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Astrosismologia per stelle ZZ Ceti, nane bianche pulsanti

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Stella nana bianca. Crediti: NASA/ESA.
Tempo di lettura: 3 minuti

L’astrosismologia studia le pulsazioni delle stelle ZZ Ceti, nane bianche pulsanti, per svelare la loro struttura interna, i meccanismi di pulsazione e l’evoluzione.

 

L’astrosismologia studia la struttura delle stelle pulsanti attraverso l’analisi delle onde sismiche che si propagano dal nucleo alla superficie, risultando dunque visibili nella fotosfera sotto forma di variazioni periodiche di luminosità. Essendo la frequenza e l’ampiezza di tali oscillazioni direttamente collegate alle caratteristiche del mezzo di diffusione, l’astrosismologia fornisce importanti informazioni sulle proprietà fisiche dei vari strati dell’interno stellare. Tra i numerosi fenomeni ondulatori osservati, i cosiddetti “breathing pulses” (BPs; letteralmente, “impulsi respiratori”) rappresentano la manifestazione di episodi di mescolamento degli elementi presenti nelle stelle di massa piccola o intermedia. Si tratta di pulsazioni che hanno luogo al confine tra la zona convettiva centrale, responsabile del mescolamento, e quella non convettiva ad essa circostante durante la fase di bruciamento nucleare dell’elio (i.e., core helium burning, CHeB). In particolare, si ritiene che i BPs possano alterare l’assetto chimico del nucleo al punto da influenzare lo stadio evolutivo stellare finale di nana bianca, poiché capaci di spostare il confine tra le due zone: in questo modo, parte dell’elio accumulato nella zona non convettiva rientra in quella convettiva e viene utilizzato come nuovo combustibile per prolungare la fase di CHeB. Ciò comporta l’aumento non solo della massa della zona convettiva, ma anche dell’abbondanza centrale di ossigeno, l’elemento derivante dalla sintesi dell’elio. Il cambiamento di dimensione e composizione chimica del nucleo si ripercuote allora inevitabilmente sul restante percorso evolutivo della stella.

Una recente indagine astrosismologica sulle stelle nane bianche con progenitori di 1M⊙e 2.5M⊙ha rivelato che la loro struttura interna dipende dal verificarsi o meno dei BPs attraverso un confronto tra i periodi di oscillazione osservati e quelli ricavati da opportuni modelli teorici. Più specificamente, l’attenzione è stata concentrata sulle nane bianche pulsanti con atmosfere ricche di idrogeno, chiamate stelle ZZ Ceti. Due quindi i modelli realizzati per ciascun valore di massa iniziale di una stella nana bianca appartenente alla categoria ZZ Ceti: uno con e uno senza BPs (caso BP e caso non-BP, rispettivamente).

Abbondanza di elio nel nucleo in funzione della durata della fase di
CHeB per il modello con progenitore di 1 M⊙. Nel caso BP (linea blu)
la durata della fase di CHeB è maggiore rispetto al caso non-BP
(linea rossa). Crediti: arXiv.

La ricerca ha in primis confermato che la presenza dei BPs ha il netto effetto di allungare la fase di CHeB a discapito della successiva fase di ramo asintotico delle giganti (i.e., asymptotic giant branch, AGB) a causa del minor quantitativo di elio rimasto per alimentarla. Tuttavia, la diversa durata della fase di AGB sembra non avere un impatto considerevole sulla nana bianca da essa emergente. Inoltre, il calcolo dei profili chimici dell’ossigeno 16O evidenzia l’esistenza di un nucleo con estensione e concentrazione centrale di 16O maggiori nel caso BP anziché nel caso non-BP. Tale differenza si traduce, in termini astrosismologici, in uno sfasamento di circa 30 secondi del periodo di pulsazione relativo al caso BP in confronto al canonico caso non-BP, a dimostrazione di come lo spettro di oscillazione e la composizione chimica del nucleo siano legati in modo diretto.

Abbondanza di 16O in funzione della massa del nucleo,
maggiore nel caso BP (linea nera solida) rispetto al caso non-BP
(linea nera tratteggiata) per il modello di 1 M⊙ (pannello
superiore) e per il modello di 2.5 M⊙ (pannello inferiore). Crediti:
arXiv.

Segnatamente, i risultati finora esposti valgono per entrambi i valori di massa iniziale presi in esame. Nondimeno, sembra vi sia una lieve discrepanza tra questi e le predizioni di altri modelli, che prevedono una maggiore incidenza dei BPs sull’abbondanza di ossigeno e la grandezza del nucleo delle nane bianche ZZ Ceti. Servirà pertanto ulteriore lavoro per affinare le tecniche simulative astrosismologiche così da ottenere una migliore compatibilità fra gli innumerevoli modelli proposti.

Fonte:arXiv.

MOND vs Materia Oscura: Nuove Prove Sostengono la Gravità Modificata

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Anello di materia oscura attorno ad un ammasso di galassie. Crediti: ESA/Hubble.
Tempo di lettura: 4 minuti

Gravità modificata per rimuovere la materia oscura: nuove prove a favore della MOND

Galassie con massa superiore a 1011 𝑀⊙ esistevano già 10 Gyr fa, ma solo una minima frazione di esse (circa 0.1%) è sopravvissuta inalterata sino ad oggi perché non interessata da lunghe e ripetute fasi di formazione stellare né da fusioni con galassie limitrofe: si tratta delle cosiddette galassie fossili compatte e massicce. Seguendo il diagramma a diapason di Hubble, tali galassie ricadono nella categoria “early-type” (i.e., tipo primitivo) e possono essere classificate come ellittiche (E0-E7, a seconda del grado di ellitticità) o lenticolari (S0). Il modello cosmologico standard (i.e., ΛCDM) suggerisce che la formazione galattica obbedisca allo schema dell’assemblamento gerarchico: in tale scenario, quasi tutte le attuali galassie early-type (i.e., early-type galaxies, ETGs) nascerebbero quindi come galassie compatte e quiescenti ad alto redshift, rapidamente cresciute in massa a seguito dell’inglobamento di sistemi minori e contraddistinte da un’ormai cessata attività di formazione stellare.

Diagramma a diapason di Hubble, che distingue tra galassie di tipo
primitivo (early-type) e di tipo tardo (late-type). Crediti: COSMOS – The
SAO Encyclopedia of Astronomy.

Prima di una decina di anni fa, caratterizzare le galassie fossili compatte rappresentava un’operazione estremamente difficoltosa per via della mancanza di candidati osservati. Tuttavia, la recente scoperta di un campione di tali oggetti, NGC 1277, Mrk 1216 e PGC 032873, nell’Universo locale ha consentito di avviare uno studio più metodico e approfondito che ha portato ad individuare una serie di importanti proprietà fisiche, tra cui la forma allungata, l’alta velocità di rotazione, l’elevata dispersione di velocità e la presenza di popolazioni stellari molto vecchie. Al contrario delle comuni ETGs, però, queste tre galassie non avrebbero subito interazioni dinamiche e avrebbero anzi mantenuto sostanzialmente immutata la configurazione raggiunta al termine della fase più intensa di formazione stellare. Infatti, la loro storia di formazione stellare avrebbe avuto un picco nelle prime fasi di vita dell’Universo per poi declinare fino a spegnersi del tutto, fatto che avrebbe determinato la fine della loro evoluzione rendendole appunto fossili.

Poiché, in particolare, la struttura e la morfologia di NGC 1277 non trovano spiegazione all’interno del paradigma dell’assemblamento gerarchico, il quale prevede l’esistenza degli aloni di materia oscura, i noti ricercatori Robin Eappen e Pavel Kroupa hanno utilizzato il formalismo della dinamica newtoniana modificata (i.e.,Modified Newtonian Dynamics, MOND) per risalire al meccanismo di formazione delle galassie fossili compatte osservate. Teoria gravitazionale non-relativistica che generalizza l’azione classica della gravità, la MOND si propone di giustificare l’eccesso di massa nelle galassie, misurato a partire dall’associata curva di rotazione, senza chiamare in causa la materia oscura. Essa introduce dunque la costante 𝑎0 ≈ (1.2 ± 0.2) × 10−8cm s−2, avente le dimensioni di un’accelerazione, a marcare il confine tra due diversi regimi: per valori di accelerazione minori di 𝑎0 vigono le leggi della MOND (i.e., regime dinamico MOND), mentre per valori ad essa superiori rimangono valide le leggi della dinamica newtoniana e della relatività generale (i.e., regime dinamico classico). In pratica, la comparsa di una nuova accelerazione cosmologica comporta la modifica dell’azione della gravità all’interno del regime MOND. Per tale ragione, la formazione di strutture galattiche secondo la MOND avviene molto più in fretta rispetto alle predizioni del modello ΛCDM: ergo, al posto dell’assemblamento gerarchico si avrà il collasso monolitico della materia presente nell’Universo primordiale. Ciò significa che le nubi di gas non rotanti originatesi dopo il Big Bang collassano su se stesse in modo isolato e senza necessitare dell’intervento della materia oscura, che viene di conseguenza esclusa dall’intero processo.

Tasso di formazione stellare del modello e39, che
risulta massimo entro 4 Gyr (area color indaco).
Crediti: arXiv.

Le galassie fossili compatte, in quanto sistemi stellari non-relativistici, rientrano nel regime MOND e possono pertanto essere studiate come naturale esito dello scenario cosmologico del collasso monolitico. Sfruttando i modelli computazionali di tali galassie precedentemente realizzati da Eappen, costui e Kroupa hanno scelto tra questi la galassia simulata “e39” per effettuare un confronto diretto con NGC 1277, Mrk 1216 e PGC 032873.

Profilo di densità superficiale del modello e39 (linea blu) confrontato con quelli delle galassie osservate NGC 1277, Mrk 1216 e PGC 032873 (linee rossa, viola e verde). Crediti: arXiv.

L’analisi delle proprietà cinematiche di queste ha rivelato una forte similitudine con quelle di e39, come l’alta velocità di rotazione e l’elevata dispersione di velocità centrale. Inoltre, la formazione stellare in e39 appare pressoché conclusa entro 4 Gyr dopo il Big Bang, andando quindi a coprire l’intervallo temporale di 2 Gyr in cui sono state generate le stelle delle tre galassie esaminate. Infine, l’andamento piuttosto ripido del profilo di densità di massa di e39 risulta comparabile a quello osservato; nello specifico, si trova una maggiore corrispondenza tra e39 e NGC 1277, dato anche il valore condiviso della massa stellare totale (i.e., 𝑀∗≈ 1011𝑀⊙, in conformità con l’aspettativa teorica).

 

 

Profilo di velocità di rotazione del modello e39
(linea blu) confrontato con quelli delle galassie
osservate NGC 1277, Mrk 1216 e PGC 032873
(linee rossa, viola e verde). Crediti: arXiv.

 

 

Profilo di dispersione di velocità del modello e39
(linea blu) confrontato con quelli delle galassie
osservate NGC 1277, Mrk 1216 e PGC 032873
(linee rossa, viola e verde). Crediti: arXiv.

 

 

 

 

 

Una scoperta notevole, insomma, che evidenzia l’emergere spontaneo delle galassie fossili compatte all’interno dell’Universo dipinto dalla MOND, in cui l’azione della materia oscura nel processo di formazione galattica può diventare superflua. Se questa teoria sia in grado di far traballare pericolosamente il modello cosmologico standard, solo il futuro potrà dirlo. Ma, grazie al telescopio spaziale James Webb (JWST) e alla missione Euclid, ne sapremo presto di più.

 

Fonte:arXiv.

Spettacolo su Io: Juno cattura due pennacchi vulcanici attivi

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Dati immagine: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS Elaborazione immagine a cura di: AndreaLuck © CC BY
Tempo di lettura: 2 minuti

Immagini mozzafiato e dati scientifici rivoluzionari da Juno

La sonda Juno della NASA ha catturato immagini spettacolari di due pennacchi vulcanici attivi su Io, la luna di Giove. Le foto, acquisite il 21 luglio 2023 durante il 43° passaggio ravvicinato di Juno ad Io, mostrano due distinte eruzioni vulcaniche, una nella regione Tvashtar Paterae e l’altra nella regione Prometheus.

La sonda Juno:

Juno è una sonda spaziale robotica lanciata dalla NASA il 5 agosto 2011. L’obiettivo principale della missione è lo studio approfondito di Giove, il più grande pianeta del nostro Sistema Solare. Juno è in orbita polare attorno a Giove dal 4 luglio 2016 e ha già completato 43 passaggi ravvicinati (flyby) del gigante gassoso.

I passaggi ravvicinati di Juno ad Io:

Durante i suoi flyby di Io, Juno ha acquisito immagini e dati scientifici di inestimabile valore sulla superficie lunare, la sua atmosfera e la sua magnetosfera. Le immagini del 21 luglio 2023 sono le più ravvicinate mai ottenute di un’eruzione vulcanica su Io.

Cosa succederà il 24 febbraio 2024:

Il 24 febbraio 2024, Juno compirà il suo 48° flyby di Io, il più ravvicinato di sempre. La sonda passerà a soli 1.500 km dalla superficie lunare, offrendo un’opportunità unica per studiare l’attività vulcanica di Io in dettaglio senza precedenti.

L’eruzione vulcanica su Io:

Le eruzioni vulcaniche su Io sono le più potenti del Sistema Solare. I pennacchi di gas e polvere possono raggiungere altezze di centinaia di chilometri. L’eruzione catturata da Juno nella regione Tvashtar Paterae è stata particolarmente intensa, con un pennacchio che ha raggiunto un’altezza di oltre 300 km.

L’obiettivo della missione Juno:

L’obiettivo principale della missione Juno è quello di ottenere una migliore comprensione della formazione e dell’evoluzione di Giove. La sonda sta studiando l’atmosfera del pianeta, la sua magnetosfera, la sua struttura interna e la sua composizione chimica. I dati raccolti da Juno aiuteranno gli scienziati a svelare i segreti del gigante gassoso e a comprendere meglio il suo ruolo nella formazione del sistema solare.

Le immagini di Juno e le future scoperte:

Le immagini di Juno delle eruzioni vulcaniche su Io sono un passo avanti fondamentale per la comprensione del vulcanismo su questa luna di Giove. I dati raccolti dalla sonda durante il suo flyby del 24 febbraio 2024 forniranno informazioni ancora più precise e dettagliate sull’attività vulcanica di Io e aiuteranno gli scienziati a svelare i misteri di questa affascinante luna.

Note tecniche sulla sonda Juno:

  • Lancio: 5 agosto 2011
  • Arrivo in orbita attorno a Giove: 4 luglio 2016
  • Numero di flyby di Io: 43 (al 9 febbraio 2024)
  • Prossimo flyby di Io: 24 febbraio 2024
  • Distanza minima dal flyby di Io del 24 febbraio 2024: 1.500 km

Strumenti scientifici a bordo di Juno:

  • JunoCam: una camera ottica per l’acquisizione di immagini
  • JIRAM: un mappatore ad infrarosso
  • JEDI: un magnetometro
  • Waves: uno strumento per lo studio delle onde radio
  • MWR: un radiometro a microonde
  • RPWI: uno strumento per lo studio delle particelle cariche

Per approfondire:

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Venerdì 16 febbraio Difendiamo il Cielo Notturno

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Tempo di lettura: 3 minuti

Venerdì 16 febbraio evento web a favore della difesa del cielo notturno

in occasione della 31° Giornata Nazionale sull’Inquinamento luminoso

l’iniziativa è organizzata da UAI Unione Astrofili Italiani

in collaborazione con PlanIt Associazione dei Planetari Italiani

con la partecipazione di INAF Istituto Nazionale di Astrofisica

Venerdì 16 febbraio ricorre la 31° Giornata Nazionale sull’Inquinamento luminoso. L’iniziativa, dedicata alla tutela del cielo notturno, è organizzata dall’Unione Astrofili Italiani (UAI) con la collaborazione dell’Associazione dei Planetari Italiani (PLANit) e con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). In tutta Italia, presso gli osservatori astronomici gestiti dalle delegazioni dell’UAI, e durante la speciale diretta web che andrà in onda sui profili social dell’UAI, a partire dalle ore 20:45 si parlerà di inquinamento luminoso e di tutti gli strumenti a nostra disposizione per proteggere il cielo stellato e ridurre l’impatto dell’illuminazione artificiale sull’ambiente.

La Giornata Nazionale sull’Inquinamento luminoso rientra nel calendario astrofilo UAI 2024, che raccoglie tutti gli eventi di grande interesse per gli appassionati di astronomia, e nel calendario delle attività dei planetari italiani. Celebrata dal 1993 nel mese di ottobre, da quest’anno l’iniziativa è stata riprogrammata a febbraio per creare una sinergia con la campagna “M’Illumino di Meno” organizzata dal programma radiofonico Caterpillar, di Rai Radio Due. L’obiettivo della collaborazione è includere alla campagna di sensibilizzazione – incentrata sul risparmio energetico e sugli stili di vita sostenibili – anche la tematica dell’inquinamento luminoso. Venerdì 16 febbraio – proprio al termine della trasmissione radiofonica, che ha ospitato nei giorni scorsi interventi a cura degli esperti dell’UAI, di PLANit e INAF – andrà in onda, in diretta sulla pagina Facebook e sul canale YouTube dell’Unione Astrofili Italiani, un evento dedicato al tema dell’inquinamento luminoso.

Ad aprire la speciale diretta web saranno il Presidente dell’Unione Astrofili Italiani Luca Orrù e il Presidente dell’Associazione dei Planetari Italiani Dario Tiveron. La parola passerà poi al Referente della Sezione “Inquinamento luminoso” dell’UAI, Mario Di Sora, che introdurrà il tema dell’inquinamento luminoso e illustrerà una panoramica della normativa in materia e il lavoro svolto dagli astrofili, citando casi studio ed esempi pratici. “Faremo il punto della situazione non solo con riferimento al fenomeno fisico che rappresenta una grave alterazione del cielo notturno, senza parlare delle altre implicazioni scoperte in questi anni per l’uomo e l’avifauna, ma anche per conoscere le esperienze maturate sul territorio in relazione al rispetto delle numerose leggi regionali vigenti in Italia “, spiega Mario Di Sora. “Un quadro che presenta luci e ombre in quanto, se da un lato la gran parte del territorio nazionale è tutelata a livello legislativo, è anche vero che la diffusione sempre più invasiva dei led ha portato a un proliferare di impianti, prima non esistenti, che mettono a rischio le finalità dei provvedimenti esistenti, specie se si considera che nella cultura di tanti astrofili ancora non è passato il messaggio che devono impegnarsi in prima persona per verificare lo stato di applicazione concreta e diffusa delle leggi vigenti”.

