansione passano inevitabilmente anche per la prossima frontiera, Marte, e le possibilità di ricerca scientifica offerte dal pianeta rosso. Possiamo affermare che la NASA sia attualmente leader mondiale dell’esplorazione spaziale ma le cose potrebbero cambiare nell’arco di pochi anni e stavolta non per colpa delle compagnie private.

All’inizio di settembre la CNSA ha presentato dei piani di modifica alla sua missione Tianwen-3 che, secondo i programmi diffusi nell’autunno 2023, sarebbe dovuta partire nel 2030 per svolgere dei compiti di raccolta di materiale dalla superficie di Marte per poi portarlo sulla Terra.

Il concetto è il medesimo a cui NASA ed ESA (Agenzia Spaziale Europea) mirano con la loro Mars Sample Return. Con la differenza che mentre la missione occidentale sta soffrendo un’enorme complessità e un budget richiesto crescente che ne stanno causando gravi ritardi, l’agenzia spaziale cinese sembra si potrà permettere persino di anticipare i tempi.

Nel corso della seconda International Deep Space Exploration Conference tenutasi il 5 e 6 settembre a Huangshan, Liu Jizhong, progettista capo della missione, ha rilasciato un aggiornamento che vede la data di lancio di Tianwen-3 spostata dal 2030 al 2028. L’anticipo di circa due anni non è casuale ma dipende com’è noto dai periodi orbitali della Terra e di Marte. Le finestre ottimali con il massimo avvicinamento tra i due pianeti si aprono ogni circa 26 mesi e durano poche settimane, frangenti nei quali si trovano usualmente concentrati tutti i lanci diretti verso il pianeta rosso.

La missione cinese impiegherà due razzi Lunga Marcia 5. Essi porteranno verso Marte un orbiter (che includerà il veicolo di ritorno verso la Terra) e il lander dotato del razzo di ascesa. La raccolta di materiale sarà eseguita dallo stesso lander che metterà al sicuro circa 500 grammi di regolite e piccoli sassi. Liu ha aggiunto che la CNSA intende collaborare con partner internazionali e i veicoli spaziali cinesi ospiteranno anche carichi scientifici per conto di altre nazioni. Ci sarà inoltre condivisione di dati e persino di campioni di materiale, il tutto nell’ottica di stabilire un’aperta cooperazione globale.

L’importante obiettivo scientifico di Tianwen-3 è la ricerca di tracce di vita passata su Marte (suona familiare?) ma il suo successo, soprattutto nei tempi stimati, candiderebbe fortemente la Cina al ruolo di nuovo leader mondiale nell’esplorazione spaziale realizzando, per usare le parole del capo di stato Xi Jinping, il “sogno eterno” cinese. Grazie a enormi investimenti e piani lungimiranti il paese del dragone intende inoltre proseguire le missioni lunari robotiche ma non solo (il primo astronauta cinese è atteso sulla Luna entro il 2030), la raccolta di roccia da una cometa con Tianwen-2 e l’esplorazione del sistema satellitare gioviano con Tianwen-4.

A proposito del programma Tianwen, potreste ricordare la missione capostipite che nel 2021 portò attorno e su Marte per conto della Cina il suo primo orbiter, il primo lander e il primo rover (Zhurong). La missione riuscì in ogni aspetto, con uno dei risultati più notevoli legato all’atterraggio che i cinesi hanno azzeccato al loro primo tentativo.

Il rover Zhurong insieme al lander con cui è atterrato su Marte. Questa foto storica è stata scattata da una piccola camera indipendente che il rover ha deposto al suolo. CNSA

MAVEN e Hubble scoprono il destino dell’acqua marziana

Nonostante decenni di ricerca sono ancora molti i dubbi su quale sia stato il destino dell’acqua un tempo ospitata sulla superficie di Marte. Parte di essa è presumibilmente finita nel sottosuolo (a riguardo si vedano Coelum Astronomia 270 e News da Marte #31), ma che fine ha fatto il resto? Un nuovo tassello nella nostra comprensione della storia del pianeta viene da uno studio pubblicato a luglio sulla rivista Science Advances e a prima firma di John T. Clarke della Boston University.

Clarke e colleghi hanno utilizzato i dati della sonda MAVEN (Mars Atmosphere and Volatile Evolution) e del telescopio spaziale Hubble per cercare di quantificare il tasso di fuga dell’idrogeno marziano nello spazio.
Il meccanismo con cui l’acqua di Marte evapora viene indotto dalla radiazione solare che scinde le molecole di H2O nelle sue componenti ossigeno e idrogeno. Quest’ultimo atomo è molto leggero e tende a disperdersi nello spazio con facilità, ma in mezzo agli atomi di idrogeno è presente una certa quantità di deuterio. Si tratta di un isotopo più pesante perché nel suo nucleo ospita anche un neutrone. Con il doppio del peso atomico il deuterio fugge dall’atmosfera a un tasso estremamente inferiore e così, confrontando la sua percentuale in atmosfera rispetto all’idrogeno, gli scienziati hanno uno strumento per stimare quanta acqua fosse presente su Marte in passato.

Gran parte dei dati impiegati nello studio derivano da misurazioni della sonda MAVEN la quale però non è abbastanza sensibile da poter rilevare le emissioni dovute al deuterio durante un intero anno marziano. Questa impossibilità è legata alla distanza mutevole di Marte dal Sole in quanto, a causa della marcata ellitticità della sua orbita, la variazione di distanza tra afelio e perielio è addirittura del 40%. MAVEN può eseguire le sue rilevazioni solo quando Marte è più vicino al Sole e l’atmosfera si espande a causa del maggior calore ricevuto.
Il buco nei dati relativo all’afelio è stato colmato dal telescopio Hubble che produce osservazioni utili allo scopo fin dagli anni ‘90 e ha così permesso di coprire tre interi cicli annuali marziali, ciascuno composto di 687 giorni terrestri.

Foto nel profondo infrarosso realizzate da Hubble durante il afelio (sopra) e perielio marziani. NASA, ESA, STScI, John T. Clarke (Boston University); Processing: Joseph DePasquale (STScI)

Insieme all’analisi del rapporto D/H (deuterio/idrogeno) allo scopo di stimare quanta acqua Marte abbia posseduto, i ricercatori hanno anche affinato i modelli matematici usati per descrivere l’atmosfera del pianeta. Il team autore dello studio ha scoperto che Marte è molto più dinamico di quanto ritenuto in precedenza e presenta cicli termici che, pur all’interno della loro annualità, variano anche su tempi molto più brevi, persino poche ore.

Il nuovo modello messo a punto dagli scienziati mostra come le molecole di acqua tendano a salire in alta quota durante le fasi di riscaldamento ed è in questi momenti che avviene la “fuga atomica”. Tuttavia le temperature dell’alta atmosfera da sole non sono sufficienti per dare agli atomi abbastanza energia da abbandonare la gravità marziana ed è qui che intervengono altri fenomeni quali collisioni con i protoni del vento solare e reazioni chimiche indotte dalla radiazione luminosa.

Lo studio dell’evoluzione del clima di Marte attraverso la storia della sua acqua aggiungerà elementi alla comprensione del passato degli altri due mondi all’interno della fascia abitabile del Sole, la Terra e Venere, ma anche di molti esopianeti che è impossibile osservare con analogo dettaglio.

Le sonde ESCAPADE partiranno l’anno prossimo (forse)

Il via libera era arrivato a fine agosto ma il 6 settembre c’è stato un improvviso dietro-front. La NASA ha annunciato che i due satelliti gemelli ESCAPADE (Escape and Plasma Acceleration and Dynamics Explorers) non decolleranno verso Marte il 13 ottobre. La data sarebbe stata anche quella del primo volo del vettore pesante incaricato del lancio, il lungamente atteso New Glenn costruito da Blue Origin, compagnia spaziale fondata dal magnate e imprenditore Jeff Bezos.

Nonostante le rassicurazioni di Blue Origin la NASA non è parsa totalmente fiduciosa che il razzo sarebbe stato pronto per la data stabilita e che l’ultimo flusso di verifiche, integrazioni e lo static fire (prova di accensione dei motori) sarebbero andati lisci.

La ragione per rinunciare al lancio a più di un mese dall’apertura della finestra del 13-21 ottobre verso Marte si spiega con la necessità per la NASA di avviare le procedure di preparazione al lancio tra le quali la più critica è il caricamento del propellente nei serbatoi dei due satelliti. I composti utilizzati sono idrazina e tetrossido di azoto, rispettivamente combustibile e ossidante, che vengono fatti venire in contatto per generare una violenta reazione senza l’uso di altri inneschi. È un tipo di miscela usata fin dagli anni ‘50 per la sua affidabilità ma è altamente tossica e richiede particolari cautele nella sua gestione.
Attraverso la dichiarazione diffusa nei suoi canali la NASA ha affermato che nel caso di annullamento del lancio l’operazione di svuotamento dei serbatoi delle sonde avrebbe rappresentato una complicazione tecnica e di programmazione delle attività, nonché una grossa spesa aggiuntiva. Un’eventualità troppo azzardata che ha fatto decidere per rimandare il lancio a non prima della primavera 2025. Questo significa che le sonde ESCAPADE perderanno la finestra per arrivare verso il Pianeta Rosso lungo la traiettoria più rapida, rischiando che il viaggio si allunghi di svariati mesi rispetto ai 6/7 che sono necessari in condizioni ideali.

Non sono stati rilasciati dettagli su traiettorie alternative in fase di studio ma c’è una possibilità non trascurabile che il lancio venga persino rimandato di due anni in attesa del prossimo avvicinamento tra la Terra e Marte.

Rappresentazione artistica dei satelliti ESCAPADE. James Rattray/Rocket Lab USA

La missione ESCAPADE utilizzerà due veicoli spaziali identici per studiare come il vento solare interagisce con l’ambiente magnetico di Marte provocando la fuga dell’atmosfera del pianeta.

“Questa missione può aiutarci a studiare l’atmosfera di Marte, un’informazione chiave mentre esploriamo sempre più lontano nel nostro sistema solare e abbiamo bisogno di proteggere astronauti e veicoli spaziali dal meteo spaziale,” ha dichiarato Nicky Fox, amministratrice associata per la scienza presso il quartier generale della NASA a Washington. “Siamo impegnati a portare ESCAPADE in sicurezza nello spazio, e non vedo l’ora di vederla partire per il suo viaggio verso Marte”. E noi con lei!

Anche per questo aggiornamento dal Pianeta Rosso è tutto, alla prossima!

Bentornati su Marte nella sezione News da Marte #31!

Bentornati su Marte! In questo nuovo appuntamento della rubrica ci sono aggiornamenti che interessano i due rover NASA Perseverance e Curiosity. Il primo sta esplorando delle aree a ovest del cratere Jezero e ha scoperto dei materiali di estremo interesse mentre il secondo, in modo decisamente fortuito, ha trovato dei materiali molto particolari all’interno di una roccia. Iniziamo le nostre cronache proprio con Curiosity, si parte!

Il primo zolfo puro rinvenuto su Marte

È stato con grande stupore che gli scienziati hanno rilevato una scoperta fatta dal veterano dei rover marziani (a proposito, il 5 agosto è ricorso il 12esimo anniversario dell’atterraggio di Curiosity sul Pianeta Rosso). Il 30 maggio il robot si stava spostando quando una delle sue ruote è passata sopra una roccia che si è frantumata mettendo in evidenza dei particolari cristalli gialli. La roccia è stata denominata “Convict Lake”, e le successive analisi sui cristalli eseguite con lo spettrometro APXS hanno rivelato qualcosa di mai osservato prima su Marte: zolfo puro.

 La roccia sbriciolata da Curiosity porta alla luce cristalli di zolfo puro. Foto del 7 giugno (Sol 4208). NASA/JPL-Caltech/MSSS
Questa roccia, battezzata “Snow Lake” e fotografata l’8 giugno, è molto simile a quella frantumata da Curiosity nove Sol prima. Un intero campo di rocce come questa circonda il rover e tutte presumibilmente inglobano zolfo. NASA/JPL-Caltech/MSSS

Da ottobre 2023, ovvero da quando ha iniziato la sua avanzata all’interno del canale chiamato Gediz Vallis, Curiosity ha incontrato spesso dei composti chiamati solfati. La regione abbonda di questi sali (costituiti da zolfo legato con altri elementi) i quali si sono formati quando l’acqua che li ospitava è evaporata. La formazione di cristalli di zolfo puro richiede invece condizioni differenti e molto particolari che gli scienziati non ritenevano potessero essersi verificate in questa regione. Sulla Terra sono per esempio coinvolti processi vulcanici e attività idrotermale.

Di zolfo sembra essercene davvero parecchio qui in quanto Curiosity ha documentato un intero campo di rocce brillanti analoghe a quella frantumata. “Scoprire cose strane e inaspettate è ciò che rende emozionante l’esplorazione planetaria” ha commentato Ashwin Vasavada, scienziata che lavora alla missione. “Un campo di pietre fatte di puro zolfo non dovrebbe trovarsi là, perciò ora dobbiamo trovare una spiegazione”.

Gediz Vallis è uno dei principali motivi per cui il team scientifico ha scelto di atterrare in questa zona di Marte. Si pensa che il canale sia stato scavato da flussi di acqua liquida e detriti che hanno lasciato creste di massi e sedimenti che si estendono per quasi tre km e mezzo lungo il versante della montagna al di sotto del canale. L’obiettivo attuale è comprendere meglio come questo paesaggio sia cambiato miliardi di anni fa e, sebbene le recenti scoperte abbiano aiutato, c’è ancora molto da svelare. Le ultime osservazioni di Curiosity sembrano indicare che due fenomeni abbiano alternativamente plasmato la regione. Da una parte violenti flussi alluvionali, testimoniati da rocce smussate e arrotondate portate dall’acqua, dall’altra frane avvenute in un ambiente asciutto le cui prove sono rocce dai bordi netti e angolati. Le reazioni chimiche avvenute in ambiente umido hanno modificato la chimica delle rocce e infine l’azione di vento e sabbia ha continuato a sagomare il paesaggio.

 

Mappa con la posizione di Curiosity aggiornata al 18 agosto. In evidenza il canale denominato Gediz Vallis e al centro sulla sinistra, per confronto, Piazza San Pietro nella Città del Vaticano: la porzione qui sovraimposta è lunga 565 metri. NASA/JPL-Caltech/Piras

Un prelievo di roccia, il 41esimo per Curiosity, è stato eseguito il 18 giugno sulla roccia “Mammoth Lakes”. Le rocce di zolfo sono estremamente fragili per lo strumento di campionamento del rover, perciò l’operazione ha richiesto qualche attenzione extra sia nella ricerca di una roccia con caratteristiche adatte che nell’operazione di “parcheggio” di Curiosity in modo che esso risultasse stabile e non a rischio di scivolare. I materiali sono stati poi depositati negli strumenti del rover per analisi dettagliate e i risultati aiuteranno gli scienziati a decifrare la storia geologica di questa regione.

Da giugno il rover si è ormai allontanato dall’area del prelievo su “Mammoth Lakes” e si è spostato verso sud percorrendo poco più di 100 metri. Tante nuove foto e anche un ulteriore campionamento di roccia stanno tenendo impegnato Curiosity mentre procede nell’ascesa verso Aeolis Mons, il rilievo di 5500 metri che svetta all’interno del Cratere Gale, con ogni strato della montagna che rappresenta un diverso periodo nella storia di Marte.

Foto della roccia “Mammoth Lakes” scattata nel Sol 4234. In basso è inquadrato il foro del trapano mentre in alto si nota l’abrasione superficiale eseguita tramite lo spazzolino metallico con il quale Curiosity pulisce le rocce da analizzare. NASA/JPL-Caltech/MSSS

 

Macchie di leopardo per Perseverance

A circa 3700 km di distanza dal Cratere Gale continuano le investigazioni dell’altro rover messo in campo dalla NASA e che sta esplorando il bordo ovest del Cratere Jezero. Nel numero 269 di Coelum Astronomia avevamo lasciato Perseverance poco dopo il suo arrivo a “Bright Angel”, la località caratterizzata da rocce chiare situata a nord di Neretva Vallis. Quest’ultimo è il canale sabbioso largo 400 metri dove un tempo scorreva un impetuoso fiume che alimentava il lago all’interno di Jezero.

L’abrasione del Sol 1179 (13 giugno), come ipotizzato, ha preceduto un prelievo vero e proprio che è stato eseguito a metà luglio nel punto più a nord raggiunto dal rover, dove l’argine del canale si eleva diventando quasi invalicabile. È qui che, nelle settimane antecedenti il momento del prelievo, una serie di osservazioni ha prodotto uno dei più importanti risultati della missione fino a questo momento. Facciamo un passo indietro e vediamo con ordine le scoperte fatte dal rover a “Bright Angel”.

Il 23 giugno, durante un breve spostamento all’interno dell’area, Perseverance incontra una formazione molto interessante sopra una roccia con dimensioni 100×60 cm che viene battezzata Cheyava Falls.

 

Dettaglio di Cheyava Fall con delle annotazioni che indicano i dettagli di interesse del masso: le “macchie di leopardo” e un grosso cristallo di olivina. NASA/JPL-Caltech/MSSS

La roccia è percorsa da vene bianche parallele tra loro composte da solfato di calcio con inglobati qua e là cristalli di olivina, un minerale dalle tonalità verdi che si forma nelle rocce magmatiche. In mezzo alle vene bianche viene individuato del materiale rossastro che indica la presenza di ematite, uno dei composti che conferiscono alla superficie a Marte il suo caratteristico colore. La porzione di ematite è costellata di piccoli puntini con dimensioni nell’ordine di pochi millimetri, con contorni scuri e irregolari che racchiudono zone di colore chiaro. Questa conformazione e colorazione è ciò che ha ispirato gli scienziati che li hanno denominati “macchie di leopardo”.

Una serie di scansioni con lo strumento SHERLOC (ebbene sì, ha ripreso a funzionare ma lo vediamo dopo) ha dimostrato in modo molto convincente che le rocce di Cheyava Falls contengono composti organici. Questa rilevazione si aggiunge a due dati importanti: il primo è il fatto, praticamente assodato vista la quantità di indicazioni in questo senso, che qui anticamente scorreva abbondante acqua. Il secondo dato è fornito dalle “macchie di leopardo”.

Dettaglio delle particolari formazioni rinvenute su Cheyava Falls, macro della camera WATSON del 23 giugno (Sol 1188). NASA/JPL-Caltech

Si ritiene che siano state delle reazioni chimiche a trasformare l’ematite da rossa a bianca con il rilascio di ferro e fosfati che sono andati a formare l’alone scuro documentato nelle immagini della camera WATSON. Tali reazioni chimiche sono ben note sulla Terra, ed è appurato che possono essere usate come fonte di energia da forme di vita batterica fornendo una correlazione molto forte tra la presenza di microbi e questo tipo di formazioni nelle rocce sedimentarie. In un colpo solo quindi Cheyava Falls si è rivelata essere la scoperta più importante eseguita fino a questo momento da Perseverance.

Inizia la scienza di contatto

Le investigazioni proseguono con un’abrasione che viene eseguita nel Sol 1191 (26 giugno). Il masso investigato non è però quello interessato dalle precedenti analisi ma uno collocato a fianco a Cheyava Falls, poco più in alto rispetto alla prospettiva del rover, che viene denominato Steamboat Mountain.

La zona brillante al centro della foto è il punto dell’abrasione eseguita il 26 giugno. La grande roccia sedimentaria in basso è Cheyava Falls. NASA/JPL-Caltech/Piras

Una documentazione fotografica di grande dettaglio viene acquisita dalla camera WATSON sia di giorno che di notte. Questo strumento fotografico è infatti dotato di sei illuminatori a LED che producono luce bianca e negli ultravioletti. Lunghezze d’onda ad alta energia quali gli UV sono usate per rilevare i fenomeni di fluorescenza propri di alcuni minerali.

 

Parte frontale della camera WATSON fotografata l’8 marzo 2021 (Sol 17). Il coperchio frontale della camera è chiuso ma quattro aperture mostrano i LED bianchi (sopra e sotto) e quelli UV (a sinistra). NASA/JPL-Caltech/MSSS

 

 

Osservazione notturna dell’abrasione larga 5 cm acquisita da WATSON. La scena è illuminata dai LED della camera. Sol 1191. NASA/JPL-Caltech

Dopo una breve deviazione alcuni metri verso est che lo impegna per non più di cinque giorni, il rover torna sui suoi passi il 17 luglio (Sol 1211) ed è pronto per proseguire le indagini sul masso Cheyava Falls. Si inizia con una fresatura della roccia che espone il materiale interno e in corrispondenza della porzione abrasa permette agli scienziati di continuare a comprendere le caratteristiche eccezionali illustrate nel paragrafo precedente. Gli strumenti impiegati sono le MastCam-Z, SuperCam, WATSON, SHERLOC e PIXL. Ciascuno di essi indaga un diverso aspetto del materiale per fornire una visione d’insieme ma, inevitabilmente, limitata. Tale limite è dettato dalla dimensione e dal peso degli strumenti che il rover ha potuto portare con sé sul Pianeta Rosso. Per andare oltre servirebbe portare queste rocce in laboratori specializzati, ma per fortuna Perseverance è attrezzato per questo obiettivo.

Il trapano di cui è dotato, in combinazione con un set di particolari punte che ormai conosciamo bene, permette al rover di estrarre piccoli carotaggi di roccia. Dopo l’interesse suscitato da questo masso era inevitabile che gli scienziati intendessero prelevarne un campione, e il rover è stato messo in azione il 21 luglio (Sol 1215). Il campione viene sigillato nella sua fiala lo stesso giorno del prelievo, misura 62 mm e viene denominato “Sapphire Canyon”. Si tratta del 22esimo campione di roccia raccolto sinora dal rover e quello appena chiuso è il 25esimo contenitore impiegato. Infatti, oltre a quelli rocciosi, Perseverance ha raccolto due campioni di sabbia a dicembre 2022 e un campione di aria ad agosto 2021.

 

Mosaico di foto della Left MastCam-Z che mostra il foro e l’abrasione su Cheyava Falls, la roccia a sinistra dell’immagine. Sol 1217 (23 luglio), NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

 

Cambia la prospettiva ma le due rocce sono ben riconoscibili: Cheyava Falls sulla sinistra, con in mostra la fresatura appena eseguita, e Steamboat Mountain a destra con l’abrasione di qualche Sol più vecchia. Left NavCam, Sol 1211. NASA/JPL-Caltech/Piras

 

 

Lo stato di Mars Sample Return e la scala CoLD

Come ben sanno i lettori di questa rubrica, il prelievo di campioni per il loro invio verso la Terra è una delle parti più importanti della missione Mars 2020 e costituisce il primo passaggio nell’ambito del progetto ampio (e molto più complesso) chiamato ‘Mars Sample Return’. I campioni di sabbia e roccia che Perseverance sta raccogliendo durante la sua esplorazione del Cratere Jezero vengono sigillati all’interno di piccole fiale di titanio. Questi contenitori saranno poi affidati nell’ordine: a un lander per raccolta e manipolazione; a un piccolo razzo che li porterà in orbita marziana; infine a un orbiter che da Marte tornerà verso la Terra con il contenitore dei campioni, affidando agli scienziati attuali e alle future generazioni il compito di svelare i segreti del Pianeta Rosso. Data prevista di fine missione circa entro metà del prossimo decennio, a patto che la NASA riesca nell’obiettivo di revisione della missione per ridurre i costi e velocizzare il termine delle operazioni (questa fase è descritta in maggior dettaglio in ‘Bentornati su Marte’ del numero 268 di Coelum Astronomia). L’agenzia statunitense ha terminato da alcuni mesi la fase in cui attendeva input da privati e centri NASA per modificare gli aspetti più critici della Mars Sample Return, e un resoconto è atteso per l’inizio dell’autunno. In quel momento comprenderemo meglio il futuro della missione e capiremo se davvero, come auspichiamo da anni con fiducia, i ricercatori potranno mettere le mani sui campioni per svelare eventuali tracce di passata vita batterica su Marte.

Del resto Cheyava Falls, il masso oggetto della cronaca che state leggendo, si è rivelato sinora il più promettente e tantissimi scienziati sono elettrizzati dai risultati preliminari delle sue analisi. Ma, al momento, quanto è probabile la rilevazione di possibile vita microbica extraterrestre sulla base delle informazioni disponibili?

Gli astrobiologi hanno sviluppato la scala CoLD (Confidence of Life Detection) per indicare con quanta probabilità un determinato campione possa essere associato a forme di vita, passata o presente. La scala si compone di sette gradini che vanno dalla ‘rilevazione del possibile segnale’ allo step finale che è la ‘conferma indipendente’. Ci sono passaggi intermedi come per esempio ‘esclusione di contaminazioni’, ‘esclusione di processi non biologici’ o ‘segnali aggiuntivi indipendenti’, tutti pensati in accordo con il metodo scientifico con lo scopo di non dare nulla per scontato. Data l’eco che la loro scoperta ha generato, potremmo essere portati a pensare che le rilevazioni su Cheyava Falls si collochino su una posizione di rilevo della scala CoLD, ma sono stati gli stessi scienziati che lavorano con Perseverance a stemperare gli entusiasmi. Siamo infatti ancora sul primo gradino, vale a dire il semplice rilevamento di un elemento d’interesse. Esistono alcuni processi non biologici che potrebbero aver generato queste ‘macchie di leopardo’ osservate sull’ematite tra i quali l’esposizione a temperature elevatissime, incompatibili con la vita, e che fornirebbero una spiegazione alla presenza dell’olivina la quale ha appunto origine magmatica.

Perseverance si scatta un nuovo selfie

Forse grazie all’agenda di attività un po’ più libera del solito o forse per celebrare la scoperta di questo masso così interessante e il successo del campionamento, il 24 luglio Perseverance si scatta un selfie. Per la maggior parte di noi umani si tratta ormai di un’operazione quasi banale ma su Marte, a centinaia di milioni di km di distanza e con un robot di una complessità spaventosa, non esistono operazioni semplici.

Perseverance impiega 46 minuti per scattare 62 immagini con la camera WATSON installata sul braccio robotico. Seguendo una sequenza di dettagliate istruzioni stilate dai tecnici del Jet Propulsion Laboratory, il rover muove il suo arto come in una precisissima coreografia nel corso della quale orienta lo stretto campo visivo della camera in tutte le direzioni attorno a sé. La finezza migliore è riservata per i momenti in cui il braccio rischierebbe di finire all’interno dell’inquadratura: con ulteriori acrobazie permesse dai cinque snodi di cui esso è dotato, Perseverance riesce a portare a termine una panoramica di 180° nella quale sembra che la foto sia stata fatta da qualcuno là su Marte a fianco al rover. Con una piccola variazione di appena tre foto è stata elaborata una versione alternativa dell’immagine riportata su queste pagine, dove sembra che il rover, invece di guardare in camera, stia ammirando con compiacimento il lavoro che ha eseguito sulla roccia al suolo.

Il più recente autoscatto di Perseverance. Sol 1218. NASA/JPL-Caltech/MSSS
Uno degli scatti alternativi nei quali la “Mast” del rover guarda verso il basso. NASA/JPL-Caltech/Piras

Combinando i singoli scatti nel modo opportuno, e soprattutto posizionandoli nel punto corretto del mosaico finale, possiamo anche renderci conto dell’ordine nel quale il rover abbia “scansionato” il paesaggio attorno a sé. Ve lo mostro in questo video che ho realizzato. La proiezione è diversa da quella usata dalla NASA perché le opzioni sono numerose quando si desidera di passare da una ripresa panoramica a una rappresentazione su un piano, ciascuna con i suoi pro e contro.

Dopo il prelievo e questo simpatico selfie sembra che per Perseverance non ci sia altro da studiare in questa regione, Bright Angel, che ha rispettato appieno le attese degli scienziati. Il rover può così tornare indietro verso il centro di Neretva Vallis e riprendere la sua strada verso sud-ovest dove inizierà la prossima parte della sua missione.

Sol 1224 (30 luglio), Perseverance si lascia alle spalle Bright Angel. NASA/JPL-Caltech
Posizione di Perseverance aggiornata al 20 agosto. La larga striscia chiara in alto è la regione Bright Angel con il marker relativo al prelievo lì eseguito. NASA/JPL-Caltech.

 

Un nuovo capitolo di esplorazione a Jezero

Quattro campagne scientifiche completate, tre anni e mezzo di esplorazione del fondo di Jezero e del delta del fiume, quasi 28 km percorsi e 22 campioni di roccia raccolti. Con questi numeri e i suoi strumenti scientifici in eccellenti condizioni operative Perseverance ha iniziato a fine agosto il quinto capitolo di esplorazione, la Crater Rim Campaign, che lo vedrà raggiungere il bordo occidentale del cratere. Lo attendono probabilmente i terreni più ripidi affrontati finora, con pendenze che arriveranno a 23° di inclinazione richiedendo la massima attenzione da parte dei piloti e ottime prestazioni dell’autonavigatore. Le regioni di maggiore interesse che il team scientifico intende esplorare sono state individuate in “Pico Turquino” e “Witch Hazel Hill”.

Mappa con il percorso elaborato dai piloti di Perseverance attraverso il bordo ovest del cratere Jezero. NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

 

Il percorso verso la prima di queste regioni dista 1.8 km da “Serpentine Rapids”, l’area dove Perseverance si trovava a metà agosto, e richiederà al rover di risalire un primo dislivello di 300 metri. Nelle immagini satellitari “Pico Turquino” mostra fratture che potrebbe essere state causate da un’antica attività idrotermale. Le osservazioni orbitali di “Witch Hazel Hill” documentano invece possibili stratificazioni di materiali risalenti a un’epoca molto antica, quando il clima marziano era profondamente diverso rispetto a quello attuale. Questa zona, situata circa 1700 metri a ovest di “Pico Turquino” e ulteriori 250 metri più in alto, presenta un substrato roccioso chiaro simile a quello incontrato a “Bright Angel”, il che fa ipotizzare che anche qui potrebbero venir rilevate strutture e biosignature chimiche analoghe, generate forse miliardi di anni fa da batteri in presenza di acqua corrente.

 

Mosaico di 59 scatti che mostra la visuale verso sud delle zone che Perseverance si accinge a raggiungere. La prima di esse, “Dox Castle”, si trova poco a sinistra del rilievo di destra a 750 metri dalla posizione dell’immagine. Foto del 4 agosto (Sol 1229), NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS

I campioni finora raccolti da Perseverance hanno già offerto informazioni scientifiche di grande valore, ma la missione intravede altre scoperte all’orizzonte. “I campioni attuali rappresentano una raccolta di enorme interesse scientifico, ma esplorare il bordo del cratere ci offrirà l’opportunità di ottenere ulteriori campioni che potrebbero rivelarsi cruciali per comprendere la storia geologica di Marte,” ha dichiarato la scienziata Eleni Ravanis, membro del team Mastcam-Z di Perseverance e uno dei leader scientifici della Crater Rim Campaign. “In particolare ci aspettiamo di analizzare rocce provenienti dalla crosta marziana più antica. Queste rocce si sono formate attraverso una moltitudine di processi geologici, e alcune potrebbero rappresentare ambienti antichi, potenzialmente abitabili, che non sono mai stati esaminati da vicino prima d’ora.”

Ma raggiungere la cima del cratere non sarà un’impresa semplice. Perseverance dovrà seguire un percorso studiato dai tecnici per ridurre al minimo i rischi, pur offrendo al team scientifico delle opportunità di ricerca. Durante la prima parte dell’ascesa il rover guadagnerà circa 300 metri di altitudine raggiungendo la sommità in un’area che il team scientifico ha battezzato “Aurora Park”.

Da lì, a centinaia di metri sopra un vasto cratere di 45 chilometri di diametro, Perseverance sarà pronto per iniziare il prossimo capitolo della sua esplorazione.

Un oceano di acqua sotterranea all’interno di Marte?

Impiegando i dati acquisiti dal lander InSight della NASA, nel corso dei quali ha rilevato e misurato migliaia di piccoli sismi, un gruppo di ricercatori delle Università di San Diego e Berkley sono giunti alla conclusione che l’interno della crosta marziana potrebbe ospitare quantità enormi di acqua a profondità comprese tra 11.5 e 20 km. Fratture e porosità delle rocce ignee all’interno del pianeta, saturate di acqua, fornirebbero la migliore giustificazione ai dati rilevati dalla sonda. La quantità d’acqua che permea le rocce sarebbe tale da poter ricoprire l’intero pianeta con un immenso oceano profondo circa 1.5 km. Questa scoperta non solo arricchisce la nostra comprensione del ciclo dell’acqua marziano, ma offre anche nuove prospettive su come il clima di Marte sia cambiato drasticamente. La possibilità che parte dell’acqua marziana sia rimasta intrappolata nella crosta, piuttosto che evaporare completamente nello spazio, potrebbe aiutare a risolvere il mistero di come il pianeta abbia perso la sua atmosfera e si sia trasformato da un mondo potenzialmente abitabile a un deserto gelido. Sebbene l’accesso a queste riserve d’acqua sia attualmente fuori dalla nostra portata, lo studio apre la possibilità che tali ambienti profondi possano ospitare forme di vita microbica, analogamente a quanto osservato nelle miniere e negli oceani profondi sulla Terra. I risultati della ricerca potrebbero influenzare la pianificazione delle future missioni su Marte, indirizzando l’attenzione verso l’esplorazione del sottosuolo. La possibilità di trovare acqua liquida a grandi profondità potrebbe portare a missioni mirate a sondare queste zone e, in futuro, a sviluppare tecnologie in grado di sfruttare queste risorse che potrebbero rivelarsi cruciali per la colonizzazione del pianeta.

Rappresentazione artistica dell’interno di Marte in base allo studio in oggetto. James Tuttle Keane e Aaron Rodriquez, Scripps Institute of Oceanography

 

 

Bentornati su Marte nella sezione News da Marte #30!

Riprendiamo l’esplorazione del Pianeta Rosso con Perseverance che si trovava a un passo da Neretva Vallis, il greto sabbioso dell’antico fiume che miliardi di anni fa scorreva verso est confluendo nel Cratere Jezero. C’è anche qualche interessante integrazione riguardante le aurore marziane catturate direttamente dalla superficie e per finire eccellenti conferme sullo stato della camera SHERLOC. Si parte!

Dove eravamo

Nel precedente appuntamento della rubrica abbiamo lasciato il rover Perseverance impegnato nell’analisi di un’abrasione eseguita su una roccia depositata al suolo. Grazie agli aggiornamenti NASA abbiamo nel frattempo scoperto che la roccia viene battezzata Old Faithful Geyser, ma ci sono dettagli geologici molto più interessanti del suo nome.

Avvio dell’operazione di fresatura catturato dalla Front Left HazCam, Sol 1051. NASA/JPL-Caltech/Piras
Una delle fotografie diurne eseguite dalla camera WATSON successivamente alla fresatura, Sol 1051. NASA/JPL-Caltech

La roccia Old Faithful Geyser, così come i tre prelievi che l’hanno preceduta eseguiti lungo la Marginal Unit (Pelican Point, Lefroy Bay e il più recente Comer Geyser), si conferma ricca di carbonati. Ma ci sono alcune differenze nel modo in cui i grani sono cementati all’interno che rendono ciascuna roccia, in un certo senso, unica. La spiegazione potrebbe risiedere nei meccanismi di formazione o in differenti processi di alterazione. Lo studio di questa nuova roccia è stato pensato per integrare le analisi sinora a disposizione degli scienziati in modo da espandere i campionamenti man mano che Perseverance si muove verso ovest e servirà a comprendere se le rocce carbonatiche lungo il percorso siano formate tramite processi sedimentari, vulcanoclastici o ignei.

L’osservazione di Old Faithful Geyser non si è fermata all’imaging esterno ma ha impiegato anche lo strumento PIXL, lo spettrometro a raggi X installato sul braccio robotico, che ha analizzato l’interno della roccia per mappare la dimensione e distribuzione dei grani della roccia. Anche questo rilievo sarà confrontato con quelli analoghi eseguiti nelle settimane passate.

Confronto fra le tre rocce da cui Perseverance ha estratto gli ultimi tre campioni. NASA/JPL-Caltech/Piras

Perseverance mette il turbo

Dopo aver completato il percorso a ostacoli schivando massi e sabbia lungo l’Unità Marginale e procedendo per questa ragione a rilento, i piloti della NASA vedono finalmente tra le dune uno spiraglio verso nord che permetta al rover di accedere all’interno di Neretva Vallis senza pericoli. Il rischio di insabbiarsi era prima d’ora talmente concreto che è stato accettato di perdere tempo con la lenta traversata sulle rocce della West Marginal Unit.

Visuale verso nord nel Sol 1158 (23 maggio). NASA/JPL-Caltech/Piras
Spostamenti di Perseverance dal Sol 1159 al 1176

Il Sol 1162 (27 maggio) Perseverance si è così potuto insinuare verso nord attraverso Dunraven Pass, muovendosi per la notevole distanza di 200 metri e ricordandoci delle sue vere potenzialità messe in ombra nelle precedenti settimane: la tratta unica più lunga era stata di 90 metri, ma mediamente ogni spostamento (o drive, come li chiamano i tecnici) non ha superato i 30.

Il rover giunge al centro dalla valle sabbiosa un tempo costituente il letto del fiume che fluiva verso est in direzione del cratere Jezero. Dalla posizione indicata con il marker rosso a destra nella mappa numero 2 Perseverance esegue una serie di scatti con le MastCam-Z per comporre un mosaico di Mount Washburn, il rilievo che si erge all’interno di Neretva Vallis ben visibile nelle immagini satellitari e che il rover inquadra guardando verso est. Gli scienziati avevano già osservato la regione da lontano cogliendo alcune peculiarità nella composizione e trama delle rocce e appena l’occasione si presenta decidono di indagare ulteriormente.

Il risultato è indubbiamente un bel panorama ma c’è qualcosa di più che salta all’occhio anche ai meno esperti: al centro dell’immagine si staglia un masso alto circa 40 cm eccezionalmente brillante con delle macchie scure. Viene battezzato “Atoko Point” dal nome di un rilievo a est del Grand Canyon in Arizona.

Panorama del Sol 1162. NASA/JPL-Caltech

È noto che impetuosi fiumi, su Marte come sulla Terra, siano stati in grado di trasportare materiale verso valle anche per lunghe distanze, e il masso qui inquadrato sembra provenire davvero da molto lontano. Peraltro non è l’unico con una superficie così chiara in quanto ingrandendo l’immagine se ne scorgono anche altri. Potrebbe essere una piccola anteprima di ciò che attende il rover nei prossimi mesi e anni di missione, o addirittura provenire da regioni che Perseverance non raggiungerà mai. I tecnici non si fanno sfuggire l’occasione di investigare più nel dettaglio “Atoka Point” e lo fanno con ulteriori zoom della MastCam-Z e con la SuperCam, quest’ultima impiegata anche con il suo laser vaporizzatore per indagare la chimica del masso.

Atoko Point nel dettaglio catturato dalla Left MastCam-Z, Sol 1162. NASA/JPL-Caltech/ASU/Piras
Unione di tre immagini di SuperCam RMI, Sol 1162. NASA/JPL-Caltech/LANL/CNES/IRAP/Piras

Finalmente Bright Angel!

Dopo l’osservazione di Mount Washburn Perseverance non ha fatto altre tappe e ha proceduto spedito prima leggermente verso nord a toccare “Tuff Cliff” e poi verso ovest attraversando “Cedar Ridge” fino all’arrivo alla destinazione finale: Bright Angel.

Immagine NavCam del Sol 1172. Ci troviamo all’interno di Neretva Vallis e guardiamo verso ovest. A destra si intuisce Bright Angel appena alle pendici del rilievo. NASA/JPL-Caltech

È questo il nome che gli scienziati hanno dato all’area al confine ovest dell’Unità Marginale e parzialmente inglobata in Neretva Vallis. Ben visibile anche dalle immagini satellitari grazie al suo colore chiaro che spicca rispetto alle zone circostanti, era nel mirino dei ricercatori ancora prima che la missione del rover iniziasse nel 2021. Le rocce chiare che costituiscono Bright Angel potrebbero essere sedimenti che nel tempo si sono accumulato e hanno formato il canale o materiale ancora più antico, esposto dall’azione erosiva dell’acqua.

Perseverance arriva alla base dell’affioramento intorno al 10 giugno. Le prime immagini stupiscono i geologi e l’intero team scientifico: le rocce presentano strutture stratificate con bordi taglienti che richiamano alla mente vene minerali, simili a quelle osservate mesi fa alla base del cono alluvionale con la differenza che qui sono molto più abbondanti. Ci sono anche alcuni piccoli sassi raggruppati tra loro che presentano delle piccole sfere in superficie. Il team ci mette poco a inventare un’analogia per queste strutture che vengono scherzosamente definite “simili a popcorn”. La visione d’insieme suggerisce che in questa regione scorresse acqua di falda.

Le strutture a “popcorn” di Bright Angel osservate da Perseverance nel Sol 1175, Left MastCam-Z. NASA/JPL-Caltech/ASU/Piras
Sottilissimi scaglie di roccia emergono dalla sabbia e proiettano al suolo le proprie ombre frastagliate. Right MastCam-Z nel Sol 1182. NASA/JPL-Caltech/ASU/Piras

Nei Sol successivi Perseverance è risalito verso nord di qualche decina di metri documentando il paesaggio circostante e la chimica delle rocce con analisi spettrali. Nei Sol 1179 e 1191 (13 e 26 giugno) si è poi proceduto a due distinte fresature di basamenti al suolo, a non troppa distanza l’uno dall’altro.

Fresatura eseguita da Perseverance nel Sol 1191. NASA/JPL-Caltech/Piras
Osservazione dell’abrasione con la camera WATSON, Sol 1191. NASA/JPL-Caltech/Piras

Vedremo se prima di proseguire le esplorazioni il rover, che nel frattempo è praticamente stazionario da alcune settimane, verrà programmato anche per un nuovo prelievo. La regione attualmente in esplorazione è un tesoro per i geologi tra lastre erose dall’acqua, concrezioni di olivina e vene minerali che tagliano in due i massi al suolo.

Credo che siamo in tanti a non vedere l’ora di leggere le analisi degli scienziati al lavoro nella missione del rover non appena saranno disponibil! E come sempre troverete sulle pagine di Coelum Astronomia una completa e rigorosa sintesi delle evidenze risultanti, perciò continuate a seguire questa rubrica web e la sua gemella sulla rivista cartacea.

Riguardo a Perseverance, una volta terminati i lavori in quest’area tornerà sul versante sud del canale in direzione di “Serpentine Rapids” per poi continuare a percorrere Neretva Vallis verso ovest.

Breve avanzamento di Perseverance all’interno di Bright Angel e posizione aggiornata al Sol 2104 (9 luglio)

La CME di maggio: i risultati scientifici

Nel precedente appuntamento della rubrica avevamo visto che l’orbiter MAVEN e il rover Curiosity si stessero preparando all’analisi delle espulsioni di massa coronale originate dalla macchia solare AR3664.

Le rilevazioni più importanti dei due apparati statunitensi non hanno però riguardato le CME legate al brillamento di classe X3.8 dell’11 maggio (quello direttamente responsabile delle aurore documentate sulla Terra sino a latitudini tropicali) e neppure il brillamento X8.79 del 14 maggio.

Un terzo brillamento di intensità ancora maggiore è avvenuto il 20 maggio quando la macchia AR3664 era ormai sparita dal disco solare visibile dalla Terra ma è stata rilevata e misurata nella sua intensità dal satellite NASA-ESA Solar Orbiter. La potenza stimata è stata X12, rendendo questo l’evento più energetico misurato dal novembre 2003.

Sulla superficie di Marte i tecnici di Curiosity si sono fatti trovare pronti con lo strumento Radiation Assessment Detector (RAD), ma non solo. Il rilevatore di particelle del rover ha misurato una quantità di radiazioni al suolo pari a 8.1 millisievert, equivalenti all’incirca a 30 radiografie al torace. Pur non rappresentando una dose letale per un astronauta che si fosse trovato senza adeguate schermature su Marte, è tuttavia la massima rilevazione mai misurata da Curiosity nei suoi 12 anni di operazioni.

Altre analisi di Curiosity hanno impiegato degli strumenti ottici, ovvero MastCam e NavCam. Queste ultime hanno monitorato il paesaggio marziano e documentano l’interazione delle particelle cariche con i fotorilevatori del sensore CCD. Il risultato è rumore digitale che dà luogo a una specie di “neve”. Nelle immagini acquisite si notano persino intere strisciate, generate da singole particelle che hanno percorso il piano del sensore eccitando molteplici pixel.

Immagine NavCam del 20 maggio, Sol 4190. NASA/JPL-Caltech

Le osservazioni con le MastCam sono state invece un po’ diverse a partire dal fatto che si sono svolte durante la notte e hanno cercato di rilevare l’emissione ottica del vento solare, ovvero l’aurora. La ricerca di questa debolissima traccia giustifica le acquisizioni descritte in News da Marte #29 che, a una prima occhiata, poteva sembrare avessero poco senso. Ma abbiamo fatto bene a non giungere a conclusioni affrettate e riservarci di tornare in seguito sulla loro analisi.

Le aurore su Marte

Sul Pianeta Rosso, a causa dell’assenza di un campo magnetico globale, l’interazione tra le particelle cariche e l’atmosfera non è concentrata sui poli come sulla Terra ma genera fenomeni differenti. Uno tra questi è noto con il nome di aurora diffusa e si manifesta a livello planetario come un bagliore nell’emisfero al buio in specifiche linee di emissione nell’ultravioletto a cavallo tra 130.4 e 297.2 nanometri dovute ad anidride carbonica, monossido di carbonio e ossigeno atomico. Le lunghezze d’onda interessate sarebbero perciò esterne alle bande passanti dei filtri di Curiosity che arrivano al massimo a circa 420 nm, corrispondenti al limite inferiore della banda del colore blu. Recentissimi studi hanno però confermato l’esistenza finora solo teorizzata di un’emissione aggiuntiva legata all’ossigeno localizzata a 557.7 nm, nella lunghezza d’onda del colore verde e perciò in piena banda visibile. È un risultato attualmente ancora in fase di pre-print e che dovrebbe venir presentato tra un paio di settimane alla decima International Conference on Mars a Pasadena, California, e che sfrutta le rilevazioni eseguite con le camere di Perseverance. Le tecniche di analisi sono estremamente interessanti e meritano una descrizione nel paragrafo finale di questo articolo.

In orbita marziana era contemporaneamente al lavoro MAVEN che ha rilevato il fenomeno già menzionato delle aurore diffuse nell’intero emisfero in ombra mentre il pianeta veniva investito dalle particelle solari. Durante le osservazioni, eseguite dal 14 al 20 maggio, la sonda parrebbe aver rilevato anche un’altra tipologia di fenomeno chiamato aurora discreta. Queste ultime sono generate dall’interazione del vento solare con le aree, piccole e sparpagliate soprattutto nell’emisfero sud di Marte, in cui si conserva un intenso magnetismo crostale. Si tratta di regioni di crosta raffreddatesi quando ancora il pianeta aveva un magnetismo globale che si è così conservato nelle rocce. Queste regioni non sono state in seguito bersagliate da grandi impatti meteorici che, alzando la temperatura oltre la soglia per cui la roccia perde le proprietà magnetiche (temperatura di Curie), hanno fatto sì che gran parte della superficie di Marte perdesse anche questo magnetismo residuo. Ma nelle aree dove ancora si conserva è talmente intenso da guidare la formazione di aurore estremamente localizzate.

Rilevazione del 20 maggio di MAVEN nell’emisfero notturno di Marte con lo strumento sensibile all’ultravioletto. NASA/University of Colorado/LASP

Per completare la trattazione vale la pena menzionare un ulteriore tipo di aurora marziana: a quelle diffuse e quelle discrete si aggiungono le aurore protoniche (scoperte da MAVEN nel 2018) che riguardano l’emisfero illuminato.

Nel 2022 la sonda emiratina Hope ha invece rilevato per la prima volta un potenziale quarto tipo di aurora (definito come sinuosa discreta) la cui emissione osservata nell’ultravioletto si distendeva per una grande porzione dell’emisfero marziano in ombra. La spiegazione per questo nuovo fenomeno non è al momento chiara perché mostra caratteristiche simili a quelle delle aurore discrete, ovvero una precisa localizzazione, sebbene sia apparentemente generata dagli stessi meccanismi delle aurore globali. I prossimi mesi di attività solare e le osservazioni che seguiranno aiuteranno a far chiarezza.

Emirates Mars Mission

L’aurora nel visibile di Perseverance

Il 15 marzo un flare di intensità C4.9 (quindi circa 90 volte inferiore rispetto al fenomeno X3.8 legato alle aurore terrestri di maggio) originato dalla macchia solare AR3599 ha generato un’espulsione di massa coronale interplanetaria che ha viaggiato sino a Marte. Nel paper intitolato First Detection Of Visible-Wavelength Aurora On Mars (Knutsen, McConnochie, Lemmon et al., 2024) vengono riportati i risultati del quarto tentativo, stavolta riuscito, di rilevare un’aurora diffusa direttamente dalla superficie di Marte e, per la prima volta in assoluto, dell’emissione a 557.7 nm dell’ossigeno atomico responsabile della tinta verde comune anche alle aurore terrestri. Per farlo gli scienziati sono ricorsi a Perseverance e allo spettrometro della SuperCam, dotato tra le altre cose di un amplificatore ottico nell’intervallo 535-853 nm utile per aumentare l’intensità della debole emissione d’interesse. 

L’ora di arrivo della tempesta solare ha rispettato le previsioni e l’impatto con Marte è stato confermato anche da un incremento di errori nella memoria della sonda Mars Express di un fattore 4. Le osservazioni spettrali di Perseverance sono partite alle 00:34 del Sol 1094 e, dopo aver compensato il rumore di fondo e applicato gli opportuni filtraggi, mostra in modo eloquente il picco di luce alla lunghezza d’onda attesa.

In nero la media delle acquisizioni spettrali della SuperCam e in verde la curva di miglior adattamento. In basso in rosso il rumore residuo. Knutsen, McConnochie, Lemmon et al.

Al termine delle rilevazioni con la SuperCam, Perseverance ha eseguito acquisizioni anche con le MastCam-Z utilizzando i filtri RBG con cui produce le immagini nello spettro visibile. Nonostante la presenza in cielo del luminoso Fobos che ha aggiunto una tinta giallo-arancio alle immagini, al termine delle compensazioni anche le immagini della MastCam-Z hanno mostrato un eccesso di radiazione nel canale verde. 

I ricercatori hanno concluso che l’evento CME studiato ha prodotto un’emissione con intensità stimata di 93 Rayleigh (unità di misura per il flusso luminoso). Le rilevazioni oggetto di studio sono state parzialmente degradate dalla presenza di polveri in sospensione nell’atmosfera che hanno ridotto la luminosità dell’evento, ma si ritiene che in condizioni atmosferiche migliori o nel caso di CME di poco più potenti si potrebbe raggiungere la soglia di visibilità umana. Quindi, un giorno, astronauti e astronaute potrebbero vedere con i loro occhi aurore su Marte.

SHERLOC è di nuovo operativa

La comunicazione ufficiale è arrivata il 17 giugno attraverso gli aggiornamenti resi disponibili dalla NASA e conferma ciò che su queste pagine avevamo già ipotizzato a metà maggio in News da Marte #28. Succede spesso che nelle immagini grezze si nascondano piccole anticipazioni su ciò che verrà narrato più tardi nelle cronache dei rover…

Sono state proprio le immagini acquisite l’11 maggio che hanno confermato la ripresa funzionalità della camera SHERLOC che a inizio gennaio era rimasta con lo sportellino di protezione della lente bloccato in posizione socchiusa.

Posizione della camera SHERLOC ACI sulla torretta del braccio robotico, Sol 1044. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

I tentativi di ripristinare la funzionalità del piccolo motore che aziona lo sportellino, che permette inoltre il fondamentale controllo della messa a fuoco, hanno avuto parziale successo nel corso dei mesi di lavoro. I tecnici hanno scaldato l’attuatore coinvolto, hanno azionato il trapano nel tentativo di smuovere granelli di polvere che potessero ostacolare il movimento di apertura, eseguito particolari acrobazie con il braccio robotico…

Non si sa di preciso quale di queste azioni sia stata risolutiva, ma alla fine i tecnici sono riusciti ad aprire lo sportellino quanto bastava per non ostruire più la lente di SHERLOC che è sia una camera che uno spettrometro. Il motore non era però in grado di muoversi liberamente e perciò una precisa messa a fuoco era ancora impossibile da ottenere. È servito un piano B.

Se l’obiettivo fotografico non può agire sulla messa a fuoco allora si può intervenire avvicinando o allontanando la camera al soggetto. Sfruttando l’estrema precisione dei movimenti del braccio robotico, capace di spostamenti minimi di 0.25 millimetri, i tecnici hanno eseguito un test sul target di calibrazione di SHERLOC individuando in 40 mm la distanza dal soggetto per ottenere una precisa messa a fuoco.

La prima immagine nuovamente a fuoco di SHERLOC viene acquisita nel Sol 1047. NASA/JPL-Caltech/Piras

Per il primo test vero e proprio su una roccia bisogna aspettare qualche giorno marziano, il Sol 1153. Il risultato dà esito positivo.

18 maggio, Perseverance fotografa di nuovo una roccia con SHERLOC ACI. NASA/JPL-Caltech

Quasi un mese dopo, il 17 giugno, si presenta l’occasione di testare anche lo spettrometro di SHERLOC. Anche questo test ha successo, e la NASA può così dichiarare ufficialmente riuscito un debug hardware eseguito su un apparato distante centinaia di milioni di km. Pur con la limitazione di non poter agire sulla messa a fuoco diretta tramite l’obiettivo, Perseverance continuerà a produrre dati di immutata qualità scientifica con SHERLOC. Avanti tutta!

Anche per questo appuntamento è tutto, alla prossima!

Bentornati su Marte nella sezione News da Marte #29!

Questo aggiornamento sulle attività dei rover NASA sarà un po’ più mirato del solito e si focalizzerà principalmente su due tipi di tempeste, di sabbia e solari, e le loro conseguenze. Nella seconda parte ci divertiremo poi a indagare il Sole grazie all’occhio acutissimo di Perseverance. Si parte!

Il massimo del ciclo solare

Maggio è stato un mese di grandissimo interesse per chi si occupa di scienza del Sole. Ci avviciniamo al picco di attività della nostra stella all’interno del ciclo di 11 anni, e gli strepitosi fenomeni di aurore e SAR osservati sulla Terra sino a latitudini tropicali ne sono stati la prova. Su Marte la NASA non si farà trovare impreparata in quanto ha due apparati pronti non solo per rilevare ma anche misurare l’intensità delle eruzioni solari e i fenomeni che ne conseguono.

MAVEN

Il primo di questi apparati si trova in orbita ed è la sonda MAVEN, acronimo di Mars Atmosphere and Volatile Evolution. La missione del satellite, iniziata nel settembre 2014, è focalizzata sulla misurazione della fuga dell’atmosfera di Marte, cercare di comprenderne l’evoluzione nel tempo e da qui dedurre quale fosse il clima del pianeta nel suo passato.

NASA/GFSC

Non è poi un caso che MAVEN sia progettata anche per rilevare radiazioni e influenza del vento solare; infatti i picchi di attività della nostra stella, su un pianeta privo di campo magnetico globale come Marte, riescono a soffiare via l’atmosfera durante tempeste solari particolarmente violente. I modelli climatici prevedono che le stagioni marziane più calde, oltre a produrre le celebri tempeste di sabbia che talvolta arrivano ad avvolgere l’interno pianeta, riscaldino e “gonfino” significativamente l’atmosfera. In essa si trova miscelato anche il vapore acqueo che sublima dai ghiacci e che viene così investito dal vento solare e disperso nello spazio. Questo processo, ripetuto nel corso di miliardi di anni, potrebbe aver avuto il potenziale di trasformare un mondo umido nell’attuale deserto arido che è Marte. Un cruciale fattore di riscaldamento globale del pianeta giunge dal suo posizionamento in perielio, punto di massima vicinanza al Sole. L’orbita di Marte ha una marcata eccentricità e questo fa sì che nel punto di perielio il pianeta riceva quasi il 50% di radiazione e calore in più rispetto all’afelio. La stagione delle tempeste di sabbia è attualmente in corso. Siamo infatti a ridosso del perielio (avvenuto l’8 maggio) e quest’anno in concomitanza, come detto, di un periodo di intensa attività solare. MAVEN sta sfruttando questa sovrapposizione di eventi per compiere studi alla ricerca di conferme sperimentali sulla validità delle teorie attuali sulla fuga dell’atmosfera.

Curiosity

Il secondo apparato messo in campo dalla NASA per studiare gli attuali picchi di attività solare è il rover Curiosity. Insieme agli strumenti per l’analisi chimica delle rocce e le numerose camere, il robot monta sulla propria plancia uno strumento chiamato RAD. Il nome è l’acronimo di Radiation Assessment Detector e si tratta di un rilevatore di particelle altamente energetiche.

NASA/JPL-Caltech/MSSS

RAD studia la radiazione solare che filtra nell’atmosfera e colpisce la superficie di Marte. Queste particelle hanno sufficiente energia per spezzare le molecole organiche, inducendo dei processi che danneggiano le eventuali tracce fossili di vita batterica che rappresentano gli attuali obiettivi di studio sul Pianeta Rosso. Ma gli scopi di RAD non si fermano qui: lo strumento sta fornendo indicazioni sulle schermature di cui i futuri habitat umani dovranno essere dotati per fornire un sufficiente livello di sicurezza ai primi astronauti che metteranno piede su Marte. Prima ancora dell’atterraggio sul pianeta nel 2012 a bordo di Curiosity, RAD ha misurato la radiazione nello spazio interplanetario, anche in questo caso con lo scopo di quantificare la pericolosità di un viaggio spaziale per un equipaggio. Gli strumenti di MAVEN e il RAD di Curiosity si completano a vicenda, potremmo dire: i detector del satellite sono sensibili alle radiazioni a bassa energia mentre RAD rileva quelle estremamente più energetiche che riescono a penetrare l’atmosfera e arrivare sino alla superficie. Per questa ragione capita che i team del rover e della sonda lavorino fianco a fianco per caratterizzare da prospettive differenti un medesimo evento solare. Vedremo probabilmente in uscita nei prossimi mesi qualche news o paper scientifico basato sulle rilevazioni che questi due apparati stanno portando avanti.

A caccia dell’aurora

Il 14 maggio la macchia solare AR3664, balzata ai proverbiali onori delle cronache in quanto responsabile pochi giorni prima delle aurore più potenti dal 2003 a oggi, era ormai sul bordo orientale del Sole. Forse intenzionata a dare un saluto memorabile alla Terra, quel giorno ha prodotto un flare di classe X8.79, il più potente del Ciclo Solare 25.

news da marte
Immagine a 131 Å del satellite Solar Dynamics Observatory. NASA/SDO/AIA team

Ma mentre la conseguente espulsione di massa coronale non ha interessato la Terra a causa della posizione al confine del disco solare, AR3664 era orientata in direzione di Marte. Sul Pianeta Rosso, a causa dell’assenza di un campo magnetico, l’interazione tra le particelle cariche del vento solare e l’atmosfera non è concentrata sui poli come sulla Terra ma appare come un’aurora diffusa globale. Gli aggiornamenti NASA sulle attività del rover Curiosity riportano che i tecnici abbiano deciso qualche giorno dopo la CME di svolgere un’osservazione notturna del cielo con le MastCam del rover alla ricerca dell’elusivo bagliore aurorale. L’attività è stata eseguita nella tarda serata del Sol 4189, producendo complessivamente 24 immagini a lunga esposizione (12 per ciascuna camera) a intervalli di 105 secondi che sono state rese disponibili nelle pagine dedicate alle foto grezze. Nel database NASA non ho purtroppo trovato disponibili dei dark frame per rimuovere il rumore digitale dei sensori e provare così a ripulire le immagini. Ogni tentativo di elaborazione di queste foto è stato inutile e tutto ciò che si vede è il disturbo di acquisizione che sovrasta anche l’eventuale segnale prodotto dalle stelle. Da parte mia non posso fare assunzioni se queste riprese abbiano avuto successo, vedremo in future news ufficiali quali siano stati i risultati.