Tra gli ospiti, la ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e Presidente della Società Astronomica Europea Sara Lucatello; il prof. Fabio Arcidiacono, Presidente di CieloBuio; il direttore dell’Osservatorio Astronomico della Regione Autonoma Valle d’Aosta e del Planetario di Lignan Jean Marc Christille; il direttore del Museo di Scienze Naturali dell’Alto Adige e del Planetario Alto Adige David Gruber; il ricercatore dell’INAF OAPd e linceo prof. Roberto Ragazzoni; rappresentanti della polizia di Roma, l’unica capitale in campo mondiale a effettuare controlli specifici su vari tipi di impianti inquinanti; e l’esperto Luca Zaggia di VenetoStellato, Associazione che si occupa dello studio e del contenimento dell’inquinamento luminosoIn occasione dell’evento online il pubblico potrà quindi conoscere, dalla viva voce di esperti, gli strumenti che abbiamo per ottenere risultati concreti nella lotta all’inquinamento luminoso, “le best pratices che hanno dato i migliori risultati in Italia e che possono fare la differenza tra l’accettare passivamente una certa situazione ed essere protagonisti del cambiamento e della tutela del firmamento”.

La speciale diretta web vedrà inoltre la partecipazione di alcune Delegazioni dell’UAI, impegnate nella stessa serata, presso i propri Osservatori astronomici, a sensibilizzare il pubblico riguardo alla tutela del cielo notturno. In particolare, sono previsti interventi del Presidente dell’Associazione Astronomica del Rubicone Matteo Montemaggi, del Referente del team “Inquinamento luminoso” dell’Associazione Tuscolana di Astronomia Paolo Crescenzi, del Coordinatore scientifico del Centro Astronomico “Neil Armstrong” di Salerno Biagio De Simone, del Presidente dell’Associazione Maremmana Studi Astronomici Nazario Montuori e del Presidente del Circolo Culturale Astrofili Trieste Muzio Bobbio.

La pagina dell’evento è sul sito UAI

COME SEGUIRE L’EVENTO ONLINE

⇒La diretta web per la Giornata Nazionale sull’Inquinamento luminoso andrà in onda venerdì 16 febbraio alle ore 20:45 ai seguenti link:

– PAGINA FACEBOOK UAI: https://it-it.facebook.com/UnioneAstrofiliItaliani/

– CANALE YOUTUBE UAI: link

Atmosfere in Pericolo: La Sfida per l’Abitabilità dei Pianeti di TRAPPIST-1

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TRAPPIST-1 e pianeti associati, denominati con le lettere b, c, d, e, f, g, h. Crediti: Nasa/R. Hurt/T. Pyle.
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Fuga delle atmosfere planetarie nella zona abitabile attorno alla stella TRAPPIST-1

La ricerca di pianeti abitabili al di là della Terra costituisce un tema di estremo interesse astrofisico soprattutto a seguito dal lancio del telescopio spaziale James Webb (JWST), che ha permesso di studiare in dettaglio le atmosfere degli esopianeti (i.e., i pianeti non appartenenti al Sistema Solare). Il sistema planetario sviluppatosi presso la stella TRAPPIST-1, nana rossa di tipo spettrale M8 situata nella costellazione dell’Aquario, ospita 7 pianeti rocciosi, di cui i 4 più esterni hanno massa comparabile a quella terrestre e risiedono all’interno della zona abitabile. Specificamente, la zona abitabile attorno ad una stella è definita come la distanza orbitale a cui un pianeta può trovarsi per poter mantenere acqua allo stato liquido sulla sua superficie; nel caso di TRAPPIST-1, essa è compresa nell’intervallo 0.03-0.06 AU (1AU = 1.496 x 108 km). Naturale è dunque chiedersi se questi 4 pianeti siano anche in grado di trattenere un’atmosfera per un periodo di tempo abbastanza lungo da permettere la nascita e la crescita di microrganismi multi-cellulari.

Numerosi sono i processi che possono provocare la perdita di un’atmosfera planetaria. Per esempio, i meccanismi non-termici, associati ai venti della stella ospite e al campo magnetico del pianeta, sono dominanti nell’attuale Sistema Solare, mentre quelli termici prevalgono in sistemi planetari maggiormente irradiati dalle loro stelle: poiché il 46% degli esopianeti osservati si trova ad una distanza inferiore a quella di Mercurio dal Sole, le perdite di atmosfera per via termica risultano molto comuni. In particolare, la fuga di Jeans è un meccanismo termico di perdita di atmosfera che si verifica quando la velocità delle molecole di gas atmosferico supera la velocità di fuga dal pianeta; si tratta di un meccanismo tipico degli strati più alti delle atmosfere planetarie, che tendono ad assorbire una considerevole quantità di radiazione X e UV per poi convertirla in energia cinetica molecolare.

L’effetto della fuga di Jeans sulle atmosfere dei pianeti all’interno della zona abitabile di TRAPPIST-1 è stato esplorato attraverso il codice Kompot, che permette di simulare la risposta degli strati superiori di queste alla radiazione stellare altamente energetica da cui sono investiti. Giacché svariati fattori possono influenzare la fuga di Jeans, nei modelli computazionali realizzati sono stati presi in considerazione i seguenti parametri: la massa planetaria, la composizione atmosferica e l’irraggiamento. Più in dettaglio, per valutare quest’ultimo è stato assunto come riferimento il flusso radiativo nella banda UV estrema (EUV) che la Terra riceve dal Sole, ovvero FEUV,⊕= 4.77 erg s−1 cm−2, di modo che i valori di irraggiamento simulati sono stati 1, 2, 4, 6, 8, 10, 12, 14 FEUV,⊕. Inoltre, la composizione atmosferica è stata analizzata in termini di rapporto tra le percentuali di CO2e N2 (%CO2/%N2), come 10/90, 20/80, 40/60, 60/40, 80/20, 90/10, 99/1.

Per un pianeta di massa uguale alla Terra si trova che la fuga di Jeans è trascurabile al di sotto di 6 FEUV,⊕ indipendentemente dalla composizione atmosferica calcolata mediante i suddetti rapporti percentuali, risultato che ben si accorda con le predizioni teoriche, secondo cui la perdita di atmosfera cresce proporzionalmente alla quantità di energia radiativa assorbita. Di conseguenza, la probabilità che un pianeta ricevente un flusso radiativo maggiore di 6 FEUV,⊕ perda una parte consistente della propria atmosfera è elevata. Si stima che il livello di irraggiamento odierno di TRAPPIST-1 dovrebbe portare alla perdita dell’atmosfera dei 4 pianeti nella zona abitabile nel giro di qualche miliardo di anni, e che quelli più interni siano già stati privati di atmosfera in passato a causa dell’eccessiva vicinanza alla stella. Da ciò si conclude allora che nessuno dei pianeti di TRAPPIST-1 sopravviverà alla perdita di atmosfera per meccanismo termico di fuga di Jeans.

Data la natura molto generale dei modelli simulativi utilizzati, ossia tali da non adattarsi esclusivamente alle caratteristiche del sistema planetario esaminato, sarà possibile effettuare indagini sulle atmosfere di altri esopianeti nel prossimo futuro, così da continuare la ricerca di una nuova candidata Terra.

Fonte: arXiv

Anelli attorno al centauro Chariklo: nuove scoperte e implicazioni

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Ecco una rappresentazione artistica di come potrebbero apparire gli anelli di Chariklo Credito: ESO/L. Calçada/M. Kornmesser/ Nick Risinger ( skysurvey.org )
Tempo di lettura: 3 minuti

Anelli attorno al centauro Chariklo: nuove scoperte e implicazioni

Introduzione

Nel 2014, la scoperta di due anelli attorno al centauro Chariklo ha rivoluzionato la nostra comprensione dei sistemi di anelli nel Sistema Solare. Chariklo, un corpo ghiacciato di circa 250 km di diametro che orbita tra Saturno e Urano, è diventato il primo oggetto trans-nettuniano ad ospitare un sistema di anelli. La sua esistenza ha aperto nuove domande sulla formazione e l’evoluzione di questi sistemi in ambienti diversi da quelli dei giganti gassosi.

Caratteristiche degli anelli

I due anelli di Chariklo, denominati Oiapoque e Chui, sono sorprendentemente sottili e densi. Oiapoque, l’anello più esterno, ha una larghezza di circa 7 km e si trova a una distanza di circa 400 km dal centro di Chariklo. Chui, l’anello più interno, è largo circa 3 km e orbita a 340 km dal centro. Entrambi gli anelli sono composti da particelle di ghiaccio d’acqua di dimensioni micrometriche.

Nuove osservazioni e analisi

Recenti osservazioni condotte con il Very Large Telescope (VLT) dell’ESO hanno rivelato nuovi dettagli sugli anelli di Chariklo. Le osservazioni hanno mostrato che gli anelli sono molto più complessi di quanto si pensasse in precedenza. Oiapoque, l’anello più esterno, presenta una struttura a due corsie, con una banda più densa all’interno e una più rarefatta all’esterno. Chui, l’anello più interno, è più omogeneo, ma presenta alcune zone più luminose e altre più scure.

Un piccolo satellite potrebbe aver modellato gli anelli

Un nuovo studio, pubblicato su Physical Review Letters, suggerisce che un piccolo satellite potrebbe aver contribuito a modellare gli anelli di Chariklo. Lo studio simula l’interazione tra un satellite di dimensioni chilometriche e gli anelli e mostra che il satellite potrebbe aver creato la struttura a due corsie di Oiapoque e le zone luminose e scure di Chui.

Anelli simulati attorno a Chariklo da questa ricerca, con un satellite di circa 3 chilometri di raggio in una risonanza di movimento medio 6:5. Le particelle dell’anello sono mostrate in bianco. Due anelli sono vincolati all’incirca nelle stesse posizioni e con le stesse larghezze di quelli osservati a Chariklo. L’anello interno è asimmetrico attorno a Chariklo, il che è anche coerente con i dati sull’occultazione stellare di Chariklo. Il nostro software modella milioni di particelle ad anello in una cellula, quindi questa immagine è stata creata unendo insieme i valori delle cellule in momenti diversi nel corso di un periodo orbitale. Credito: Sickafoose e Lewis (2024).

Implicazioni

Le nuove scoperte sugli anelli di Chariklo hanno importanti implicazioni per la nostra comprensione dei sistemi di anelli nel Sistema Solare. La loro complessità suggerisce che questi sistemi potrebbero essere più comuni di quanto si pensasse in precedenza e che la loro formazione potrebbe essere un processo più complesso di quanto si credeva. La scoperta di un possibile satellite che ha modellato gli anelli di Chariklo apre ancora nuove possibilità ad un quadro già difficile da districare.

Conclusioni

Gli anelli di Chariklo sono un sistema affascinante e complesso che ci sta insegnando molto sulla formazione e l’evoluzione dei sistemi di anelli nel Sistema Solare. Le future ricerche, con l’aiuto di telescopi come il James Webb Space Telescope, continueranno a svelare i segreti di questi anelli unici e a far luce sulla loro formazione e sul loro ruolo nell’evoluzione del Sistema Solare.

L’articolo sulle nuove scoperte in merito agli anelli di Chariklo è qui: https://iopscience.iop.org/article/10.3847/PSJ/ad151c

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News da Marte #25

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Tempo di lettura: 8 minuti

 

Bentornati su Marte!

Sono stati giorni in cui chi segue, anche solo distrattamente, le cronache del Pianeta Rosso, non ha potuto fare a meno di leggere le notizie sui problemi sperimentati da Ingenuity. In questa nuova puntata della rubrica ‘News da Marte’ facciamo lo stato con le ultimissime immagini e dichiarazioni da parte dell’agenzia NASA. In chiusura c’è spazio per alcune attività del rover Perseverance, legate anch’esse alla gestione dell’emergenza dell’elicottero. Si parte!

Ingenuity non volerà più

Non ripeterò per filo e per segno cosa è successo a Ingenuity in queste ultime settimane in quanto l’ho descritto molto nel dettaglio in un paio di news uscite il 23 e il 29 gennaio, ma un breve riassunto è comunque utile.

Il 6 gennaio l’elicottero ha eseguito il suo volo numero 71 il quale si è però interrotto prematuramente portando il software di navigazione a eseguire un atterraggio di emergenza. Con lo scopo di osservare la regione dell’atterraggio, il 18 gennaio viene comandato un volo di ricognizione senza spostamento orizzontale, così da fotografare le aree circostanti e confermare la posizione di Ingenuity.

È il Sol 1035 quando l’attività viene avviata. Il flusso della telemetria di volo, trasmessa in tempo reale al rover, procede senza intoppi confermando l’ascesa sino a 12 metri di quota e la conseguente discesa. Ma a pochi secondi dall’atterraggio le comunicazioni si interrompono. Si pensa in quel momento che la conformazione del terreno abbia ostacolato la trasmissione radio, e il giorno successivo al volo si riesce a riprendere contatto con Ingenuity che conferma lo stato positivo dei propri sistemi.

Qualche Sol dopo arrivano finalmente delle immagini, e alla NASA si scopre il reale stato dell’elicottero.

Sol 1040 alle ore 10:12 locali. Il danno si rivela nella sua drammatica portata. NASA/JPL-Caltech/Piras

Questa prima foto del 23 gennaio documenta per mezzo dell’ombra catturata dalla camera RTE che la punta di almeno un rotore è danneggiata. Tre frammenti di colore bluastro al suolo sembrano proprio pezzi di fibra di carbonio, il materiale principale di cui il guscio esterno delle quattro leggerissime eliche è composto.

Tre Sol più tardi viene ricevuta una serie di fotografie scattate a intervalli regolari dalla camera a colori RTE. La camera è fissa, ma si sfrutta il movimento del Sole in cielo per avere uno scorcio più ampio delle ombre proiettate al suolo dai rotori dell’elicottero. Nel corso di circa 3 ore e 20 minuti Ingenuity scatta 14 fotografie, e la strategia ha successo. Il risultato della sequenza è visibile nel video che segue.

Sol 1043, a sinistra l’ombra di una seconda elica entra nel campo inquadrato: è anch’essa danneggiata. NASA/JPL-Caltech/Piras

Si riesce così a osservare il secondo rotore (non è dato sapere quale sia il superiore e quale l’inferiore) il quale mostra anch’esso un grave danno alla punta della pala.

Cosa sappiamo dell’incidente? Cosa sarà di Ingenuity?
La NASA sta provando a dare risposta a questa e altre domande.

Il 31 gennaio viene condotta una live sui canali web dell’agenzia spaziale per comunicare lo stato dell’elicottero. Nel corso dell’evento Teddy Tzanetos, Project Manager di Ingenuity, aggiunge molti dettagli interessanti pur ammettendo che su alcuni aspetti c’è ancora qualche incertezza.

Si ritiene che i rotori siano stati danneggiati da un impatto a elevata velocità delle eliche con il suolo, deduzione che era possibile avanzare già nell’immediatezza della diffusione delle prime immagini. Non c’è una registrazione della telemetria in quanto essa è andata persa a causa di un riavvio nel momento del brusco atterraggio, quindi il JPL non è in grado di ricostruire l’esatta cronologia degli eventi. Il dubbio è se un calo di potenza abbia preceduto e causato il violento impatto al suolo o se viceversa l’impatto abbia causato il black-out radio. Nel caso di questa seconda ipotesi, è possibile che il radar incaricato di misurare l’altezza dal terreno sia stato ingannato dalla polvere sollevata dal flusso d’aria. Sono tutte congetture, ed è possibile che non avremo una risposta definitiva a questi dubbi.

Sono stati comunque esclusi danni causati dall’atterraggio di emergenza avvenuto nel volo 71 in quanto, sebbene Ingenuity abbia toccato il suolo con un residuo di velocità laterale, il team che gestisce l’elicottero ha eseguito una serie di verifiche (test a 50 giri al minuto e ad alta velocità) che non hanno fatto registrare anomalie o risonanze. In base ai test Ingenuity sembrava in ottima salute, da qui la decisione di procedere serenamente con il volo 72 che si sarebbe rivelato essere l’ultimo.

Il colpo o, per meglio dire, i colpi subiti dai rotori hanno quasi certamente interessato tutte e quattro le eliche come si può dedurre dalla seconda serie di immagini. Le ombre mostrano infatti solo due eliche ma esse non appartengono allo stesso rotore. Viene quindi meno la possibilità che sia stata solo la coppia di eliche inferiori a impattare il terreno.

Anche nel caso di un danno “simmetrico” a entrambe le eliche delle due coppie è totalmente escluso che Ingenuity possa proseguire le sue attività aeree, e la ragione è duplice.

La prima è quella più intuitiva, ovvero che il bilanciamento dei rotori deve essere perfetto praticamente al grammo. Diversamente si introducono instabilità che rendono il velivolo totalmente incontrollabile.

La seconda ragione deriva dallo studio della dinamica del volo. Le eliche di Ingenuity sono a tutti gli effetti dei profili alari che esercitano portanza. Tale effetto di spinta verso l’alto è per la gran parte generato dalla parte delle eliche che ha una velocità lineare maggiore, ovvero proprio le punte. Mutilato della parte dei suoi rotori che maggiormente contribuisce alla portanza, la quale raggiunge velocità sino a 230 metri al secondo, non c’è alcuna possibilità che Ingenuity possa alzarsi dal suolo.

Fotogramma del volo 70 del 22 dicembre. NASA/JPL-Caltech

La conferma se il danno interessi anche le eliche sull’altro lato, ancora non osservate, arriverà nel momento in cui Ingenuity svolgerà alcuni test. Del resto il drone è pienamente operativo e nonostante l’incidente si trova, forse un po’ fortunatamente, in posizione verticale.