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Una delle 24 immagini notturne acquisite da Curiosity nel Sol 4189. Right MastCam. NASA/JPL-Caltech/MSSS

C’è da aggiungere che, nonostante queste foto siano state scattate sia dalla MastCam di destra che da quella di sinistra, probabilmente solo la Left ci avrebbe permesso di apprezzare il fenomeno astronomico dell’aurora grazie alla lunghezza focale di 34 mm opposta al 100 mm della Right. Dal punto di vista della tecnica fotografica un teleobiettivo è estremamente limitante qualora si vogliano osservare ampie parti del cielo come sarebbe stato opportuno in questo caso. Ma da settembre 2023 la Left MastCam continua a presentare il problema della ruota portafiltri bloccata a metà del filtro trasparente L0 (problema descritto per la prima volta in News da Marte #23). Attualmente i tecnici stanno continuando a impiegare la camera con l’accorgimento di scaricare perlopiù solo dei ritagli delle foto per non sprecare risorse con le porzioni oscurate delle immagini.

Foto del Sol 4191 della Left MastCam di Curiosity. NASA/JPL-Caltech/MSSS  
Simulazione del ritaglio a cui le immagini della Left MastCam vengono attualmente sottoposte. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras
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Recente immagine della Left MastCam con il ritaglio descritto. NASA/JPL-Caltech/MSSS

Nuove osservazioni solari di Perseverance

Curiosity non è stato l’unico rover che a maggio ha guardato il cielo di Marte. Anche Perseverance è stato impegnato in osservazioni con il naso all’insù, sia solari che stellari. Come visto in passato su queste pagine, le rilevazioni solari sono permesse dalle MastCam-Z, la coppia di camere montate sulla testa (da qui il termine Mast) del rover e dotate di uno zoom (da qui la lettera Z) con escursione 26-110 mm che si differenziano dalle focali fisse di Curiosity. Ciascuna camera monta una ruota di filtri con cui isolare specifiche lunghezze d’onda nello spettro, in modo da capire esattamente quali specie minerali siano più abbondanti in determinate rocce. Tra questi filtri ce ne sono anche due solari, con i quali il rover osserva quasi quotidianamente il Sole per studiare quante polveri siano presenti in sospensione nell’atmosfera e di conseguenza stimare il parametro dello spessore ottico indicato con la lettera greca tau. Alle migliaia di foto scattate da scienziati e semplici appassionati alla macchia AR3664 menzionata nelle cronache di Curiosity, è doveroso per noi esploratori marziani aggiungere le riprese eseguite da Perseverance. Questa macchia, talmente grande da essere stata visibile persino a occhio nudo (ma sempre, ricordo, con gli opportuni filtri), alla sua massima dimensione si è estesa su una lunghezza pari a quasi 18 Terre una a fianco all’altra.

Il Sole visto da Marte il 12 maggio

Tra le immagini che ho selezionato per l’articolo la prima è stata acquisita il 12 maggio (Sol 1147) quindi all’indomani dei fenomeni aurorali estremi. Quando ormai sulla Terra AR3664 si accingeva a tramontare sul lato orientale del disco solare (come illustrato nell’immagine di SDO) su Marte la macchia aveva da poco iniziato a dare bella mostra di sé.

News da Marte
Foto della Left MastCam-Z del 12 maggio, Sol 1147. NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/Piras  
Il Sole del 12 maggio visto dallo strumento Helioseismic Magnetic Imager a bordo del satellite SDO. NASA/SDO/HMI team/SpaceWeatherLive

Vale la pena tornare un po’ indietro nel tempo con le immagini del satellite SDO della NASA e ripescare un’acquisizione dello strumento Helioseismic Magnetic Imager datata 4 maggio. In essa si riconosce quasi perfettamente la configurazione di macchie solari che 8 giorni dopo, in seguito alla rotazione della superficie della nostra stella, era rivolta verso Marte.

Immagine del 4 maggio. NASA/SDO/HMI team/SpaceWeatherLive

Il Sole visto da Marte il 14 maggio

11 ore prima che AR3664 producesse l’impressionante brillamento con intensità X8.79 menzionato a inizio articolo, Perseverance aveva fotografato ancora una volta il Sole. L’immagine risultante conferma l’ottimo allineamento della macchia solare in direzione di Marte e ci lascia a fantasticare su quali aurore l’eruzione avrebbe potuto produrre sulla Terra se fosse avvenuta pochi giorni prima!

NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/Piras

Rotazione solare: animazione

Le ultime immagini sul tema che desidero mostrarvi sono due animazioni realizzate a partire dalle foto solari di Perseverance dal 30 aprile al 22 maggio. I frame della prima gif sono quelli originali così come scaricati dalle pagine NASA, con l’unico accorgimento di aver centrato l’inquadratura sul Sole. Si notano i pixel colorati dovuti al rumore digitale del sensore, l’inclinazione variabile del Sole in base all’ora a cui le foto sono state scattate e soprattutto la mutevole luminosità legata a quanta polvere fosse presente in atmosfera.

NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

Ho quindi sottoposto i frame alla pulizia dagli hot pixel, uniformato l’esposizione e corretto l’inclinazione del disco in modo da rendere fluida la rotazione. Questo è il ben più gradevole risultato.

NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

Ma questa polvere nell’aria che la sta facendo da padrona…si riesce a vedere? Come spesso avviene, un’immagine vale più di mille parole. Ecco una foto realizzata dalla camera di navigazione di Perseverance che illustra come i rilievi all’orizzonte quasi svaniscano a causa dell’oscuramento atmosferico.

Ripresa con la Left NavCam nel Sol 1158, 23 maggio. In basso c’è un ritaglio della porzione superiore della stessa foto. NASA/JPL-Caltech/Piras

Astrofotografia da Marte

Apparentemente non legato all’osservazione di particolari fenomeni nei cieli marziani, nella notte del Sol 1153 Perseverance ha eseguito uno scatto a lunga esposizione con la MastCam-Z di sinistra. Stavolta, a differenza delle immagini notturne di Curiosity, i tecnici hanno prodotto anche dei rudimentali dark frame eseguendo preliminarmente degli scatti con il filtro solare che, grazie all’oscuramento estremo che fornisce, ha bloccato a sufficienza ogni potenziale luce in ingresso alla camera. Ho potuto utilizzare queste particolari immagini per provare a migliorare il light frame, ovvero la foto notturna vera e propria. L’immagine è rimasta comunque rumorosa perché ho aumentato molto il contrasto con lo scopo di evidenziare sia la scia delle stelle che parte del paesaggio. Ebbene sì, Perseverance ha osservato delle stelle all’orizzonte.

Left MastCam-Z, Sol 1153. NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/Piras

I metadati dell’immagine grezza ci aiutano a collocare lo scatto esattamente in direzione ovest e questo è coerente con l’inclinazione delle stelle le quali, viste dall’emisfero nord di Marte, stanno tramontando. Con l’ausilio del software di simulazione Stellarium possiamo ricostruire il cielo visto da Perseverance inserendo data e ora della foto (le 2:49 italiane del 18 maggio). Se con un po’ di pazienza inseriamo anche le specifiche del sensore, la lunghezza focale impiegata per quest’acquisizione e inseriamo un correttivo che tenga conto dell’inclinazione del rover rispetto al terreno, troviamo un’ottima corrispondenza con il campo inquadrato dalla MastCam-Z e scopriamo l’esatta zona di cielo puntata.

Simulazione della foto notturna di Perseverance. Stellarium/Piras
Costellazione australe della Gru vista da Marte

Andando a indagare nelle immagini diurne delle NavCam acquisite in quei giorni Sol (quando Perseverance è rimasto fermo alcuni giorni nella stessa posizione) troviamo il rilievo che compare nella foto e che, dopo un’opportuna compensazione della distorsione della lente, si sovrappone abbastanza bene con lo scatto notturno.
 

La foto notturna del Sol 1153 è qui sovrapposta a un’immagine della Right NavCam del Sol 1151. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

Tutte le news su Marte sono disponibili QUI.

Space Debries Viaggiare nello Spazio senza Scontrarsi

Nell’immaginario collettivo, lo spazio appare come un ambiente sconfinato e deserto. Tuttavia, la realtà dell’orbita terrestre è ben diversa: sempre più affollata, trafficata e caotica. Con quasi 40.000 oggetti spaziali catalogati secondo l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), il rischio di collisioni tra satelliti è in continuo aumento, specialmente a causa del lancio di megacostellazioni come Starlink e della miniaturizzazione dei satelliti.

Per garantire la sicurezza delle missioni spaziali e l’integrità dei satelliti in orbita, è fondamentale poter eseguire manovre di evitamento delle collisioni, note come CAM (Collision Avoidance Manoeuvres). Ma progettare queste manovre in modo rapido, preciso e con il minimo consumo di carburante è una sfida tecnica complessa.

Il problema delle collisioni orbitali

Quando due oggetti nello spazio si avvicinano troppo, gli operatori ricevono un messaggio di allerta chiamato CDM (Conjunction Data Message), che indica l’istante previsto di massimo avvicinamento (TCA) e la probabilità di collisione (PoC). Se questa probabilità supera una certa soglia (spesso fissata a 1 su 10.000), è necessario intervenire.

Le manovre correttive devono non solo ridurre il rischio di impatto, ma anche preservare carburante e mantenere il satellite sulla sua traiettoria prevista. Inoltre, l’incremento del numero di congiunzioni simultanee e ravvicinate richiede strumenti sempre più sofisticati e automatizzati per gestire le emergenze in tempo reale.

Un nuovo approccio matematico: le manovre sotto vincoli polinomiali

Nel lavoro pubblicato su Acta Astronautica, i ricercatori propongono un nuovo metodo per la progettazione automatizzata di CAM che combina efficienza computazionale e precisione. L’idea centrale è rappresentare tutti i vincoli della manovra (come la probabilità di collisione, la distanza minima di passaggio, e il ritorno all’orbita nominale) mediante polinomi di ordine arbitrario.

Questo approccio si basa su una branca avanzata della matematica chiamata algebra differenziale, che permette di approssimare le variabili coinvolte in modo estremamente accurato. I vincoli polinomiali vengono poi “linearizzati” iterativamente, creando una sequenza di programmi quadratici (cioè problemi di ottimizzazione con funzione obiettivo quadratica e vincoli lineari) sempre più precisi. In questo modo si riesce a trovare una soluzione ottima in tempi rapidissimi (spesso inferiori a mezzo secondo).

Efficienza e versatilità: manovre impulsive e a bassa spinta

Il metodo è flessibile e può gestire sia manovre impulsive (che simulano “colpi” di propulsione istantanei), sia a bassa spinta (tipiche dei satelliti con propulsione elettrica). Inoltre, consente di includere più congiunzioni consecutive, considerando i vincoli di mantenimento della posizione orbitale (station keeping).

Uno degli aspetti più innovativi è la possibilità di gestire più vincoli contemporaneamente, ad esempio:

  • Ridurre la probabilità di collisione con diversi oggetti.
  • Garantire che la traiettoria finale del satellite rispetti i parametri previsti, come semiasse maggiore ed eccentricità.
  • Minimizzare il consumo totale di carburante (espresso come somma dei Δv richiesti).

Risultati sperimentali: accuratezza e rapidità

Per testare il metodo, i ricercatori hanno utilizzato database reali di potenziali collisioni in orbita bassa terrestre (LEO), eseguendo oltre 2000 simulazioni. In tutti i casi, le manovre generate rispettavano i vincoli imposti con precisione sub-millimetrica e consumi di carburante ridotti (nella maggior parte dei casi inferiori a 50 mm/s di Δv totale).

I tempi di calcolo sono stati anch’essi impressionanti: il 95% delle soluzioni è stato calcolato in meno di 0,15 secondi. Inoltre, il metodo proposto è risultato in media il 30–40% più veloce rispetto a solutori commerciali come l’interior-point solver di MATLAB.

Un futuro sempre più automatico e autonomo

Il metodo presentato ha un enorme potenziale per l’adozione in sistemi autonomi a bordo dei satelliti, consentendo loro di valutare situazioni di rischio e prendere decisioni indipendenti in pochi istanti. Questo è particolarmente rilevante in un contesto operativo in cui i tempi di reazione sono cruciali, e l’intervento umano potrebbe non essere sufficientemente tempestivo.

Conclusione

Il futuro della gestione del traffico spaziale dipenderà sempre più da algoritmi intelligenti e ottimizzati. Il lavoro di Zeno Pavanello, Laura Pirovano e Roberto Armellin rappresenta un importante passo avanti verso manovre di evitamento delle collisioni sempre più affidabili, automatiche ed efficienti. In un cielo sempre più affollato, la matematica diventa lo strumento fondamentale per evitare che le nostre tecnologie si scontrino nello spazio, garantendo sicurezza, efficienza e sostenibilità alle attività spaziali.

Fonte: Science Direct

Quando un quasar spegne la nascita delle stelle: un’eccezionale fusione galattica a 11 miliardi di anni luce

Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Balashev e P. Noterdaeme et al.

 

Un gruppo internazionale di astronomi ha osservato, per la prima volta, l’effetto diretto delle radiazioni di un quasar sull’ambiente gassoso di una galassia vicina in fase di fusione. La scoperta, pubblicata da Sergei Balashev e Pasquier Noterdaeme insieme a ricercatori provenienti da diversi istituti di ricerca, getta nuova luce su come i quasar — tra gli oggetti più luminosi dell’Universo — possano interrompere la formazione stellare all’interno di galassie interagenti.

Una fusione galattica a redshift z ≈ 2.66

Le osservazioni, effettuate con i telescopi VLT (Very Large Telescope) e ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), hanno analizzato un quasar chiamato J012555.11−012925.00 e una galassia compagna in via di fusione. Le due galassie, separate da una distanza proiettata di appena 5 kpc (circa 16.000 anni luce), stanno convergendo con una velocità relativa di circa 550 km/s.

Entrambe le galassie sono molto massicce, con masse stellari intorno a 10¹¹ masse solari. Il buco nero supermassiccio al centro del quasar ha una massa stimata in 10⁸,3 masse solari e sta accrescendo materiale a un ritmo vicino al limite di Eddington, sprigionando una potenza di (5–10) × 10⁴⁶ erg/s.

L’effetto distruttivo della radiazione del quasar

Un aspetto chiave dello studio è l’osservazione, unica nel suo genere, di gas molecolare altamente eccitato e densissimo (fino a 10⁶ cm⁻³) nella galassia compagna. Questo gas, esposto alla potente radiazione UV del quasar, è stato trasformato in piccole “goccioline” di dimensioni inferiori a 0,02 parsec (circa 1200 volte la distanza Terra-Sole), troppo compatte per formare nuove stelle.

Questo fenomeno rappresenta un esempio di “feedback negativo” locale: la radiazione del quasar distrugge le nubi molecolari diffuse e impedisce la nascita stellare nei pressi del suo campo d’influenza, mentre il resto della galassia continua a formare stelle a un ritmo elevato, stimato in circa 250 masse solari all’anno.

Questa immagine, ottenuta con il radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), mostra il contenuto di gas molecolare di due galassie coinvolte in una collisione cosmica. La galassia a destra ospita un quasar — un buco nero supermassiccio che, mentre inghiotte materia, emette una radiazione intensa diretta verso l’altra galassia.
Gli astronomi, utilizzando lo spettrografo X-shooter al Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, hanno analizzato la luce del quasar mentre attraversava un alone invisibile di gas attorno alla galassia a sinistra. Questo ha permesso loro di osservare gli effetti devastanti della radiazione: le nubi di gas della galassia colpita vengono disturbate, ostacolando la formazione di nuove stelle.
Crediti:
ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Balashev e P. Noterdaeme et al.

Dati straordinari e tecniche avanzate

Colonna di idrogeno neutro: N(H I) ≈ 10²¹.8 cm⁻²
Colonna di H₂: N(H₂) ≈ 10²¹.2 cm⁻², tra le più alte mai rilevate nei quasar
Densità del gas molecolare: n_H ≈ 10⁵–10⁶ cm⁻³
Temperatura di eccitazione: oltre 4000 cm⁻¹, mai vista in osservazioni a redshift così elevato

Grazie all’uso di tecniche spettroscopiche avanzate e all’elaborazione di immagini ottiche e radio millimetriche, gli scienziati hanno potuto rivelare dettagli finissimi — 100.000 volte più piccoli rispetto a quanto normalmente risolvibile nei sistemi galattici lontani.

Implicazioni

La scoperta rappresenta una prova osservativa che le fusioni galattiche possono non solo innescare l’accensione dei quasar, ma anche alterare profondamente la struttura interna del gas galattico, con conseguenze drammatiche per la formazione stellare. Questo supporta l’idea che i quasar possano giocare un ruolo attivo nel plasmare l’evoluzione delle galassie.

Lo studio è frutto di una collaborazione tra:

Ioffe Institute, San Pietroburgo, Russia

Institut d’Astrophysique de Paris (IAP), CNRS-SU, Francia

Universidad de Chile

Inter-University Centre for Astronomy and Astrophysics (IUCAA), India

ENS de Lyon / Centre de Recherche Astrophysique de Lyon

Collège de France, Parigi

Departamento de Astronomía, Universidad de Chile

Fonte: ESO

Produzione di Alluminio sulla Luna: Il Progetto LISAP-MSE

Il progetto “Lunar In-Situ Aluminum Production through Molten Salt Electrolysis” (LISAP-MSE), sviluppato dalla Missouri University of Science and Technology, propone un metodo all’avanguardia per la produzione di alluminio direttamente sulla superficie lunare. Utilizzando l’anortite, un minerale ricco di alluminio abbondante negli altopiani lunari, il processo ha recentemente dimostrato la sua efficacia producendo sferoidi metallici con una purezza dell’85% di alluminio in massa, un risultato sperimentale significativo che conferma la validità concettuale e tecnica dell’approccio.

Contesto e Obiettivi

Con il programma Artemis della NASA volto a stabilire una presenza umana permanente sulla Luna, è essenziale sviluppare tecnologie per sfruttare le risorse locali (ISRU – In-Situ Resource Utilization). LISAP-MSE risponde a questa esigenza permettendo la produzione di materiali critici come l’alluminio e l’ossigeno direttamente dal suolo lunare.

Il Processo LISAP-MSE

Il cuore del processo è l’elettrolisi dell’ossido di alluminio (Al2O3) in un bagno di sale fuso di cloruro di calcio (CaCl2) a circa 900°C, secondo il metodo FFC Cambridge. Questo permette di ottenere alluminio metallico e ossigeno gassoso. La reazione avviene con un potenziale elettrico di circa 3 volt.

L’anortite viene inizialmente trattata con acido cloridrico (HCl), generando cloruro di alluminio esaidrato (AlCl3·6H2O), cloruro di calcio e silice. I composti di alluminio vengono trasformati in ossido di alluminio tramite riscaldamento progressivo fino a 400°C. Successivamente, l’ossido di alluminio viene ridotto elettrochimicamente.

Risultati Sperimentali Recenti

Le prove condotte con una cella elettrolitica sviluppata internamente hanno prodotto sferoidi metallici con l’85% di alluminio in massa, un traguardo importante che dimostra l’efficacia del processo end-to-end. Questi risultati indicano che LISAP-MSE è in grado di produrre alluminio di elevata purezza utilizzabile per la costruzione di infrastrutture lunari.

Risorse Derivate

Oltre all’alluminio, il processo produce anche:

  • Ossigeno, utile per la respirazione e la propulsione;
  • Acqua, essenziale per il supporto vitale;
  • Silice, con potenziale uso edilizio;
  • Cloruro di calcio, che può essere riciclato nel processo.

Importanza Strategica

Il LISAP-MSE è progettato per essere scalabile e sostenibile. Dopo un’iniziale fornitura di acqua e HCl, il sistema è in grado di auto-rigenerarsi, riducendo la necessità di rifornimenti terrestri. Questo rende il processo altamente adatto per missioni a lungo termine.

Prospettive Future

Attualmente il progetto sta finalizzando la raccolta fondi e l’acquisizione dei materiali. Sono previste ulteriori prove in laboratorio atmosferico e in camere a vuoto presso il campus della Missouri S&T, che mirano a confermare la stabilità e l’efficienza del sistema in condizioni analoghe a quelle lunari.

Distribuzione della produzione di Alluminio nel mondo. Fonte MineraliRari.com

Fonte: Science Direct

 

Completata la Struttura della Cupola dell’ELT

Durante la cerimonia del Tijerales, il Governatore Ricardo Díaz, in rappresentanza della Regione di Antofagasta, posa insieme al personale dell’ESO davanti all’ELT. Da sinistra a destra: Guido Vecchia (Responsabile del sito ELT), Ricardo Díaz (Governatore di Antofagasta), Bárbara Núñez (Responsabile delle relazioni regionali ESO) e Steffen Mieske (Responsabile delle operazioni scientifiche di Paranal). Crediti foto: I. Adell/CHEPOX/ESO

Il Extremely Large Telescope dell’ESO (ELT), destinato a diventare il più potente al mondo, ha recentemente raggiunto un traguardo simbolico nella sua costruzione: il punto più alto della sua imponente cupola. Con l’installazione completa della struttura di una delle gigantesche porte scorrevoli e gran parte dell’altra già montata, l’ELT ha ora raggiunto un’altezza vertiginosa di 80 metri.

Per celebrare questo momento chiave, conosciuto come “Topping Out” — o “Tijerales” in Cile — l’ESO ha organizzato una cerimonia sia nella sua sede centrale di Garching, in Germania, sia direttamente sul sito di costruzione, sul Cerro Armazones nel deserto cileno di Atacama. In entrambe le sedi, la giornata è stata dedicata al riconoscimento del lavoro straordinario di tutti coloro che stanno rendendo possibile questo ambizioso progetto.

Sul sito cileno, la cerimonia ha incluso il tradizionale innalzamento delle bandiere cilena e dell’ESO sulla sommità della cupola e un barbecue per il personale in loco. Tra i partecipanti c’era anche il Governatore Ricardo Díaz, rappresentante della Regione di Antofagasta, dove si trova l’ELT. A Garching, l’evento ha riunito rappresentanti di industrie, partner istituzionali e numerosi collaboratori, offrendo presentazioni, momenti di networking e un pranzo a buffet. Le due celebrazioni sono state unite da un collegamento in diretta, che ha permesso a tutti di condividere il successo raggiunto.

Il progetto dell’ELT, ormai oltre il 60% del completamento, rappresenta una straordinaria impresa ingegneristica e scientifica resa possibile grazie al contributo costante degli Stati Membri e Partner dell’ESO, delle industrie coinvolte nella progettazione e costruzione dei componenti, e del personale dell’ESO impegnato nel progetto.

Il rito del Topping Out ha origini antichissime, risalenti alla Scandinavia, e viene celebrato in tutto il mondo. Mentre in Cile si issa una bandiera sul punto più alto della struttura, in Germania — dove l’evento è noto come Richtfest — si utilizzano corone, rami d’albero o ghirlande sempreverdi. Un elemento comune? Un pasto meritato per i lavoratori che hanno contribuito alla costruzione.

Il cammino verso il primo sguardo dell’ELT sull’Universo prosegue, e ogni traguardo è un passo in più verso una nuova era dell’astronomia. Grazie alla sua straordinaria tecnologia e ai cieli bui del Cerro Armazones, l’ELT rivoluzionerà la nostra comprensione del cosmo, diventando davvero il più grande occhio del mondo rivolto al cielo.

Fonte: ESO

L’Asteroide 2025 KF transiterà in sicurezza tra la Terra e la Luna

Il 21 maggio 2025, un asteroide delle dimensioni di una casa, denominato 2025 KF, effettuerà un passaggio ravvicinato alla Terra, transitando tra il nostro pianeta e la Luna. Secondo la NASA, l’asteroide passerà a circa 115.000 chilometri dalla Terra, ovvero meno di un terzo della distanza media tra la Terra e la Luna

Caratteristiche dell’asteroide 2025 KF

  • Dimensioni: tra 10 e 23 metri di diametro, paragonabili a quelle di una casa
  • Velocità: circa 41.650 km/h
  • Distanza minima dalla Terra: 115.000 km
  • Distanza minima dalla Luna: circa 226.666 km
  • Data e ora del passaggio: 21 maggio 2025 alle 19:30 ora italiana (17:30 GMT)
  • Scoperta: 19 maggio 2025 dagli astronomi del progetto MAP nel deserto di Atacama, Cile

Nonostante la sua vicinanza, 2025 KF non rappresenta una minaccia per la Terra o la Luna. Anche in caso di impatto, la sua piccola dimensione lo farebbe disintegrare nell’atmosfera terrestre, senza causare danni al suolo

Osservazione dell’evento

Sebbene l’asteroide sia troppo piccolo e veloce per essere visibile a occhio nudo, gli appassionati di astronomia possono tentare di osservarlo con telescopi adeguati. Per chi desidera approfondire l’osservazione del cielo, esistono diverse opzioni di telescopi disponibili sul mercato.


Importanza del monitoraggio degli asteroidi

Eventi come il passaggio di 2025 KF evidenziano l’importanza del monitoraggio continuo degli oggetti vicini alla Terra (NEO). La scoperta dell’asteroide solo due giorni prima del suo passaggio sottolinea la necessità di migliorare le capacità di rilevamento e tracciamento di questi corpi celesti. Attualmente, la NASA e altre agenzie spaziali monitorano migliaia di NEO per valutare potenziali rischi e sviluppare strategie di difesa planetaria.

Il passaggio è descritto qui

Fonte: Space.com

CAMPIONATI ITALIANI DI ASTRONOMIA: I VINCITORI E LA SQUADRA AZZURRA

I componenti della squadra italiana che parteciperà alle IV IOAA JUNIOR (𝐼𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑂𝑙𝑦𝑚𝑝𝑖𝑎𝑑 𝑜𝑛 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑛𝑜𝑚𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑝ℎ𝑦𝑠𝑖𝑐𝑠) a Piatra Neamt, (Romania) dal 18 al 25 ottobre, sono: Palumbo Gaia, Costantini Ettore, Fabi Alessandro, Rucco Luca, Barberi Davide. I componenti della squadra italiana che parteciperà alle XVIII IOAA (𝐼𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑂𝑙𝑦𝑚𝑝𝑖𝑎𝑑 𝑜𝑛 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑛𝑜𝑚𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑝ℎ𝑦𝑠𝑖𝑐𝑠) a Mumbai (india) dal 11 al 21 agosto, sono: Lambertini Gabriele, Leccese Francesco, Trunfio Ilenia, Brunetta Riccardo, Cusimano Andrea. Crediti INAF

Diciotto giovani studenti e studentesse premiati con la Medaglia Margherita Hack dopo la Finale che si è svolta in Abruzzo dal 6 all’8 maggio. Dieci di loro sono stati convocati a rappresentare l’Italia alle due competizioni delle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica 2025, in India e Romania.

TERAMO, 09 maggio 2025 – Si è chiusa, con la cerimonia di premiazione a Giulianova (TE), la Finale della XXIII edizione dei Campionati Italiani di Astronomia, che dal 6 all’8 maggio ha coinvolto in Abruzzo 90 finalisti selezionati da un totale di 9754 studenti provenienti da 326 scuole (comprese cinque scuole italiane all’estero). Dopo intense prove pratiche e teoriche, sono stati proclamati i diciotto vincitori nazionali e selezionati poi i dieci membri delle due rappresentanze azzurre (divise per età) che parteciperanno alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica 2025, appuntamento prestigioso che riunisce i migliori giovani studenti del mondo: la competizione si terrà a Mumbai, in India, dall’11 al 21 agosto, mentre per la categoria Junior l’evento è in programma dal 18 al 25 ottobre a Piatra Neamț, in Romania. 

Promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, la competizione è organizzata dalla Società Astronomica Italiana (SAIt) e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). La fase di preselezione si è svolta il 18 dicembre 2024, la gara interregionale il 26 e 27 febbraio 2025. A seguito dei risultati della gara interregionale sono stati selezionati i finalisti (22 nella categoria Junior 1, 22 nella categoria Junior 2, 32 nella categoria Senior e 14 nella categoria Master). Le prove si sono svolte il 7 maggio presso il Liceo Statale “A. Einstein” di Teramo in Abruzzo e hanno previsto una sessione teorica e una pratica, con quesiti su astronomia, astrofisica, cosmologia, fisica moderna e analisi dati. Tutti problemi di difficoltà e contenuti diversi a seconda della categoria.

I 90 finalisti durante la prova teorica della Finale Nazionale dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia, che si è svolta lo scorso 7 maggio presso il Liceo Scientifico Statale “A. Crediti: INAF

Patrizia Caraveo, presidente della Società Astronomica Italiana, afferma: “Questa edizione ha confermato l’entusiasmo con cui i giovani si avvicinano all’astronomia, affrontando con passione e competenza prove complesse e multidisciplinari. È la dimostrazione che la scienza, quando proposta in modo coinvolgente, sa accendere curiosità autentica. I Campionati Italiani di Astronomia continuano a essere un’occasione preziosa per far emergere talenti e stimolare il pensiero critico. Noto con piacere che sono numerosi i partecipanti che ‘ritornano’ a cimentarsi nei campionati in categorie superiori, segno che l’esperienza nelle passate edizioni ha acceso il loro interesse nonostante l’astronomia non sia parte del curriculum scolastico. Il successo della manifestazione conferma il  potenziale formativo e culturale dell’astronomia, una scienza antichissima ma estremamente attuale che è  in grado di connettere il cielo alle sfide del futuro”.

Al termine della Finale sono stati premiati cinque studenti e studentesse per ciascuna delle categorie Junior 1, Junior 2 e Senior, e tre per la categoria Master. A tutti è stata conferita la “Medaglia Margherita Hack” per l’edizione 2025 e i loro nomi saranno inseriti nell’Albo Nazionale delle Eccellenze. Inoltre, ai diciotto studenti che si sono classificati immediatamente dopo i vincitori è stato assegnato un diploma di merito, in riconoscimento dei risultati di rilievo conseguiti durante la competizione. La giuria ha infine assegnato due menzioni speciali.