Si prevede di azionare i rotori a bassa velocità (è possibile comandare una singola mezza rotazione) per far ruotare le eliche e osservarle nella loro interezza. È inoltre in programma di azionare anche il motore che svolge la funzione di regolatore di passo, il dispositivo che sugli elicotteri varia l’angolo di attacco delle eliche e consente di gestirne le fasi di volo.

Azioni come questa sono state documentate da riprese estremamente ravvicinate che il rover Perseverance ha svolto nei giorni dei primi test di Ingenuity. Sono un bel documento che già al tempo, quasi tre anni fa, ci aiutò a capire meglio come funzionava questo elicottero che non sapevamo neanche se sarebbe riuscito a sollevarsi il volo.

Tutte queste azioni di verifica saranno svolte con il supporto di acquisizioni fotografiche e video: sicuramente con le camere dello stesso Ingenuity ma probabilmente anche quelle di Perseverance.

Perseverance inizia a osservare, da lontano

Si sperava che il rover potesse avvicinarsi all’elicottero nei prossimi giorni marziani per eseguire riprese da vicino e, da bravo assistente, aiutarci a capire nel dettaglio cosa sia successo durante quello sciagurato 18 gennaio. Questo non sarà purtroppo possibile.

La NASA ha chiarito che Ingenuity si trova non lontano dal rover, poche centinaia di metri, ma purtroppo in una posizione irraggiungibile.

Mappa aggiornata al 5 febbraio. NASA/JPL-Caltech

A separare Perseverance e Ingenuity c’è una larga striscia di sabbia, in teoria ottima per atterraggi morbidi ma un’assassina per le ruote del rover. Il rischio che il rover si insabbi per degli scopi tutt’altro che prioritari rispetto a quelli scientifici ha fatto decidere fin da subito per condurre le osservazioni solo da lontano.

Negli scorsi giorni Perseverance si è fatto largo verso ovest, non senza difficoltà (lo vedremo meglio nella prossima puntata di questi aggiornamenti), attraversando dei campi rocciosi che hanno messo alla prova le doti del suo autonavigatore. Dalla posizione indicata nella mappa, raggiunta nel Sol 1049 (1 febbraio), il rover ha catturato una panoramica impressionante rivolta verso nord-ovest nella quale abbiamo un’ampia visuale della striscia sabbiosa su menzionata.

Sol 1052, Right NavCam di Perseverance. NASA/JPL-Caltech/Piras

Di questa immagine ho realizzato anche una versione stereo fruibile con gli occhialini 3D magenta/ciano. L’osservazione a piena risoluzione è più che consigliata.

Stessa immagine, combinazione di Left e Right NavCam in forma di anaglifo. NASA/JPL-Caltech/Piras

Un’analisi delle increspature nella sabbia aiuta a capire che regione della mappa è inquadrata.

NASA/JPL-Caltech/Piras

Sembra che per un soffio, forse appena poche decine di metri, Perseverance non riesca a vedere l’elicottero! Il rover si trova in una zona parecchio accidentata con piccoli rilievi che ostacolano la linea di vista tra i due robot.

Il 4 febbraio, Sol 1052, Perseverance riprende a spostarsi verso ovest. È un movimento che al momento non è ancora stato inserito nella mappa ma che alcuni appassionati sono riusciti a ricostruire, trovando conferma delle analisi altimetriche che avevano previsto l’esistenza di aree di visibilità non troppo lontane dalla posizione da cui la panoramica era stata scattata.

Analisi dell’utente @65dBnoise su Mastodon

A metà dello spostamento Perseverance avrebbe puntato le sue MastCam-Z verso la posizione presunta di Ingenuity, e riusciamo a rivedere il nostro elicottero.

Sol 1052, mosaico di riprese a 110 mm di focale di una delle MastCam-Z. Upscaling 2x. NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras

Aspettiamo un’analisi ufficiale di questa foto, ma abbiamo già qualche elemento su cui ragionare considerando che la camera a colori dell’elicottero è posizionata sul lato a favore di ripresa, rivolta approssimativamente verso sud.

C’è un segno scuro a sinistra che, considerando l’inclinazione della sabbia, potrebbe essere il punto di primo contatto del piede dell’elicottero che è poi scivolato verso il basso lasciando una striscia scura sulla sabbia (non visibile nelle immagini della camera RTE) mentre si riassestava.
Proprio sotto il corpo dell’elicottero c’è un secondo segno scuro che troverebbe corrispondenza nel buco sulla sabbia, forse lasciato dall’impatto delle eliche, che si osserva nitidamente nelle immagini. Ben evidente poi sulla destra l’ombra del corpo di Ingenuity, di nuovo non visibile nell’immagine.

Last minute!

A pochi minuti dalla pubblicazione dell’articolo ho scoperto che è stata appena rilasciata una serie di frame acquisiti da Ingenuity il 31 gennaio e relativi all’anticipato test di variazione dell’assetto delle eliche. Si tratta di 129 fotogrammi catturati in appena 5.4 secondi, spremendo la camera di navigazione ai frame rate che usa abitualmente solo durante i voli. Durante le attività aeree solo una piccola parte di questi fotogrammi viene salvata, il resto è immediatamente cancellato dopo aver assolto la propria funzione di ausilio alla navigazione.

 

Per questo grosso aggiornamento su Ingenuity è tutto.
In attesa di nuove informazioni sull’elicottero, e soprattutto per conoscere le attività che nel frattempo Perseverance e Curiosity stanno svolgendo, vi do appuntamento alla prossima puntata di News da Marte.

APOC n°1 Arp 273 Rosa Cosmica

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Tempo di lettura: < 1 minute
La redazione è lieta di annunciare la prima
APOC Astronomy Picture of Coelum

Arp 273 Rosa Cosmica

di Lorenzo Busilacchi

Arp 273 (APG 273) è composta da due galassie interagenti e situata in direzione della costellazione di Andromeda alla distanza di 345 milioni di anni luce dalla Terra

Somma di 4 sessioni: 15-16-17-19 agosto 2023
Configurazione strumentale: Light 101X300″ 8 hours 25″, Filtro Optolong l-pro 2″, Telescope C11, 1680mm f6.3, Camera ASI 2600 MC Pro -10°, 100gain.

Località: Margine Rosso, Quartu, Sardinia, Italy

La Rosa Cosmica di Lorenzo Busilacchi è la prima ad entrare nel WALL OF FAME di COELUM! I complimenti della redazione all’autore per il lavoro eccellente!

La Rosa Cosmica è pubblicata in PhotoCoelum QUI

 

Una Crepa nel Modello Cosmologico Standard?

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Galassia LEDA 2046648. Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, A. Martel.
Tempo di lettura: 3 minuti

Curve di rotazione delle galassie ad alto redshift: una possibile crepa nel modello cosmologico standard?

La curva di rotazione delle galassie rappresenta la velocità di rotazione delle stelle in funzione della distanza dal centro galattico (i.e., raggio). Studi sulle regioni HI (i.e., idrogeno neutro in forma atomica) presenti nel disco della Via Lattea hanno mostrato che tale moto di rotazione è di tipo differenziale, ovvero che la velocità delle stelle varia proprio in relazione al raggio: più una stella si trova vicino al centro della galassia ospite e più la sua velocità è elevata. Questa proprietà è collegata alla concentrazione di materia nelle galassie, poiché le stelle acquistano  maggiore energia cinetica negli ambienti più densi, come appunto le zone centrali. In particolare, nel caso della Via Lattea e delle galassie limitrofe, la curva di rotazione è composta da due diversi tratti, quello rigido e quello piatto. Il tratto rigido, in cui la velocità stellare cresce in maniera direttamente proporzionale al raggio, si riferisce alla parte più interna delle galassie, mentre il tratto piatto, in cui la velocità stellare rimane costante, alla parte più esterna. Tuttavia, l’andamento della curva di rotazione a grandi raggi risulta anomalo in quanto non conforme alle predizioni teoriche, che indicano un tratto cosiddetto kepleriano, ossia decrescente, anziché un tratto piatto. Il fatto che la velocità delle stelle non diminuisca all’aumentare del raggio significa che la distribuzione di massa nelle galassie non coincide con quella osservata: in altre parole, sembra esserci molta più materia di quella visibile tenendo conto della quantità totale di stelle, gas e polveri diffuse. Tale materia, esistente ma non emittente luce, è stata denominata “oscura” e ad oggi sembra costituire circa l’83% della materia nell’Universo.

Curve di rotazione con tratto piatto delle galassie
nell’Universo locale. Crediti: arXiv.

Dunque, le curve di rotazione delle galassie nell’Universo locale sono contraddistinte, al pari di quella della Via Lattea, da un tratto finale piatto invece che kepleriano. Ciononostante, recenti indagini spettroscopi che hanno rivelato come le curve di rotazione di un campione di galassie ad alto redshift tendono a comportarsi in modo opposto, ovvero a declinare bruscamente a grandi raggi.

Se questa caratteristica fosse comune nell’Universo remoto, si dovrebbe rivalutare il ruolo della materia oscura nella formazione delle galassie. Utilizzando delle complesse simulazioni computazionali, due ricercatori dell’Università di Cardiff hanno cercato di ottenere le curve di rotazione declinanti delle galassie lontane ripercorrendo il processo di formazione galattica nel contesto del modello cosmologico standard, secondo cui al collasso gravitazionale degli aloni di materia oscura seguirebbe la caduta della materia barionica (i.e., ordinaria) nelle buche di potenziale associate. Essi hanno quindi adottato varie configurazioni iniziali di materia barionica e oscura e le hanno lasciate evolvere nel tempo, trovando infine che, indipendentemente dallo scenario di partenza, si arriva a galassie aventi struttura e dinamica simili. Ciò accade perché tutti i neonati sistemi stellari passano attraverso una fase di rilassamento violento che ne cancella i segni identificativi e le irregolarità fino a stabilire una condizione di equilibrio, con l’effetto che essi perdono memoria della loro configurazione iniziale. Pertanto, le curve di rotazione delle galassie simulate non differiscono significativamente l’una dall’altra e appaiono conformi alle aspettative del modello cosmologico standard, che postula l’esistenza del tratto piatto come manifestazione della predominanza di materia oscura nell’Universo. Un brusco declino della curva di rotazione potrebbe infatti derivare soltanto dalla rimozione dell’alone di materia oscura dalla galassia in formazione.

Curve di rotazione con tratto rapidamente
declinante nel campione di galassie ad
alto redshift esaminato confrontate con
quelle della Via Lattea (linea solida verde)
e di M31 (linea tratteggiata rossa). Crediti:
arXiv.

Dal momento che il risultato è allora una curva di rotazione con tratto piatto per la maggioranza delle galassie lontane simulate, non è possibile formulare l’ipotesi di universalità delle curve di rotazione rapidamente declinanti a grandi raggi per le galassie ad alto redshift. Allo stesso tempo, la congettura che alcune galassie si siano formate all’interno degli aloni di materia oscura e altre no sembra non essere ancora sufficientemente supportata dal punto di vista teorico. Di conseguenza, si attendono ulteriori evidenze osservative dell’Universo remoto per decretare se il numero di galassie del campione esaminato possa essere ampliato al fine di avviare una revisione del modello cosmologico standard.

 

Fonte: arXiv

Il Cielo di Febbraio 2024

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Tempo di lettura: 6 minuti

IL CIELO DI FEBBRAIO 2024

COSTELLAZIONI DI FEBBRAIO 2024

I GEMELLI NEL CIELO DI FEBBRAIO

La costellazione boreale dei Gemelli transita al meridiano proprio nel mese di febbraio ed è protagonista della stagione invernale con le sue stelle principali Castore e Polluce, che rappresentano le teste dei due gemelli zodiacali; la costellazione ci accompagna per tutta la notte, splendendo alta in direzione Sud-Ovest e tramontando infine poco prima dell’alba.

Tutte le descrizioni sono in Le Costellazioni del mese di Febbraio

a cura di @teresamolinaro

I principali eventi di Febbraio 2024 (pubblicati nell’Almanacco 2024 distribuito in omaggio a tutti gli abbonati)

Data Ora Cosa Come

01/02/2024 08:44 Congiunzione Luna-Spica
02/02/2024 17:57 Mercurio Afelio
03/02/2024 00:17 Ultimo Quarto
05/02/2024 01:52 Congiunzione Luna-Antares
07/02/2024 19:53 Congiunzione Luna-Venere
08/02/2024 07:32 Congiunzione Luna-Marte
08/02/2024 22:59 Congiunzione Luna-Mercurio
09/02/2024 23:59 Luna Nuova
10/02/2024 19:49 Luna Perigeo
11/02/2024 01:39 Congiunzione Luna-Saturno
12/02/2024 07:43 Congiunzione Luna-Nettuno
13/02/2024 18:01 Luna Nodo Ascendente
14/02/2024 01:35 Venere Nodo Discendente
15/02/2024 09:15 Congiunzione Luna-Giove
16/02/2024 02:59 Congiunzione Luna-Urano
16/02/2024 16:00 Primo Quarto
16/02/2024 20:49 Congiunzione Luna-Pleiadi
21/02/2024 02:33 Congiunzione Luna-Polluce
22/02/2024 03:52 Congiunzione Luna-Presepe
22/02/2024 16:35 Congiunzione Venere-Marte
24/02/2024 00:25 Congiunzione Luna-Regolo
24/02/2024 13:30 Luna Piena
25/02/2024 15:59 Luna Apogeo
27/02/2024 23:53 Luna Nodo Discendente
28/02/2024 09:19 Mercurio Congiunzione Sup.
28/02/2024 15:20 Congiunzione Luna-Spica
28/02/2024 22:00 Saturno Congiunzione Sole

Tutte le effemeridi del mese di Febbraio 2024 sono disponibili in file csv

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LUNA

Nell’immagine lo scatto di Angelo Meduri

Luna e stelle nel cielo

Nei primi 10 giorni di febbraio ben 5 congiunzioni interessano la Luna. Andiamo a vederle nel dettaglio.

Tutto nella rubrica Luna di Febbraio 2024

COMETE

LA POONS-BROKS SI PRENDE LA SCENA

Sicuramente è la 12P/Poons-Brooks la star di febbraio ma soprattutto dei prossimi due mesi. Avviata al perielio di aprile raggiungerà infatti valori luminosi da piccolo binocolo, incentrando su di sé tutta l’attenzione.

Per approfondire: le comete di Febbraio 2024 a cura di @claudiopra

ASTEROIDI

GLI ASTEROIDI IN OPPOSIZIONE A FEBBRAIO

e consigli per le riprese

(451) Patientia, (192) Nausikaa,  (216) Kleopatra, (372) Palma, (31) Euphrosyne, (63) Ausonia

Trovi tutto qui: Mondi in miniatura – Asteroidi, Febbraio 2024 a cura di @mioxzy

TRANSITI NOTEVOLI ISS

La ISS – Stazione Spaziale Internazionale sarà rintracciabile nei nostri cieli ad orari tardo pomeridiani nella prima parte del mese, ed orari antelucani nella seconda. Avremo sei transiti notevoli con magnitudini elevate durante il mese, auspicando come sempre in cieli sereni.

Non perdere la rubrica Transiti notevoli ISS per il mese di Febbraio 2024 a cura di @stormchaser

SUPERNOVAE – AGGIORNAMENTI

Grandi scoperte nel mese di gennaio, @fabio-briganti e Riccardo Mancini ce le raccontano sapientemente qui!

Cieli sereni a tutti!


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La Luna di Febbraio 2024

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Nell'immagine lo scatto di Angelo Meduri
Tempo di lettura: 4 minuti

Nei primi 10 giorni di febbraio ben 5 congiunzioni interessano la Luna. Andiamo a vederle nel dettaglio.

Si inizia il primo giorno (01 febbraio) quando la Luna incontra Spica, astro principale della Costellazione della Vergine. L’avvicinamento sarà visibile già nelle ore notturne verso est, ed alle 05:48, fine della notte astronomica, saranno distanti poco più di 2°. Il massimo della congiunzione è previsto alle 08:44 a 1.7°N.
Il giorno 03 la Luna è già all’ultimo quarto, nei giorni successivi quindi, in prossimità delle altre congiunzioni si presenterà come una falce sempre più sottile, ottima per favorire gli scatti.

Luna – Spiga la mattina del 02 febbraio intorno alle 06:00. La luce de Sole lascerà ancora per poco libero il campo. Direzione Sud-Ovest, altezza orizzonte circa 20°.

Il giorno 05 febbraio la Luna avvicina Antares, questa volta nello Scorpione, il massimo è previsto a notte inoltrata, ore 01:52 con separazione addirittura 0.6°N, purtroppo in quel momento gli astri saranno sotto l’orizzonte. Li si potrà scorgere vicini solo poco prima delle 04:00 quando compariranno a ES

Luna e Antares molto bassi sull’orizzonte intorno alla 4:30 del mattino del 5 febbraio a SSE.

Dopo due giorni, il 07 febbraio, è la volta di Venere, la congiunzione fra il satellite e il pianeta splendente mancava da un pò, niente di speciale però perché i due oggetti saranno già tramontati per il massimo previsto alle 19:53 a più di 5° S di distanza. Meglio sperare nella posizione del mattino quando i due astri appariranno allineati rispetto alla linea di orizzonte già alle 06:00. La tenue luce dell’alba, la falce di Luna sottile (appena 12,6%) e la luminosità del pianeta potrebbero dar vita ad un bel quadro. A marzo la situazione migliorerà.

Accenno di congiunzione fra Venere – Luna difficile da osservare perchè molto basso sull’orizzonte poco prima dell’alba del 7 febbraio.

Il giorno 08 passiamo a Marte e Mercurio insieme, in un triangolo con i due pianeti ai vertici in alto e la Luna nel vertice in basso. Consapevoli però che ci stiamo approssimando al Sole ed alla Luna Nuova, il massimo della congiunzione è previsto per le 07:32 con 4.2S° di distanza fra Luna e il pianeta rosso, e 3.2°S con Mercurio, e prima ci sarà davvero poco margine, solo una cinquantina di minuti fra il sorgere della Luna (più in basso rispetto a Marte) e il massimo.