Le valutazioni sono state affidate a una giuria composta da esperti INAF e SAIt: Gaetano Valentini (Presidente), INAF – Osservatorio Astronomico d’Abruzzo, Giuseppe Cutispoto (Segretario), INAF – Osservatorio Astrofisico di Catania, Silvia Galleti, INAF – Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna, Giulia Iafrate, INAF – Osservatorio Astronomico di Trieste, Marco Lucente, INAF – Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali di Roma, Angela Misiano, SAIt – Planetario di Reggio Calabria, Agatino Rifatto, INAF – Osservatorio Astronomico di Capodimonte di Napoli, Daniele Spiga, INAF – Osservatorio Astronomico di Brera – Milano

Questa XXIII edizione si conferma tra le più partecipate degli ultimi anni, e Teramo – con il suo storico Osservatorio Astronomico D’Abruzzo e le sue scuole – ha saputo accogliere con entusiasmo e competenza questa grande sfida scientifica e formativa.

Vincitori dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia – medaglia M. Hack

I diciotto vincitori della Finale Nazionale dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia, che si sono svolti dal 6 all’8 maggio 2025 a Teramo-Giulianova (Abruzzo). Da sinistra in piedi: Palumbo Gaia, Trunfio Ilenia, Bortoluzzi Nicola, Lambertini Gabriele, Leccese Francesco, Di Maria Luca, Dandrea Giulio, Costantini Ettore, Fabi Alessandro, Barberi Davide. Da sinistra davanti: Cerrano Matteo, Matarazzi Rachele Pia, Di Egidio Irene, Di Silvestro Andrea, De Paoli Chiara. Nella foto sono assenti Rucco Luca, Brunetta Riccardo, Cusimano Andrea.
Crediti: INAF

Categoria Junior 1

  • Cerrano Matteo, Istituto Comprensivo Statale “Biancheri” – Ventimiglia (IM);
  • Di Silvestro Andrea, Istituto Compr. Statale “De Amicis – Don Milani” – Randazzo (CT);
  • De Paoli Chiara, Istituto Comprensivo Statale “Torre” – Pordenone;
  • Di Egidio Irene, Ist. Comp. Statale “Savini – San Giuseppe – San Giorgio” – Teramo;
  • Matarazzi Rachele Pia, Istit. Compr. Statale “F. Jerace – Capoluogo Brogna” – Polistena (RC).

Categoria Junior 2

  • Palumbo Gaia, Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria;
  • Costantini Ettore, Licei “Ampezzo e Cadore” – Cortina d’Ampezzo (BL);
  • Fabi Alessandro, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “P. Ruffini” – Viterbo;
  • Rucco Luca, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “E. Fermi” – Aversa (CE);
  • Barberi Davide, Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria.

Categoria Senior

  • Lambertini Gabriele, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “G. Bruno” – Budrio (BO);
  • Leccese Francesco, Liceo Scientifico Statale “G. Banzi Bazoli” – Lecce;
  • Bortoluzzi Nicola, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “Galilei – Tiziano” – Belluno;
  • Dandrea Giulio, Liceo Scientifico Statale “E. Fermi” – Pieve di Cadore (BL);
  • Di Maria Luca, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “E. Fermi” – Arona (NO).

Categoria Master

  • Trunfio Ilenia, Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria;
  • Brunetta Riccardo, Liceo Scientifico Statale “Leopardi – Majorana” – Pordenone;
  • Cusimano Andrea, Liceo Scientifico Statale “T. Levi Civita” – Roma.

Diplomi di Merito

Categoria Junior 1

  • Chemello Samuele, Istituto Comprensivo Statale di Vergiate – Vergiate (VA);
  • Bascià Gabriele, Ist. Compr. Statale “Carducci – Vittorino da Feltre” – Reggio Calabria;
  • Ciccone Thomas, Istituto Comprensivo Statale “Centro” – Casalecchio di Reno (BO);
  • Danaro Antonio, Istituto Compr. Statale “Giovanni XXIII” – Villa San Giovanni (RC);
  • Morgese Cristina, Istituto Comprensivo Statale “Poggiofranco -T. Fiore” – Bari.

Categoria Junior 2

  • Iorfida Andrea, Liceo Scientifico Statale “Aristotele” – Roma;
  • Tropenscovino Francesco, Liceo Scientifico Statale “T. Mamiani” – Roma;
  • Rosiello Marco, Liceo Scientifico Statale “A. Righi” – Roma;
  • Montalto Alessio, Liceo Scientifico Statale “P. Ruggieri” – Marsala (TP);
  • D’Argento Giovanni, Liceo Scientifico Statale “E. Fermi” – Bari.

Categoria Senior

  • Dolcin Matteo, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “A. Zanelli” – Reggio Emilia;
  • Pampersi Gianni, Liceo Scientifico Statale “G. Galilei” – Civitavecchia (RM);
  • Di Cicco Riccardo, Liceo Scientifico Statale “Galileo Ferraris” – Torino;
  • Manetti Francesco, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “G. Marconi” – Carrara;
  • Wang Andrea Zihan, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “P. Frisi” – Monza.

Categoria Master

  • Grillo Tiziano, Liceo Scientifico Statale “A. Moro” – Reggio Emilia;
  • Cerulli Alessandro, Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “A. Gatto” – Agropoli (SA);
  • Paganelli Damiano, Liceo Scientifico Statale “Wiligelmo” – Modena.

Menzioni Speciali

  • Leccese Francesco, per la miglior prova teorica;
  • Liotta Vittorio, per la miglior prova pratica.

Squadra Italiana alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica 2025

IV IOAA Junior, Piatra Neamț (Romania) dal 18 al 25 ottobre 2025

  • Palumbo Gaia (Junior 2), Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria;
  • Costantini Ettore (Junior 2), Licei “Ampezzo e Cadore” – Cortina d’Ampezzo (BL);
  • Fabi Alessandro (Junior 2), Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “P. Ruffini” – Viterbo;
  • Rucco Luca (Junior 2), Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “E. Fermi” – Aversa (CE);
  • Barberi Davide (Junior 2), Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria.

XVIII IOAA, Mumbai (India) dal 11 al 21 agosto 2025

  • Lambertini Gabriele (Senior), Liceo Scientifico e delle S.A. Statale “G. Bruno” – Budrio (BO);
  • Leccese Francesco (Senior), Liceo Scientifico Statale “G. Banzi Bazoli” – Lecce;
  • Trunfio Ilenia (Master), Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Reggio Calabria;
  • Brunetta Riccardo (Master), Liceo Scientifico Statale “Leopardi – Majorana” – Pordenone;
  • Cusimano Andrea (Master), Liceo Scientifico Statale “T. Levi Civita” – Roma.

Fonte: MEDIA INAF

EINSTEIN TELESCOPE: INAUGURATO A FIRENZE IL LABORATORIO DI OTTICA ADATTIVA ADONI-ET

Crediti: INAF / INFN / ET Italy

Firenze, 13 maggio 2025 – Nel quadro del progetto PNRR ETIC è stato inaugurato, martedì 13 maggio, il laboratorio di ottica adattiva ADONI-ET all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali di Simone Esposito, direttore dell’INAF di Arcetri, e Giovanni Passaleva, direttore della sezione di Firenze dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). A seguire, prima del tradizionale taglio del nastro, Michele Punturo, coordinatore scientifico del progetto ETIC e responsabile internazionale di Einstein Telescope, e Armando Riccardi, responsabile di ADONI-ET, hanno illustrato rispettivamente le sfide del progetto ET e del nuovo laboratorio di ottica adattiva.

Crediti: INAF / INFN / ET Italy

La realizzazione del laboratorio ADONI-ET rientra nel progetto Einstein Telescope Infrastructure Consortium (ETIC), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR), nell’ambito della Missione 4 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), di cui l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è capofila. 

INAF partecipa al progetto PNRR ETIC attraverso il laboratorio nazionale per ottiche adattive ADONI, che ha nella propria missione il trasferimento delle tecnologie adattive sviluppate per i telescopi ottici in altri campi scientifici.

Nel campo degli interferometri gravitazionali come l’Einstein Telescope, l’obiettivo del laboratorio ADONI-ET è studiare un concetto innovativo per la correzione degli specchi di ET, che utilizza fasci infrarossi per controllare la forma di un elemento correttore mediante il riscaldamento locale. È previsto che il sistema funzioni in ciclo chiuso, regolando il riscaldamento locale utilizzando le informazioni di un canale di misura che verifica la forma effettiva degli specchi da controllare.

Crediti: INAF / INFN / ET Italy

«Il laboratorio, progettato e realizzato grazie ai fondi del PNRR-ETIC, nasce dall’esperienza consolidata dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e del suo laboratorio ADONI, punto di riferimento a livello nazionale e internazionale nel campo dell’ottica adattiva per applicazioni astronomiche», sottolinea il direttore di INAF Arcetri Simone Esposito. «Le tecniche sviluppate in questo ambito trovano nuova applicazione nel controllo dei fasci ottici degli interferometri gravitazionali. Il programma PNRR-ETIC ha quindi offerto un impulso molto importante allo sviluppo multidisciplinare dell’ottica adattiva, estendendone l’uso a strumenti scientifici d’avanguardia come gli interferometri gravitazionali».

«Come direttore della Sezione INFN di Firenze, sono particolarmente felice e orgoglioso dell’inizio delle attività del laboratorio ETIC-ADONI, presso l’Osservatorio di Arcetri. ETIC-ADONI è stato finanziato nell’ambito del progetto PNRR ETIC, con capofila l’INFN, che si occupa dello studio di fattibilità e della caratterizzazione del sito italiano candidato a ospitare Einstein Telescope e della creazione di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale, coinvolgendo molte università ed enti di ricerca italiani, tra cui l’INAF», aggiunge il direttore di INFN Firenze Giovanni Passaleva. «L’INAF è un partner fondamentale per ETIC e con il laboratorio ETIC-ADONI giocherà un ruolo chiave, trasferendo le proprie competenze di eccellenza nell’ottica adattiva nell’ambito della ricerca sulle onde gravitazionali. Si aggiunge così un altro tassello all’eccellenza della ricerca fiorentina, che vede INFN e INAF collaborare insieme a uno dei progetti scientifici più importanti e rivoluzionari dei prossimi decenni, sulla storica collina di Arcetri che ospitò giganti della scienza come Galileo, Fermi, Occhialini, Hack e Pacini».

«I segnali generati dalle onde gravitazionali sono talmente deboli da richiedere strumenti perfettamente isolati e privi di distorsioni ottiche, per evitare che gli effetti di tali “imperfezioni” riducano drasticamente la sensibilità della detezione. Questo è particolarmente vero per l’Einstein Telescope, che si propone di aumentare di un ordine di grandezza la sensibilità rispetto all’attuale generazione di telescopi gravitazionali (LIGO, Virgo), richiedendo soluzioni innovative per il controllo del sistema. In particolare ogni differenza delle ottiche del fascio di misura dalla loro forma ideale, che sia un inevitabile residuo di fabbricazione o una deformazione dovuta alla variazione della loro temperatura, deve essere compensata. L’ottica adattiva ha esattamente questo scopo: agire con un elemento correttore all’interno del sistema per compensare gli effetti delle deformazioni delle ottiche in tempo reale», spiega il responsabile di ADONI-ET Armando Riccardi. «Il laboratorio ADONI-ET, presso l’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, ha lo scopo di trasferire l’esperienza acquisita in INAF con le tecniche di ottica adattiva, per la correzione degli effetti della turbolenza atmosferica sulle immagini astronomiche, a Einstein Telescope. In particolare, nel laboratorio stiamo sviluppando e verificheremo la capacità di uno specchio deformabile di modulare la luce di un laser di potenza, per variare la mappa di temperatura di un’ottica da utilizzare come elemento correttore dei fasci di misura di ET (compensation plate) e verificare che le distorsioni del fronte d’onda ottenute siano in accordo con le accuratezze richieste da questo formidabile strumento per la detezione delle onde gravitazionali».

Con questo progetto del laboratorio ADONIINAF si candida concretamente a contribuire allo sviluppo di un sistema adattivo per ET anche attraverso la formazione di giovani ricercatrici e ricercatori.

Il consorzio ETIC è composto da quattordici università ed enti di ricerca italiani, con l’obiettivo di sostenere la candidatura italiana a ospitare il futuro osservatorio di onde gravitazionali di nuova generazione Einstein Telescope (ET), una delle più grandi e ambiziose infrastrutture di ricerca che saranno costruite in Europa nei prossimi decenni, incluso nella roadmap di ESFRI (European Strategy Forum on Research Infrastructure), l’organismo che indica su quali infrastrutture scientifiche è decisivo investire in Europa.

A fronte di un investimento totale di 50 milioni di euro, le attività di ETIC si stanno concentrando, da un lato, sulla caratterizzazione del sito candidato a ospitare ET, nell’area intorno alla miniera dismessa di Sos Enattos, nel Nuorese, in Sardegna, e dall’altro sulla realizzazione o potenziamento di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale.

Fonte: MEDIA INAF

Venti Estremi dal Quasar PDS 456: Nuovi Dati da XRISM

Grazie al satellite XRISM e allo spettrometro ad alta risoluzione Resolve, un team internazionale di scienziati – con il contributo dell’Università di Roma Tor Vergata  e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – ha osservato per la prima volta una tempesta cosmica generata da un buco nero supermassiccio, rivelando cinque distinti flussi di plasma espulsi a velocità pari al 20–30% della velocità della luce. La scoperta è stata pubblicata oggi su Nature.

Roma, 14 maggio 2025 – Immaginate una tempesta colossale che si scatena appena al di fuori di un buco nero supermassiccio: è proprio ciò che ha rivelato Resolve, il nuovo spettrometro ad altissima risoluzione nei raggi X a bordo del satellite XRISM, nel contesto di una missione spaziale guidata dall’agenzia spaziale JAXA (Giappone), con la partecipazione di NASA (Stati Uniti) ed ESA (Europa).

Grazie ai dati ad altissima precisione di XRISM, è stato possibile – per la prima volta – identificare cinque componenti distinte di questo vento nel cuore del quasar PDS 456, ognuna espulsa dal buco nero centrale a velocità relativistiche, comprese tra il 20% e il 30% della velocità della luce. Per fare un confronto, basti pensare che le tempeste più violente sulla Terra – come un uragano di categoria 5 – raggiungono al massimo 300 km/h. Questa “tempesta cosmica” è milioni di volte più veloce.

Lo studio nato da questa collaborazione internazionale (JAXA, NASA, ESA) nell’ambito della missione XRISM, a cui partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è pubblicato oggi sulla rivista internazionale Nature, con un articolo dal titolo “Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds”, che evidenzia la scoperta di cinque distinti flussi di plasma che fuoriescono dal disco di accrescimento del buco nero centrale a velocità estreme, pari al 20–30% di quella della luce.
 
“Il nostro gruppo ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione di questi dati, grazie a tecniche spettroscopiche avanzate nei raggi X e a modelli teorici innovativi per la fisica dei venti prodotti dai buchi neri.  Questi risultati aprono una nuova finestra sullo studio dell’universo estremo, e gettano le basi per comprendere meglio come i buchi neri influenzano l’evoluzione delle galassie”.  Commenta così
Francesco Tombesi, professore associato di Astrofisica presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e associato INAF. In qualità di XRISM Guest Scientist selezionato dall’ESA (uno dei soli due in Italia insieme a James Reeves, associato INAF), Tombesi ha partecipato alla pianificazione e all’analisi dell’osservazione del quasar PDS 456, il più luminoso dell’universo locale, utilizzando il nuovo spettrometro ad alta risoluzione Resolve.

Roma Tor Vergata ha avuto un ruolo di primo piano – prosegue Tombesi – anche grazie al contributo di due giovani ricercatori cresciuti all’interno del nostro Ateneo: Pierpaolo Condò, dottorando al secondo anno del PhD in Astronomy, Astrophysics and Space Science (AASS), e Alfredo Luminari, ricercatore post-doc presso INAF ed ex dottorando AASS”.

Un’energia così enorme e una struttura così complessa rivoluzionano la nostra comprensione dell’ambiente estremo intorno ai buchi neri supermassicci e mettono in seria discussione i modelli attuali di feedback tra buco nero e galassia. “Le teorie finora accettate – conclude Tombesi – non riescono a spiegare una simile combinazione di forza e frammentazione: è chiaro che serviranno nuovi modelli per descrivere questi mostri cosmici”.

PDS456 è un laboratorio prezioso per studiare nell’universo locale i potentissimi venti prodotti dai buchi neri supermassivi. Questa nuova osservazione ci ha permesso di misurare la geometria e distribuzione in velocità del vento con un livello di dettagli impensabile prima dell’avvento di XRISM”, aggiunge Valentina Braito, ricercatrice INAF a Milano.

Un ruolo vincente all’interno della campagna osservativa di PDS456 lo ha avuto ancora una volta l’osservatorio spaziale Neil Gehrels Swift, satellite NASA con una importante partecipazione dell’INAF con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). È stato infatti grazie a un programma osservativo Swift – ottenuto da Valentina Braito – che il team è riuscito a costruire i modelli specifici per PDS456 utilizzati nell’analisi dei dati XRISM. 

Fonte: MEDIA INAF



Nuove Mappe Gravitazionali della Luna e di Vesta

In questa illustrazione artistica è rappresentato l’interno caldo della Luna e l’intensa attività vulcanica che si ritiene abbia avuto luogo tra 2 e 3 miliardi di anni fa. Secondo gli studiosi, le eruzioni sul lato vicino della Luna (quello rivolto verso la Terra) avrebbero contribuito a creare un paesaggio dominato da vaste pianure basaltiche, note come maria.

Due recenti studi condotti dalla NASA offrono un’affascinante visione delle strutture interne della Luna e dell’asteroide Vesta, utilizzando una tecnica sorprendente: l’analisi dei dati gravitazionali raccolti da sonde in orbita, senza la necessità di atterrare sulla superficie dei corpi celesti.

Pubblicati su Nature e Nature Astronomy, questi lavori segnano un passo decisivo nella comprensione della formazione e dell’evoluzione dei corpi del Sistema Solare.

La Luna: Un Interno Asimmetrico e Caldo sul Lato Vicino

Nel primo studio, pubblicato il 14 maggio su Nature, i ricercatori hanno elaborato il più dettagliato modello gravitazionale della Luna mai realizzato. Questa nuova mappa è il risultato dell’analisi dei dati della missione GRAIL (Gravity Recovery and Interior Laboratory), che ha visto le due sonde gemelle Ebb e Flow orbitare il nostro satellite tra la fine del 2011 e il 2012.

Il team ha rilevato sottili variazioni nel campo gravitazionale lunare legate alla sua orbita ellittica intorno alla Terra. Queste variazioni provocano una lieve deformazione mareale del satellite, causata dall’attrazione gravitazionale terrestre, che a sua volta fornisce indizi preziosi sulla struttura interna profonda della Luna.

Una delle scoperte più sorprendenti riguarda l’asimmetria tra il lato vicino e quello lontano della Luna. Mentre il lato vicino è dominato da vasti mari di roccia solidificata, testimoni di un’intensa attività vulcanica avvenuta tra 2 e 3 miliardi di anni fa, il lato lontano appare più aspro e privo di ampie pianure.

Secondo Ryan Park, supervisore del Solar System Dynamics Group al Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA, «abbiamo scoperto che il lato vicino della Luna si flette di più rispetto al lato lontano, il che indica una differenza fondamentale nella loro struttura interna». Questo maggiore “cedimento” suggerisce la presenza di una regione mantellare più calda sul lato vicino, arricchita da elementi radioattivi capaci di generare calore.

Questa scoperta non solo fornisce la prova più solida finora della teoria secondo cui l’attività vulcanica ha modellato la faccia visibile della Luna, ma permetterà anche di migliorare i sistemi di navigazione e di determinazione del tempo per le future missioni lunari.

Vesta: Un Asteroide Diverso da Come lo Immaginavamo

Nel secondo studio, pubblicato il 23 aprile su Nature Astronomy, gli scienziati hanno applicato la stessa tecnica di analisi gravitazionale a Vesta, uno dei più grandi asteroidi della fascia principale tra Marte e Giove.

La missione Dawn della NASA ha ottenuto questa immagine del grande asteroide Vesta il 24 luglio 2011. La sonda ha trascorso 14 mesi in orbita attorno a Vesta, acquisendo oltre 30.000 immagini e realizzando la mappatura completa della sua superficie.
Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Utilizzando i dati radiometrici del Deep Space Network e le immagini raccolte dalla sonda Dawn, che ha orbitato Vesta tra il 2011 e il 2012, il team ha ottenuto risultati inaspettati: contrariamente a quanto previsto, l’interno di Vesta appare sorprendentemente uniforme, con un nucleo ferroso molto piccolo o forse addirittura assente.

Attraverso la misurazione delle oscillazioni di Vesta mentre ruota, il team ha calcolato il suo momento d’inerzia, una proprietà strettamente legata alla distribuzione interna della massa. «La nostra tecnica è estremamente sensibile ai cambiamenti del campo gravitazionale, che si manifestano sia nel tempo, come nel caso delle maree lunari, sia nello spazio, come nel moto oscillatorio di un asteroide», ha spiegato Park.

Questa analisi porta a rivedere le teorie finora accettate sull’evoluzione di Vesta e, più in generale, su come si formano e si differenziano i corpi rocciosi nel Sistema Solare.

Un Nuovo Futuro per l’Esplorazione Planetaria

Gli studi guidati da Ryan Park, frutto di oltre un decennio di lavoro e dell’impiego dei supercomputer della NASA, dimostrano come l’analisi dei dati gravitazionali possa svelare i misteri più profondi dei corpi celesti senza bisogno di costose e complesse missioni di atterraggio.

«La gravità è una proprietà fondamentale e unica che possiamo usare per esplorare l’interno di un corpo planetario», ha sottolineato Park. «Non abbiamo bisogno di dati raccolti sulla superficie: è sufficiente seguire con grande precisione il movimento delle sonde per ottenere una visione globale di ciò che si cela all’interno».

Fonte: ESA

Nel silenzio del cosmo, Voyager 1 risveglia i suoi vecchi motori: un atto di coraggio prima del lungo silenzio

Lontana, in una regione dello spazio dove il Sole è solo una stella tra le altre e il vento solare è ormai un sussurro impercettibile, la sonda Voyager 1 continua il suo viaggio solitario. Lanciata nel 1977, è oggi l’oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra, una messaggera silenziosa che da quasi cinquant’anni attraversa l’oscurità dell’infinito. E proprio quando sembrava che il tempo avesse ormai relegato alcune delle sue funzioni all’oblio, la sonda ha compiuto un piccolo grande miracolo: ha riattivato dei propulsori considerati inutilizzabili da oltre vent’anni.

È successo nelle scorse settimane, grazie al lavoro degli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA, in California. Una manovra tanto ardita quanto rischiosa, che ha richiesto ingegno e una buona dose di coraggio. L’obiettivo? Riportare in vita quei vecchi propulsori, messi da parte nel 2004, per far fronte a un problema ben più urgente: l’invecchiamento dei sistemi di spinta ancora attivi.

Il problema dei propulsori ostruiti

Nel cuore delle Voyager, che oggi sfrecciano nello spazio interstellare a una velocità vertiginosa di circa 56.000 km/h, si trovano i piccoli motori di orientamento. Sono loro a mantenere l’antenna puntata verso la Terra, permettendo il fragile filo di comunicazione che ci unisce a queste sonde così lontane. Ogni lieve rotazione, ogni delicato aggiustamento serve a far sì che Voyager possa continuare a inviare dati preziosi e ricevere i pochi, sempre più radi comandi da casa.

Ma il tempo, come sempre, presenta il conto. I tubi del carburante dei propulsori principali stanno accumulando residui. Se questa ostruzione dovesse peggiorare, le Voyager potrebbero perdere la capacità di orientarsi e quindi di comunicare. Gli ingegneri hanno calcolato che questo rischio potrebbe diventare realtà già nell’autunno di quest’anno.

Ecco perché, nonostante le difficoltà, si è deciso di tentare l’impossibile: rianimare i propulsori di riserva. Quegli stessi motori che non venivano utilizzati da oltre due decenni e che molti davano ormai per persi.

Una corsa contro il tempo (e il silenzio)

La missione aveva anche un’altra scadenza imminente: il 4 maggio, data in cui l’antenna terrestre responsabile di inviare comandi alla Voyager 1 (e alla sua gemella, Voyager 2) è stata messa offline per importanti lavori di aggiornamento. Una volta spenta, sarebbe rimasta silenziosa per mesi. Se i propulsori di backup non fossero stati riattivati in tempo, la finestra per intervenire si sarebbe chiusa irrimediabilmente.

Con una serie di comandi complessi, inviati a una distanza di oltre 24 miliardi di chilometri, gli ingegneri hanno trasmesso le istruzioni per far ripartire i vecchi propulsori. E contro ogni previsione, la risposta è arrivata: i motori si sono accesi. Un sussurro di vita meccanica nel grande vuoto cosmico.

Un ultimo gesto di resilienza

Questo intervento rappresenta molto più di una semplice manovra tecnica. È la testimonianza della resilienza di un progetto nato in un’altra epoca, quando i computer erano grandi come stanze e le missioni spaziali si affidavano ancora a calcoli fatti a mano. È il simbolo di come, anche nell’estremo silenzio dello spazio profondo, la mano dell’uomo riesca ancora a farsi sentire.

Oggi Voyager 1 continua a viaggiare, portando con sé il Golden Record, quel disco d’oro che racchiude i suoni e le immagini della Terra, nel caso qualche civiltà aliena dovesse mai trovarla. E anche se il silenzio radio è ora inevitabile per qualche mese, sappiamo che laggiù, oltre i confini del nostro Sistema Solare, c’è ancora una piccola nave solitaria che continua a puntare la sua fragile antenna verso casa.

E finché quella flebile voce continuerà a parlarci, anche solo con un battito meccanico di propulsori ritrovati, non saremo mai davvero soli nell’Universo.

Fonte: NASA JPL

Titano sotto la lente di Webb: nuvole di metano

Le immagini di Titano sono state riprese dal James Webb Space Telescope l’11 luglio 2023 (in alto) e dal telescopio terrestre Keck il 14 luglio 2023 (in basso). Mostrano nuvole di metano (indicate dalle frecce bianche) a diverse altitudini nell’emisfero nord. A sinistra, le immagini a colori mostrano l’atmosfera e la superficie. I colori rappresentano diverse lunghezze d’onda dell’infrarosso: Webb ha evidenziato luce a 1.4 µm (blu), 1.5 µm (verde) e 2.0 µm (rosso), mentre Keck ha utilizzato rispettivamente 2.13 µm, 2.12 µm e 2.06 µm. Al centro, le immagini a 2.12 µm rivelano emissioni dalla bassa troposfera, dove si formano le nubi più basse. A destra, le immagini a lunghezze d’onda più sensibili agli strati superiori (Webb a 1.64 µm, Keck a 2.17 µm) mostrano nubi più alte nella troposfera superiore e nella stratosfera. Il confronto dimostra che, tra l’11 e il 14 luglio, le nubi si sono spostate verso altitudini più elevate, segno di un moto ascensionale nell’atmosfera di Titano. Crediti immagine: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.

Un team internazionale di scienziati ha recentemente gettato nuova luce sull’affascinante atmosfera di Titano, la più grande luna di Saturno. Grazie ai dati combinati del telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA James Webb Space Telescope) e del telescopio terrestre Keck II (W. M. Keck Observatory), gli astronomi hanno osservato per la prima volta fenomeni di convezione nuvolosa nell’emisfero nord di Titano, proprio dove si concentrano la maggior parte dei suoi laghi e mari di idrocarburi.

Un meteo alieno, ma sorprendentemente familiare

Titano è l’unico altro luogo del Sistema Solare che presenta un clima simile a quello terrestre, nel senso che ha nuvole e precipitazioni che raggiungono la superficie,” ha spiegato Conor Nixon del Goddard Space Flight Center della NASA, autore principale dello studio.

A differenza della Terra, dove il ciclo climatico è dominato dall’acqua, su Titano l’elemento chiave è il metano (CH₄). A temperature prossime ai -180 °C, il metano evapora dalle superfici liquide, si condensa in atmosfera e cade sotto forma di una pioggia fredda e oleosa su un terreno in cui il ghiaccio d’acqua è duro come la roccia.

Le osservazioni, condotte nel novembre 2022 e nel luglio 2023, hanno mostrato formazioni nuvolose alle medie e alte latitudini settentrionali, proprio nell’estate boreale di Titano. I dati suggeriscono che le nuvole si stiano sollevando verso altitudini maggiori nel corso dei giorni, segno di attività convettiva. Questa è una scoperta cruciale, poiché i laghi e i mari del nord, ricchi di metano ed etano, rappresentano una potenziale fonte di rifornimento per l’atmosfera.

La troposfera di Titano: un mondo espanso

Mentre sulla Terra la troposfera si estende fino a circa 12 km di altitudine, su Titano, grazie alla sua bassa gravità, questa fascia atmosferica raggiunge i 45 km. Usando filtri infrarossi differenti, Webb e Keck sono riusciti a sondare vari strati dell’atmosfera e a stimare l’altitudine delle nubi osservate. Tuttavia, non sono state rilevate precipitazioni dirette durante le osservazioni.

Le osservazioni del Webb sono state effettuate alla fine dell’estate boreale di Titano, una stagione che non abbiamo potuto studiare durante la missione Cassini-Huygens,” ha sottolineato Thomas Cornet dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), co-autore dello studio. “Insieme alle osservazioni da Terra, Webb ci sta offrendo preziose nuove informazioni sull’atmosfera di Titano, che speriamo di esplorare più da vicino con una futura missione ESA nel sistema di Saturno.