Nella simulazione la Luna con Marte e Mercurio dopo aver in lontananza lasciato Venere. Alle 07:20 circa il Sole avrà già fatto capolino e la Luna apparirà come una piccola falce. Osservazione non facile ma stimolante con una finestra molto piccola, solo qualche decina di minuti, prima dell’alba.

Il 09 febbraio arriva la Luna Nuova che si trasformerà in una sottilissima nuova falce (solo 1,6%) nell’incontro l’11 con Saturno. Il massimo è previsto alle 01:39 ma i due astri saranno sotto l’orizzonte.

Saltiamo al giorno 15 con la Luna che sorgerà intorno alle 10:00 del mattino già molto vicina a Giove. Nel corso della giornata purtroppo la distanza continuerà aumentare ma i due astri saranno abbastanza vicini (circa 4° N) anche per tutta la sera fino a dopo la mezzanotte.

Luna Giove nella sera del 15 febbraio accompagnati dal Urano verso Ovest.

Per consolarci potremo puntare sempre sulle amate Pleiadi, il giorno 16, ad una distanza minima media di 0.6°S visibili per tutta la notte.

Luna Pleiadi il giorno 16 in direzione Ovest, ore circa 22:00.

Il 21 febbraio sarà favorevole anche l’avvicinamento a Polluce, visibile per tutta la notte ad una distanza di circa 1.6°S. Il 24 la Luna Piena si avvicinerà a Regolo a 3.6°N ma probabilmente la forte luce dell’astro coprirà la tenue luminosità della stella.

FASE DATA ORE SORGE CULMINA TRAMONTA DISTANZA DIAM. APP.
Ultimo Quarto 03-feb 00:18 01:12 06:15 11:04 394498 km 1811.3
Luna Nuova 09-feb 23:59 07:17 12:05 16:55 361239 km 1951.6
Primo Quarto 16-feb 16:01 10:27 17:19 00:46 377032 km 1905.8
Luna Piena 24-feb 13:30 17:53 00:09 07:09 405423 km 1793.3
FASE DATA
Luna Calante dal 01 al 09
Luna Crescente dal 10 al 24
Luna Calante dal 25 al 29

 

FASE DATA ORE DISTANZA DIAM. APP.
Perigeo 10-feb 19:49 358086 km 1966.1
Apogeo 25-feb 15:59 406311 km 1788.4

–  Ogni fenomeno lunare e rispettivi orari sono rapportati alla Città di Roma, dati rilevati dai siti https://theskylive.com/http://www.marcomenichelli.it/luna.asp


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Mondi in miniatura – Asteroidi, Febbraio 2024

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Tempo di lettura: 6 minuti

GLI ASTEROIDI IN OPPOSIZIONE FEBBRAIO

e consigli per le riprese

(451) Patientia, (192) Nausikaa,  (216) Kleopatra, (372) Palma, (31) Euphrosyne, (63) Ausonia

(451) Patientia è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.960 giorni (5.47 anni) ad una distanza compresa tra le 2.85 e le 3.28 unità astronomiche (rispettivamente, 426.353.931 Km al perielio e 490.681.016 Km all’afelio). Il nome “Patientia” deriva dal latino e significa “pazienza”. Scoperto da A. Charlois il 4 Dicembre 1899, questo grande asteroide di 225 Kilometri di diametro è considerato tra i 15 asteroidi più grandi della fascia. (541) Patientia sarà in opposizione il 6 del mese. In questo frangente raggiungerà la massima brillantezza con una magnitudine di 11.2, il suo moto sarà di 0,56 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto mantenga un aspetto puntiforme nelle  nostre immagini potremo utilizzare tempi di esposizione fino a 5 minuti. Per ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (451) Patientia trasformarsi in una bella striscia luminosa di 22 secondi d’arco.

Traiettoria seguita dall’asteroide (451) Patientia nel mese di febbraio. Crediti: https://in-the-sky.org/

(192) Nausikaa è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.360 giorni (3.72 anni) ad una distanza compresa tra le 1.81 e le 2.99 unità astronomiche (rispettivamente, 270.772.146 Km al perielio e 447.297.633 Km all’afelio). Deve il suo nome a Nausicaa,  Figlia di Alcinoo, re dei Feaci, e di Arete; Nausicaa è la protagonista di uno degli episodi più celebri dell’Odissea (libro VI), nel quale conforta e aiuta Ulisse naufrago, accompagnandolo dal padre. Scoperto il 2 Ottobre 1910 da Johann Palisa, (192) Nausikaa è un asteroide con un diametro stimato di circa 86 chilometri ed è classificato come un asteroide di tipo S, che sta ad indicare una composizione principalmente rocciosa, con la presenza di altri elementi come ferro e nichel. (192) Nausikaa sarà in opposizione il 9 Febbraio, momento nel quale raggiungerà la massima luminosità brillando di magnitudine di 10.6. Il suo moto sarà di 0,68 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto mantenga l’aspetto puntiforme nelle  nostre immagini utilizzeremo tempi di esposizione fino a 5 minuti. Per ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (192) Nausikaa trasformarsi in una bella striscia luminosa di 27 secondi d’arco. 

Traiettoria seguita dall’asteroide (192) Nausikaa nel mese di febbraio. Crediti: https://in-the-sky.org/

(216) Kleopatra è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.710 giorni (4.68 anni) ad una distanza compresa tra le 2.09 e le 3.50 unità astronomiche (rispettivamente, 312.659.550 Km al perielio e 523.592.547 Km all’afelio). Deve il suo nome alla regina egizia Cleopatra Tèa Filopàtore, conosciuta anche come Cleopatra VII o più brevemente Cleopatra.  (216) Kleopatra è noto per avere almeno due lune, nominate AlexHelios e CleoSelene, scoperte grazie alle osservazioni del telescopio Keck II alle Hawaii. La presenza di lune attorno a un asteroide è relativamente rara e fornisce un’opportunità unica per studiare la dinamica orbitale e la massa dell’asteroide principale. Scoperto da Johann Palisa il 10 aprile 1880, questo grande asteroide (circa 120 Km di diametro) sarà in opposizione il 14 Febbraio, momento nel quale raggiungerà la massima luminosità brillando di magnitudine di 11.3. Il suo moto sarà di 0,60 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto mantenga un aspetto puntiforme nelle  nostre immagini potremo utilizzare tempi di esposizione fino a 5 minuti. Per ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (216) Kleopatra trasformarsi in una bella striscia luminosa di 24 secondi d’arco. 

Traiettoria seguita dall’asteroide (216) Kleopatra nel mese di febbraio. Crediti: https://in-the-sky.org/

(372) Palma è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 2.050 giorni (5.61 anni) ad una distanza compresa tra le 2.36 e le 3.96 unità astronomiche (rispettivamente, 353.050.975 Km al perielio e 592.407.568 Km all’afelio). Il nome “Palma” potrebbe derivare da varie fonti o ispirazioni, un’ ipotesi è che debba il suo nome in onore della capitale dell’isola di Majorca. Scoperto da  Auguste Charlois il 19 Agosto 1893, questo imponente asteroide (circa 190 Km di diametro) sarà in opposizione il 16 Febbraio, momento nel quale raggiungerà la massima luminosità brillando di magnitudine di 10.7. Il suo moto sarà di 0,74 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto mantenga un aspetto puntiforme nelle  nostre immagini potremo utilizzare tempi di esposizione fino a 5 minuti. Per ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (372) Palma trasformarsi in una bella striscia luminosa di 29 secondi d’arco.

Traiettoria seguita dall’asteroide (372) Palma nel mese di febbraio. Crediti: https://in-the-sky.org/

(31) Euphrosyne è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 2.050 giorni (5.61 anni) ad una distanza compresa tra le 2.48 e le 3.84 unità astronomiche (rispettivamente, 371.002.719 Km al perielio e 574.455.823 Km all’afelio). Deve il suo nome a Eufrosine, una delle grazie nella mitologia greca. (31) Euphrosyne è il corpo progenitore di una famiglia composta da circa duemila asteroidi, che condividono proprietà spettrali e elementi orbitali simili, originati a seguito di una evento collisionale avvenuto circa 280 milioni di anni fa. Tutti i membri di questa famiglia presentano inclinazioni orbitali relativamente elevate. Nel 2019 è stato scoperto un piccolo satellite di circa 4Km di diametro, probabilmente nato dallo stesso evento collisionale che ha creato la famiglia. L’asteroide appartiene alla categoria di asteroidi conosciuti come asteroidi di tipo carbonaceo. Gli asteroidi di tipo C sono noti per avere una composizione ricca di carbonio, che conferisce loro una superficie scura e un basso albedo (riflettività). Questi asteroidi, tra i più antichi e primitivi, spesso contenendo acqua congelata e composti organici, sono oggetti di grande interesse per lo studio della composizione originale del sistema solare e delle potenziali origini della vita sulla Terra. Scoperto da James Ferguson il 1 settembre 1854, questo grande asteroide (circa 260 Km di diametro) sarà in opposizione il 17 Febbraio, momento nel quale raggiungerà la massima luminosità brillando di magnitudine di 11.0. Il suo moto sarà di 0,56 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto mantenga un aspetto puntiforme nelle  nostre immagini potremo utilizzare tempi di esposizione fino a 5 minuti. Per ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (31) Euphrsyne trasformarsi in una bella striscia luminosa di 22 secondi d’arco.

Traiettoria seguita dall’asteroide (31) Euphrosyne nel mese di febbraio. Crediti: https://in-the-sky.org/

(63) Ausonia è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni  1.350 giorni (3.70 anni) ad una distanza compresa tra le 2.09 e le 2.70 unità astronomiche (rispettivamente, 312.659.550 Km al perielio e 403.914.251 Km all’afelio). Inizialmente nominato (63) Italia in onore della nostra nazione, venne successivamente rinominato  Ausonia, un nome che si riferisce a un termine poetico per l’Italia. Scoperto da Annibale de Gasparis  il 10 di Febbraio del 1861, (63) Ausonia è un asteroide con un diametro stimato di circa 100 chilometri ed è classificato come un asteroide di tipo S. Gli asteroidi di tipo S (silicacei) sono tra gli oggetti più comuni nella fascia principale interna e sono noti per avere superfici relativamente luminose e un albedo più alto rispetto agli asteroidi di tipo C. Anche (63) Ausonia sarà in opposizione il 17 Febbraio, quando raggiungerà magnitudine 10.2. Il suo moto sarà di 0,67 secondi d’arco al minuto, quindi, con tempi di esposizione fino a 5 minuti ne preserveremo l’aspetto puntiforme. Volendo ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (63) Ausonia trasformarsi in una bella striscia luminosa di 27 secondi d’arco.

Traiettoria seguita dall’asteroide (63) Ausonia nel mese di febbraio. Crediti: https://in-the-sky.org/

 

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Coelum Astronomia 266 2024 Digitale

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Transiti ISS notevoli per il mese di Febbraio 2024

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Tempo di lettura: 3 minuti

Transiti ISS notevoli per il mese di Febbraio 2024

La ISSStazione Spaziale Internazionale sarà rintracciabile nei nostri cieli ad orari tardo pomeridiani nella prima parte del mese, ed orari antelucani nella seconda. Avremo sei transiti notevoli con magnitudini elevate durante il mese, auspicando come sempre in cieli sereni.

 

01 FEBBRAIO

Si inizierà il giorno 1° febbraio, dalle 18:50 alle 18:57, osservando da ONO a SSE. La ISS sarà ben visibile da tutto il paese con una magnitudine massima si attesterà su un valore di -3.2.Se osservata dal Centro, la Stazione Spaziale transiterà vicina al pianeta Giove.

02 FEBBRAIO

Si replica il 2 Febbraio, dalle 18:01verso NO alle 18:11 verso SE. Magnitudine di picco a -3.8 per il miglior transito serale del mese, visibile da orizzonte ad orizzonte da tutta Italia, meteo permettendo.

16 FEBBRAIO

Saltiamo di circa due settimane, al 16 Febbraio, dove avremo il miglior transito mattutino del mese. Visibile da tutto il paese, dalle 06:33 verso SO alle 06:43 verso ENE, con magnitudine massima di -3.6. Sicuramente un passaggio che vale la sveglia anticipata.

17 FEBBRAIO

Passiamo al giorno 17 Febbraio, dalle 05:46 in direzione SSO alle 05:54 in direzione ENE. Osservabile al meglio dal Sud Italia, con una magnitudine massima di -3.2.

19 FEBBRAIO

Il penultimo transito notevole del mese avverrà il 19 Febbraio, da OSO ad ENE, dalle 05:45alle 05:52. Passaggio parziale, con magnitudine massima di -3.8 poco dopo l’uscita della ISS dal cono d’ombra della Terra. Visibilità ottimale da tutta la nazione.

21 FEBBRAIO

L’ultimo transito del mese, il 21 Febbraio, sarà un nuovo passaggio parziale con magnitudine massima di -3.1, visibile al meglio dal Nord Italia. Dalle 05:43alle 05:49, da ONO a NE.

N.B. Le direzioni visibili per ogni transito sono riferite ad un punto centrato sulla penisola, nel centro Italia, costa tirrenica. Considerate uno scarto ± 1-5 minuti dagli orari sopra scritti, a causa del grande anticipo con il quale sono stati calcolati.

In caso di Booster della ISS eseguiti nei giorni successivi alla pubblicazione dell’articolo gli orari possono differire anche in maniera significativa. Vi invitiamo a controllare sempre il sito https://www.heavens-above.com/ soprattutto in caso di programmazione di una sezione di osservazione.


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SUPERNOVAE: aggiornamenti Febbraio 2024

Tempo di lettura: 7 minuti

RUBRICA SUPERNOVAE COELUM   N. 117

Chi sarà stato il primo astrofilo a scoprire una supernova nel 2024? Naturalmente il solito giapponese Koichi Itagaki, che continua a stupirci sempre di più. Sicuramente riprenderà un elevato numero di galassie per notte, ma è indubbio che ha un fiuto eccezionale per le supernovae ed è sempre nel posto giusto al momento giusto, una dote non da poco! La nuova scoperta è stata effettuata nella notte del 4 gennaio nella bella galassia a spirale barrata NGC4216 posta nella costellazione della Vergine a circa 50 milioni di anni luce di distanza. Situata nell’ammasso della Vergine, NGC4216 è accompagnata in cielo, solo prospetticamente, da altre due galassie a spirale: la NGC4206 distante circa 60 milioni di anni luce e la NGC4222 posta leggermente più lontano a circa 70 milioni di anni luce. Al momento della scoperta il nuovo transiente mostrava una luminosità pari alla mag.+16,3.

Nella notte del 5 gennaio dal Haleakala Observatory nelle Isole Hawaii, con il Faulkes Telescope North da 2 metri è stato ripreso lo spettro di conferma, che ha permesso di classificare la SN2024gy come una supernova di tipo Ia scoperta circa due settimane prima del massimo di luminosità, con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiano ad una velocità di circa 17.000 km/s.

1) Immagine della SN2024gy in NGC4216 ripresa da Massimo Marchini in remoto dal Cile con un telescopio Dall-Kirkam da 620mm F.6,5 somma di 3 immagini da 300 secondi per canale LRGB.
2) Immagine della SN2024gy in NGC4216 ripresa da Riccardo Mancini con un telescopio Newton da 250mm F.5 somma di 50 immagini da 120 secondi.
3) Immagine della SN2024gy in NGC4216 ripresa dall’astrofilo francese Robert Cazilhac con un telescopio C14 F.11 somma di 180 immagini da 5 secondi.
4) Immagine della SN2024gy in NGC4216 ripresa da Adriano Valvasori in remoto dal Cile con un telescopio Dall-Kirkam da 610mm F.6,5 somma di 3 immagini da 300 secondi per canale LRGB.

Nei giorni seguenti la scoperta la supernova ha aumentato repentinamente la sua luminosità fino ad arrivare al suo massimo intorno al 18 di gennaio raggiungendo la notevole mag.+12,5. Iniziamo perciò il nuovo anno con una ghiotta occasione per riprendere una luminosa supernova, attualmente la più luminosa di questo inizio anno e posta in un fotogenico terzetto di galassie, fra cui troneggia proprio NGC4216.

Il bravo ed esperto astrofilo giapponese non si è però accontentato di questo importante successo e nella notte del 12 gennaio ha messo a segno una nuova scoperta nella galassia a spirale NGC2550A posta nella costellazione della Giraffa a circa 170 milioni di anni luce di distanza e accompagnata in cielo, solo prospetticamente, da altre due galassie a spirale: la UGC4389 distante circa 110 milioni di anni luce e la UGC4413 posta leggermente più lontano a circa 120 milioni di anni luce. A soli 17 gradi dal Polo Nord celeste NGC2550A è una galassia circumpolare e perciò visibile tutta la notte. Al momento della scoperta la supernova mostrava una luminosità pari alla mag.+17,8 quindi molto più debole rispetto alla precedente, sia per la maggior distanza della galassia ospite che, come vedremo adesso anche perché si tratta di una supernova di tipo II (di solito meno luminose delle tipo Ia). Nella stessa notte della scoperta, dopo solo sette ore, l’astrofilo bellunese Claudio Balcon è riuscito a classificarla per primo nel TNS come una giovane supernova di tipo II, assegnando la sigla definitiva SN2024ws. Abbiamo pertanto una nuova supernova tutta amatoriale, dalla scoperta alla classificazione. In passato NGC2550A aveva visto esplodere al suo interno un’altra supernova di tipo II: la SN2008P scoperta il 23 gennaio 2008 dall’astrofilo cortinese Alessandro Dimai.

5) Immagine della SN2024ws in NGC2550A ripresa dall’astrofilo spagnolo Jordi Camarasa con un telescopio riflettore da 500mm F.6,9 somma di 6 immagini da 60 secondi.
6) Immagine della SN2024ws in NGC2550A ripresa dall’astrofilo spagnolo Rafael Ferrando con un telescopio da 150mm F.4.