Le immagini di Titano sono state riprese dal James Webb Space Telescope l’11 luglio 2023 (in alto) e dal telescopio terrestre Keck il 14 luglio 2023 (in basso). Mostrano nuvole di metano (indicate dalle frecce bianche) a diverse altitudini nell’emisfero nord.
A sinistra, le immagini a colori mostrano l’atmosfera e la superficie. I colori rappresentano diverse lunghezze d’onda dell’infrarosso: Webb ha evidenziato luce a 1.4 µm (blu), 1.5 µm (verde) e 2.0 µm (rosso), mentre Keck ha utilizzato rispettivamente 2.13 µm, 2.12 µm e 2.06 µm.
Al centro, le immagini a 2.12 µm rivelano emissioni dalla bassa troposfera, dove si formano le nubi più basse.
A destra, le immagini a lunghezze d’onda più sensibili agli strati superiori (Webb a 1.64 µm, Keck a 2.17 µm) mostrano nubi più alte nella troposfera superiore e nella stratosfera.
Il confronto dimostra che, tra l’11 e il 14 luglio, le nubi si sono spostate verso altitudini più elevate, segno di un moto ascensionale nell’atmosfera di Titano.
Crediti immagine: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.
Il James Webb Space Telescope (11 luglio 2023) e il telescopio Keck (14 luglio 2023) hanno ripreso nuvole di metano a diverse altitudini nell’emisfero nord di Titano (frecce bianche). Sinistra: immagini a colori combinati mostrano atmosfera e superficie. Centro: immagini a 2.12 µm evidenziano nubi nella bassa troposfera. Destra: emissioni a 1.64 µm (Webb) e 2.17 µm (Keck) rivelano nubi a quote più alte, salite nei tre giorni tra le osservazioni. Crediti: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.

I segreti chimici di Titano

Titano continua a suscitare grande interesse astrobiologico per la sua complessa chimica organica. Nonostante il gelo estremo, la sua atmosfera è un laboratorio naturale di reazioni che coinvolgono molecole contenenti carbonio, le stesse alla base della vita sulla Terra.

Il metano, in particolare, gioca un ruolo centrale: viene scomposto dalla luce solare o dagli elettroni energetici intrappolati nella magnetosfera di Saturno, producendo etano (C₂H₆) e molecole più complesse.

Per la prima volta, il telescopio Webb ha rilevato con certezza la presenza del radicale metile (CH₃), un elemento chiave di queste reazioni. Questo radicale, dotato di un elettrone libero, si forma proprio quando il metano si rompe.

È come vedere la torta mentre sta ancora cuocendo nel forno, invece di limitarsi a osservare solo la farina e lo zucchero all’inizio e la torta decorata alla fine,” ha commentato Stefanie Milam del Goddard Space Flight Center, co-autrice dello studio.

Il destino atmosferico di Titano

Questa intensa attività chimica ha conseguenze importanti sul lungo termine. Una parte dell’idrogeno prodotto dalla dissociazione del metano si perde nello spazio, riducendo progressivamente la quantità di metano disponibile. Se non esistono fonti interne in grado di rifornire l’atmosfera, come emissioni dalla crosta o dall’interno del satellite, Titano è destinato a diventare un mondo secco e polveroso, non troppo dissimile da ciò che è accaduto a Marte con la perdita di gran parte della sua acqua.

Su Titano il metano è un consumabile. È possibile che venga costantemente rifornito e risalga dalla crosta e dall’interno del satellite nel corso di miliardi di anni. Altrimenti, un giorno scomparirà del tutto e Titano diventerà un mondo per lo più privo di atmosfera, dominato da polveri e dune,” ha concluso Nixon.

Le osservazioni fanno parte del programma Guaranteed Time Observations guidato da Heidi Hammel e sono state pubblicate sulla rivista Nature Astronomy.

Addio a GSAT0104: il primo satellite Galileo a concludere la sua missione

Galileo è la più grande costellazione satellitare europea e il sistema di navigazione satellitare più preciso al mondo, in grado di fornire una precisione di posizionamento al livello del metro a circa quattro miliardi di utenti in tutto il pianeta. Attualmente è composta da 28 satelliti distribuiti su tre piani orbitali, garantendo che almeno quattro satelliti siano sempre visibili da qualsiasi punto della Terra. Credito immagine: ESA – F. Zonno
Ogni anno, i partner del programma Galileo valutano lo stato e l’efficacia dei satelliti più anziani, decidendo se prolungarne l’operatività di un ulteriore anno o procedere alla dismissione, trasferendoli su un’orbita più alta e sicura e spegnendoli definitivamente. Questo processo contribuisce a mantenere l’orbita pulita, in linea con l’impegno dell’ESA per la riduzione dei detriti spaziali.
Credito immagine: ESA

Il 12 marzo 2013, il satellite GSAT0104, insieme ai suoi compagni della fase di Validazione in Orbita (In-Orbit Validation, IOV), segnava un momento storico: per la prima volta, una posizione terrestre veniva determinata utilizzando esclusivamente il sistema di navigazione satellitare europeo Galileo. Oggi, dopo 12 anni di onorato servizio, GSAT0104 entra nuovamente nella storia diventando il primo satellite della costellazione Galileo a essere ufficialmente dismesso.

Una costellazione in continua evoluzione

Galileo rappresenta un’infrastruttura pubblica cruciale per l’Europa e il mondo, progettata per offrire servizi di navigazione affidabili e continui per decenni. In questo contesto, il decommissioning — ovvero la dismissione controllata dei satelliti giunti a fine vita — è tanto importante quanto il lancio di nuovi veicoli spaziali.

Nel 2023, per la prima volta, l’Agenzia dell’Unione Europea per il Programma Spaziale (EUSPA), l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e la Commissione Europea hanno stabilito il ritiro di un satellite Galileo. Le operazioni per GSAT0104 sono iniziate a marzo 2024 e si sono concluse ad aprile 2025.

Attualmente, la costellazione continua a garantire prestazioni elevate con satelliti operativi in tutte le posizioni principali, supportati da tre satelliti di riserva attivi. Inoltre, sei nuovi satelliti di Prima Generazione sono pronti al lancio, mentre dodici satelliti di Seconda Generazione sono in fase di sviluppo, a testimonianza di un sistema in costante aggiornamento.

Spazio sostenibile: una priorità per l’ESA

L’ESA ha fatto della sostenibilità spaziale una delle sue missioni centrali, impegnandosi a ridurre l’inquinamento orbitale e a prevenire la formazione di nuovi detriti. Questo obiettivo si traduce in pratiche di progettazione sostenibile, rigorose politiche di mitigazione dei detriti e protocolli di fine vita per i satelliti.

Quando un satellite Galileo termina il suo servizio operativo, viene trasferito in un’orbita sicura più elevata, chiamata “orbita cimitero”, situata almeno 300 km sopra la costellazione attiva. Qui, il satellite viene “passivato”, ovvero vengono eliminate tutte le fonti di energia residue per garantire la sua stabilità a lungo termine.

Nel caso di GSAT0104, grazie alle riserve di propellente ancora disponibili, è stato possibile posizionarlo ben 700 km sopra la costellazione operativa, su un’orbita altamente stabile. Successivamente, il serbatoio è stato svuotato e le batterie completamente scaricate. Le future dismissioni seguiranno la stessa procedura, variando leggermente le altitudini per mantenere distanze di sicurezza tra i satelliti non più operativi.

Perché è importante fare “ordine” nello spazio

La gestione accurata della costellazione Galileo non è solo una questione di sostenibilità ambientale, ma anche di efficienza operativa. “Abbiamo bisogno di mantenere le orbite libere e sicure per supportare il continuo rinnovamento della flotta. Solo una costellazione sana può garantire prestazioni ottimali e servizi affidabili per miliardi di utenti in tutto il mondo”, spiega Riccardo Di Corato, responsabile dell’Unità Analisi della Costellazione Galileo.

Ogni satellite ha una vita operativa prevista: 12 anni per quelli di Prima Generazione e 15 anni per quelli di Seconda Generazione. Ogni anno, i partner del programma valutano lo stato dei satelliti più anziani, decidendo se estenderne l’operatività o procedere alla dismissione.

“È fondamentale rimuovere i satelliti prima che i sistemi critici — come il controllo dell’assetto, i propulsori e le comunicazioni — smettano di funzionare correttamente. Se siamo sicuri che la dismissione potrà avvenire in sicurezza in un secondo momento, ne estendiamo l’uso il più possibile”, aggiunge Di Corato.

L’ultimo servizio di GSAT0104

Lanciato il 12 ottobre 2012 dalla base europea di Kourou, nella Guyana Francese, GSAT0104 è stato il quarto e ultimo satellite della fase IOV. Proprio grazie a lui, è stato possibile determinare per la prima volta una posizione a terra usando esclusivamente i satelliti Galileo.

Dopo anni di servizio nella navigazione, un guasto all’antenna L-band lo ha portato a essere assegnato principalmente alle attività di Ricerca e Soccorso (Search and Rescue). Nel 2021, è stato spostato da una posizione primaria a una di riserva per fare spazio ai nuovi satelliti entrati in funzione nell’aprile 2024.

Ancora una volta, GSAT0104 ha svolto un ruolo pionieristico: la sua dismissione ha stabilito un modello di riferimento per le future operazioni di fine vita della costellazione, offrendo un prezioso bagaglio di esperienza che sarà fondamentale negli anni a venire.

Gli altri tre satelliti IOV continueranno a operare almeno fino a ottobre 2025, con due di essi già oltre la vita operativa prevista, ma ancora perfettamente funzionanti. Le prestazioni del sistema Galileo sono monitorate in modo indipendente dal Galileo Reference Centre (GRC) e consultabili tramite il GNSS Service Centre (GSC).

Galileo: il sistema di navigazione più preciso al mondo

Dal 2017, Galileo è ufficialmente in Open Service e serve oltre quattro miliardi di utenti nel mondo. Tutti gli smartphone venduti nell’Unione Europea sono compatibili con il sistema, che fornisce servizi essenziali anche nei settori del trasporto ferroviario e marittimo, nell’agricoltura di precisione, nei servizi finanziari e nelle operazioni di emergenza e soccorso.

Galileo è un programma di punta dell’Unione Europea, gestito e finanziato dalla Commissione Europea. L’ESA ne cura lo sviluppo e la progettazione, mentre EUSPA coordina la gestione operativa e la fornitura dei servizi. Con un occhio sempre rivolto al futuro, le attività di ricerca e sviluppo proseguono nell’ambito del programma Horizon Europe, per garantire che Galileo continui a rappresentare l’eccellenza europea nella navigazione satellitare.

Fonte: ESA

LUGO: Esplorare i Misteri Geologici della Luna

Nuove Prospettive sulla Geologia Lunare per l’Esplorazione Umana

Nonostante decenni di esplorazioni spaziali e missioni robotiche, la Luna continua a custodire misteri geologici irrisolti. Due tra i più affascinanti sono gli Irregular Mare Patches (IMPs) e i presunti tunnel di lava sotterranei, strutture che potrebbero rivoluzionare la nostra comprensione dell’evoluzione termica del nostro satellite e aprire nuove prospettive per la futura colonizzazione umana. È con questi obiettivi che nasce il progetto LUnar Geology Orbiter (LUGO), un’iniziativa proposta nell’ambito del programma Open Space Innovation Platform (OSIP) dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) (esa.int).

IMPs: Le Enigmatiche Formazioni Vulcaniche

Gli IMPs sono tra le strutture vulcaniche più misteriose della superficie lunare, localizzate principalmente sul lato visibile del nostro satellite. Scoperte per la prima volta nel 1971 dall’astronomo E.A. Whitaker durante l’analisi delle immagini della missione Apollo 15, queste formazioni presentano depressioni di forma irregolare, caratterizzate da colline lisce e circondate da terreni accidentati e rocciosi.

Nonostante siano noti da oltre cinquant’anni, l’origine e l’età di queste strutture restano oggetto di dibattito. Alcuni studi ne collocano la formazione circa 3,5 miliardi di anni fa, mentre altri suggeriscono che siano sorprendentemente giovani, con meno di 100 milioni di anni. Se quest’ultima ipotesi fosse confermata, metterebbe seriamente in discussione le attuali teorie sull’evoluzione termica della Luna.

I Tunnel di Lava: Rifugi Naturali per la Vita Umana sulla Luna?

Un altro tema centrale del progetto LUGO è la ricerca di tunnel di lava sotterranei, strutture vuote formatesi durante antichi episodi di attività vulcanica. Queste cavità potrebbero rappresentare rifugi naturali per future basi lunari, offrendo protezione da radiazioni cosmiche, micrometeoriti e sbalzi termici estremi. Inoltre, potrebbero nascondere risorse preziose, come riserve d’acqua sotto forma di ghiaccio.

Sebbene la loro esistenza sia stata ipotizzata per decenni e alcuni crolli superficiali sembrino confermare la loro presenza, le dimensioni, la frequenza e le caratteristiche fisiche di questi tunnel restano largamente sconosciute.

Gli Strumenti di LUGO

Per affrontare queste sfide scientifiche, la missione LUGO prevede un carico strumentale altamente tecnologico, comprendente:

  • Radar Penetrante (GPR): Operante tra 15 e 30 MHz, permetterà di indagare la struttura stratigrafica del sottosuolo fino a diversi metri di profondità.
  • Telecamera a Stretta Angolazione (NAC): Con una risoluzione superiore ai 25 cm per pixel, offrirà immagini dettagliate delle superfici degli IMPs e delle aree candidate alla presenza di tunnel di lava.
  • Telecamera Iperspettrale (HSC): Coprendo uno spettro da 500 a 1650 nm, aiuterà a determinare la composizione mineralogica delle aree osservate.
  • LiDAR a Singolo Fotone: Operante a 1550 nm, sarà fondamentale per la creazione di mappe tridimensionali ad altissima precisione delle superfici osservate.

Prospettive Future

I dati ottenuti da LUGO supporteranno progetti di esplorazione più ambiziosi, come la missione DIMPLE della NASA (nasa.gov), destinata a sbarcare direttamente su un IMP per datare con precisione queste affascinanti strutture.

Fonte: ScienceDirect

AT2024tvd: Il Primo TDE Off-Nuclear Scoperto da Indagini Ottiche

Crediti: Zwicky Transient Facility (ZTF)

Un team internazionale di astronomi ha recentemente annunciato la scoperta di AT2024tvd, il primo evento di distruzione mareale (Tidal Disruption Event, TDE) off-nuclear rilevato grazie a survey ottiche di ampio campo. L’evento è stato inizialmente identificato dalla Zwicky Transient Facility (ZTF) presso il Palomar Observatory e successivamente confermato tramite osservazioni multi-banda, tra cui i telescopi spaziali Hubble Space Telescope (HST), Chandra X-ray Observatory, e il radiotelescopio Very Large Array (VLA).

Un TDE Lontano dal Nucleo Galattico

AT2024tvd è stato rilevato per la prima volta il 25 agosto 2024 con una magnitudine gZTF = 19.68 ± 0.23, nell’ambito del programma ad alta cadenza della ZTF. Ma ciò che ha destato l’interesse della comunità scientifica è stata la sua posizione: l’evento si trova a 0.914 ± 0.010 arcosecondi dal centro del bulge galattico della sua galassia ospite, una distanza proiettata di circa 0.808 ± 0.009 kiloparsec.

Questo offset è stato confermato con precisione dal Hubble Space Telescope, mentre osservazioni radio del VLA hanno identificato un’emissione radio coincidente con la posizione del TDE, consolidando l’interpretazione di un evento realmente fuori dal centro galattico.

Caratteristiche Spettrali e Osservazioni Multi-Banda

L’evento è stato successivamente classificato come TDE da S. Faris et al. (2024), grazie alla presenza di ampie linee di idrogeno e possibili tracce di elio nello spettro, oltre a una persistente emissione ultravioletta. Tuttavia, un’analisi più approfondita ha messo in dubbio la presenza chiara delle linee di elio.

Lo spettro UV ottenuto con HST presenta forti somiglianze con quello del noto TDE ASASSN-14li, con linee larghe di Lyα, N V, Si IV, C IV, He II e N III], che confermano l’origine del fenomeno.

In banda X, le osservazioni con Swift/XRT e Chandra hanno mostrato un’emissione soffice con temperature del disco comprese tra 0.1 e 0.2 keV e luminosità X intorno a 10⁴³ erg/s, tipiche dei TDE. È stata osservata anche una significativa variabilità su scale temporali di ore, simile a quella di TDE noti come AT2022lri.

Al tempo t = 105 giorni dalla scoperta, l’emissione radio misurata dal VLA a 10 GHz ha mostrato una luminosità di L₁₀GHz ≈ 3 × 10³⁸ erg/s, compatibile con TDE radio-brillanti non associati a getti, come ASASSN-15oi e AT2019dsg.

La Galassia Ospite e la Massa dei Buchi Neri Coinvolti

La galassia ospite è una galassia lenticolare di massa elevata, con una massa stellare stimata in log(M_gal/M_☉) = 10.93 ± 0.02 e una dispersione stellare σ = 192.74 ± 5.11 km/s, misurata dallo Sloan Digital Sky Survey (SDSS).

Applicando la relazione M-σ di J. E. Greene et al. (2020), la massa del buco nero centrale è stata stimata in log(M_BH/M_☉) ≈ 8.37 ± 0.08 (stat) ± 0.43 (sys), ovvero circa 2 × 10⁸ M_☉. Tuttavia, il buco nero associato a AT2024tvd è molto meno massivo. L’analisi dei dati con il modello MOSFiT suggerisce una massa compresa tra 10⁵ e 10⁷ M_☉, con un valore più probabile attorno a 10⁶ M_☉.

Origine dell’Evento: Merger Minori o Interazioni Gravitazionali?

Due sono le ipotesi principali per spiegare la posizione off-nuclear di AT2024tvd:

  1. Residuo di un Merger Minore: Il buco nero associato a AT2024tvd potrebbe provenire dal centro di una galassia nana cannibalizzata. In questo scenario, il buco nero secondario non è ancora spiralizzato verso il centro a causa di un lungo tempo scala associato alla frizione dinamica. Simulazioni cosmologiche (Ricarte et al., 2021b) suggeriscono che nei grandi aloni galattici (con masse fino a 10¹³ M_☉) si possono trovare decine di questi buchi neri vaganti.

  2. Slingshot Gravitazionale da un Sistema Triplo: In questo scenario, il buco nero è stato espulso da interazioni dinamiche tra tre MBH, ricevendo una “spinta” gravitazionale che lo ha collocato nella posizione osservata.

La terza ipotesi, quella di un recoil gravitazionale successivo alla fusione di due MBH, è stata esclusa per l’evidenza della presenza di un MBH ancora attivo nel nucleo galattico.

AT2024tvd: Un Caso Unico tra i TDE Off-Nuclear

Finora, solo due altri eventi TDE off-nuclear sono stati documentati: 3XMM J2150 e EP240222a, entrambi scoperti nei raggi X. A differenza di questi casi, AT2024tvd è stato identificato grazie a survey ottiche e si trova all’interno del bulge della galassia, non nei suoi esterni.

La posizione ravvicinata al centro galattico e la massa stimata del buco nero coinvolto suggeriscono che questo evento rappresenti una popolazione distinta di buchi neri erranti, meno massicci e localizzati più vicino ai centri delle galassie ospiti.

Prospettive Future

La scoperta di AT2024tvd apre nuovi orizzonti nello studio dei buchi neri erranti e nella comprensione delle dinamiche di fusione galattica. Con l’arrivo dell’Osservatorio Vera C. Rubin e la sua Legacy Survey of Space and Time (LSST), dotata di una precisione astrometrica di 10 milliarcosecondi e una profondità fino a r ≈ 24.5 mag, si prevede la scoperta di molti nuovi TDE off-nuclear.

Questi eventi forniranno importanti vincoli sui tassi di fusione dei buchi neri supermassicci e sull’efficienza dei meccanismi di frizione dinamica, contribuendo in modo significativo alla nostra comprensione dell’evoluzione delle galassie e delle loro componenti più enigmatiche.

Fonte: ArXiv

Roman Space Telescope alla Scoperta dei Pianeti Erranti

Roman Space Telescope. Crediti: NASA

I pianeti liberi, o free-floating planets (FFPs), rappresentano una delle popolazioni più misteriose di esopianeti nella nostra Galassia. Questi mondi vagano nello spazio interstellare senza essere legati a una stella, rendendoli difficili da osservare. Tuttavia, grazie alla prossima missione della NASA, il Nancy Grace Roman Space Telescope, questa situazione è destinata a cambiare.

Un Censimento dei Mondi Perduti

Secondo lo studio di Scott Perkins, William DeRocco e colleghi, il telescopio Roman, con il suo programma Galactic Bulge Time Domain Survey (GBTDS), potrebbe rilevare centinaia, se non migliaia, di questi oggetti durante i suoi cinque anni di missione. Roman sfrutterà la tecnica del microlensing gravitazionale, l’unica in grado di individuare pianeti che non emettono luce propria.

Le simulazioni indicano che Roman sarà in grado di migliorare le attuali stime sulla quantità di FFP di sei ordini di grandezza per masse inferiori a quella terrestre. Questo significa che i dati raccolti permetteranno per la prima volta di ricostruire la distribuzione delle masse di questi oggetti, fornendo preziose informazioni sulla loro origine.

Come Nascono i Pianeti Erranti?

Le teorie principali suggeriscono due meccanismi di formazione:

  • Collasso diretto delle nubi di gas, tipico degli oggetti più massicci (oltre 300 masse terrestri).
  • Espulsione dinamica dai sistemi planetari durante le prime fasi di formazione, un fenomeno che riguarda in particolare i pianeti con massa inferiore a 10 masse terrestri.

Misurare la distribuzione delle masse degli FFP aiuterà a capire quale di questi processi sia prevalente e in quale fase della storia della Galassia si siano verificati.

I Numeri del Censimento Roman

Lo studio, basandosi su diverse ipotesi di distribuzione delle masse, ha stimato il numero di FFP che Roman potrà rilevare:

Massa del pianeta (in masse terrestri) N. eventi attesi (MOA) N. eventi attesi (Coleman & DeRocco) N. eventi attesi (Distribuzione uniforme)
< 0.1 266 1 2
1 1537 6 13
10 1497 22 58
100 526 136 214
1000 87 10 2799
Totale 4184 272 6197

Le differenze fra i modelli evidenziano quanto sia ancora incerta la nostra comprensione di questa popolazione. Il modello MOA prevede una netta predominanza di FFP di massa terrestre, mentre i modelli teorici di Coleman & DeRocco (2025) suggeriscono un picco di eventi attorno a 8 masse terrestri, legato ai meccanismi di migrazione planetaria nei sistemi binari.

Una Sfida Osservativa Senza Precedenti

La tecnica del microlensing pone notevoli difficoltà: i segnali durano poche ore e spesso mancano di informazioni sufficienti per stimare direttamente la massa dei pianeti. Tuttavia, come spiegano gli autori, “l’analisi statistica su vasta scala permetterà comunque di distinguere tra diverse ipotesi sulla distribuzione delle masse con elevata significatività statistica”.

Il team ha sviluppato un innovativo metodo di analisi basato su simulazioni avanzate e tecniche bayesiane, sfruttando anche le risorse del centro di calcolo Advanced Research Computing at Hopkins (ARCH).

Il Futuro della Ricerca sui Mondi Vaganti

Il telescopio Roman rappresenta una vera svolta: per la prima volta sarà possibile studiare i pianeti erranti in modo sistematico e comprendere il loro ruolo nell’evoluzione dei sistemi planetari. Come sottolinea il team, “questi dati permetteranno di aprire una nuova finestra sull’origine di questi mondi solitari e sui processi che governano la formazione planetaria nell’intera Galassia”.

Fonte: ArXiv

Quanto è Spessa la Crosta di Venere?

Un recente studio guidato da Alexandra Plesa e colleghi, pubblicato nel 2024, ha finalmente posto nuovi vincoli sulla composizione e lo spessore massimo della crosta di Venere, uno dei pianeti più enigmatici del Sistema Solare. Il lavoro è frutto di una collaborazione tra il German Aerospace Center (DLR), l’Università di Münster, e l’ETH di Zurigo.

Un Pianeta di Fuoco e Mistero

Venere è avvolto da una densa atmosfera (circa 92 bar) che mantiene la sua superficie a temperature estreme, superiori ai 460 °C. Le sue vaste pianure vulcaniche, datate a meno di un miliardo di anni, e i segnali di attività vulcanica in corso, sollevano interrogativi cruciali sulla struttura della sua crosta e sulle dinamiche interne.

Quanto può Crescere la Crosta di Venere?

Utilizzando modelli petrologici basati su transizioni metamorfiche e condizioni di fusione parziale, il team ha stimato che lo spessore massimo della crosta di Venere è fortemente legato al gradiente termico:

  • Con un basso gradiente termico di 5 °C/km (tipico di un regime tettonico stagnante), la crosta può raggiungere al massimo 40 km di spessore prima che l’elevata densità inneschi un processo di delaminazione, ovvero il distacco e l’affondamento degli strati più profondi nel mantello.
  • Con un alto gradiente termico di 25 °C/km (associato a un regime tettonico più mobile), lo spessore massimo scende a circa 20 km a causa dell’avvio della fusione parziale che favorisce l’attività vulcanica.
  • Il valore massimo assoluto di spessore per una crosta basaltica si raggiunge con un gradiente intermedio di 10 °C/km, arrivando fino a 65 km.

Secondo gli autori, “la crosta basaltica venusiana non può superare uno spessore compreso tra 20 e 65 km senza innescare processi di delaminazione o fusione, con conseguente riciclo crostale o eruzioni vulcaniche”.

Un Pianeta in Equilibrio Instabile

Le simulazioni mostrano che le variazioni nella composizione della crosta e nella quantità di volatili (acqua e CO₂) giocano un ruolo marginale, poiché l’attuale litosfera venusiana è considerata prevalentemente secca. Le transizioni mineralogiche verso assemblaggi più densi (dominati da granato e pirosseni) causano un rapido aumento della densità con la profondità, limitando la possibilità di sostenere croste più spesse.

Il team ha anche confrontato le proprie stime con i dati di missioni storiche come Venera e Vega, che indicano la presenza di basalti tholeiitici e alcalini sulla superficie. Tuttavia, non sono state rilevate prove definitive di rocce più leggere e ricche di silice (simili ai graniti terrestri), che potrebbero giustificare spessori maggiori in alcune aree.

Cosa Significa per la Tectonica di Venere?

Questo studio fornisce forti indizi sul fatto che Venere non sia mai stato dominato da una tettonica a placche simile a quella terrestre, ma piuttosto da cicli intermittenti di attività geologica intensificata, con lunghi periodi di quiete. I risultati sono compatibili con un regime definito come episodic-lid, dove la litosfera passa ciclicamente da fasi stabili a eventi catastrofici di riciclo crostale.

Prospettive Future

Le missioni di prossima generazione, come NASA VERITAS e ESA EnVision, forniranno nuovi dati geofisici e spettroscopici per testare le previsioni di questo modello. Come sottolineano gli autori, “comprendere la storia termica e geodinamica di Venere è essenziale per svelare le condizioni che distinguono un pianeta vulcanicamente attivo da uno potenzialmente abitabile come la Terra”.

Fonte: Nature

58º Congresso Nazionale dell’Unione Astrofili Italiani

Nei giorni 9 – 10 – 11 maggio, sotto il cielo stellato partenopeo, gli appassionati di astronomia si riuniranno come costellazioni in un firmamento di sapere e passione per il 58º Congresso Nazionale dell’Unione Astrofili Italiani (UAI).

Questo evento di rara bellezza è un faro splendente per la comunità astronomica, un’occasione per abbracciarsi, condividere esperienze celestiali, e intrecciare nuove idee come fili d’oro nel tessuto dell’universo. Il congresso avrà luogo presso l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte a Napoli, un tempio di scienza e meraviglia sotto il manto azzurro del cielo partenopeo.

La scelta di questa cornice prestigiosa è un tributo alla grandezza dell’evento e offre l’opportunità di attingere alle fonti di sapere di una delle istituzioni scientifiche più illustri d’Italia. L’evento si arricchirà della collaborazione dell’Unione Astrofili Napoletani (UAN), una delle gemme tra le delegazioni dell’UAI. Il loro contributo sarà il vento sotto le ali di questo incontro, grazie alla loro esperienza e alla loro intima conoscenza del territorio. La collaborazione tra l’Unione Astrofili Napoletani e l’Unione Astrofili Italiani è un esempio di come le organizzazioni locali e nazionali possano lavorare insieme per raggiungere obiettivi comuni, promuovendo la cultura scientifica e l’amore per l’astronomia in tutta Italia.

Il Congresso Nazionale dell’UAI si conferma, anche in questa edizione, come un appuntamento irrinunciabile per chi sogna di contribuire all’evoluzione dell’astronomia in Italia. Non mancare a questo viaggio tra le stelle!

In bocca al lupo a tutti!

ShaRA@ Team Party #2

A due anni dal primo ritrovo fisico del Team ShaRA, la storia si ripete! Il prolifico ed attivissimo gruppo di astrofotografi remoti capitanati dall’astrofilo Alessandro Ravagnin, si ritroverà ai piedi del grande telescopio nazionale Galileo, dell’Osservatorio Astrofisico di Asiago, per il secondo meeting in presenza. Sarà un’occasione per incontrarsi dal vivo e ripercorrere tutti assieme la strada percorsa finora, confrontandosi su temi di interesse comune e parlando coi professionisti dell’astronomia.
Il programma prevede una visita guidata all’Osservatorio, un workshop dove interverranno Luca Fornaciari, Molisella Lattanzi e Stefano Ciroi (Professore Associato presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia “Galileo Galilei” dell’Università di Padova), la cena a base di prodotti locali dell’Altopiano e quindi una chiusura in bellezza sotto la cupola del Galileo per una sessione di riprese spettroscopiche.
 
Sarà una bellissima occasione per darsi nuovamente la mano nonché conoscere i nuovi entrati nel gruppo!

Kepler-10: un sistema planetario antico che potrebbe ospitare un mondo d’acqua

Autori principali: A. S. Bonomo, L. Malavolta, V. Nascimbeni, R. F. Díaz, M. Damasso e collaboratori.
Istituti coinvolti: INAF – Osservatorio Astrofisico di Torino, Telescopio Nazionale Galileo.


Situato a circa 186 parsec di distanza nella costellazione del Drago, il sistema planetario Kepler-10 orbita attorno a una stella vecchia di oltre 10 miliardi di anni. Grazie a un’osservazione paziente durata 11 anni e condotta principalmente con lo spettrografo HARPS-N montato sul Telescopio Nazionale Galileo, un team internazionale ha potuto ottenere nuove misure di massa e densità per i pianeti noti del sistema, e ha identificato un nuovo candidato non in transito, Kepler-10d. I risultati arricchiscono la nostra comprensione della formazione ed evoluzione dei piccoli pianeti intorno alle stelle di tipo solare.

Un pianeta roccioso e un potenziale mondo d’acqua

Kepler-10b, il pianeta più interno, completa un’orbita in meno di un giorno terrestre. Con un raggio di 1,47 raggi terrestri e una massa di 3,24 ± 0,32 masse terrestri, si conferma come una super-Terra rocciosa, simile per densità alla Terra, ma priva di un grande nucleo ferroso. Il suo ambiente è estremamente ostile: l’equilibrio termico di superficie supera i 2000 K, rendendo improbabile la presenza di atmosfera.

Kepler-10c, invece, ha attirato particolare attenzione: con un raggio di 2,35 raggi terrestri e una massa di 11,29 ± 1,24 masse terrestri, presenta una densità di 4,75 g/cm³. Questa combinazione di massa e volume non si adatta a un pianeta roccioso puro né a un gigante gassoso, ma suggerisce la presenza di una quantità significativa di acqua o ghiaccio. Kepler-10c potrebbe quindi rappresentare uno dei rari “mondi d’acqua” identificati fino a oggi, con una percentuale d’acqua stimata tra il 40% e il 70% della sua massa.

La posizione orbitale di Kepler-10c, ben al di fuori dalla “valle dei raggi” che separa i pianeti rocciosi da quelli dominati da volatili, rafforza l’ipotesi di una formazione oltre la linea del ghiaccio, con successiva migrazione verso l’interno del sistema.

Un nuovo pianeta: Kepler-10d

Oltre ai due pianeti già noti, i ricercatori hanno individuato prove convincenti della presenza di un terzo corpo, Kepler-10d, grazie a un’analisi combinata delle variazioni nei tempi di transito di Kepler-10c (Transit Timing Variations, TTVs) e delle velocità radiali. Questo nuovo pianeta avrebbe una massa minima di 12,00 ± 2,15 masse terrestri e un periodo orbitale di circa 151 giorni.

Anche se Kepler-10d non è stato osservato in transito, la sua massa suggerisce che potrebbe essere simile a Kepler-10c, forse anch’esso ricco d’acqua o dotato di un’atmosfera più densa. L’assenza di un transito è compatibile con una piccola inclinazione orbitale differente rispetto a quella degli altri pianeti, sufficiente a evitare l’allineamento con il nostro punto di osservazione.

Un sistema senza giganti

Un altro aspetto fondamentale dello studio è l’assenza di pianeti giganti nel sistema. L’analisi della sensibilità delle osservazioni ha escluso la presenza di pianeti simili a Giove entro 10 unità astronomiche dalla stella madre. Questa caratteristica è significativa: l’assenza di giganti gassosi suggerisce che i pianeti più piccoli di Kepler-10 abbiano potuto migrare verso le loro orbite attuali senza essere disturbati da masse gravitazionali maggiori, un comportamento coerente con diversi modelli di formazione planetaria.

Un risultato di alta precisione

Gli autori hanno utilizzato diverse tecniche di analisi statistica avanzata, tra cui:

  •  Analisi delle velocità radiali con diversi modelli di rumore;
  • Modellizzazione con algoritmi MCMC e Nested Sampling;
  • Analisi combinata delle TTVs e delle RVs con il codice dinamico TRADES.

Queste metodologie hanno permesso di raggiungere una precisione del 9-10% nella determinazione delle masse planetarie, un risultato raro per pianeti di così piccole dimensioni e periodi orbitali relativamente lunghi.

Implicazioni future

Questo studio non solo migliora la nostra comprensione di Kepler-10, ma dimostra anche l’importanza delle campagne di osservazione a lungo termine per caratterizzare mondi di dimensioni terrestri attorno a stelle simili al Sole. In particolare, sistemi come Kepler-10 rappresentano obiettivi ideali per missioni future come PLATO dell’ESA, che si concentrerà sulla ricerca di pianeti abitabili intorno a stelle solari.

La presenza di un possibile mondo d’acqua nel sistema Kepler-10, a basse temperature rispetto a molti sub-Netuniani noti, fornisce un importante laboratorio naturale per lo studio della diversità planetaria e dei processi di formazione planetaria in ambienti relativamente tranquilli e stabili.

Fonte: arxiv.org

Juno svela cicloni polari ed eruzioni vulcaniche

Questa immagine composita, ottenuta dai dati raccolti nel 2017 dallo strumento JIRAM a bordo della sonda Juno della NASA, mostra il ciclone centrale situato al polo nord di Giove, circondato da otto cicloni più piccoli. I dati della missione indicano che queste tempeste sono strutture persistenti. Crediti: Dati immagine: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS – Elaborazione immagine: Jackie Branc (CC BY)

Nuovi dati raccolti dalla missione Juno della NASA offrono uno sguardo più approfondito sui venti impetuosi e sui cicloni che imperversano nelle regioni settentrionali di Giove, oltre a rivelare dettagli inediti sull’attività vulcanica della sua luna infuocata, Io.

Le scoperte sono state presentate durante la conferenza stampa a Vienna, il 29 aprile, in occasione dell’Assemblea Generale dell’Unione Europea di Geoscienze.

Tutto su Giove è estremo. Il pianeta ospita cicloni polari giganti più grandi dell’Australia, correnti a getto violente, il corpo più vulcanico del nostro sistema solare, le aurore più potenti e le cinture di radiazioni più intense,” ha dichiarato Scott Bolton, principal investigator di Juno presso il Southwest Research Institute a San Antonio. “Man mano che l’orbita di Juno ci porta in nuove regioni del complesso sistema di Giove, otteniamo una visione sempre più ravvicinata dell’immensa energia che questo gigante gassoso sprigiona.

Il “radiatore” lunare

Sebbene il radiometro a microonde (MWR) di Juno sia stato progettato per esplorare sotto le nuvole di Giove, il team ha utilizzato anche questo strumento per osservare Io, integrando i dati con quelli del Jovian Infrared Auroral Mapper (JIRAM), fornito dall’Agenzia Spaziale Italiana.

Il team scientifico di Juno ama combinare set di dati molto diversi tra loro e vedere cosa possiamo scoprire,” ha spiegato Shannon Brown, scienziata di Juno al Jet Propulsion Laboratory della NASA in California. “Quando abbiamo combinato i dati MWR con le immagini infrarosse di JIRAM, siamo rimasti sorpresi da ciò che abbiamo visto: prove di magma ancora caldo, non ancora solidificato, sotto la crosta raffreddata di Io. A ogni latitudine e longitudine, c’erano flussi di lava in fase di raffreddamento.

I dati indicano che circa il 10% della superficie di Io è caratterizzato da questi residui di lava in lento raffreddamento sotto la superficie, offrendo nuovi spunti su come la luna rinnovi rapidamente la sua superficie e su come il calore si muova dal suo interno profondo verso l’esterno.

I vulcani, i campi di lava e i flussi sotterranei di Io funzionano come un radiatore d’auto,” ha aggiunto Brown, “trasportando efficacemente il calore dall’interno alla superficie e raffreddandosi poi nello spazio.

Inoltre, analizzando solo i dati JIRAM, il team ha stabilito che la più energetica eruzione vulcanica della storia di Io, osservata durante il sorvolo del 27 dicembre 2024, risultava ancora attiva fino al 2 marzo 2025. Si prevede che l’attività continui, con ulteriori osservazioni programmate per il 6 maggio, quando Juno sorvolerà Io a una distanza di circa 89.000 chilometri.

Questa immagine composita, ottenuta dai dati raccolti nel 2017 dallo strumento JIRAM a bordo della sonda Juno della NASA, mostra il ciclone centrale al polo nord di Giove e gli otto cicloni che lo circondano. I dati della missione indicano che queste tempeste sono strutture persistenti.
Crediti: NASA/JPL-Caltech/SwRI/ASI/INAF/JIRAM

Temperature polari estreme

Durante il suo 53° orbitale (18 febbraio 2023), Juno ha avviato esperimenti di occultazione radio per analizzare la struttura termica dell’atmosfera di Giove. Utilizzando segnali radio trasmessi dalla Terra verso la sonda e viceversa, attraversando l’atmosfera gioviana, gli scienziati riescono a misurare dettagliatamente la temperatura e la densità.

Finora, Juno ha completato 26 rilevazioni di occultazione radio, rivelando per la prima volta che la calotta stratosferica del polo nord di Giove è circa 11°C più fredda rispetto alle aree circostanti, ed è circondata da venti che superano i 160 km/h.

Cicloni polari in movimento

Anni di osservazioni grazie alla fotocamera visibile JunoCam e a JIRAM hanno permesso agli scienziati di seguire i movimenti a lungo termine del gigantesco ciclone polare nord e degli otto cicloni che lo circondano. A differenza degli uragani terrestri, confinati a latitudini più basse, i cicloni di Giove restano intrappolati nelle regioni polari.

Monitorando i loro movimenti, i ricercatori hanno osservato che ogni ciclone tende a spostarsi lentamente verso il polo attraverso un processo chiamato “beta drift”, che coinvolge l’interazione tra la forza di Coriolis e il pattern circolare dei venti.

Queste forze concorrenti fanno sì che i cicloni rimbalzino l’uno contro l’altro in un modo che ricorda le molle in un sistema meccanico,” ha spiegato Yohai Kaspi, co-investigatore della missione presso il Weizmann Institute of Science in Israele. “Questa interazione non solo stabilizza l’intera configurazione, ma causa anche oscillazioni cicliche attorno alle loro posizioni centrali, mentre lentamente derivano in senso orario attorno al polo.

Il nuovo modello atmosferico sviluppato aiuterà non solo a comprendere meglio i cicloni di Giove, ma potenzialmente anche quelli su altri pianeti, inclusa la Terra.

Una delle grandi qualità di Juno è che la sua orbita è sempre in evoluzione, permettendoci ogni volta un nuovo punto di vista,” ha concluso Bolton. “Nella missione estesa, significa che stiamo esplorando regioni mai raggiunte da altre sonde, attraversando anche le cinture di radiazione più intense del sistema solare. È un po’ spaventoso, ma abbiamo costruito Juno come un carro armato e impariamo di più su questo ambiente estremo a ogni passaggio.

L’articolo completo è pubblicato su Coelum 254


Maggiori informazioni su Juno:

NASA Testa i Guanti di una futura Tuta Spaziale in una Camera Criogenica

Un guanto spaziale progettato per le passeggiate spaziali sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) è pronto per essere testato all'interno di una camera chiamata CITADEL, presso il Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA. I test, condotti a temperature estremamente fredde simili a quelle che gli astronauti della missione Artemis III incontreranno al Polo Sud Lunare, supportano lo sviluppo delle tute spaziali di nuova generazione. Credito: NASA/JPL-Caltech.

 

Preparazione per le Missioni Luna e Marte

Quando gli astronauti della NASA torneranno sulla Luna sotto la campagna Artemis e si spingeranno oltre nel sistema solare, affronteranno condizioni mai sperimentate prima dagli esseri umani. Per garantire che le tute spaziali di nuova generazione proteggano adeguatamente gli astronauti, sono necessari test innovativi. Una camera unica nel suo genere, chiamata CITADEL (Cryogenic Ice Testing, Acquisition Development, and Excavation Laboratory), presso il Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA in California, è diventata un punto di riferimento per questi esperimenti.

Costruita per preparare i potenziali esploratori robotici alle condizioni di basse temperature e bassa pressione degli oceani ghiacciati di mondi come Europa, una delle lune di Giove, la CITADEL è anche utilizzata per valutare come i guanti e gli stivali delle tute spaziali resistano al freddo estremo. Il test dei guanti, promosso dal NASA Engineering and Safety Center, si è svolto dal ottobre 2023 al marzo 2024, mentre il test degli stivali, iniziato dal programma Extravehicular Activity e Human Surface Mobility del Johnson Space Center della NASA a Houston, ha avuto luogo tra ottobre 2024 e gennaio 2025.

Un altro aspetto cruciale per la missione Artemis III è l’esplorazione del Polo Sud Lunare, una regione con condizioni ben più estreme rispetto ai siti equatoriali visitati dalle missioni Apollo. Gli astronauti trascorreranno fino a due ore alla volta all’interno di crateri che potrebbero contenere depositi di ghiaccio, fondamentali per garantire una presenza umana a lungo termine sulla Luna. Queste regioni, chiamate “zone permanentemente in ombra”, sono tra i luoghi più freddi del sistema solare, con temperature che raggiungono i -248°C.

Due ingegneri esaminano un guanto spaziale bianco all’interno di una camera a vuoto etichettata “CITADEL”, in un laboratorio pieno di attrezzature, cavi e pannelli di controllo. Un ingegnere è seduto, regolando il guanto, mentre l’altro osserva da vicino.

Simulazione del Freddo Estremo

La camera CITADEL è progettata per simulare temperature estremamente basse. Utilizzando elio compresso, la camera può raggiungere temperature fino a -223°C, più basse rispetto a quelle delle strutture criogeniche tradizionali che si basano principalmente sull’azoto liquido. Con un’altezza di 1,2 metri e un diametro di 1,5 metri, la camera è abbastanza grande da permettere a una persona di entrarvi.

Uno degli aspetti innovativi della CITADEL sono le “lock chambers”, che consentono di inserire i materiali da testare nel vuoto della camera senza interrompere lo stato criogenico. Questo sistema ha permesso agli ingegneri di fare aggiustamenti rapidi durante i test degli stivali e dei guanti.

Al suo interno, sono presenti anche “Cryocoolers” che raffreddano la camera, e blocchi di alluminio che simulano gli attrezzi che gli astronauti potrebbero afferrare, o la superficie lunare fredda su cui camminerebbero. Inoltre, la camera è dotata di un braccio robotico per interagire con i materiali da testare e di diverse telecamere a luce visibile e infrarossa per monitorare le operazioni.

Uno stivale spaziale per astronauti, parte di un prototipo di tuta lunare della NASA, l’xEMU, è preparato per i test nella CITADEL del JPL. Una spessa lastra di alluminio simula la superficie gelida del Polo Sud Lunare, dove gli astronauti della missione Artemis III affronteranno condizioni più estreme di quelle che gli esseri umani hanno mai sperimentato. Credito: NASA/JPL-Caltech.

Test degli Estremi

Un ingegnere raccoglie campioni simulati di suolo lunare mentre indossa la tuta spaziale Axiom Extravehicular Mobility Unit durante i test al NASA Johnson Space Center alla fine del 2023. I recenti test sui design esistenti delle tute spaziali NASA nella camera CITADEL del JPL supporteranno lo sviluppo delle tute di nuova generazione in costruzione da Axiom Space. Credito: Axiom Space.

I guanti testati nella CITADEL sono la sesta versione di un guanto utilizzato dalla NASA sin dagli anni ’80, parte di una tuta spaziale chiamata “Extravehicular Mobility Unit”. Ottimizzata per le passeggiate spaziali alla ISS, questa tuta è così complessa da essere considerata una sorta di “astronave personale”. I test nella CITADEL a -213°C hanno mostrato che il guanto esistente non soddisfa i requisiti termici necessari per affrontare l’ambiente più impegnativo del Polo Sud Lunare. I risultati del test sugli stivali, che utilizzavano un prototipo di tuta spaziale chiamato “Exploration Extravehicular Mobility Unit”, non sono ancora stati completamente analizzati.

Oltre a individuare le vulnerabilità nelle tute esistenti, gli esperimenti condotti nella CITADEL aiuteranno la NASA a preparare i criteri per metodi di test standardizzati, ripetibili ed economici per la tuta lunare di nuova generazione, costruita dalla Axiom Space. Questo sarà il modello che gli astronauti della NASA indosseranno durante la missione Artemis III.

Sostenibilità a Lungo Periodo

Questo test serve per identificare quali sono i limiti: per quanto tempo un guanto o uno stivale possono resistere nell’ambiente lunare?” afferma Shane McFarland, responsabile dello sviluppo tecnologico del team Advanced Suit presso la NASA Johnson. “Vogliamo quantificare il divario nelle capacità dell’attuale hardware per fornire queste informazioni al fornitore della tuta per Artemis e, allo stesso tempo, sviluppare questa capacità unica di testare i futuri design delle tute spaziali.

I test realizzati con l’ausilio della CITADEL, quindi, non solo forniscono dati cruciali per il miglioramento delle tute spaziali, ma permetteranno di garantire la sicurezza degli astronauti nelle missioni future, affrontando ambienti estremi come quelli che li attendono sulla Luna e, un giorno, su Marte.

Fonti e Link Utili:

La Luna del Mese – Maggio 2025

LA LUNA DI MAGGIO 2025

Analogamente al mese appena trascorso, Maggio si apre con la fase di Primo Quarto che alle ore 15:52 del giorno 4 vedrà il ritorno del nostro satellite nelle migliori condizioni osservative rendendosi ormai visibile nelle più comode ore serali, anche se con l’avanzare della primavera il Sole ritarda sempre più il suo tramonto. Basterà attendere qualche ora e dalle ore 21:00 circa con la Luna ad un’altezza sull’orizzonte intorno ai 60° sarà possibile andare alla ricerca di una immensa varietà di dettagli con crateri di qualsiasi dimensione, scarpate, solchi e vastissimi altipiani alternati ad estese aree solo apparentemente pianeggianti dove, osservando anche ad elevati ingrandimenti, ci si renderà conto che sulla Luna il termine “pianeggiante” assume un significato estremamente relativo. Nella serata ad attirare l’attenzione saranno i monti Caucasus fra i mari Serenitatis e Imbrium unitamente alla parte più settentrionale degli Appennini, i lunghi solchi noti come Hyginus e Ariadaeus e le imponenti e spettacolari strutture crateriformi del settore S-SE dell’altopiano meridionale. Tutte queste, ma oltre a tante altre, verranno a trovarsi in prossimità della linea del terminatore con la concreta possibilità di osservazioni in alta risoluzione in caso di seeing stabile. Infine per completare la serata segnalo che la zona di massima librazione si troverà ad est del grande cratere Humboldt, alla medesima latitudine del vicino Petavius.

Monti lunari Caucasus, visibili in maggio durante il primo quarto.

Solchi Rimae Hyginus e Ariadaeus visibili durante il primo quarto nella mese di maggio.

Giunta la fase crescente al suo capolinea alle ore 18:56 del 12 Maggio col nostro satellite in Plenilunio alla distanza di 407923 km dalla Terra, diametro apparente 29,29’ ma a -16° sotto l’orizzonte, sarà sufficiente attendere le ore 20:35 della medesima serata quando sorgerà in fase di 15 giorni in tutto il suo splendore e pronto a farsi ammirare dagli appassionati con i loro binocoli e/o telescopi fino all’alba del mattino seguente quando scenderà sotto l’orizzonte contestualmente al sorgere del Sole.

Ripartita la fase calante, la Luna traslerà la propria presenza nel cielo progressivamente di sera in sera dalle comode ore tardo pomeridiane e serali fino alle più lontane ore della notte, portandosi di sera in sera prima in Ultimo Quarto alle ore 13:59 del 20 Maggio, successivamente fino al Novilunio delle ore 05:02 del 27 Maggio quando ci apparirà nuovamente in ombra. A proposito di Ultimo Quarto, alle ore 02:09 del 20 Maggio la Luna sorgerà in fase di 22 giorni. Nel caso specifico, anche se mancheranno circa 12 ore all’Ultimo Quarto, potrebbe risultare molto interessante ed anche stimolante l’osservazione al telescopio di strutture quali i crateri Eratosthenes, Copernicus, Kepler e, più a nordovest, lo spettacolare altopiano noto come Aristarchus Plateau. Ripartita dal Novilunio del 27 Maggio la fase crescente, contestualmente ad un ulteriore nuovo ciclo lunare, il mese in corso andrà a terminare con la Luna che intorno alle ore 21:30 del 31 Maggio sarà in fase di 4,7 giorni ad un’altezza di +36°, con alcune ore a disposizione prima che scenda sotto l’orizzonte poco dopo la mezzanotte.

Struttura lunare Aristarchus Plateau
ben visibile nel mese di maggio durante l’ultimo quarto.

Congiunzioni e Occultazioni Notevoli

La seconda parte dell’articolo di Francesco Badalotti, dedicato alla Luna di Maggio, con la descrizione delle Congiunzioni e Occultazioni notevoli, le Falci Lunari, e la tabella delle effemeridi è disponibile per i lettori abbonati alla versione digitale o al cartaceo.

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La Luna del Mese di mAGGIO è pubblicata in Coelum 273

–  Ogni fenomeno lunare e rispettivi orari sono rapportati alla Città di Roma, dati rilevati dai siti https://theskylive.com/http://www.marcomenichelli.it/luna.asp


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Circinus West: Una Nebulosa Oscura che Ospita un Nido di Nuove Stelle

Alcune delle caratteristiche interessanti scoperte nell'ombra celeste conosciuta come la nube molecolare Circinus West. Questa immagine è stata catturata con la Dark Energy Camera (DECam) da 570 megapixel, realizzata dal Dipartimento dell'Energia, una delle fotocamere digitali più potenti al mondo. All'interno dei confini opachi di questa culla stellare, le stelle neonate si accendono dal gas e dalla polvere freddi e densi, mentre i getti espellono il materiale residuo nello spazio.Credito: CTIO/NOIRLab/DOE/NSF/AURA Elaborazione dell'immagine: T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/NSF NOIRLab), D. de Martin & M. Kosari (NSF NOIRLab).

La nube molecolare Circinus West, una zona oscura celeste recentemente catturata dalla potente Dark Energy Camera (DECam), rappresenta uno degli obiettivi più interessanti per gli astronomi impegnati a esplorare i misteri della formazione stellare. Situata a circa 2.500 anni luce dalla Terra, nella costellazione del Circinus (Compasso), questa culla stellare offre uno sguardo affascinante sulla nascita e l’evoluzione delle stelle, avvolte in dense nubi di gas e polveri interstellari.

Un’ombra celeste conosciuta come la nube molecolare Circinus West attraversa questa immagine, catturata con la Dark Energy Camera (DECam) da 570 megapixel, realizzata dal Dipartimento dell’Energia, una delle fotocamere digitali più potenti al mondo. All’interno di questa culla stellare, stelle neonate si accendono da gas e polvere freddi e densi, mentre i getti espellono il materiale residuo nello spazio. Credito: CTIO/NOIRLab/DOE/NSF/AURA Elaborazione dell’immagine: T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/NSF NOIRLab), D. de Martin & M. Kosari (NSF NOIRLab)

Il Ruolo delle Nebulose Oscure nella Formazione delle Stelle

Le nubi molecolari, come Circinus West, sono ambienti cruciali per la formazione delle stelle. Queste nubi, caratterizzate da temperature estremamente basse e densità elevatissime, creano un ambiente ideale per la formazione di molecole, poiché gli atomi all’interno di esse si legano per formare composti più complessi. A causa della loro densità, queste nubi sono opache alla luce, il che conferisce loro un aspetto scuro e maculato, da cui il nome nebulose oscure. Sono proprio queste aree che offrono importanti informazioni sui processi alla base della nascita delle stelle e sull’evoluzione delle nubi molecolari.

Circinus West, una parte della più grande nube molecolare Circinus, si estende su 180 anni luce e possiede una massa pari a 250.000 volte quella del nostro Sole. Nonostante la densità del gas e della polvere che oscurano gran parte della regione, gli astronomi sono riusciti a rilevare la formazione di nuove stelle al suo interno. L’immagine catturata dalla DECam, montata sul telescopio Víctor M. Blanco da 4 metri della National Science Foundation, presso l’Osservatorio Interamericano Cerro Tololo in Cile, mostra una forma scura e tortuosa, ricca di gas e polveri, con diverse stelle neonate sparse nella sua vastità.

La Nascita delle Stelle e i Loro Getti Molecolari

In Circinus West, le stelle appena formate emergono dalla nube oscura, la loro presenza segnalata da esplosioni di luce che penetrano attraverso il materiale che le circonda. Queste emissioni provengono da stelle in formazione attiva, e le cavità attorno a esse sono create da potenti getti di gas—i cosiddetti getti molecolari—che vengono espulsi dalle protostelle mentre si formano. Questi getti, oltre ad essere più facili da osservare rispetto alle stelle stesse, forniscono strumenti molto utili per lo studio dei processi di formazione stellare.

L’immagine DECam mostra numerosi segni di questi getti, inclusi punti luminosi dove le stelle stanno espellendo materiale nello spazio. Una delle aree più significative, la regione Cir-MMS, presenta una forma che ricorda una mano con lunghe dita ombrose, dove la radiazione intensa delle stelle neonate sta creando cavità all’interno della nube oscura. Questi getti molecolari forniscono informazioni fondamentali sui meccanismi che regolano la formazione delle stelle e sull’impatto che le stelle giovani esercitano sull’ambiente circostante.

Un primo piano di due oggetti Herbig-Haro (HH) trovati nella nube molecolare Circinus West: HH 76 (al centro in alto dell’immagine) e HH 77 (in basso a sinistra). Gli oggetti HH sono macchie rosse luminose di nebulosità che si trovano comunemente vicino a stelle neonate. Si formano quando il gas ad alta velocità espulso dalle stelle collide con il gas a bassa velocità presente nella nube molecolare circostante o nel mezzo interstellare. Questa immagine è stata catturata con la Dark Energy Camera (DECam) da 570 megapixel, realizzata dal Dipartimento dell’Energia, una delle fotocamere digitali più potenti al mondo, montata sul telescopio Víctor M. Blanco da 4 metri della National Science Foundation presso l’Osservatorio Interamericano Cerro Tololo in Cile, un programma del NSF NOIRLab. Credito: CTIO/NOIRLab/DOE/NSF/AURA Elaborazione dell’immagine: T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/NSF NOIRLab), D. de Martin & M. Kosari (NSF NOIRLab)
Una nebulosa planetaria trovata nella nube molecolare Circinus West. Le nebulose planetarie sono gli strati esterni delle stelle giganti rosse in fase di invecchiamento, espulsi nello spazio al termine della vita di una stella. Questa immagine è stata catturata con la Dark Energy Camera (DECam) da 570 megapixel, realizzata dal Dipartimento dell’Energia, una delle fotocamere digitali più potenti al mondo, montata sul telescopio Víctor M. Blanco da 4 metri della National Science Foundation presso l’Osservatorio Interamericano Cerro Tololo in Cile, un programma del NSF NOIRLab.
Credito:
CTIO/NOIRLab/DOE/NSF/AURA
Elaborazione dell’immagine: T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/NSF NOIRLab), D. de Martin & M. Kosari (NSF NOIRLab)

 

Oggetti Herbig-Haro: Un Indicatore della Nascita Stellare

Oltre ai getti, un altro segno distintivo della formazione stellare in Circinus West è la presenza di oggetti Herbig-Haro (HH). Questi oggetti appaiono come macchie rosse e luminose di gas, che si formano quando il gas ad alta velocità espulso dalle stelle collide con il gas a bassa velocità presente nella nube molecolare circostante. L’immagine DECam rivela numerosi oggetti HH sparsi per Circinus West, tra cui tre recentemente scoperti vicino alla regione Cir-MMS.

Gli oggetti HH offrono agli astronomi una comprensione più dettagliata di come le stelle interagiscano con il loro ambiente. Non solo rivelano le prime fasi della nascita stellare, ma permettono anche di studiare i meccanismi che guidano l’evoluzione delle nubi molecolari e delle galassie. Analizzando questi oggetti e i relativi getti, gli scienziati possono raccogliere informazioni vitali sui processi che regolano la formazione delle stelle e su come tali meccanismi potrebbero aver influenzato la nascita del nostro Sistema Solare.

FONTE: NOIRLab

Missione Shenzhou-20: La Cina Vuole un Ruolo nello Spazio

La Cina ha inviato giovedì un nuovo equipaggio di astronauti verso la sua stazione spaziale, segnando un altro audace passo nel suo impegno incessante per diventare una potenza spaziale globale. Crediti: AFP

Il 24 aprile 2025, la Cina ha lanciato con successo la missione Shenzhou-20, un passo decisivo nel suo ambizioso programma spaziale. Il razzo è decollato dal Centro di Lancio Satellitare di Jiuquan, nel deserto del Gobi, alle 17:17 ora locale, segnando un’altra tappa fondamentale nel cammino del Paese verso il rafforzamento della sua presenza nello spazio.

La missione Shenzhou-20 è parte di una visione più ampia voluta dal presidente Xi Jinping, che ha definito l’esplorazione spaziale come una componente essenziale per il “sogno spaziale del popolo cinese“. Con investimenti che ammontano a miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, il programma spaziale cinese ha fatto enormi progressi, dal landing di rover sulla Luna e su Marte alla costruzione della propria stazione spaziale orbitante, Tiangong, che significa “Palazzo Celeste”.

La missione è guidata da Chen Dong, astronauta esperto e ex pilota di caccia, che sarà affiancato da Chen Zhongrui e Wang Jie, entrambi al loro primo volo nello spazio. I tre astronauti trascorreranno sei mesi a bordo della stazione spaziale Tiangong, impegnandosi in esperimenti scientifici e attività di manutenzione, tra cui passeggiate spaziali e l’installazione di schermature contro i detriti spaziali. Un’importante novità sarà l’introduzione dei planari, vermi acquatici noti per le loro straordinarie capacità rigenerative, nell’ambiente a microgravità.

La Cina, che ora ha la terza capacità al mondo di inviare esseri umani in orbita, dopo Stati Uniti e Russia, sta accelerando i suoi progetti spaziali. La stazione Tiangong è al centro della strategia spaziale cinese e, con la fine dell’era della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), si propone come un’alternativa autonoma e sovrana in orbita terrestre bassa.

Non solo un traguardo scientifico, la missione rappresenta anche un’occasione per la Cina di espandere la sua influenza diplomatica. A febbraio 2025, infatti, la Cina ha siglato un accordo con il Pakistan per l’inserimento di astronauti pakistani nella sua stazione spaziale.