I cinesi del programma XOSS, che per tutto il 2023 hanno rivaleggiato a suon di scoperte con Itagaki, potevano rimanere impassibili di fronte alla doppietta del giapponese? Naturalmente no e anche loro hanno messo a segno due belle scoperte. La prima è stata effettuata nella notte del 10 gennaio nella piccola galassia PGC21981 posta nella costellazione della giraffa a circa 140 milioni di anni luce di distanza. Situata anche questa a soli 17 gradi dal Polo Nord celeste, PGC21981 è una galassia circumpolare e perciò visibile tutta la notte. Si trova inoltre a soli 3’ a Sud-Ovest dalla più appariscente galassia a spirale barrata NGC2441, che era in realtà il target principale della ripresa. Come abbiamo scritto altre volte è buona norma controllare sempre anche le galassie secondarie presenti nel campo di ripresa, perché potrebbero regalare grandi soddisfazioni come in questo caso. Al momento della scoperta il nuovo transiente mostrava una luminosità pari alla mag.+16,8 e nella notte del 15 gennaio ancora il nostro Claudio Balcon è riuscito a classificarla per primo nel TNS. La SN2024vs, questa la sigla definitiva assegnata, è una supernova di tipo II ed è quindi un altro target tutto amatoriale.

7) Immagine della SN2024vs in PGC21981 ripresa da Giancarlo Cortini con un telescopio C14 somma di 9 immagini da 60 secondi.

La seconda supernova cinese è stata invece individuata nella notte del 15 gennaio nella piccola galassia UGC2755 posta nella costellazione del Perseo a circa 320 milioni di anni luce di distanza e posizionata grosso modo a metà strada fra la stella Algol e la Nebula California. Al momento della scoperta il nuovo oggetto mostrava una luminosità pari alla mag.+18,6 ed essendo situato molto distante dalla galassia ospite, le previsioni sulla natura del transiente erano indirizzate verso una Variabile Cataclismica della nostra galassia. Invece nella notte del 19 gennaio dal Palomar Observatory in California con il telescopio da 1,5 metri è stato ottenuto uno spettro di conferma che ha permesso di classificare il nuovo oggetto come una supernova di tipo Ia, assegnandole la sigla definitiva SN2024agr.

8) Immagine della SN2024agr in UGC2755 ripresa da Claudio Balcon con un telescopio Newton da 410mm F.5,5 somma di 5 immagini da 60 secondi.

Analizziamo adesso un’altra supernova amatoriale che arriva dal Giappone, non dal solito Itagaki, ma bensì da una new entry. La persona che è riuscita nel colpaccio si chiama Hidehiko Okoshi. Lo abbiamo contattato per saperne di più sulla sua attività di astrofilo. Non è più un ragazzino, ma ha infatti compiuto 68 anni. Abita nella città di Saitama nella prefettura di Saitama, a Nord della capitale Tokyo. Non possiede un vero e proprio osservatorio, ma il suo telescopio Celestron 9,25 da 23cm è posizionato su una terrazza all’ottavo piano di un palazzo e con un cavo lungo 16 metri comanda il telescopio dalla stanza del suo appartamento. Dal suo sito è spesso sereno, però trovandosi non molto lontano da Tokyo riesce al massimo a vedere le stelle di quarta magnitudine. Per gli astrofili giapponesi, Koichi Itagaki è considerato una vera superstar ed in molti cercano di emulare le sue incredibili gesta. Come l’altro astrofilo giapponese Hiroshi Okuno che scoprì la sua prima supernova nel gennaio dello scorso anno, anche Okoshi ha iniziato a fare ricerca di supernovae da tre anni spinto dai successi del grande Itagaki e finalmente nella notte del 16 gennaio ha ottenuto la sua prima scoperta, individuando una nuova stella di mag.+16,2 nella galassia a spirale NGC6106 posta nella costellazione di Ercole a circa 70 milioni di anni luce di distanza. Il primo ad ottenere lo spettro di conferma è stato ancora una volta il nostro Claudio Balcon, che sul fronte spettroscopia sta veramente ottenendo dei risultati straordinari, raggiungendo quota 125 supernovae classificate nel TNS con il suo telescopio Newton da 41cm. Lo spettro ottenuto nella notte del 20 gennaio ha permesso di classificare il nuovo transiente come una supernova di tipo Ib ed assegnarle la sigla definitiva SN2024ahv.

9) Immagine della SN2024ahv in NGC6106 ripresa dall’astrofilo spagnolo Jordi Camarasa con un telescopio riflettore da 500mm F.6,9.
HIdehiko Okoshi accanto al suo telescopio Celestron.

Concludiamo questa ricca rubrica con una scoperta italo-americana, che perciò ci riguarda più da vicino. Nella notte dell’11 gennaio gli astrofili Mirco Villi e Michele Mazzucato, che collaborano da diversi anni con i professionisti americani del CRTS Catalina, hanno individuato una debole stellina di mag.+18,9 analizzando immagini professionali realizzate con il telescopio Cassegrain di 1,5 metri di diametro dell’osservatorio americano sul Mount Lemmon in Arizona. La galassia ospite UGC6424 è una spirale vista di taglio, posta nella costellazione del Leone a circa 230 milioni di anni luce di distanza e situata a meno di due gradi a Nord dalla bella coppia di galassie Messier: M65 e M66. Nella notte del 17 gennaio dal Palomar Observatory in California con il telescopio da 1,5 metri è stato ottenuto lo spettro di conferma, che ha permesso di classificare il nuovo oggetto come una supernova di tipo II, assegnandole la sigla definitiva SN2024wp.

11) Immagine della SN2024wp in UGC6424 ripresa da Claudio Balcon con un telescopio Newton da 410mm F.5,5 somma di 3 immagini da 180 secondi.

Le Comete di Febbraio 2024

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Tempo di lettura: 3 minuti

LA PONS-BROOKS SI PRENDE LA SCENA

Sicuramente è la 12P/Pons-Brooks la star di febbraio ma soprattutto dei prossimi due mesi. Avviata al perielio di aprile raggiungerà infatti valori luminosi da piccolo binocolo, incentrando su di sé tutta l’attenzione.

12P/Pons-Brooks

Il perielio programmato per il 23 aprile si sta avvicinando e la luminosità della cometa si fa interessante, portandosi da un iniziale ottava magnitudine fino alla settima. Inoltre, essendo facile all’outburst (l’ultimo è avvenuto nel corso di gennaio), la 12P potrebbe riservare sorprese. Seguiamola dunque assiduamente, puntando inizialmente i nostri strumenti tra le stelle del Cigno e successivamente tra quelle dell’anonima Lucertola. Infine entro i confini di Andromeda. Sarà meglio osservabile alla sera, non appena fa buio, ma visibile un po’ più bassa anche prima dell’alba.

Cartina della 12P in febbraio. Le stelle più deboli sono di magnitudine 8.

144P/Kushida

Molto al di sotto delle previsioni che predicevano una discreta ottava magnitudine e passata al perielio verso la fine dello scorso mese, la 144P, di decima magnitudine, è osservabile con strumenti non proprio piccoli anche per il suo aspetto completamente diffuso. Perlomeno la sua posizione rende comode le osservazioni dato che la potremo cercare comodamente in prima serata entro i confini del Toro. Le ore a disposizione si estenderanno comunque a buona parte della notte. Il giorno 10 sfiorerà la rossa stella Alfa Aldebaran mentre il 22 passerà nelle vicinanze della coppia di ammassi aperti NGC 1817 e 1807.

Cartina della 144P in febbraio. Le stelle più deboli sono di magnitudine 10.

62P/Tsuchinshan

La 62P è ormai ai saluti, ancora discretamente luminosa a inizio mese quando brillerà attorno alla nona magnitudine. Si muoverà entro i confini della Vergine, rimanendo praticamente inalterata nella posizione, osservabile in piena notte. Trovandosi nella porzione della Vergine occupata dall’Ammasso Coma-Virgola vedremo immersa tra molte galassie, alcune appartenenti al Catalogo Messier, particolare che ci darà l’occasione per riprenderla a largo campo ricavando splendide immagini.

Cartina della 62/P in febbraio

C/2021 S3 PanSTARRS

Sta un po’ deludendo le attese dato che cresce meno del previsto, tanto che la sesta magnitudine che avrebbe dovuto raggiungere a primavera probabilmente resterà una chimera. Purtroppo al suo posto è realistico attendersi una comunque discreta ottava magnitudine. Intanto a febbraio dovrebbe crescere fino alla nona grandezza. Sarà nelle migliori condizioni osservative nell’ultima parte della notte astronomica (specie a inizio mese), inizialmente posizionata nei pressi di Antares, la rossa stella gigante dello Scorpione, in spostamento verso la parte settentrionale del Serpente. Il suo graduale guadagno in declinazione aumenterà la sua altezza sull’orizzonte, permettendoci man mano di anticipare la sessione osservativa. Da annotarsi la data del 13 febbraio, quando transiterà a meno di mezzo grado dal globulare dell’Ofiuco M9.

Cartina della 2021 S3 in febbraio. Le stelle più deboli sono di magnitudine 9.

 

 


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Dopo 72 voli termina la missione di Ingenuity

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Tempo di lettura: 4 minuti

Il momento che temevamo è arrivato nella sera italiana del 25 gennaio 2024 con una comunicazione ufficiale da parte della NASA.
L’elicottero Ingenuity ha subìto un danno nel corso del suo ultimo volo eseguito meno di una settimana fa e non potrà più svolgere altre attività aeree.

A un soffio dai 1000 giorni marziani di operatività diamo l’addio a questo incredibile apparato, il primo a compiere un volo attivo e controllato sulla superficie di un altro pianeta. Vi mostro quegli straordinari secondi della sua prima attività aerea del 19 aprile 2021 in questo video multicamera.

L’ultimo volo, il 72esimo eseguito il 18 gennaio, consisteva in una ascesa alla quota di 12 metri per riprendere il suolo e le aree circostanti. L’obiettivo era documentare l’area dove in precedenza, il 6 gennaio, Ingenuity aveva dovuto effettuare un atterraggio di emergenza in seguito ad alcuni problemi di navigazione che hanno forzato l’interruzione dello spostamento.

Come riportato dalla NASA in un aggiornamento nella sera di giovedì 25, il 18 gennaio l’elicottero ha eseguito la sequenza di decollo ed è arrivato correttamente alla quota desiderata, mantenendola per 4,5 secondi prima di iniziare la discesa. Tuttavia, a un metro dalla superficie, Ingenuity ha interrotto il collegamento radio con il rover Perseverance. A parte alcune ipotesi sulla causa dell’interruzione (ho eseguito delle analisi sull’altimetria della regione che trovate in questa breve news) non è tuttora ufficialmente chiara la causa del problema, né quale fosse l’orientamento di Ingenuity al momento del touch down.

All’indomani del volo il team di controllo ha ripreso contatto con l’elicottero e ha tirato un un sospiro di sollievo, ma è in quel momento che hanno potuto comandare l’apparato per eseguire nuove foto e scoprirne così il reale stato.

Sol 1040, 23 gennaio. NASA/JPL-Caltech

La punta di almeno un rotore, rivelata dall’ombra proiettata al suolo, è spezzata. Questa foto è della camera di navigazione dell’elicottero che punta verso il basso e ha un sensore in bianco e nero a bassa risoluzione.
Si intravede anche un piccolo buco nella sabbia che è meglio mostrato in una serie di altre immagini acquisite dalla camera a colori. Piccoli frammenti bluastri si intravedono in mezzo alla sabbia, sono schegge della fibra di carbonio con cui le eliche sono costruite.

Sol 1040 alle ore 10:12 locali. Il danno si rivela nella sua drammatica portata. NASA/JPL-Caltech/Piras
Sol 1040 alle ore 14:03 locali. NASA/JPL-Caltech/Piras
Sol 1040 alle ore 16:03 locali. NASA/JPL-Caltech

È importante evidenziare che, nonostante il danno, Ingenuity è perfettamente operativo a livello di camere e di elettronica. Ne è prova il fatto che sia riuscito come di consueto a comunicare con il rover Perseverance per inviare queste immagini, e nuove riprese stanno venendo eseguite in questi giorni seguendo le istruzioni dei tecnici del JPL per indagare sulle condizioni dei rotori.

Cosa sia successo non è al momento chiaro. Una tra le ipotesi che si possono avanzare è che Ingenuity sia atterrato leggermente storto e abbia colpito violentemente con la sua elica inferiore (o entrambe) il terreno. Questo sarebbe supportato dal fatto che l’area in cui si trova l’elicottero, come visibile nella mappa sottostante finalmente aggiornata con i voli 71 e 72, è attraversata da innumerevoli rilievi sabbiosi di altezza variabile.

Un atterraggio su un leggero declivio, se eseguito anche con l’aggiunta di una piccola inclinazione dell’elicottero, potrebbe aver causato il catastrofico impatto.
La forma del buco nella sabbia suggerisce che il movimento dell’elica fosse da sinistra verso destra, e anche questo è compatibile con il verso del rotore inferiore di Ingenuity.

Possiamo osservare in questo video alcune sequenze acquisite nei primi giorni di test dell’elicottero. Perseverance osserva Ingenuity con un dettaglio mai più ripetuto mentre il drone varia l’angolo di attacco delle sue eliche e aziona i rotori a bassa velocità.

In mezzo ai vari interrogativi sulla causa del problema, l’unica certezza è che si è chiusa una pagina letteralmente storica dell’esplorazione spaziale.
Ingenuity nasceva come dimostratore tecnologico atto a sperimentare la fattibilità del volo nell’atmosfera di un altro pianeta.

Progettato per eseguire solo 5 voli nell’arco di un mese di operazioni, ha volato per 72 volte sopravvivendo al freddo dell’inverno marziano, allo scarso irraggiamento solare e alla polvere. Ha accumulato poco meno di 129 minuti di volo nel corso dei quali si è spostato per complessivi 17 km, raggiungendo l’altezza massima di 24 metri dal suolo e 10 metri al secondo di velocità. È sopravvissuto al danno a uno dei suoi due inclinometri (che si è rotto a causa delle rigide temperature notturne su Marte) e terreni via via più accidentati.
Ha lavorato anche nell’atmosfera estiva, maggiormente rarefatta perché più calda. Per farlo volare in queste condizioni non programmate, perché progettato per funzionare solo 30 Sol, i tecnici hanno programmato i motori per far vorticare le eliche di Ingenuity ancora più rapidamente passando da 2500 a 2700 giri al minuto.

L’eredità di Ingenuity vivrà nei prossimi velivoli che solcheranno i cieli dei pianeti e dei satelliti del sistema solare, portando la curiosità, la perseveranza e l’ingegno umano a soddisfare il nostro illimitato desiderio di conoscenza.

Grazie Ingenuity.

JWST rivela la struttura sbalorditiva di 19 galassie a spirale

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Diciannove immagini Webb di galassie a spirale frontali combinate in un mosaico, alcune all'interno di quadrati e altre in rettangoli orizzontali o verticali. I bracci a spirale delle galassie appaiono in tonalità arancione e molti dei loro centri hanno sfumature azzurre. Crediti: NASA, ESA, CSA, STScI, J. Lee (STScI), T. Williams (Oxford), PHANGS Team, E. Wheatley (STScI)
Tempo di lettura: 4 minuti

JWST rivela la struttura sbalorditiva di 19 galassie a spirale abbastanza vicine

Un nuovo bottino di immagini provenienti dal telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA cattura i ritratti nel vicino e medio infrarosso di 19 galassie a spirale frontali.

Una nuova serie di splendide immagini che mostrano stelle, gas e polvere su scale così piccole da non essere mai state osservate oltre la nostra galassia. Squadre di ricercatori stanno studiando queste immagini per scoprire le origini delle intricate strutture. 

 

Le immagini del JWST sono state rese pubbliche oggi (29 gennaio 2024) e sono solo una piccola parte di un progetto molto più ampio e di lunga data: il programma Physics at High Angular Resolution in Near GalaxieS (PHANGS), supportato da oltre 150 astronomi in tutto il mondo. Prima che Webb scattasse queste immagini, PHANGS era già al lavoro su un’importante mole di dati provenienti dal telescopio spaziale Hubble della NASA/ESA, dal Multi-Unit Spectroscopic Explorer del Very Large Telescope e dall’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, comprese osservazioni nella luce ultravioletta, visibile e radio. Ma i contributi di Webb nel vicino e medio infrarosso come sempre hanno fornito diverse e nuove informazioni per ricomporre il puzzle.

La NIRCam (Near-Infrared Camera) di Webb ha catturato milioni di stelle in queste immagini, che brillano nei toni del blu. Alcune stelle sono sparse lungo i bracci della spirale, ma altre sono raggruppate insieme in ammassi stellari.

I dati MIRI (Mid-Infrared Instrument) del telescopio evidenziano la polvere luminosa, mostrandoci dove essa si trovi intorno e tra le stelle. Svela anche le stelle che non si sono ancora completamente formate: ancora racchiuse nel gas e nella polvere che ne alimentano la crescita, sembrano semi rosso brillante sulla punta di picchi polverosi. 

Con stupore degli astronomi, le immagini di Webb mostrano anche grandi gusci sferici contenuti nei gas e nella polvere che potrebbero essere stati creati da stelle esplose in passato.

Le regioni estese di gas dei bracci a spirale rivelano anche dettagli in rosso e arancione informazione utile agli astronomi che studiando la spaziatura di queste strutture intendo risalire a come una galassia distribuisce il suo gas e la sua polvere. 

Dalle immagini si deduce che le galassie crescono dall’interno verso l’esterno: la formazione stellare inizia nei nuclei delle galassie e si diffonde lungo i bracci, allontanandosi a spirale dal centro. Più una stella è lontana dal nucleo della galassia, più è probabile che sia giovane. Al contrario, le aree vicino ai nuclei che sembrano illuminate da un riflettore blu sono popolazioni di stelle più vecchie. I nuclei delle galassie inondati di picchi di diffrazione rosa e rossi potrebbero indicare invece un buco nero supermassiccio attivo o una saturazione di ammassi stellari luminosi verso il centro.

Sono molteplici le nuove vie di indagini che gli studiosi possono seguire servendosi dei tantissimi dettagli offerti dai dati PHANGS e il numero senza precedenti di stelle risolte da Webb rappresenta un bottino prezioso. Oltre a pubblicare immediatamente queste immagini, il team PHANGS ha anche pubblicato il più grande catalogo fino ad oggi creato contenente circa 100.000 ammassi stellari.

A seguire i dettagli di alcune galassie (le altre sono disponibili nel link originale):

IC 5332 mostra una galassia a spirale frontale densamente popolata ancorata da una regione centrale circondanta da una foschia azzurra. I bracci arancioni a spirale simili a spine si estendono fino ai bordi e ruotano in senso orario. Crediti:
NASA, ESA, CSA, STScI, J. Lee (STScI), T. Williams (Oxford), R. Chandar (UToledo), PHANGS Team
NGC 1087 mostra una galassia a spirale frontale densamente popolata fissata da una regione centrale a forma di breve linea. I bracci appaiono aranzione ma confusi ed è difficile distinguerli. Crediti:
NASA, ESA, CSA, STScI, J. Lee (STScI), T. Williams (Oxford), R. Chandar (UToledo), PHANGS Team

 

NGC 1365 mostra una regione centrale a forma di ovale angolato e parzialmente rotto che è un mix di sfumature arancioni brillanti da cui si diffonde un bagliore blu. La barra della galassia si estende orizzontalmente dall’ovale. Essa è attraversata da filamenti di polvere disordinati che si curvano leggermente, formando una forma ad S rovesciata. Filamenti più deboli appaiono sotto e sopra il nucleo. Crediti:
NASA, ESA, CSA, STScI, J. Lee (STScI), T. Williams (Oxford), PHANGS Team

 

NGC 4303 mostra una porzione della galassia a spirale frontale legata alla sua regione centrale, all’estrema destra dell’immagine. Bracci arancioni più scuri e più diffusi si allontanano a spirale in senso antiorario. Crediti:
NASA, ESA, CSA, STScI, J. Lee (STScI), T. Williams (Oxford), PHANGS TeamMoisai

Fonte: EsaWebb.org


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LISA: c’è il via libera dell’ESA

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Illustrazione della missione LISA. Credit: Riccardo Buscicchio.
Tempo di lettura: 5 minuti

LISA: c’è il via libera dell’ESA per la missione spaziale che rivelerà onde gravitazionali dal cosmo

 

La missione LISA, un trio di satelliti in orbita attorno al Sole, ha ottenuto l’“adozione” da parte dell’Agenzia Spaziale Europea ESA: ora si procederà alla costruzione, che consentirà l’osservazione dei segnali più sfuggenti dell’Universo, le onde gravitazionali. Cruciale il ruolo dell’Università di Milano-Bicocca

Milano, 26 gennaio 2024 – È arrivato il via libera alla missione spaziale LISA. Si tratta di un passaggio cruciale, denominato in gergo “adozione”, con cui ESA ha approvato la costruzione dei satelliti e della strumentazione di bordo con l’importante contributo di ASI, l’Agenzia Spaziale Italiana. Grazie a LISA, il cui nome sta per Laser Interferometer Space Antenna, si aprirà una nuova finestra sull’Universo: l’obiettivo è infatti costruire un osservatorio spaziale per la rivelazione delle onde gravitazionali provenienti da molteplici sorgenti cosmiche. Centrale, nell’ambito del programma scientifico Cosmic Vision dell’ESA in cui rientra questa missione, è il ruolo dell’Università di Milano-Bicocca e del team dalla professoressa Monica Colpi del dipartimento di Fisica “Giuseppe Occhialini” che ha ricoperto posizioni di guida in diversi gruppi di ricerca, in ESA e nel LISA Consortium, un consorzio internazionale di scienziati che ha definito gli obiettivi scientifici di LISA e progettato la missione.

LISA non è una sola navicella spaziale, ma un trio di satelliti in orbita attorno al Sole disposti ai vertici di un triangolo equilatero. Ogni lato del triangolo sarà lungo 2,5 milioni di km (più di sei volte la distanza Terra-Luna) e le navicelle si scambieranno raggi laser su questa distanza. Il lancio di LISA è previsto per il 2035 e avverrà a bordo di un razzo Ariane 6.

 

Ma che cosa sono le onde gravitazionali che LISA potrà osservare? Albert Einstein, un secolo fa, aveva dimostrato nella sua teoria della Relatività Generale che corpi celesti molto massicci, quando accelerati, scuotono il tessuto dello spazio-tempo, producendo minuscole increspature note appunto come onde gravitazionali che viaggiano nell’Universo alla velocità della luce. Ora, grazie agli sviluppi tecnologici moderni, siamo in grado di rivelare il passaggio di queste onde, tra le più sfuggenti nell’Universo al fine di risalire alla natura delle loro sorgenti.

LISA catturerà onde gravitazionali provenienti dalle regioni più remote dell’Universo, causate dallo scontro tra buchi neri massicci che risiedono al centro delle galassie, milioni di volte più pesanti del nostro Sole. Questo permetterà agli scienziati di scoprire l’origine di questi oggetti, ricostruirne la storia e il ruolo giocato nell’evoluzione delle galassie. La missione sarà anche pronta ad ascoltare il “mormorio” gravitazionale della nascita del nostro Universo, e sarà una finestra aperta sui primi istanti dopo il Big Bang. Inoltre, LISA aiuterà i ricercatori a misurare con accuratezza la velocità di espansione dell’Universo usando la gravità e non la luce come messaggero, confrontando il risultato con misure ottenute con altre tecniche e missioni (come Euclid). LISA osserverà anche un elevatissimo numero di sorgenti nella nostra Galassia, tra cui sistemi binari stellari composti da nane bianche e stelle di neutroni: un’opportunità senza precedenti per studiare gli stadi evolutivi finali delle stelle. Misurando la loro posizione e distanza, LISA creerà una mappa della struttura della Via Lattea, osservando oltre la buia cortina del Centro Galattico. Insieme alla missione ESA Gaia, conosceremo come la nostra Galassia, il nostro habitat ambiente si sia formato.

 

«Il primo disegno di LISA risale agli anni Settanta: è stato un lungo viaggio che ci ha portato oggi, dopo salite e discese, all’“adozione”, ovvero al passo decisivo verso la costruzione di LISA», spiega Monica Colpi. «Cruciale è stato il successo della missione LISA Pathfinder e la scoperta da parte degli interferometri a Terra LIGO-Virgo-KAGRA di onde gravitazionali emesse da buchi neri stellari in collisione. Con LISA cattureremo le vibrazioni dello spazio-tempo provenienti dalla fusione di buchi neri giganti. Qui, all’Università di Milano-Bicocca, stiamo cercando di capire come e quando, nell’Universo, queste collisioni avvengono e come LISA le osserverà».

 

Come avverrà dunque l’osservazione delle onde gravitazionali? LISA impiegherà coppie di cubi di una lega di oro e platino – le cosiddette “masse di test” (ognuna poco più piccola di un cubo di Rubik) – che galleggeranno in “caduta libera” al centro di ogni satellite, provviste di speciali schermature da disturbi esterni. Le onde gravitazionali causeranno minuscoli cambiamenti nella distanza tra le masse di test di due satelliti, e la missione traccerà queste variazioni usando l’interferometria laser. Questa tecnica richiede di far propagare fasci laser da un satellite all’altro nella costellazione. Confrontando i segnali registrati misureremo cambiamenti nelle distanze tra le masse di test fino a un miliardesimo di millimetro. I satelliti devono essere progettati per assicurare che nulla, eccetto la geometria dello spazio-tempo, possa perturbare il moto delle masse, che saranno perciò in quasi perfetta caduta libera. I satelliti della missione seguiranno appunto le orme di LISA PAthfinder, che ha dimostrato che è possibile mantenere le masse test in caduta libera con un impressionante livello di precisione. Lo stesso sistema di propulsione con cui sono state equipaggiate le missioni ESA Gaia e Euclid garantirà che ogni satellite mantenga la posizione e l’orientazione richieste con grandissima accuratezza.

 

Per rendere l’idea della complessità dell’operazione, Riccardo Buscicchio, ricercatore di Milano-Bicocca che lavora all’analisi dei dati prodotti da LISA, usa una metafora musicale: «I rivelatori terrestri oggi in funzione ricevono segnali isolati, uno alla volta, un po’ come ascoltare brevi concerti per violino solista. Il tipico timbro dello strumento ci permette di individuarlo, anche in presenza di “rumore”. I satelliti di LISA ascolteranno invece un concerto a volume estremamente alto, eseguito da strumenti fuori-tempo, fuori-armonia, per tutta la durata della missione spaziale. Nondimeno, l’orchestra sarà composta da milioni di archi, legni, ottoni e percussioni». Conclude Buscicchio: «Il mio lavoro all’Università di Milano-Bicocca è di riscrivere le partiture del concerto, a partire da una singola registrazione in alta-fedeltà, estraendo più strumenti possibile, anche quelli di cui ancora non conosciamo l’esistenza».

 

«Ora che LISA viene “adottata” da ESA, la sua realizzazione richiede un grande contributo di tutta la comunità scientifica internazionale», aggiunge Alberto Sesana, astrofisico, professore del dipartimento che lavora al progetto. «In Italia questo sforzo si va concretizzando sempre più, con una lunga collaborazione tra l’Università di Milano-Bicocca e altri atenei italiani». Selezionata come missione di bandiera del programma ESA Cosmic Vision 2015-2025, LISA sarà parte della flotta di “osservatori cosmici” dell’ESA per rispondere a due profonde domande: quali sono le leggi fondamentali della fisica che descrivono l’Universo? Come si è formato l’Universo e di che cosa è composto? In questa avventura, LISA lavorerà in congiunzione con NewAthena, un’altra missione ESA al momento in fase di studio. NewAthena sarà il più grande osservatorio di raggi X mai costruito nello spazio e il suo lancio è previsto per il 2037.

ESA guida la missione LISA e fornirà satelliti, lanciatori, supporto alla missione e alla raccolta dati. I laser ultra-stabili, i telescopi da 30 cm di diametro per raccogliere la luce laser, e le sorgenti di luce ultravioletta per neutralizzare la carica elettrostatica sulle masse test, saranno forniti dalla NASA. Gli altri componenti chiave saranno: le masse di test schermate da forze esterne, fornite da ASI Italia con contributo da parte della Svizzera; il sistema di misura del segnale interferometrico, con accuratezza picometrica fornito da Germania, Regno Unito, Francia, Olanda, Belgio, Polonia e Repubblica Ceca; il Science Diagnostics Subsystem (un arsenale di sensori a bordo dei satelliti) fornito dalla Spagna.

 

Le Costellazioni di Febbraio 2024

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Tempo di lettura: 7 minuti

COSTELLAZIONI DI FEBBRAIO 2024

I GEMELLI NEL CIELO DI FEBBRAIO

La costellazione boreale dei Gemelli transita al meridiano proprio nel mese di febbraio ed è protagonista della stagione invernale con le sue stelle principali Castore e Polluce, che rappresentano le teste dei due gemelli zodiacali; la costellazione ci accompagna per tutta la notte, splendendo alta in direzione Sud-Ovest e tramontando infine poco prima dell’alba.

CASTORE E POLLUCE: GEMELLI DIVERSI

Un po’ controversa è la classificazione delle due stelle alfa e beta della costellazione: benché Polluce sia più brillante – tanto da occupare il 17° posto nella lista delle 20 stelle più luminose del cielo notturno – è Castore la stella alfa della costellazione. Gemelli diversi stando alle loro sostanziali differenze e considerando i 10 anni luce che li separano.

Fin dalla mitologia è sempre Castore ad essere nominato prima di Polluce e anche l’autore del primo atlante celeste, Johann Bayer, decise di assegnare il ruolo di stella alfa dei Gemelli proprio a Castore, “rifilando” così il posto di stella beta a Polluce, eterno secondo tra i due fratelli.

Castore (α Geminorum) ha una magnitudine di 1,6 e dista circa 52 anni luce da noi; l’astro è composto da 3 coppie di stelle aventi una complessa interazione gravitazionale tra di loro.

Polluce (β Geminorum) è una gigante di colore arancione avente magnitudine 1,15; è situata a circa 34 anni luce da noi e si classifica come la gigante a noi più vicina.

Polluce in realtà è secondo solo sulla carta; il gemello dello Zodiaco, oltre a essere rivestito di maggior luce, si è preso nel tempo le sue rivincite: si tratta infatti di una delle poche stelle visibili attorno a cui ruota un pianeta.

Circa dieci anni fa è stato scoperto un pianeta gigante gassoso simile a Giove, che compie un’orbita completa attorno alla sua stella in 590 giorni, a cui è stato dato il nome di Polluce b.

Nella costellazione dei Gemelli si trovano anche altre stelle molto più luminose di Castore e Polluce, ma più distanti quindi meno brillanti, come Alhena e Mebsuta. La prima è una stella subgigante bianca di magnitudine 1,93 distante 105 anni luce da noi; la seconda è una supergigante gialla di magnitudine assoluta – 4,15 distante circa 903 anni luce da noi.

OGGETTI NON STELLARI NELLA COSTELLAZIONE DEI GEMELLI

Nella costellazione sono collocati diversi oggetti del profondo cielo come l’ammasso aperto M35, l’ammasso più brillante della costellazione dei Gemelli, già visibile attraverso un binocolo. Vi sono poi  gli ammassi aperti IC 2157 e NGC 2158 e la bellissima Nebulosa Medusa (IC 443), un resto di supernova esploso in un periodo tra i 3.000 e i 30.000 anni fa.

Nebulosa Medusa in PhotoCoelum di Riccardo Sgaramella

Un altro intrigante oggetto nella costellazione dei Gemelli è la Nebulosa Eschimese, o NGC 2392, una nebulosa planetaria scoperta nel 1787 dal celebre astronomo William Herschel; anche in questo caso il Telescopio Spaziale Hubble è stato in grado di restituirci immagini davvero affascinanti di questo oggetto, che sembra ricordare la testa di una persona circondata dal cappuccio di un parka, ma è giusto sottolineare che, a partire dal 1 agosto 2020, la NASA non si riferisce più alla nebulosa NGC 2392 come alla “Nebulosa Eschimese”, poiché può essere considerato un termine insensibile e offensivo.

NGC 2392 Nebulosa Eskimo – HA-OIII-RGB: HA 41x6min, OIII 38x6min, R 40x3min, G 45x3min, B 36x3min.
Acquisizione: MaximDL5 – Calibrata con Dark, Bias e Flat di Cristina Cellini

 

IMMAGINE NEBULOSA ESCHIMESE – CREDITI: NASA, ESA, A. Fruchter, and the ERO Team [S. Baggett (STScI), R. Hook (ST-ECF), Z. Levay (STScI)]

I GEMELLI NELLA MITOLOGIA

I due gemelli per antonomasia sono protagonisti di varie pagine di mitologia greca: al centro delle vicende c’è sempre Zeus, il padre degli dei e inguaribile seduttore.

Quando una donna diventava oggetto delle sue brame, Zeus era disposto a tutto e spesso ricorreva al metodo delle metamorfosi in animali.

Avendo perso la testa per Leda, nipote di Ares e regina di Sparta, si trasformò in cigno e la possedette mentre la giovane donna passeggiava sulle rive del fiume; dall’uovo concepito (anzi, presumibilmente due uova) vennero alla luce quattro bambini, ma poiché Leda quella stessa notte giacque con suo marito il re Tindaro, non v’è certezza sulla reale paternità e quindi divinità dei gemelli.

Furono così attribuiti a Zeus i gemelli immortali Polluce ed Elena (di Troia), mentre Tindaro assunse la mortale paternità di Castore e Clitennestra.

Nonostante questa assegnazione, Castore e Polluce furono appellati sia come Dioscuri (cioè figli di Zeus) sia come Tindaridi (figli di Tindaro).

Castore era un grande domatore di cavalli, mentre Polluce era un pugile formidabile. Entrambi nutrivano un forte sentimento fraterno l’uno per l’altro ed erano inseparabili: sempre insieme presero anche parte alla famosa spedizione degli Argonauti e, tra le tante avventure, sfidarono persino Teseo.

Ma ci furono degli eventi fatali che li videro coinvolti a un’altra coppia di gemelli, per storie di donne e bestiame: i fratelli Ida e Linceo. In un duello fu Castore ad avere la peggio e Polluce, unico sopravvissuto, dilaniato dal dolore per la morte del suo amato fratello, implorò suo padre Zeus affinché potesse lasciare la Terra insieme a lui. Zeus, impietosito, concesse quindi a Polluce di poter condividere con Castore un abbraccio eterno impresso sul manto celeste nell’omonima costellazione.

LA COSTELLAZIONE DEL CANE MAGGIORE

Un’altra menzione d’onore nel cielo di febbraio è per la costellazione del Cane Maggiore, noto per la sua scintillante stella alfa: Sirio.

Nonostante si tratti di una costellazione poco appariscente, il Cane Maggiore è facilmente individuabile partendo dalla cintura di Orione e tracciando una linea verso Sud-Est che conduce direttamente a Sirio. Questo astro, insieme a Betelgeuse e Procione, va a costituire uno dei vertici del Triangolo Invernale.

Mirzam, Adhara, Wezen, Aludra, Furud sono stelle blu e supergiganti blu che compongono la costellazione del Cane Maggiore che ci appaiono meno luminose rispetto alla stella alfa poiché più distanti.

SIRIO E IL SUO SISTEMA BINARIO

Sirio si trova a soli 8,6 anni luce da noi e con il suo intenso bagliore bianco-azzurro, freddo e scintillante, e la sua magnitudine apparente di -1,47, illumina le notti dell’inverno boreale: si tratta di una stella bianca con una massa 2,1 volte quella del Sole e una luminosità 25 volte superiore.

L’astro è in realtà un sistema binario: attorno alla componente principale, Sirio A, orbita una nana bianca di nome Sirio B che compie una rivoluzione attorno alla componente primaria ogni 50 anni.