La missione Shenzhou-20 non è un caso isolato. La Cina ha già in programma una missione lunare con equipaggio entro la fine di questo decennio, con l’obiettivo di costruire una base permanente sulla Luna, in collaborazione con la Russia, segnando un ulteriore passo nella sua ascesa come potenza spaziale globale.

Secondo Lin Xiqiang, direttore della CMSA (China Manned Space Agency), “Ogni lancio è un passo più vicino alle stelle e una testimonianza di ciò che la nostra nazione può raggiungere quando è unita in uno scopo comune.

La missione Shenzhou-20 rappresenta non solo un obiettivo scientifico, ma anche un messaggio di determinazione e indipendenza tecnologica della Cina, che si prepara a scrivere un nuovo capitolo nell’esplorazione spaziale.

26 aprile 1967: l’Italia nello spazio grazie a Luigi Broglio

Base Luigi Broglio in Malindi

L’inaugurazione ufficiale, domenica 20 aprile, della sede dell’Agenzia Spaziale Africana (AfSA) a Il Cairo e lo svolgersi della Newspace Africa Conference (21-24 aprile 2025) offrono l’occasione per ricordare il contributo di uomini geniali che hanno saputo costruire una storica cooperazione in campo spaziale tra il nostro Paese e l’Africa. Negli anni Sessanta il Professor Luigi Broglio, considerato padre dell’astronautica italiana, ideò e realizzò il progetto San Marco, con cui l’Italia diventava la terza nazione al mondo, dopo URSS ed USA, a lanciare un satellite nello spazio. Grazie alle intuizioni del suo allievo e braccio destro professor Carlo Buongiorno, coordinatore del progetto, poi primo direttore generale dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ed al supporto lungimirante di Enrico Mattei allora Presidente dell’ENI, fu possibile realizzare la Base di lancio al largo delle coste di Malindi, in Kenya. Oggi il Broglio Space Center è una base operativa dell’ASI, simbolo di una “collaborazione basata su scienza, innovazione, diplomazia”, ricordata dal Direttore Generale dell’ASI Vincenzo Maria Salamone, presente all’inaugurazione dell’AfSA.

Ma come nacque il Broglio Space Center?   

Luigi Broglio e Enrico Mattei ebbero occasione di incontrarsi all’inaugurazione della piattaforma Perro Negro il 24 agosto 1961, a Massa Marittima. Broglio chiese a Mattei la possibilità di disporre di una piattaforma petrolifera per realizzare una base di lancio per il suo progetto San Marco. Per la verità chiese proprio quella inaugurata, la Perro Negro, e Mattei tra il sorpreso e il divertito – come ricorda Giorgio Di Bernardo Nicolai nel suo libro dedicato a Broglio intitolato “Nella nebbia in attesa del sole” – gli aveva risposto che loro le piattaforme le costruivano per venderle e non per regalarle. Tuttavia nei giorni successivi diede disposizione di destinare al progetto, che godeva di limitate risorse finanziarie, la piattaforma Scarabeo, allora dislocata nel Mar Rosso, rendendo di fatto possibile la sua realizzazione. In seguito Broglio sollecitò la disponibilità della Scarabeo per avere la certezza di riuscire ad effettuare il successivo trasferimento in condizioni climatiche favorevoli.

Scatto della lettera inviata da Luigi Broglio a Enrico Mattei per la concessione dell’utilizzo della base Santa Rita.

Qui si inserisce una lettera storica che Luigi Broglio scrisse a Mattei per ottenere la disponibilità della Scarabeo, in seguito Santa Rita, patrona delle imprese impossibili,  e indicando come sarebbe dovuta apparire la realizzazione di un poligono di lancio equatoriale con materiale di recupero. Fu adattata a base di lancio nei Cantieri Navali di Taranto, da dove partì il 20 dicembre 1963. Fu trasportata per oltre 8.000 Km, in condizioni di mare molto avverse, verso l’Oceano Indiano per essere poi posizionata al largo delle coste di Malindi.   

La testimonianza del professor Mario Marchetti, ingegnere aerospaziale allievo di Broglio, che incontrai a Roma il 2 gennaio 2017 presso il centro di ricerca Progetto San Marco dell’Università “La Sapienza” all’aeroporto di Roma-Urbe, mi fece subito percepire la necessità di valorizzare quell’episodio, noto prevalentemente tra “gli addetti ai lavori”, cercando proprio quella lettera per presentarla nelle scuole ed eventi pubblici. Appuntamenti di valorizzazione che si sono così susseguiti fino allo IAC di Milano 2024, dove ebbi l’occasione di proporla durante un incontro che si dimostrò cruciale.

Da lì a pochi mesi, infatti, proprio in occasione della Giornata Nazionale dello Spazio, il 16 dicembre 2024, quella lettera, conservata dall’Archivio storico dell’ENI, sarebbe diventata il “Premio Broglio”. Il riconoscimento fu consegnato in una cerimonia presso la Camera dei Deputati, dall’Intergruppo parlamentare per la Space Economy, agli ingegneri e ai tecnici che giovanissimi a Malindi il 26 aprile 1967 realizzarono il lancio del satellite San Marco 2.

Ingegneri del gruppo di Broglio premiati il 16 dicembre 2024

Il nostro Paese, uscito dalla distruzione materiale e morale della guerra, dimostrava di disporre di ingegno, visione e competenze, per costruire, mettere in orbita e gestire i propri satelliti in autonomia. Per di più per la prima volta al mondo da un’orbita equatoriale. Alcuni lanci effettuati successivamente da lì hanno fatto la storia dell’astrofisica spaziale, tra questi il satellite Uhruru, il primo dedicato all’astronomia a raggi X. 

Per Approfondimenti: Media INAF

Il pallone della NASA galleggia, inizia il viaggio nell’emisfero australe

Un pallone superpressurizzato con a bordo il carico utile HIWIND viene gonfiato prima del lancio durante la campagna 2025 della NASA con palloni superpressurizzati a Wānaka, in Nuova Zelanda. Crediti: NASA/Bill Rodman.

Il primo volo con pallone superpressurizzato della New Zealand Balloon Campaign della NASA ha raggiunto la quota di galleggiamento dopo il decollo dall’aeroporto di Wānaka, in Nuova Zelanda, alle 10:44 NZST di giovedì 17 aprile (18:44 di mercoledì 16 aprile, ora della costa orientale degli Stati Uniti). Il pallone, delle dimensioni di uno stadio di football americano, è in missione per 100 giorni o più alle medie latitudini dell’emisfero australe.

Un pallone superpressurizzato con a bordo il carico utile HIWIND viene gonfiato prima del lancio durante la campagna 2025 della NASA con palloni superpressurizzati a Wānaka, in Nuova Zelanda.
Crediti: NASA/Bill Rodman.

«Sono estremamente orgoglioso del successo delle operazioni del team di oggi», ha dichiarato Gabriel Garde, responsabile dell’Ufficio del Programma Palloni della NASA presso il Wallops Flight Facility in Virginia. «Il lancio odierno rappresenta il culmine di anni di impegno e dedizione, sia negli Stati Uniti che, più recentemente, sul campo. Dalle impeccabili operazioni di lancio, al potenziale dei dati scientifici raccolti, fino al rivoluzionario profilo operativo della piattaforma a superpressione, il Programma Palloni della NASA è oggi più forte che mai.»

Il pallone, riempito con elio e con un volume di 18,8 milioni di piedi cubi, è salito a una velocità di circa 1.000 piedi al minuto, gonfiandosi completamente durante l’ascesa fino a raggiungere, dopo circa due ore, la quota operativa di 110.000 piedi (pari a circa 33,5 km) sopra la superficie terrestre. Sebbene la maggior parte del volo si svolgerà sopra l’oceano, durante la circumnavigazione del globo sono previsti alcuni attraversamenti di terra. Se le condizioni meteorologiche lo permetteranno, il pallone potrebbe essere visibile anche da terra, soprattutto all’alba e al tramonto. La NASA invita il pubblico a seguire la traiettoria in tempo reale [a questo link].

Oltre a testare e qualificare la tecnologia dei palloni ad alta pressione, il volo trasporta anche la missione HIWIND (High-altitude Interferometer Wind Observation), un progetto scientifico di opportunità. Il carico utile HIWIND misurerà i venti neutri nella termosfera, una regione alta dell’atmosfera terrestre. Comprendere questi venti aiuterà gli scienziati a prevedere meglio i cambiamenti nella ionosfera, che possono influenzare i sistemi di comunicazione e navigazione.

«Non posso che elogiare l’instancabile supporto e la straordinaria disponibilità dei nostri ospiti e partner in Nuova Zelanda», ha aggiunto Garde. «Siamo consapevoli dell’impatto che queste attività hanno sulle comunità locali e siamo profondamente riconoscenti per la loro collaborazione. È davvero uno sforzo internazionale, e sono impaziente di assistere a un volo lungo e fruttuoso.»

Intanto proseguono i preparativi per il secondo e ultimo lancio della campagna. Anche questo pallone ad alta pressione trasporterà esperimenti scientifici e dimostrazioni tecnologiche nell’ambito del volo di prova.

Approfondimenti: NASA

Un buco nero solitario nel cuore della Via Lattea: confermata la natura di OGLE-2011-BLG-0462

Autori dello studio: Kailash C. Sahu, Jay Anderson, Stefano Casertano, Howard E. Bond, Martin Dominik, Annalisa Calamida, Andrea Bellini, Thomas M. Brown, Henry C. Ferguson, Marina Rejkuba
Istituzioni: Space Telescope Science Institute, University of St Andrews, INAF, ESO e altri

Il primo buco nero solitario confermato dalla deflessione astrometrica

Per la prima volta nella storia dell’astronomia, è stata confermata l’esistenza di un buco nero di massa stellare completamente isolato, non legato a nessuna stella compagna. L’oggetto in questione, denominato OGLE-2011-BLG-0462, è stato individuato grazie a una rara combinazione di effetti gravitazionali osservati nel corso di oltre un decennio con il telescopio spaziale Hubble e una rete di 16 telescopi da Terra.

Fino ad oggi, tutti i buchi neri conosciuti nella nostra galassia erano stati scoperti tramite le interazioni con una stella vicina — spesso con emissione di raggi X o onde gravitazionali da sistemi binari in fusione. Ma OGLE-2011-BLG-0462 si è manifestato solo attraverso un lente gravitazionale microlensing, ovvero una temporanea amplificazione della luce di una stella sullo sfondo, provocata dal passaggio del buco nero sulla linea di vista.

Una lente gravitazionale durata quasi un anno

L’evento microlensing è stato eccezionalmente lungo, con una durata di circa 270 giorni. Questo ha permesso ai ricercatori di raccogliere dati con una precisione senza precedenti. Le osservazioni dell’Hubble Space Telescope, distribuite su 11 anni, hanno permesso di misurare lo spostamento apparente della stella di fondo — una deflessione astrometrica prodotta dalla massa del buco nero.

In parallelo, la fotometria raccolta da Terra ha fornito informazioni cruciali sulla parallasse dell’evento, cioè sulla deformazione del segnale dovuta al moto della Terra attorno al Sole. L’unione di questi due approcci ha portato a una misura molto precisa della massa dell’oggetto.

Un corpo invisibile di 7 masse solari

I risultati dell’analisi, aggiornati nel 2025 con nuovi dati Hubble, confermano che il corpo lente è un buco nero con una massa di 7.15 ± 0.83 masse solari, situato a una distanza di circa 1.52 ± 0.15 kiloparsec dalla Terra (circa 5.000 anni luce), nel cuore del rigonfiamento galattico. La sua velocità rispetto alle stelle vicine è di 51.1 km/s, suggerendo che potrebbe aver ricevuto un “calcio” durante l’esplosione di supernova che ha generato il buco nero.

Importante sottolineare che nessuna luce è stata rilevata in corrispondenza della posizione del buco nero nemmeno nelle osservazioni più recenti e profonde. Questo esclude la presenza di una stella compagna luminosa o di una nana bruna e rafforza la natura isolata dell’oggetto.

Nessun compagno, nemmeno lontano

Gli autori dello studio hanno inoltre cercato eventuali compagni stellari a distanze fino a 2.000 unità astronomiche (circa 300 miliardi di chilometri), senza successo. L’assenza di una sorgente luminosa co-movente con il buco nero esclude la presenza di compagni con massa superiore a 0.2 masse solari.

Conclusione

La scoperta e conferma di OGLE-2011-BLG-0462 rappresenta un risultato epocale per l’astrofisica moderna. È il primo buco nero di massa stellare confermato come isolato, scoperto non attraverso la sua emissione, ma attraverso gli effetti gravitazionali che esercita sullo spazio-tempo attorno a sé. Un risultato ottenuto con la sinergia di fotometria ad alta precisione, astrometria milliarcosecondica e analisi sofisticata delle immagini, che apre la strada alla rivelazione di molti altri buchi neri silenziosi nascosti nella nostra galassia.

FONTE The Astrophysical Journal, Volume 983, n.2

LE SUPERNOVAE EXTRAGALATTICHE PIU’ LUMINOSE ED IMPORTANTI DELLA STORIA: SN1954A IN NGC4214

Immagine della galassia NGC4214 ripresa dall’astrofilo spagnolo Carlos Segarra con un telescopio da 200mm F.4 somma di 25 immagini da 4 minuti.

Proseguiamo il nostro percorso fra le supernovae extragalatti­che più luminose della storia ed arriviamo al dopo guerra con la SN1954A scoperta il 30 maggio 1954 dall’astronomo svizzero Paul Wild nella galassia irregola­re NGC4214. Anche questa fu una supernova molto luminosa, una delle poche che riuscì a supera­re la mag.+10 (sono solo sette le supernovae che vantano questo primato e la SN1954A occupa la sesta posizione in termini di luminosità).


Negli anni ’40 l’astronomo tedesco naturalizzato statuni­tense Rudolph Minkowski suggerì la suddivisione degli eventi di supernovae in due distinte cate­gorie: le Tipo I i cui spettri non mostravano la presenza dell’i­drogeno e le Tipo II che invece lo evidenziavano. Successivamen­te queste due categorie furono suddivise in ulteriori sottoclas­si. Le supernovae del Tipo I furo­no suddivise nelle Tipo Ia, nei cui spettri è presente il silicio, nelle Tipo Ib, dove è presente l’elio, e nelle Tipo Ic dove non è presente né il silicio né l’elio. Le superno­vae di Tipo II furono invece sud­divise nelle Tipo IIL, in base alla linearità della loro curva di luce, nelle Tipo IIP, per quelle che nella curva di luce mostravano un appiattimento chiamato Plateau e nelle Tipo IIn, le SN che mostravano invece delle linee strette (narrow) dell’i­drogeno. Ebbene la SN1954A è stata la prima supernova della storia classificata come Tipo Ib.

 

Paul Wild fotografato all’Università di Berna il 13 gennaio 2006 da Valerie Chetelat.

Paul Wild nacque a Wadenswil vicino Zurigo in Svizzera il 5 ottobre del 1925 e morì a Ber­na il 2 luglio 2014. Dal 1944 al 1950 frequentò l’università di matematica e fisica a Zurigo. Nel 1951 si trasferì negli Stati Uniti in California dove lavorò fino al 1955 al California Insti­tute of Technology conducendo ricerche su galassie e supernove sotto la guida del connazionale Fritz Zwicky. Vanta al suo attivo la scoperta di 94 asteroidi, 7 comete, 5 novae della nostra galassia e 49 supernovae. La SN1954A rappre­senta la sua prima scoperta in fatto di supernovae e pertanto ne era particolarmente affezio­nato visto anche la notevole luminosità che raggiunse.

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LA FINALE NAZIONALE DEI CAMPIONATI ITALIANI DI ASTRONOMIA

DAL 6 ALL’8 MAGGIO 2025 L’ABRUZZO OSPITA 

Dalle gare interregionali sono stati selezionati novanta finalisti provenienti da tutta Italia. Si metteranno alla prova con quesiti astronomici: in palio il titolo nazionale e un posto nella rappresentativa italiana alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia.

TERAMO, 22 aprile 2025 – Tutto è pronto per la XXIII edizione della Finale Nazionale dei Campionati Italiani di Astronomia, che si terrà dal 6 all’8 maggio 2025 a Teramo (in Abruzzo). Dopo un lungo percorso di selezione che ha coinvolto quasi 10mila studenti e studentesse in tutta Italia, i novanta migliori talenti dell’astronomia si sfideranno nella risoluzione di problemi teorici e di casi pratici per conquistare il titolo nazionale. Promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, la competizione è organizzata dalla Società Astronomica Italiana (SAIt) e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Quest’anno il Liceo Scientifico Statale “Albert Einstein” di Teramo ospiterà le prove ufficiali, confermandosi centro nevralgico dell’evento.

La cerimonia di apertura si terrà martedì 6 maggio 2025 a Giulianova (TE), alla presenza di autorità istituzionali e accademiche abruzzesi e nazionali. Moderatore d’eccezione sarà il giornalista e scrittore Angelo De Nicola. Durante l’evento, la prof.ssa Marica Branchesi (ordinaria di Astrofisica al GSSI – Gran Sasso Science Institute), terrà una lectio magistralis dal titolo “Una nuova esplorazione dell’Universo attraverso le onde gravitazionali”, offrendo al pubblico un emozionante affaccio sull’universo più estremo. 

Mercoledì 7 maggio, presso il Liceo Statale “A. Einstein” di Teramo, i finalisti e le finaliste si cimenteranno in una competizione di alto livello, confrontandosi con sfide complesse per le quali dovranno mettere in campo tutte le proprie abilità e competenze in astronomia, astrofisica e matematica applicata. Nello specifico, la finale consisterà in una prova teorica (risoluzione di problemi di astronomia, astrofisica, cosmologia e fisica moderna) e in una prova pratica (analisi di dati astronomici).

Giovedì 8 maggio si terrà la cerimonia di premiazione della XXIII edizione dei Campionati Italiani di Astronomia. Saranno premiati diciotto studenti: cinque per ciascuna delle categorie Junior 1, Junior 2 e Senior, e tre per la categoria Master. A tutti loro verrà conferita la “Medaglia Margherita Hack” per l’edizione 2025 e il loro nome sarà inserito nell’Albo Nazionale delle Eccellenze. Inoltre, agli otto studenti che si classificheranno immediatamente dopo i vincitori sarà assegnato un diploma di merito, in riconoscimento dei risultati di rilievo conseguiti durante la competizione.

Tra i campioni nazionali saranno selezionati i componenti della squadra italiana che parteciperà alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica (IOAA), appuntamento prestigioso che riunisce i migliori giovani studenti del mondo: per la sezione senior è in programma a Mumbai (India) dall’11 al 21 agosto e per la sezione Junior a Piatra Neamt in Romania il prossimo ottobre. 

Le finali dei Campionati di Astronomia rappresentano la punta dell’iceberg della grande mole di lavoro che la SAIt, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica, porta avanti per interessare all’astronomia gli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado”, afferma la prof.ssa Patrizia Caraveo, presidente della Società Astronomica Italiana. “È uno sforzo corale della comunità astronomica italiana, reso possibile dal supporto del Ministero dell’Istruzione e del Merito – Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la formazione del personale scolastico e la valutazione del sistema nazionale di istruzione. Il successo della competizione è cresciuto negli anni – aggiunge – e testimonia l’interesse per una disciplina che, pur non essendo curriculare nel nostro ordinamento scolastico, per la sua valenza interdisciplinare va oltre il naturale legame con le leggi fondamentali della fisica. Le grandi rivoluzioni scientifiche hanno le radici nel cielo e i campionati di astronomia consentono di trasmettere ai ragazzi non solo il fascino delle stelle ma, anche, lo straordinario sviluppo della scienza”.

Comunicato Stampa: Ufficio stampa INAF – Eleonora Ferroni

Vita su K2-18 b? Il JWST rileva possibili biosignature in un mondo oceanico extrasolare

Autori principali: Nikku Madhusudhan (Università di Cambridge), M. Holmberg, S.-M. Tsai, G. J. Cooke, S. Sarkar, tra i numerosi co-autori.
Osservatorio e strumenti: Telescopio Spaziale James Webb – strumento MIRI.
Ente di riferimento: NASA, ESA, Agenzia Spaziale Canadese (CSA), Università di Cambridge.

Un’atmosfera ricca di idrogeno e un oceano nascosto sotto le nubi: il pianeta extrasolare K2-18 b, situato a 124 anni luce dalla Terra nella costellazione del Leone, continua a sorprendere gli scienziati. I nuovi dati del telescopio spaziale James Webb (JWST) hanno infatti rivelato segnali compatibili con la presenza di due molecole considerate biosignature: il dimetil solfuro (DMS) e il dimetil disolfuro (DMDS).

L’osservazione, condotta grazie allo strumento MIRI (Mid-Infrared Instrument) del JWST, ha prodotto il primo spettro di trasmissione in banda medio-infrarossa (6–12 μm) di un esopianeta potenzialmente abitabile. I risultati, pubblicati da un team guidato da Nikku Madhusudhan dell’Università di Cambridge, indicano una rilevazione di DMS e/o DMDS con una significatività statistica di circa 3σ, corrispondente a una probabilità di oltre il 99%.

Un pianeta oltre i confini terrestri

K2-18 b è circa 2,6 volte più grande della Terra e otto volte più massiccio. Orbita attorno a una nana rossa (spettro M2.5V), nella cosiddetta zona abitabile, ovvero dove le temperature potrebbero permettere la presenza di acqua liquida. Le sue caratteristiche lo rendono un perfetto candidato per il paradigma delle “hycean worlds” — mondi oceanici con atmosfera ricca di idrogeno, concetto introdotto da Madhusudhan nel 2021.

Rispetto ai pianeti simili alla Terra, questi mondi sono più facili da osservare: la loro atmosfera è più estesa e trasparente alle osservazioni spettroscopiche. I risultati finora ottenuti sembrano confermare che K2-18 b ospiti effettivamente un’atmosfera H₂-ricca compatibile con il modello hycean, con abbondanze di metano (CH₄) e anidride carbonica (CO₂), e senza tracce significative di ammoniaca (NH₃) o monossido di carbonio (CO).

Le firme chimiche della vita?

La grande novità di queste nuove osservazioni è la conferma indipendente, e a lunghezze d’onda differenti (mid-IR anziché near-IR), della presenza di DMS e DMDS, molecole che sulla Terra sono prodotte quasi esclusivamente da organismi viventi, soprattutto da batteri marini. In particolare, il DMS è considerato un potenziale biosignature robusto per pianeti con atmosfera riducente, ovvero ricca di idrogeno, come quelli hycean.

Tuttavia, a causa della somiglianza spettrale tra le due molecole, non è ancora possibile distinguerle con certezza. Secondo il team, almeno una delle due è presente in quantità significative (≳10 ppmv), un valore straordinariamente alto se paragonato ai livelli terrestri di pochi ppbv. Per stabilire se la loro origine sia biotica o abiotica saranno necessari ulteriori studi.

La sfida dei falsi positivi

Gli autori mettono in guardia contro interpretazioni affrettate: sebbene su K2-18 b non sia stata rilevata H₂S — un precursore necessario per produrre DMS abioticamente — esistono comunque scenari, seppur improbabili, di formazione non biologica. Ad esempio, reazioni chimiche in atmosfera o impatti cometari, come quelli che potrebbero aver portato DMS sulla cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko (Hänni et al., 2024). Tuttavia, la quantità richiesta per spiegare le osservazioni supera di gran lunga quella ipotizzabile per processi puramente abiotici.

Prossimi passi

Il gruppo di Madhusudhan sottolinea l’urgenza di ulteriori osservazioni con JWST e di nuovi studi teorici e sperimentali. In particolare, è essenziale ottenere dati di laboratorio sui parametri spettrali del DMS e del DMDS in atmosfere H₂-ricche, a pressioni e temperature simili a quelle di K2-18 b. Questo permetterà di migliorare l’accuratezza dei modelli e ridurre l’incertezza nelle stime di abbondanza.

Una serie aggiuntiva di transiti osservati con JWST, stimano gli autori, potrebbe facilmente elevare la significatività delle rilevazioni a 4–5σ, un livello molto più robusto per una possibile biosignature.


Conclusione

Sebbene non possiamo ancora affermare di aver trovato vita oltre il Sistema Solare, lo studio di K2-18 b rappresenta uno dei passi più concreti mai fatti in questa direzione. La possibile presenza di DMS e DMDS — molecole complesse e indicatrici di attività biologica — in un pianeta oceanico, amplia sensibilmente i nostri orizzonti nella ricerca di biosfere aliene. Il JWST si conferma uno strumento fondamentale per questa nuova era dell’astrobiologia.

Fonte The Astrophysical Journal Letter

Nel cuore del Virgo Cluster, nuove nubi stellari isolate nate da gas strappato

Questa immagine profonda del cluster della Vergine, realizzata da Chris Mihos e collaboratori con il telescopio Burrell Schmidt, rivela la luce diffusa presente tra le galassie appartenenti all’ammasso. Il nord è in alto, l’est a sinistra. Le macchie scure indicano le zone da cui sono state rimosse le stelle brillanti in primo piano. La galassia più grande visibile (in basso a sinistra) è Messier 87. Crediti: Chris Mihos (Case Western Reserve University) / ESO

Un programma di citizen science ha portato alla scoperta di 34 nuovi candidati “blue blobs”, una rara popolazione di sistemi stellari isolati nel cluster di galassie della Vergine.

Nel vasto e dinamico ambiente del Virgo Cluster – uno dei più vicini e studiati agglomerati di galassie – un nuovo studio guidato da Michael G. Jones (University of Arizona) ha identificato 34 nuovi oggetti candidati appartenenti alla categoria dei cosiddetti “blue blobs”. Di questi, 13 presentano caratteristiche ad alta affidabilità, con sei già confermati tramite spettroscopia ottica grazie al telescopio Hobby–Eberly Telescope (HET).

I blue blobs sono nubi di formazione stellare isolate, estremamente povere di massa (meno di 100.000 masse solari), ma inaspettatamente ricche di metalli, immerse nel mezzo caldo intra-ammasso. Sono tra i prodotti più estremi del fenomeno del ram pressure stripping, un processo in cui il gas di una galassia in caduta in un cluster viene strappato via dall’interazione con il mezzo intra-ammasso (ICM). Il gas così rimosso, se sufficientemente denso, può collassare e dare origine a nuove stelle lontano dalla galassia madre.

“Le proprietà di questi oggetti sono incompatibili con quelle delle galassie a bassa massa” spiega Jones. “Sono troppo giovani, troppo isolati, e troppo ricchi in metalli per essere normali galassie nane.”

Una scoperta resa possibile dalla scienza partecipativa

Per identificare questi oggetti, il team ha lanciato un progetto su Zooniverse, coinvolgendo centinaia di volontari nella classificazione visiva di oltre 150.000 immagini ottiche e ultraviolette provenienti da tre grandi survey:

  • Next Generation Virgo Cluster Survey (NGVS) con il telescopio CFHT,
  • Dark Energy Camera Legacy Survey (DECaLS),
  • e dati UV del telescopio spaziale GALEX.

I partecipanti dovevano cercare strutture irregolari, isolate e molto blu, accompagnate da emissione ultravioletta: segnali tipici di formazione stellare recente. Il contributo umano si è rivelato cruciale, dato che i blue blobs hanno morfologie irregolari e bassa luminosità superficiale, caratteristiche che rendono difficile il loro riconoscimento da parte di algoritmi automatici.

Conferme spettroscopiche e proprietà sorprendenti

I sei blue blobs confermati presentano velocità radiali coerenti con l’appartenenza al cluster della Vergine e abbondanze metalliche elevate, incompatibili con galassie nane formatesi in isolamento. Queste caratteristiche confermano l’ipotesi che siano nati da gas pre-enriched, cioè gas già arricchito da precedenti cicli stellari, e strappato a galassie più grandi.

Inoltre, alcuni blue blobs sembrano essere le controparti ottiche di precedenti rilevamenti di nubi di idrogeno neutro (H I) privi di emissione ottica, noti come “dark clouds”. Questo collegamento è stato rafforzato dalla somiglianza delle velocità Hα dei blue blobs e delle loro rispettive nubi H I.

Una popolazione distribuita lungo i filamenti del cluster

La distribuzione spaziale dei nuovi candidati mostra che tendono a formarsi lungo i filamenti galattici che si estendono verso il centro del cluster, ma evitano le zone centrali più dense e calde. Questo suggerisce che la formazione di blue blobs sia favorita da condizioni ambientali intermedie: abbastanza dense da innescare il ram pressure stripping, ma non così estreme da distruggere il gas strappato prima che possa formare stelle.

È significativo che questi oggetti non sembrino provenire da galassie appena entrate nel cluster,” sottolinea Jones. “Molti si trovano in regioni tipiche di membri già presenti da tempo, indicando che il stripping può agire anche dopo diverse orbite.

Una nuova classe di oggetti, forse un nuovo paradigma

Nel complesso, questi risultati rafforzano l’idea che i blue blobs siano i cugini estremi delle galassie jellyfish: nubi stellari nate dal gas strappato, ma che si sono completamente staccate dal loro progenitore galattico. La loro giovinezza, composizione chimica e isolamento pongono sfide significative ai modelli attuali di evoluzione galattica nei cluster.

Ulteriori conferme spettroscopiche sono in corso con HET e il radiotelescopio GBT, ma per comprendere appieno la storia evolutiva di questi oggetti sarà necessario studiarne le popolazioni stellari risolte, un compito che solo il James Webb Space Telescope (JWST) potrà affrontare.