Sirio B tra i raggi di Sirio da PhotoCoelum – Celeberrima nana bianca compagna di Sirio, è famigerata tra gli astrofili per la proverbiale difficoltà con cui la si può scorgere. Crediti Paolo Colona

 

Sirio A e Sirio B due compagne inseparabili da PhotoCoelum – In questa ripresa effettuata la mattina del 28 ottobre 2020 Sirio fotografata al fuoco diretto con un Celestron C11 e Zwo Asi 224MC – Crediti Fabrizio Guasconi

Osservare e immortalare Sirio B è un’impresa ardua ma non impossibile, a patto che si disponga di una buona attrezzatura e di tanta pazienza! La difficoltà è data dall’ importante luminosità della stella principale che prevarica sulla più debole componente secondaria, condizione che genera non pochi ostacoli al tentativo di isolare la nana bianca.

OGGETTI NON STELLARI NELLA COSTELLAZIONE DEL CANE MAGGIORE

Trovandosi in una porzione di cielo attraversata dalla Via Lattea, la costellazione del Cane Maggiore ospita interessanti oggetti del cielo profondo.

Uno di questi è M41, un ammasso aperto posto a più di 2000 anni luce dalla Terra e con una magnitudine di 4,5; in condizioni ottimali di visibilità e osservando sotto cieli bui e privi di inquinamento luminoso, l’oggetto può essere individuato anche ad occhio nudo, mentre osservando con un binocolo sarà possibile scorgere molte più stelle tra quelle che compongono l’ammasso.

Altri oggetti situati nella costellazione sono ammassi aperti, nebulose e galassie: con l’utilizzo di telescopi e tecniche fotografiche a lunghe esposizioni, è possibile catturare NGC 2362, NGC 2354, NGC 2359, la Nebulosa Gabbiano, le galassie NGC 2217 e NGC 2280 oltre alla Galassia Nana Ellittica del Cane Maggiore, una galassia satellite vicina alla Via Lattea.

La Nebulosa Gabbiano (conosciuta anche come Gum 2 talvolta erroneamente nota con la sigla IC 2177) – da PhotoCoelum Crediti Giuseppe De Pace
La Nebulosa Gabbiano (Gum 2) in Hubble palette (SHO) da PhotoCoelum – di Tommaso Stella

Affascinante oggetto presente nella costellazione è certamente quello costituito dalle galassie interagenti NGC 2207 e IC 2163.

IMMAGINE GALASSIE INTERAGENTI NGC 2207 e IC 2163 – CREDITI: NASA e Hubble Heritage Team (STScI)

 

L’immagine, catturata dal Telescopio Spaziale Hubble, ci mostra uno straordinario intreccio di galassie di cui la più grande e massiccia sulla sinistra è catalogata come NGC 2207, mentre quella più piccola sulla destra è IC 2163. Le forti forze mareali provenienti da NGC 2207 hanno distorto la forma di IC 2163, scagliando stelle e gas in lunghi filamenti che si estendono verso l’esterno. Si ritiene che tra miliardi di annisi fonderanno in un’unica galassia più massiccia.

IL CANE MAGGIORE NELLA MITOLOGIA

La mitologia si riferisce al Cane Maggiore come a uno dei fedeli cani da caccia di Orione.

Sirio, stella principale, trova riferimento nel mito greco, secondo cui il suo sorgere all’alba indicava l’arrivo dei giorni più roventi dell’estate, della canicola: i Giorni del Cane per l’appunto.

«Abbaiando lancia fiamme e raddoppia il caldo ardente del Sole» scrisse Manilio, «la torrida Stella del Cane spacca i campi» narrava Virgilio nelle Georgiche; insomma a Sirio e quindi alla costellazione del Cane Maggiore, veniva attribuita la colpa del caldo torrido che infuocava i campi, rinsecchendo i raccolti.

 

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Messaggio agli alieni: “Venite a Lexington”

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VisitLEX's tourism campaign. . PHOTO: VISITLEX
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Venite a Lexington

Messaggio agli alieni: “Venite a Lexington, abbiamo cavalli e bourbon”. Il Kentucky sceglie lo spot spaziale

 

Venite a Lexington, abbiamo cavalli e bourbon. Solo una cosa: per favore, non mangiateci”.

Dalla città di Lexington,nel Kentucky, è stato inviato un messaggio tramite laser all’esosistema TRAPPIST-1, a 40 anni luce dalla Terra. Non si tratta di una ufficiale iniziativa NASA, bensì quella del locale sindaco.

È stato posizionato un potente raggio laser presso il Kentucky Horse Park puntato verso il sistema TRAPPIST-1, nella direzione dell’Aquario. L’impulso del laser si trasforma in un’immagine che include alcuni numeri primi, include inoltre la tavola periodica con gli elementi essenziali per la vita terrestre contrassegnati, diagrammi di alcune delle nostre molecole preferite e un invito a visitare Lexington. Tutto questo è confezionato in un Bitmap, seguito da scene e musica del Kentucky. Il sito web di Lexinton mostra un conto alla rovescia dei giorni e persino dei minuti fino a quando il messaggio raggiungerà la sua destinazione.

Dato che le distanze sono quello che sono , ammesso che qualche abitante dei pianeti di TRAPPIST  1 sia attratto dal messaggio, potenzialmente le prime prenotazioni potrebbero essere fatte in meno di 80 anni.

Il sindaco di Lexinton ci spera, noi invece sorridiamo perché il Carnevale si avvicina.

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Una doppia detonazione per una singola supernova

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Esplosione di supernova. Crediti: ASA, ESA, N. Smith (University of Arizona) and J. Morse (BoldlyGo Institute).
Tempo di lettura: 3 minuti

Le supernovae di tipo Ia (SNe Ia), altrimenti dette supernovae termonucleari, si configurano come esplosioni di stelle nane bianche composte principalmente da carbonio e ossigeno e facenti parte di sistemi binari interagenti. L’interazione con la stella compagna, necessaria per l’innesco dell’esplosione, può avvenire in due modi distinti. Nello scenario “single degenerate” una nana bianca strappa idrogeno ed elio dagli strati più esterni della compagna e accresce massa fino ad avviare un bruciamento nucleare esplosivo che può coinvolgere o una sola o entrambe le stelle, seguendo rispettivamente i meccanismi di detonazione ritardata o doppia. Nello scenario “double degenerate”, invece, due nane bianche si scontrano e fondono insieme, provocando l’esplosione dell’intero sistema. Inoltre, diversamente dalle supernovae di tipo II (SNe II), derivanti dal collasso gravitazionale del nucleo di stelle massicce, le SNe Ia non lasciano resti stellari e hanno dunque carattere completamente distruttivo.

In un recente studio condotto dall’ HITS in Germania e dallo Sternberg Astronomical Institute in Russia, è stata presa in esame la fusione di un sistema binario formato da una nana bianca di carbonio-ossigeno e dal nucleo degenere di elio di una gigante rossa che ha avuto esito in una SN Ia secondo lo scenario “single degenerate” con doppia detonazione. La fusione è avvenuta durante la fase di inviluppo comune, in cui le due stelle, ormai evolute, si avvicinano l’una all’altra a seguito della loro interazione fino ad entrare in un unico “guscio” contenente idrogeno che non riescono ad espellere: pertanto, alla fine del processo, l’inviluppo rimane ancora gravitazionalmente legato al prodotto della fusione. Il fatto che la nana bianca esploda all’interno di un inviluppo comune ricco di idrogeno con una doppia detonazione, la prima dell’elio acquisito dal nucleo degenere della compagna e la seconda del carbonio-ossigeno nel suo stesso nucleo, ha un notevole impatto sulle proprietà osservate della corrispondente SN Ia.

Per determinare tali proprietà, i ricercatori hanno simulato la fase idrodinamica del prodotto della fusione delle due stelle utilizzando il codice Arepo, per poi aggiungere le informazioni sulla doppia detonazione ottenute dalle simulazioni dell’evoluzione del nucleo degenere di elio con il codice MESA. Infine, essi hanno analizzato il trasporto radiativo connesso alla propagazione del fronte d’onda esplosivo con il codice STELLA, che ha permesso di ricavare la curva di luce indicante l’andamento della luminosità della SN Ia nel tempo. La curva di luce predetta mostra un plateau (i.e., tratto piatto) lungo 40 giorni molto simile a quello tipico delle SNe IIP, una particolare classe di SNe core-collapse aventi come progenitori stelle super giganti rosse che presentano anch’esse un inviluppo ricco d’idrogeno al momento dell’esplosione. Esempi di tali SNe disponibili in letteratura sono SN 2004dy, SN 2005af, SN 2005hd, SN 2007aa e SN 2008bu, i cui spettri, al contrario di quello della SN Ia con doppia detonazione considerata, sono contraddistinti da prominenti righe spettrali dell’idrogeno: questa la principale differenza tra i due tipi di SNe. Tuttavia, ci si aspetta che le differenze diventino più marcate dopo il plateau della curva di luce, ovvero dopo 40 giorni dall’esplosione.

Curve di luce dei modelli di SN Ia con doppia detonazione (linee solide e
linea tratteggiata) confrontate con quelle delle SNe IIP osservate (simboli).
La somiglianza tra in due gruppi è evidente soprattutto nel primo tratto
della curva, al di sotto dei 40 giorni. Crediti: arXiv .

Questa indagine teorica porta allora a concludere che le SNe Ia rientranti nello scenario “single degenerate” con detonazione sia dell’elio sia del carbonio-ossigeno sono assimilabili alle SNe IIP dal punto di vista osservativo, eccezion fatta per l’assenza di righe dell’idrogeno molto pronunciate nei loro spettri. Grazie a tali indicazioni, sarà possibile identificare con maggiore facilità le SNe Ia che avvengono per doppia detonazione anche a distanza di tempo dall’esplosione, nei tratti più tardi della curva di luce.

 

Fonte: arXiv.

DONNE TRA LE STELLE 2024

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Tempo di lettura: 2 minuti

Ad Abano Terme, dal 22 al 24 marzo 2024, si terrà la

terza edizione della manifestazione

DONNE TRA LE STELLE

Donne fra le stelle è un’associazione di volontariato, sita in Abano Terme, nata dal desiderio di illustrare le meraviglie del cosmo al grande pubblico attraverso la voce di astronaute, astrofisiche, ingegnere aerospaziali, ricercatrici.

Attraverso l’organizzazione di simposi itineranti in tutta la penisola italiana, con la collaborazione dei più importanti centri di ricerca a livello mondiale quali ASI Agenzia Spaziale Italiana, ESA European Space Agency, NASA National Aeronautics Space Administration, e con la partnership delle più importanti industrie europee nel settore aerospaziale, cerchiamo di stimolare i giovani e soprattutto le ragazze a scegliere le materie STEM nel loro percorso di studi.

Brochure Donne fra le Stelle 2024 fronte

Il progetto vuole rendere protagoniste le donne sottolineandone l’impegno e i risultati in ambito scientifico, dove ancora prevalente è la presenza maschile. Per questi motivi legati al futuro e allo sviluppo di una generazione di esseri umani sempre più proiettata verso l’esplorazione spaziale, che abbiamo deciso di promuovere questa associazione di appassionati e scienziati del settore aerospaziale a divulgare al grande pubblico le nuove scoperte scientifiche della scienza riguardanti il cosmo. Le prime due edizioni della manifestazione sono state realizzate in provincia di Cosenza.

Nel 2021 a Fiumefreddo Bruzio, e nel 2022, ad Amantea. Il progetto si è concretizzato con il conferimento della cittadinanza onoraria, da parte del Comune di Fiumefreddo Bruzio, a Carolyn Porco, docente associata presso la Berkeley University (capomissione responsabile immagini della Sonda “Cassini Huygens” su Saturno), già ricercatrice senior presso l’University of Colorado, e consulente Nasa, la cui famiglia è originaria di Fiumefreddo. Fiore all’occhiello è stata la mostra “Space Adventure” dell’US Space & Rocket Center, il museo dello spazio di Huntsville, in Alabama, USA. L’esposizione, dedicata alle imprese dell’uomo nello spazio, è approdata nel piccolo borgo della costa tirrenica calabrese dopo un tour itinerante fra la Danimarca (Copenaghen), Israele (Tel Aviv), il Sudafrica (Johannesburg), la Polonia (Varsavia), la Romania (Bucarest), l’Italia (Torino).

Brochure Donne fra le Stelle Retro 2024

L’Associazione Donne fra le stelle, bandisce quest’anno la prima edizione del Premio Nazionale per la divulgazione scientifica spaziale dedicato a Rossella Panarese, giornalista di Radio Tre scienza. Il Premio, è patrocinato da Confindustria Veneto. È aperto alla partecipazione di ricercatori, giornalisti, studiosi, autori, registi, blogger che, con il loro impegno e attraverso la loro arte di comunicatori, hanno contribuito a divulgare la scienza spaziale rendendola accessibile, fruibile e di interesse comune, attribuendo alla cultura scientifica un ruolo centrale nella società.

Tutte le informazioni sulla Manifestazione e sul Premio sono consultabili sul sito di cui il link seguente: https://donnefralestelle.it/

 

 

NEUTRINI – LA NUOVA FRONTIERA DEL SETI

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Fig. 3 - La base antartica dell' ICE Cube Telescope. Crediti: Martin Wolf, IceCube/NSF
Tempo di lettura: 3 minuti

Efficienza ed efficacia determinano il successo di una ricerca.
Il SETI, con tutte le incertezze che la caratterizzano non può,
finora, certo gioire.

 

Siamo nel 2024 e il progetto SETI “Search for Extra-Terrestrial Intelligence” compie ben 40 anni e in questi 8 lustri non ci ha certo regalato grandi emozioni. Ma nel tempo le conoscenze dell’universo sono cambiate, abbiamo molte più informazioni sui nostri vicini cosmici, stiamo acquisendo dati e sviluppando nuove tecnologie.

L’autore, Graziano Chiaro, suggerisce una nuova tecnica di indagine, non poco onerosa è vero, ma vale forse la pena di guardare il progetto da un nuovo punto di vista?

Fig. 4 – Posizionamento delle bolle contenenti
i detector nel Baikal Deep Underwater
Neutrino Telescope, il telescopio russo per
neutrini nelle acque del lago Baikal.

L’argomento è complesso e lasciamo all’autorevole voce l’introduzione all’idea:

“Il SETI operativo si limita oggi all’osservazione
con i radiotelescopi e
poco di più con i telescopi ottici, ma
queste tecnologie cominciano, per
carenza di risultati, a segnare il passo,
mentre altre teorie si affacciano
e si spingono audacemente sempre
più in là.
Se non sono le onde radio a rivelarci
la presenza di civiltà aliene, cosa altro
potrebbe venirci in aiuto? I neutrini,
ad esempio. I neutrini sono particelle
prive di carica elettrica e con
una massa estremamente piccola
che i fisici non sono ancora riusciti
a misurare; interagiscono molto raramente
con la materia e possono infatti
attraversare praticamente indisturbati
enormi spessori di materia.
In ogni secondo ogni oggetto sulla
Terra, uomo compreso, è attraversato
da molti miliardi di neutrini.
In natura le sorgenti di neutrini sono
molteplici. Vi sono neutrini terrestri,
neutrini atmosferici, neutrini solari,
neutrini da esplosioni di supernovae,
neutrini fossili. Per i ricercatori SETI,
le comunicazioni via neutrini sono
una teoria nuova ed affascinante da
indagare per due importanti motivi.
Primo motivo, queste super particelle
di massa prossima allo zero possono
viaggiare molto vicino alla velocità
della luce e sono in grado di penetrare
facilmente nelle massicce nubi
interstellari e nei corpi solidi senza
alcuna interazione, note le distanze
cosmiche, questo è un vantaggio certo.
Inoltre proprio la capacità dei neutrini
di attraversare la materia con
poca o nessuna attenuazione è particolarmente
funzionale alle ricerche
SETI rivolte all’interno della nostra
galassia dove la presenza di grandi
nubi interstellari di gas e polvere è
notevole.
Secondo motivo, i neutrini possono
anche essere prodotti artificialmente
da chi (civiltà) abbia una sufficiente
conoscenza della fisica particellare.
Le sorgenti artificiali di neutrini che
noi conosciamo sono: gli acceleratori
di particelle in grado di produrre
e accelerare particelle cariche come
protoni, elettroni o nuclei atomici.
Guidando la collisione di particelle e
in condizioni adatte, se ne ottengono
alcune che decadendo originano neutrini.
In questo modo sono stati prodotti
i neutrini artificiali del progetto
CNGS (Cern Neutrinos to Gran Sasso)
che qualche anno fa ha permesso
l’invio di un fascio di neutrini artificiali
dal CERN di Ginevra ai Laboratori
Nazionali del Gran Sasso distante
732 chilometri dal CERN.
Esiste un altro modo a noi noto ad
oggi per produrre neutrini: le fissioni
nucleari all’interno dei reattori nucleari.
Durante le reazioni di fissione nucleare
vengono prodotti, oltre a neutroni e
altri frutti, anche neutrini elettronici.
Ed è proprio questa alternativa
di produzione artificiale a rendere i neutrini
ottimi candidati per le comunicazioni
o navigazioni interstellari se utilizzata
da civiltà extraterrestri avanzate.
Rilevare fasci di neutrini “artificiali” che
trasportano informazioni fornirebbe
la prova inconfutabile dell’esistenza di
altro progresso tecnologico
al di fuori del nostro.
La sfida che i fisici ed nello specifico
quindi i ricercatori SETI devono
affrontare è la cattura del
segnale dato che nota la
facilità con cui i neutrini
viaggiano attraverso
i materiali essi si dimostrano
estremamente difficili
da rilevare ed inoltre
diventa indispensabile
avere la disponibilità di
rilevatori in grado di separare
i segnali artificiali
dal fondo

La storia completa e il racconto emozionante della passione che ha creato Spei Satelles è su COELUM 266

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SPEI SATELLES – Un Satellite Custode della Speranza

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Spei Satelles porta in orbita il messaggio di speranza del Papa

 

Tutti, o probabilmente i più, ricorderanno le immagini, trasmesse sotto Covid, di Papa Francesco completamente solo mentre cammina in Piazza San Pietro.

Una scena commovente, in grado di racchiudere in un solo scatto, lo smarrimento vissuto in quel duro periodo.