Autore principale: Michael G. Jones – University of Arizona

Collaborazioni: Hobby–Eberly Telescope, Zooniverse, GALEX, NGVS

Strumenti principali: HET LRS2, ALFALFA, CFHT MegaCam, GALEX

Fonte: The Astrophysics Journal

L’interno della Luna è più secco sul lato nascosto? I campioni Chang’e-6 rivelano un’inaspettata dicotomia

Questa immagine distribuita dalla China National Space Administration (CNSA) e pubblicata dall'agenzia di stampa Xinhua mostra la combinazione lander-ascender della sonda Chang'e-6, ripresa da un mini rover dopo l'atterraggio sulla superficie lunare, il 4 giugno 2024. Crediti: CNSA/Xinhua tramite AP, Archivio

Autori principali: Zhang Q. W. L., Zhou Q., Zhang X. e collaboratori
Institute of Geology and Geophysics – Chinese Academy of Sciences (IGGCAS), China National Space Administration (CNSA)

I nuovi dati ottenuti dalla missione cinese Chang’e-6 potrebbero cambiare per sempre la nostra comprensione della Luna. Per la prima volta nella storia dell’esplorazione spaziale, sono stati riportati sulla Terra campioni prelevati dalla faccia nascosta del nostro satellite naturale, e in particolare dal vastissimo cratere South Pole–Aitken Basin (SPA). Le analisi chimiche di questi frammenti hanno portato alla prima stima diretta del contenuto d’acqua nel mantello lunare di quel settore, rivelando un valore sorprendentemente basso: appena 1–1,5 microgrammi per grammo di roccia.

Questo dato – pubblicato in un recente studio coordinato da ricercatori dell’Institute of Geology and Geophysics della Chinese Academy of Sciences (IGGCAS) e basato su misure condotte con tecniche di spettrometria a massa su scala micrometrica – suggerisce che il mantello della Luna possa presentare una dicotomia emisferica nella distribuzione dell’acqua, con la parte visibile (nearside) significativamente più ricca di componenti volatili rispetto a quella nascosta (farside).

“Questi nuovi valori costringono a rivedere le stime complessive sull’acqua nella Luna intera,” affermano gli autori del lavoro, “e forniscono supporto al modello di formazione per impatto gigante.”


Analisi ad altissima precisione

I ricercatori hanno esaminato frammenti basaltici raccolti dal suolo lunare CE6C0200YJFM001, un campione di 5 grammi restituito sulla Terra il 25 giugno 2024. Le analisi si sono concentrate su minerali come apatite e su inclusioni vetrose intrappolate in olivine e ilmenite, che possono trattenere tracce di acqua sotto forma di idrossili e di idrogeno isotopico (δD).

Grazie a strumenti come la NanoSIMS 50L e la microsonda elettronica JXA-8100 operanti presso IGGCAS, è stato possibile determinare la composizione isotopica dell’idrogeno con risoluzione nanometrica e correggere le misure per gli effetti della radiazione cosmica, sfruttando un’età di esposizione stimata in circa 108 milioni di anni.


Un mantello “più asciutto” sul lato nascosto

Confrontando questi dati con quelli ottenuti da precedenti missioni come Chang’e-5, Apollo e Luna, tutte riferite a campioni provenienti dalla parte visibile della Luna e dalla ricca regione del Procellarum KREEP Terrane, emerge un quadro inaspettato: il mantello sottostante al bacino SPA potrebbe essere fino a 10 volte più povero d’acqua rispetto alle zone campionate finora.

Questa possibile asimmetria emisferica – in parte speculare alla già nota distribuzione superficiale del torio (Th), altro elemento incompatibile – suggerisce che la faccia nascosta della Luna sia stata meno influenzata da processi magmatici ricchi in volatili, forse a causa della posizione rispetto all’epicentro dell’impatto gigante che avrebbe originato il nostro satellite.


Implicazioni per l’origine della Luna

I nuovi dati rafforzano le ipotesi a favore di un’origine per impatto gigante, secondo la quale un corpo delle dimensioni di Marte si sarebbe scontrato con la Terra primitiva, generando un disco di detriti che avrebbe poi dato origine alla Luna. In tale scenario, l’acqua sarebbe stata in gran parte dispersa dal calore dell’impatto, e la sua distribuzione successiva all’interno della Luna risulterebbe eterogenea, come ora sembra confermare la scoperta fatta da Chang’e-6.

L’isotopia dell’idrogeno nei campioni CE6, tuttavia, è coerente con quella già rilevata nei campioni del lato visibile (δD medio attorno a −123‰), suggerendo che la composizione isotopica del mantello lunare sia rimasta omogenea nel tempo, forse ereditata dalla cristallizzazione dell’oceano magmatico primordiale.


Verso nuove missioni lunari

Il campione CE6 rappresenta un punto di svolta. “Abbiamo ora un primo valore concreto per il contenuto d’acqua nel mantello della farside lunare,” spiegano gli autori. Ma restano ancora molte domande aperte: l’intera faccia nascosta è così secca? O il cratere SPA rappresenta un’eccezione geologica? Missioni future, come quelle previste dal programma Artemis della NASA e dalle successive fasi del progetto cinese Chang’e, potranno fornire nuovi campioni per confermare o smentire questa dicotomia idrica.

CARMELO A CACCIA DI RADIOMETEORE

A cura di Lorenzo Barbieri dell’Associazione Astrofili Bolognesi

Il progetto RAMBo, nato dall’iniziativa di un gruppo di astrofili bolognesi, ha permesso la rilevazione delle radiometeore sfruttando la tecnologia analogica. L’evoluzione verso il digitale ha portato alla creazione di CARMELO, un sistema basato su ricevitori SDR e Raspberry Pi, capace di registrare e analizzare gli echi meteorici con maggiore precisione. Grazie a strumenti di elaborazione avanzati, CARMELO filtra i falsi positivi e consente il monitoraggio in tempo reale degli eventi, fornendo dati statistici sull’attività meteorica. L’espansione della rete osservativa, che già conta numerosi ricevitori, permetterà di affinare la ricostruzione delle traiettorie e delle velocità delle meteore. Con il coinvolgimento di scuole e astrofili, il progetto mira a rendere la radioastronomia meteorica accessibile a un pubblico sempre più ampio.

Gli Inizi

Tutto iniziò una quindicina di anni fa al termine di una serata di G-Astronomia svoltasi a casa mia con un gruppo di soci dell’Associa­zione Astrofili Bolognesi e con la compagnia di buon vino.
Un nostro socio radioamatore, Marco Calzolari, ci mise a dispo­sizione una radio Yaesu da tavolo che collegammo ad un’antenna autocostruita; con pochi sempli­ci passaggi e attendendo alcuni minuti emerse dal rumore di fondo un piccolo “ping”: era il primo eco attribuibile ad una radiometeora ascoltato dai presenti. Si tratta del prodotto del fenomeno “meteor scat­ter”: quando un meteoroide penetra nell’atmosfera terrestre, l’attrito con le molecole d’aria provoca la vapo­rizzazione del corpo celeste, gene­rando una scia luminosa nota come meteora. Oltre a questo spettacolo visivo, l’evento produce un cilindro di plasma composto da ioni ed elet­troni liberi, risultato della disinte­grazione degli atomi del meteoroide durante l’impatto con le molecole della ionosfera. Questa scia ionizza­ta ha la capacità di riflettere le onde radio, comportandosi come un vero e proprio specchio per le frequenze radio VHF (Very High Frequency). Di conseguenza, un trasmettitore che emette onde radio in queste frequenze può vedere il suo segnale riflesso dalla scia ionizzata, permet­tendo a un ricevitore sintonizzato sulla stessa frequenza di “osserva­re” la meteora, anche in assenza di visibilità direttaa.

Fig. 1 – Il segnale radio viene riflesso dal cilindro ionizzato delle meteore se­guendo la legge della riflessione, quindi l’eco può essere rilevato solo se l’angolo di incidenza coincide con quello di riflessione. Il punto P rappresenta la zona di riflessione speculare, ossia il punto visibile nei ricevito­ri. La parte frontale della meteora, essendo semisferica, riflette il segnale in modo diffuso e più debole. Tuttavia, in casi rari di meteore ad alta energia, può verificarsi un’eco di testa, rilevabile dai ricevitori radio.

Nel corso dei decenni, numerosi radar sono stati progettati specifi­camente per lo studio delle meteore attraverso il meteor scatter. In Italia, ad esempio, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) aveva installa­to un radar meteorico a Vedrana di Budrio, vicino Bologna, che pur­troppo non è più operativo. A livello internazionale, il Canadian Meteor Orbit Radar (CMOR) è uno dei più noti strumenti dedicati a questo tipo di osservazionib, affiancato da altri progetti in Belgio, Giappone e Regno Unito. Questi radar permet­tono di raccogliere dati dettagliati sulle orbite e sulle caratteristiche fisiche delle meteore, contribuendo in modo significativo alla nostra comprensione dei piccoli corpi del sistema solare.

L’Esperienza nell’Analogico

Per noi astrofili, l’installazione e la gestione di un radar meteorico rappresenta però una sfida, sostan­zialmente a causa dei costi elevati associati agli apparati trasmittenti e alla loro manutenzione. Nel tempo tuttavia si è trovato il modo per ag­girare parte dell’ostacolo sfruttando trasmettitori esistenti e lasciando così agli appassionati solo il compito di gestire la ricezione. Un esempio è il trasmettitore militare GRAVES, situato in Francia, che grazie alla sua potenza è largamente utilizzato da anni dagli astrofili europei.
Nel giro di poco tempo quindi avevamo installato lo stesso appara­to testato durante la cena nella sede dell’AAB utilizzando una radio analoga a quella di Marco e montando un’an­tenna ad alto guadagno.
Con molta soddisfazione, scelta la polarizzazione giusta, i “ping” piove­vano copiosi.
Avevamo realizzato il primo siste­ma radar “forward scatter” (o bistatico) dell’AAB.
I radar sono comunemente di due tipi: il backward scatter è quello più noto e diffuso in cui trasmettitore e ricevitore sono vicini ed addirittura possono utilizzare la stessa antenna, prima illuminando il bersaglio e poi ricevendone l’eco, mentre il forward scatter, assai diffuso nelle osserva­zioni di meteore, ha una configurazio­ne come quella descritta nell’imma­gine: in questo caso il trasmettitore è sempre in potenza ed i ricevitori (che possono essere più di uno) sono sem­pre in ascolto.

Fig. 2 – La configurazione forward scatter
del nostro RAMBo.

Insieme a Fabio Balboni e Daniele Cifiello, altro radioamatore, ci sia­mo quindi posti il tema: è possibile trasformare il semplice ascolto in una osservazione sistematica e continua­tiva misurando e catalogando questi echi?
Il passo successivo è stato l’acqui­sto di un “Arduino” e la sua program­mazione in c++.
Con esso il segnale audio in uscita dalla radio veniva digitalizzato, i suoi parametri (orario, ampiezza e durata) trascritti in un file csv e resi dispo­nibili al trattamento numerico. Il progetto RAMBo (Radar Astrofilo Me­teorico Bolognese), così fu chiamato, funzionava a pieno regime registran­do circa 2500 eventi al giorno (quasi un milione all’anno).

Fig. 3 – Nelle Perseidi del 2020 RAMBo
evidenzia un filamento dello sciame
assente negli anni precedenti ed invece
previsto dalle analisi numeriche degli astronomi
riguardanti gli influssi gravitazionali dei
pianeti maggiori sul complesso dello sciame.

Che fare con tutti questi dati? Qui entra in scena Gaetano Brando, allora nuovo giovane iscritto all’ associa­zione ed esperto di programmazione python. Con lui abbiamo iniziato a fare statistiche e analisi numeriche sui dati facendo sul campo quelle scoperte che, per quanto note agli esperti del settore, per noi erano assolutamente nuove, ad esempio l’andamento diurno tendenzialmen­te sinusoidale o la presenza degli sciami meteorici come mostrato in figura 7.
Poi sono arrivate anche le prime soddisfazioni: con RAMBo era possi­bile osservare gli sciami meteorici e confrontarli con le previsioni nume­riche elaborate dai professionisti; i nostri articoli al riguardo sono stati pubblicati su WGN il periodico dell’IMO (International Meteor Organi­zation) e su e-Meteor news (giornale elettronico). Il nostro progetto è stato illustrato all’IMC: congresso interna­zionale dell’IMOc.
Per quanto entusiasmante l’e­sperienza di RAMBo soffriva però di alcuni limiti:
1) Presenza di falsi positivi: fulmini, transitori elettrici sulla rete (accensione di luci al neon, motori elettrici ecc.. motori a scoppio nelle vicinanze auto, moto e soprattutto rasaerba!)
2) Misura non del segnale radio ma della sua conversione in segna­le audio effettuata dalla radio, con conseguenti dubbi sulla linearità e fedeltà.
3) Standard non comune condi­zionati dai parametri della radio.
4) Difficoltà replicabilità: realiz­zare la scheda elettronica di inter­faccia tra radio ed Arduino non era affatto banale.
5) Costo considerevole: tra an­tenna, radio di un certo livello, ardui­no e scheda analogica il prezzo saliva.
Un’unica soluzione risolveva tutti i problemi: passare al digitale.


Passaggio al Digitale


E qui sono arrivati i problemi e le frustrazioni: maneggiare la tecnologia SDRd non è per nulla facile se non si è esperti del settore. Con Gaetano ab­biamo impiegato mesi e mesi cercan­do di far funzionare un dongle SDR ed un computer come volevamo, abbia­mo dedicato innumerevoli serate al problema con conseguenti dissapori con altri soci dell’associazione più interessati ad altre attività.
Ad un certo punto abbiamo deciso di rinunciare finché a distanza di un anno Gaetano scrive un messaggio: “Ho trovato in rete una libreria di python che si interfaccia con i dongle SDR!”. È stata la svolta e dopo mesi e mesi persi in vani tentativi in poche ore abbiamo scritto il primo software per realizzare un ricevitore meteorico per le radiometeore! Era l’embrione di CARMELO (Cheap Amatorial Radio Meteoric Echoes Logger).

Fig. 4 – L’embrione di CARMELO: un PC,
un dongle da 13 euro fissato su un
pezzetto di legno, un cavo coassiale
utilizzato come antenna (dipolo) ed una
radiolina utilizzata come trasmettitore.

Il passo successivo è stato il pas­saggio ad un microprocessore (ab­biamo scelto per il suo costo e la sua ampia diffusione un Raspberry) e la scrittura di un software che risolves­se tutti i punti deboli del precedente progetto analogico (RAMBo).
CARMELO utilizza una Fast Fou­rier Transform (FFT) per elaborare il segnale ricevuto e identificare au­tomaticamente gli echi meteorici, scartando i falsi positivi. Una volta identificato un evento meteorico, il si­stema registra i dati in un piccolo file.
Altri soci AAB, Paolo Fontana ed Antonio Papini, hanno attivamen­te collaborato all’assemblaggio del prototipo.


1. La rete CARMELo


A questo punto era necessario un server a cui spedire i dati ed un sito che li mostrasse e grazie all’incessante lavoro di Gaetano anche ciò è diventato realtà.

Fig. 5 – L’attuale realizzazione di un CARMELo In esso sono visibili: l’alimentatore che converte la tensione 220 V a 5 V (1), il Raspberry sovrastato dalla schedina monitoria (non indispensabile) che con i led mostra il funzionamento di CARMELo (2), il dongle SDR (3), l’LNA (Low Noise Amplificator), (4) il filtro bassa banda (5), il cavo d’antenna (6), il cavo ethernet per la trasmissione dei dati in internet (7) ed il coperchio (8). Il sistema è stato progettato per essere economico, consentendo a chiunque di partecipare all’osservazione radio delle meteore con una spesa relativamente contenuta (ricevitore SDR circa 210 euro, antenna VHF circa 60 euro). Con un assemblaggio semplice permette a qualsiasi astrofilo di installare una stazione
ricevente digitale presso la propria abitazione o osservatorio, senza la necessità di strumenti professionali.

Gli eventi mostrati (in tempo reale) vanno dalle più piccole meteore spora­diche di pochi millisecondi di durata e che corrispondono a meteore di 7° od 8° magnitudine e perciò inosservabili sia ad occhio nudo che con le videoca­mere, fino ai bolidi e super bolidi, con i quali il grado di ionizzazione è assai elevato, quindi l’eco è molto lunga. Tuttavia, poiché la maggioranza dei ricevitori CARMELO è sita in Italia e quindi in forward scatter, l’80% degli eventi rilevati da CARMELO è sulle Alpi oppure a nord delle Alpi. A riprova di ciò mostriamo l’incrocio di dati osserva­tivi nostri e visuali a cui si è dedicata Silvana Sarto altra socia AAB che con entusiasmo è entrata nel gruppo.


2. Il tasso orario


Oltre alle singole osservazioni CAR­MELO fornisce una pagina statistica, che permette di monitorare il tasso orario delle meteore con una risoluzio­ne temporale di un’oraf. Con l’espan­sione della rete, potremo abbassare ulteriormente questa risoluzione, migliorando la precisione delle osser­vazioni.
Oltre a ciò, l’analisi incrociata tra tasso orario e durata degli echi permet­te di studiare la distribuzione della massa all’interno degli sciami mete­orici. Questo porta ad indagare l’età dello sciame in base alla simmetria della distribuzione delle masse.
Ad esempio, proprio questo tipo di confronto fatto per lo sciame delle Quadrantidi a inizio 2025 ha eviden­ziato come questo sciame abbia una struttura a cilindro avente all’esterno un “guscio” di meteore più piccole, e all’interno un filamento di meteore di maggior massag. Questa caratteristi­ca è tipica degli sciami relativamente giovani nei quali né le perturbazioni dei pianeti massicci né la radiazione solare (effetto di Poynting – Robertson) hanno ancora comportato la migra­zione dei meteoroidi più massicci verso “la periferia” dello sciame facendo quindi perdere la simmetria originaria.

Fig. 6 – Meteore registrate da CARMELo e simultaneamente viste dalla rete visuale GMN. Il confronto è stato fatto su una quindicina di giorni.

Ogni mese viene preparato un bol­lettino: il “CARMELo monthly report” che riassume l’attività meteorica registrata dalla rete e caratterizza gli sciami principali, poi pubblicato su eMeteorNews e su eMetNJour­nal ed anche sull’ “Astrophisic data system”. Questo lavoro è a cura di Mariasole Maglione, astrofisica ed esperta di comunicazione in campo industriale astronautico, astrofila vi­centina ed ultimo ingresso nel nostro piccolo gruppo di lavoro.


3. Le forme d’onda


Uno degli aspetti più innovativi è la possibilità di visualizzare le forme d’onda di ogni meteora in tempo reale. Si tratta di una novità assoluta nel campo dell’osservazione radio ama­toriale, permettendo agli astrofili di ottenere informazioni sulla natura di ogni singolo evento. Analizzando le forme d’onda, gli osservatori possono determinare:
– Se la meteora è satura (ovvero, se il segnale è talmente forte da creare un cilindro di plasma che si comporta come un corpo solido).
– Se la meteora ha subito frammen­tazione, osservabile tramite variazioni ondulatorie del segnalei.
– Se è energetica al punto da mostrare l’eco di testa, riconoscibile anche dal tipico effetto Doppler del segnale radio.

Fig. 7 – Il tasso orario nel primo mese del 2025: si nota l’andamento sinusoidale quotidiano delle meteore sporadiche, dovuto alla posizione dell’osservatore sul globo terrestre nel suo movimento di rotazione della terra. Si nota inoltre l’aumento del tasso orario in corrispondenza del previsto sciame delle Quadrantidi.
Fig. 8 – Fra il tasso orario e la durata media degli echi meteorici tra l’1 e il 6 gennaio 2025, che ci ha permesso di descrivere la composizione dello sciame. Questa analisi è descritta nel nostro bollettino di gennaio.


Programmi per il futuro


1. Traiettorie e velocità

Fig. 9 – Esempio di forma d’onda Nei primi 100 millisecondi, il segnale proviene dalla sfera di plasma creata dall’avanzamento della meteora nella ionosfera. La frequenza (in verde) mostra l’effetto Doppler.
Dopo circa 100 millisecondi, il meteoroide raggiunge il punto di riflessione P, perpendicolare alla visuale dell’osservatore. A questo punto, lo spostamento Doppler scompare e la riflessione del cilindro ionizzato sovrasta quella dell’eco di testa in allontanamento. Successivamente si notano le oscillazioni tipiche della frammentazione della meteora.


Uno degli obiettivi più ambiziosi è la ricostruzione delle traiettorie delle meteore. Questo è possibile grazie alla presenza di più osservatori distribuiti sul territorio, che ricevono il segnale riflesso dalla stessa meteora con un leggero ritardo temporale.

Fig. 10 – Alcuni partecipanti al gruppo di lavoro di CARMELo. Da sinistra a destra: Gaetano Brando (AAB), Lorenzo Barbieri (AAB), Mariasole Maglione (Gruppo Astrofili
Vicentini).

Ricostruendo la traiettoria del se­gnale ed individuando gli n punti P di riflessione speculare corrispondenti agli n osservatori è possibile calco­lare la velocità della meteora proprio confrontando il ritardo tra i fronti di salitaj.
Abbiamo confrontato decine di meteore registrate simultaneamente dalla rete CARMELo e dalla rete di tele­camere GMN (Global Meteor Network) ed effettivamente, le velocità calcolate considerando i ritardi temporali dei fronti d’onda coincidevano, entro mar­gini di errore minimi, con le velocità calcolate tramite le immagini dell’os­servazione visuale.
La sfida per il futuro è quella di cal­colare anche le traiettorie prescinden­do dall’uso del confronto con il video. Sarà una sfida impegnativa: occorrerà individuare algoritmi complessi e pro­babilmente potrà rendersi necessario far ricorso anche alle reti neurali.

2. L’inquinamento radioelettrico


All’inizio del 2025 c’è stato un aggiornamento del software di CAR
MELO. Con la nuova versione, la banda passante è stata ristretta a 20 kHz e gli apparati sono stati dotati di un nuovo e più efficace filtro software sui falsi positivi.

Fig.11 – Il segnale trasmesso da T viene ricevuto dagli n ricevitori R dopo una riflessione negli n punti di riflessione speculare P.


Dopo questo aggiornamento, la nostra attenzione si è concentrata sul rumo­re: perché ciò che tutti gli astrofili ed astrofotografi ben conoscono riguardo l’inquinamento luminoso è esatta­mente drammaticamente vero anche per l’inquinamento radioelettrico. La maggioranza dei nostri siti soffre della presenza di ponti radio, torri 4G o 5G, oltre ai trasmettitori televisivi e radiofonici, ma anche in stazioni riceventi in luoghi relativamente non inquinati abbiamo rilevato la novità di questi ultimi anni e cioè i satelliti per la telefonia da cellulari in orbita bassa.
Di conseguenza, una modifica che a breve verrà introdotta sarà l’utilizzo di un filtro a banda stretta, in perfetta similitudine all’osservazione fotome­trica o alla fotografia amatoriale.


3. La velocità del microprocessore


L’amico Roberto Lulli, ricercato­re associato INAF nei progetti Space Debris e SETI in qualità di analista programmatore, ha proposto una modifica al nostro software al fine di utilizzare in parallelo i quattro core del microprocessore, dedicando ogni core ad uno dei vari compiti che attualmen­te CARMELo svolge in maniera seriale. Qualora questa modifica andasse in porto potremmo più che raddoppiare la velocità del ricevitore con conseguenti evidenti miglioramenti sia nella riso­luzione temporale delle forme d’onda, sia dell’individuazione degli istanti dei fronti di salita ed anche del numero delle meteore rilevate.
Roberto, che è anche insegnante di informatica all’ I.T.T.S. “G. & M. Montani” di Fermo (FM), ha coinvolto nell’idea gli studenti dei propri corsi, che hanno ri­sposto mostrando molto interesse. È la prima volta che CARMELo entra in una scuola e speriamo che altre ne seguano.


4. L’ampliamento della rete

Fig. 12 – Osservazioni simultanee
dello stesso evento da parte di diversi
osservatori della rete CARMELO. In alto
si notano i diversi istanti tra i fronti di salita.
In basso la dislocazione geografica. Si può
apprezzare un andamento da sud ovest verso
nord est.


Da quanto detto finora emerge chiaramente che sia per quel che riguarda il tasso orario ed il conse­guente studio degli sciami, sia per quel che riguarda la ricezione simul­tanea tra più ricevitori ed il conse­guente lavoro su traiettorie e velocità delle meteore, l’ampliamento della rete potrebbe rappresentare un salto di qualità.
Attualmente, la rete conta 13 rice­vitori, dislocati in Italia, Regno Unito e USAk ed altre istallazioni sono attese in Croazia, a Porto San Giorgio e a Como, mentre interesse al progetto è stato mostrato da ricercatori in Cata­logna. L’auspicio è che altri astrofili ed istituzioni vogliano entrare a far parte della rete osservativa.
Per partecipare al progetto non ser­vono competenze avanzate: basta un modesto investimento economico, una corretta installazione dell’anten­na e tanta curiosità scientifica.
Il ricevitore è pensato per essere autocostruitol, ma chi non volesse intraprendere il lavoro manuale può scriverci, lo metteremo in contatto con un autocostruttore di nostra fi­ducia. Ognuno può entrare a far parte della comunità dei radio osservatori meteorici tramite CARMELO! Tutte le informazioni per partecipare sono nel nostro sito www.astrofiliabologna.it/carmelo.

Fig. 13 – Installazione di un ricevitore

Riferimenti
a) Cis Verbeeck, Jean-Louis Rault. Radio meteor observations. HANDBOOK FOR METEOR OBSERVERS: International Meteor Organization Edited byJürgen Rendtel 2022
b) https://fireballs.ndc.nasa.gov/cmor-radiants/index.html
c) Barbieri, L. (2016)” An atenna,a radio and a microprocessor: which kinds of observation are possible in meteor radio astronomy?”.IMC – IMO Egmond, the Netherlands, 2-5 June 2016 – page 26
d) https://it.wikipedia.org/wiki/Software_defined_radio
e) http://www.astrofiliabologna.it/graficocarmelo
f) http://www.astrofiliabologna.it/graficocarmelohr
g) Maglione M., Barbieri L. (2025)“January 2025 CARMELO report”,
h) eMetN Journal https://ui.adsabs.harvard.edu/
i) W.G Elford, L Campbell: Effect of meteoroid fragmentation on radar observations ol meteor trails (ESAPSB2): NASA Astrophisic data system
j) M.T. German: Utilizing Video Meteor Trails to Understand Radio Meteor Detection: WGN, the Journal of the
IMO 51:4 (2023)
k) http://www.astrofiliabologna.it/obs_on_line
l) http://www.astrofiliabologna.it/about_carmelo

Seguite ogni mese i bollettini di CARMELO su coelum.com, nella sezione Il Cielo del Mese, per scoprire i dati aggiornati sull’attività meteorica osservata dalla rete radio degli astrofili.

 


L’articolo è pubblicato in COELUM 273 VERSIONE CARTACEA

L’universo ruota? Una possibile soluzione alla crisi dell’espansione cosmica

Autori: Balázs Endre Szigeti, István Szapudi, Imre Ferenc Barna, Gergely Gábor Barnaföldi
Istituzioni: Eötvös Loránd University, HUN-REN Wigner Research Centre for Physics, University of Hawaii, Institute for Astronomy

Un universo in rotazione per spiegare la discrepanza più controversa della cosmologia

Il cosiddetto Hubble tension, cioè il disaccordo tra la misura dell’espansione dell’universo da osservazioni locali e quelle derivate dalla radiazione cosmica di fondo (CMB), è oggi il più significativo punto critico del modello cosmologico standard ΛCDM. Mentre i dati del satellite Planck indicano un valore del parametro di Hubble di circa 67,4 km/s/Mpc, misure dirette su supernovae di tipo Ia osservate con il Hubble Space Telescope restituiscono un valore di circa 73 km/s/Mpc. La divergenza ha raggiunto un livello di significatività di 5σ, troppo elevato per essere attribuito a semplici errori sistematici.

In un nuovo studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, un gruppo internazionale di ricercatori propone un’idea sorprendente quanto antica: e se l’universo ruotasse?

Una lenta rotazione per armonizzare le due cosmologie

I ricercatori, guidati da Balázs Szigeti (Eötvös Loránd University) e István Szapudi (University of Hawaii), hanno sviluppato un modello cosmologico che incorpora una rotazione su larga scala all’interno di un fluido oscuro – un’entità teorica che unifica materia oscura ed energia oscura. Utilizzando l’approccio di tipo Sedov–Taylor per risolvere le equazioni di fluido autogravitante (il sistema di Euler–Poisson), il team ha simulato l’evoluzione del parametro di Hubble sia in assenza che in presenza di rotazione.

Sorprendentemente, una rotazione lenta ma costante, con un valore attuale dell’angolo di velocità pari a ω₀ ≈ 0,002 Gyr⁻¹, è sufficiente a colmare il divario tra i due valori osservativi di H₀. Questo valore è compatibile con le osservazioni cosmologiche esistenti e, soprattutto, prossimo al limite massimo teorico che evita paradossi temporali come i loop causali chiusi.

Una rotazione compatibile con la fisica conosciuta

L’idea di un universo rotante non è nuova: già Kurt Gödel nel 1947 ipotizzò una soluzione rotante alle equazioni di Einstein. Tuttavia, tali modelli sono spesso incompatibili con le osservazioni della radiazione cosmica di fondo. Il modello proposto in questo studio, al contrario, si basa su una rotazione globale estremamente debole, sufficiente per produrre un effetto cumulativo sull’espansione cosmica senza introdurre anisotropie rilevabili.

Il valore iniziale della rotazione stimato al tempo della decoupling (quando si è formata la CMB) è ω(t_CMB) ≈ 3,54 Myr⁻¹, coerente con la fisica del periodo. Il modello predice inoltre che il contributo della rotazione diminuisce con l’espansione dell’universo, risultando oggi appena percettibile ma ancora dinamicamente rilevante.

Una proposta affascinante, ma ancora da testare

I risultati sono promettenti, ma gli autori sottolineano che si tratta solo di un primo passo. Il modello considera esclusivamente l’effetto della rotazione sul parametro di Hubble, senza ancora affrontare l’intero complesso di vincoli osservativi del modello ΛCDM, come la formazione delle strutture, le oscillazioni acustiche barioniche o l’abbondanza degli elementi leggeri.

Ulteriori ricerche, in particolare simulazioni N-body rotanti e trattamenti relativistici completi, saranno necessarie per valutare la compatibilità del modello con l’universo osservato.

Fonte MNRAS, “Can rotation solve the Hubble Puzzle?” (2025)

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