Proprio da quelle immagini nasce l’idea di portare nello spazio la parola di speranza e fiducia raccolta nella Statio Orbis. Un’impresa ai limiti della possibilità ma superata grazie all’impegno di quanti si sono messi in gioco per la sua riuscita. Fra essi ricordiamo il sostegno di Andrea Notargiacomo, Giorgio Saccoccia, Fabio Grimaldi, Guido Saracco, Sabrina Corpino, Marco Sanavio, don Nicola Giacopini, Silvia Natalucci, Anna Maria Monterisi, Sveva Iacovoni, Giuseppina Piccirilli e molti altri (don Luca Peyron ci tiene a ringraziarli tutti nell’articolo).

Di cosa parliamo?

Di un cubesat, custode di un messaggio prezioso trascritto su un nano-book (cos’è il nano book e come funziona è descritto nell’articolo stesso.

Il team al lavoro sul Cubesat in fase di assemblaggio in camera bianca

Parliamo dell’impresa nel trovare un vettore, del lancio, dei tanti ragazzi del Politecnico di Torino che hanno accolto la sfida e lavorato senza sosta per rispettare la tabella di marcia.

Il piccolo laboratorio del Politecnico di Torino e parte del team che ha lavorato al progetto

Parliamo di un lancio ben riuscito a bordo di un Falcon 9 il 12 giugno dello scorso.

Ecco le parole introduttive dell’articolo che racconta l’avventura:

“Una delle piazze più famose al
mondo. Deserta. La pioggia batte
lenta sul selciato, la lontananza
rotta dal suono di qualche sirena.
Il mondo è chiuso in casa. Un
uomo vestito di bianco l’attraversa,
con passo affaticato più
dalla responsabilità enorme che
dall’età. Si ferma, ascolta parole
che vengono dal passato, ma che
mai come in quella sera possono
parlare di futuro. È la statio orbis
la preghiera di papa Francesco
durante la pandemia, l’abbraccio
del colonnato di S. Pietro ad
un mondo attonito ed in cerca di
speranza, di senso, di vie d’uscita.
In milioni, credenti o non credenti,
di fedi diverse o di nessuna
fede lo accompagnano attraverso
gli schermi, unica finestra ancora
aperta sugli altri, da quando
il covid ha chiuso l’umano dentro
le sue paure. È il 27 di marzo
del 2020. Quel giorno, quei giorni,
sono scolpiti nella storia, nella
carne di molti di noi. Vi sorprenderà
e forse incuriosirà sapere
che sono diventati una missione
spaziale. La prima promossa dalla
Chiesa Cattolica nella sua storia
millenaria. Prima di raccontarla
nei particolari, però è necessario
fare qualche piccolo passo indietro,
tornare a quanto è successo
dopo quella sera. Il Papa vive anch’egli
in lockdown, accompagnato
da pochissime persone. Tra loro
mons. Lucio Adrian Ruiz, sacerdote
argentino che è segretario del
Dicastero per la Comunicazione
della Santa Sede. Come forse molti
dei lettori di Coelum anche lui
da ragazzo sognava di fare l’ingegnere
alla NASA, poi la scoperta
della vocazione ed una strada tutta
diversa che lo porta a Roma. In
quei giorni parla con il Papa che
si confida, nascono delle domande
su come egli si senta, come
viva quelle ore. «Camminavo così,
da solo, pensando alla solitudine di
tanta gente… un pensiero inclusivo,
un pensiero con la testa e con il cuore,
insieme… Sentivo tutto questo e
camminavo…». I discorsi, le confidenze,
le fotografie diventano, con
la benedizione di Francesco, un libro.
Perché avete paura? Non avete
ancora fede? Che viene presentato
alla stampa nel primo anniversario
della statio orbis, nel 2021. Di
qui una scintilla, una intuizione.
Trasformare quelle parole in un
seme di speranza, quella giornata
piovosa di marzo in un inizio nuovo,
un diverso senso delle cose.
Una visione del tutto che sia motore
di futuro e non malinconico
ricordo di dolore. L’anno successivo
il libro, in una edizione speciale
molto ridotta, viene deposto
allo Svalbard Global Seed Vault, il
deposito globale di semi situato
in Norvegia che ha la funzione di
fornire una rete di sicurezza contro
la perdita botanica accidentale
del patrimonio genetico dell’umanità.
Un libro tra i semi perché
possa simboleggiare un seme di
un tempo rinnovato, di un tempo
di speranza. Siamo nel 2022.
Il Papa sogna ancora, in grande, o
meglio, verso l’alto. Lo spazio. Il libro
diventa ancora più piccolo, un
nano-libro grazie al laboratorio di
fotonica del Consiglio Nazionale
delle Ricerche. Andrea Notargiacomo,
trasforma 19 metri quadrati
di pagine di carta in un quadratino
di silicio di meno di due millimetri
di lato.

La storia completa e il racconto emozionante della passione che ha creato Spei Satelles è su COELUM 266

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Problemi di comunicazione tra Ingenuity e Perseverance: aggiornamenti sulla missione Mars 2020

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In queste ore si stanno susseguendo in rete varie notizie sullo stato di Ingenuity, il drone marziano in forza alla NASA nell’ambito della missione Mars 2020. Visto il rischio di ricevere informazioni parziali o contradditorie, con la Redazione abbiamo sentito la necessità di fare chiarezza sull’argomento.

Come raccontato in News da Marte #24, il 6 gennaio Ingenuity ha eseguito ma interrotto anzitempo il suo 71esimo volo. La causa del problema, che ha obbligato l’elicottero a quello che potremmo definire un atterraggio di emergenza, sembra sia stata il terreno privo di significative caratteristiche superficiali che a un certo punto del volo ha impedito al software di navigazione di calcolare correttamente direzione e velocità di spostamento.

Le informazioni di telemetria hanno permesso di stimare una traslazione di 71 metri, tuttavia da confermare con un riscontro fotografico per avere la certezza della posizione dell’elicottero. È questa la ragione per cui, a due settimane e mezzo dal volo, la mappa ufficiale non ha ancora ricevuto un aggiornamento.

Posizione di Ingenuity aggiornata al 23 gennaio (Sol 1040), ancora non è stata caricata la nuova posizione al termine del volo 71. NASA/JPL-Caltech

A questo scopo, come avvenuto in passato in occasione di un simile inconveniente, i tecnici del Jet Propulsion Laboratory hanno programmato una breve attività aerea della durata di 32 secondi con lo scopo di osservare il suolo da 12 metri di altezza. Questo volo, il 72esimo di Ingenuity, è avvenuto il 18 gennaio.

Il giorno seguente le pagine della missione NASA hanno descritto un problema di comunicazione tra Ingenuity e Perseverance nelle fasi conclusive dell’atterraggio.

Il flusso dei dati inviati dall’elicottero al rover (che svolge sempre la funzione di ponte radio per il drone) indicherebbe che il volo è stato eseguito, ma la telemetria trasmessa in tempo reale si interrompe bruscamente durante gli ultimi secondi in corrispondenza dell’atterraggio.

Non vi tengo sulle spine e vi rassicuro subito sul lieto fine di questa cronaca: il 19 gennaio un tentativo di riprendere contatto con l’elicottero ha dato conferma del suo buono stato di salute. Ingenuity è atterrato correttamente, si trova in posizione verticale e le sue batterie sono cariche.

In attesa che la NASA scarichi dalla memoria del drone le immagini della camera di navigazione, definendo così con precisione la posizione dell’ultimo airfield, possiamo ricorrere alla posizione stimata e ai dati altimetrici della regione.

La linea rossa congiunge la posizione stimata di Ingenuity al termine del volo 71 (calcolata a circa 70 metri a ovest dell’ultima posizione nota) con la location di Perseverance. NASA/JPL-Caltech/Piras

Scopriamo così la presenza di un’alta cresta rocciosa che ostacola la line of sight  tra i due apparati, complicando ulteriormente le comunicazioni già rese problematiche dalla distanza di oltre un km tra i due.

Simulazione della line of sight tra Perseverance e Ingenuity. Elaborazione di Piras su dati di Tao, Walter, Muller et al.

Non è quindi difficile immaginare ciò che potrebbe essere avvenuto nel corso del volo 72.
In fase di ascesa e alla quota di 12 metri il segnale radio di Ingenuity riusciva ad aggirare il grosso ostacolo roccioso, che però ha offerto un oscuramento sempre maggiore man mano che l’elicottero ha ridotto la sua quota in fase di atterraggio.

Restiamo in attesa di ulteriori e più dettagliati aggiornamenti da parte della NASA e del JPL, che troveranno ampio spazio sulle pagine virtuali e fisiche di Coelum Astronomia.

Fonte dei dati altimetrici (DTM): https://refubium.fu-berlin.de/handle/fub188/41095

 

OURANOS l’app meteo per gli astronomi

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Tempo di lettura: 2 minuti

Ouranos l’applicazione meteorologica innovativa, specificamente progettata per gli
astronomi

Ouranos è un’applicazione meteorologica innovativa, specificamente progettata per gli
astronomi, ed è il risultato del lavoro innovativo di Starmaze, azienda fondata da Paul Joly, appassionato di astronomia che si è dato come missione quella di portare un approccio più smart e funzionale nel campo dei software destinati agli astronomi, sia amatoriali che professionisti.

Disponibile sia sul web tramite ouranos-app.com che su dispositivi mobili
Android e iOS, questa applicazione si distingue per il suo approccio mirato ed efficace
nella pianificazione delle osservazioni astronomiche.

Ouranus infatti offre previsioni meteorologiche dettagliate ora per ora per un periodo fino a sette giorni consultabili mostrando separatamente parametri astronomici cruciali come il seeing e la trasparenza, fattori determinanti per valutare la chiarezza e la stabilità del cielo e ottenere in conclusione un’osservazione di qualità.
Ouranos inoltre fornisce anche informazioni essenziali su elementi come l’umidità, la temperatura, la velocità del vento e la copertura nuvolosa.

A rendere speciale Ouranos è la sua funzionalità “Quick View”, che offre agli utenti
un modo rapido e facile per identificare le migliori serate per le osservazioni
astronomiche, molto utile per risparmiare tempo e migliorare l’efficienza nella pianificazione delle sessioni di osservazione.
Inoltre, la “Carta della qualità del cielo” integrata in Ouranos combina tutte le
informazioni meteorologiche pertinenti, offrendo una rappresentazione visiva intuitiva
dei momenti più propizi per l’osservazione.

Insomma, Ouranos è veloce e rapida ed offre una facile consultazione di tutti i parametri utili alla pianificazione delle serate osservative.

Provatela e diteci che ne pensate! ouranos-app.com

 

Galassie Oscure: Fossili dell’Universo primordiale

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NGC 6822, prima galassia irregolare, nata nell’Universo primordiale, osservata dal telescopio Euclid. Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/ NASA.
Tempo di lettura: 3 minuti

Proprietà delle galassie oscure, fossili dell’Universo primordiale

Le galassie oscure, cosiddette per il loro esiguo contenuto di stelle, sono oggetti antichi, fossili dell’Universo primordiale. Secondo il modello standard ΛCDM della cosmologia (ove Λ è la costante che indica l’espansione accelerata dell’Universo e CDM sta per “cold dark matter”, i.e., materia oscura fredda), le galassie rappresentano l’esito dell’assembramento gerarchico di aloni di materia oscura più o meno grandi. Le proprietà degli aloni di materia oscura determinano il tempo di formazione delle galassie, il loro contenuto di gas e la loro resistenza ai processi non-gravitazionali che possono alterare in modo significativo la distribuzione di questo. Tali processi vanno sotto il nome complessivo di “feedback barionico” in quanto inerenti alla materia barionica, quella ordinaria, che non interagisce solo gravitazionalmente come quella oscura. Si tratta, per esempio, delle esplosioni di supernova, dei venti stellari derivanti dall’evoluzione delle stelle massicce e della radiazione ionizzante emessa da quelle di popolazione III, che spazzano il mezzo circostante rimuovendo il gas necessario a dare luogo a nuova formazione stellare. Se le riserve di gas primordiale degli aloni di materia oscura vengono severamente danneggiate prima della reionizzazione, epoca cosmologica in cui il gas idrogeno neutro diventa ionizzato proprio a seguito della nascita delle prime stelle, la formazione stellare viene interrotta o addirittura mai iniziata: essi sono perciò destinati a rimanere oscuri. Le galassie oscure nascono pertanto al centro degli aloni oscuri, ovvero gli aloni di materia oscura che hanno fallito nel formare una quantità di stelle  apprezzabile all’alba della reionizzazione.

Frazione di gas che dà luogo a formazione
stellare nelle galassie luminose (linea nera), in
quelle oscure povere di stelle (linea blu) e in
quelle oscure prive di stelle (linea rossa) in
funzione del tempo. Il gas delle galassie
oscure diminuisce nel tempo, mentre quello
delle galassie luminose rimane costante.
Crediti: arXiv.

Poiché le galassie oscure sono per definizione difficili da osservare, fondamentale per il loro studio è la modellistica teorica. Recentemente, il progetto Illustris TNG ha fornito un notevole contributo in tal senso: grazie alle sue innovative simulazioni cosmologiche di tipo idrodinamico, esso ha infatti permesso di investigare le proprietà fisiche delle galassie oscure e di confrontarle con quelle delle galassie luminose. Nello specifico, durante le simulazioni le galassie oscure sono state identificate come aventi massa stellare minore di un decimillesimo della loro massa totale, mentre quelle luminose come aventi massa stellare maggiore di o uguale a tale valore. Una seconda suddivisione è stata poi operata tra galassie oscure povere e prive di stelle, ottenendo dunque un campione finale così composto: 14206 galassie luminose, 19245 galassie oscure povere di stelle e 14318 galassie oscure prive di stelle. Le galassie selezionate sono evolute dal momento della formazione all’interno degli aloni di materia oscura fino al giorno d’oggi allo scopo di valutare quali fattori impattino sulla loro storia; in particolare, i ricercatori ne hanno individuati tre: l’ambiente natio, gli eventi di fusione con altre galassie e gli effetti della reionizzazione.

Galassie nate in ambienti poco densi e poco ricchi di gas disponibile per formare stelle hanno una maggiore probabilità di divenire oscure al termine della reionizzazione, che contribuisce, peraltro, a differenziarle in modo più marcato da quelle luminose attraverso un’ulteriore diminuzione della loro riserva di gas. Ergo, minore è il contenuto iniziale di gas di una galassia e minore sarà il numero di stelle che essa potrà produrre. Stando ai risultati delle simulazioni, inoltre, la separazione fra i due tipi di galassie aumenterebbe nel corso del tempo, dato che le galassie oscure sarebbero meno soggette a fusioni con sistemi stellari vicini rispetto alla loro controparte luminosa. Ciò si tradurrebbe nella mancata acquisizione di nuovo gas per riaccendere la formazione stellare.

La conclusione sembra allora essere la seguente: solo le galassie che superano l’epoca della reionizzazione senza sostanziali mutamenti della loro originaria riserva di gas possono continuare l’attività di formazione stellare ed evolvere come luminose, mentre quelle oscure, impossibilitate a recuperare il gas perso, si fossilizzano in questo stato.

Per tale ragione, l’immagine odierna delle galassie oscure corrisponderebbe a quella di fine reionizzazione. Si attendono quindi i dati osservativi provenienti da surveys come ALFALFA, LITTLE THINGS e Euclid per definire vincoli più stringenti sulle predizioni di questa teoria.


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Luna e Giove in congiunzione

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Congiunzione Luna-Giove 18 gennaio 2024 di Cristian Fattinnanzi
Tempo di lettura: < 1 minute

Luna e Giove in congiunzione 18 gennaio 2024

La congiunzione della nostra Luna col ben più distante Giove (circa 2000 volte più distante!). Colta appena in tempo prima che il meteo non decidesse che per la zona dove abito, a Montecassiano, nel centro Italia, lo spettacolo dovesse finire!
Scatto eseguito con fotocamera reflex full-frame applicata ad un obiettivo 400mm F/2,8 munito di moltiplicatore di focale 1,4x.
Esposizione di 0,8″ a 200 ISO e diaframma f/8.
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The conjunction of our Moon with the much more distant Jupiter (about 2000 times further!). Caught just in time before the weather decided that for the area where I live, in Montecassiano, in central Italy, the show had to end!

Shot taken with a full-frame reflex camera applied to a 400mm F/2.8 lens equipped with a 1.4x teleconverter.
0.8″ exposure at 200 ISO and f/8.

 

IL BUCO NERO PIÙ LEGGERO O LA STELLA DI NEUTRONI PIÙ PESANTE?

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Rappresentazione artistica del sistema NGC 1851 partendo dal presupposto che la stella compagna massiccia sia un buco nero. La stella sullo sfondo, la più luminosa, è la sua compagna orbitale, la radio pulsar NGC 1851E. Le due stelle sono separate da 8 milioni di km e ruotano l’una attorno all’altra ogni 7 giorni. Credit: Daniëlle Futselaar (artsource.nl)
Tempo di lettura: 6 minuti

MEERKAT SCOPRE UN OGGETTO MISTERIOSO:
IL BUCO NERO PIÙ LEGGERO O LA STELLA DI NEUTRONI PIÙ PESANTE?

Un articolo pubblicato oggi su Science ci svela la presenza di un oggetto dalla natura misteriosa all’interno dell’ammasso globulare NGC 1851, visibile nella costellazione della Colomba a oltre 39 mila anni luce dalla Terra. Di cosa si tratta? Un team internazionale di astronomi, guidato da ricercatori dell’Istituto Max Planck per la Radioastronomia di Bonn e a cui partecipano anche ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Bologna, ha sfruttato la sensibilità delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT per scoprire un oggetto massiccio dalle caratteristiche uniche: è più pesante delle stelle di neutroni più pesanti conosciute e allo stesso tempo è più leggero dei buchi neri più leggeri trovati finora. Altro particolare non di poca rilevanza: l’indagato speciale è in orbita attorno a una pulsar al millisecondo in rapida rotazione. Questa potrebbe essere la prima scoperta del tanto ambito sistema binario radio pulsar – buco nero: una coppia stellare che consentirebbe nuovi test della teoria della relatività generale di Einstein.

Luminose e intermittenti come dei potenti fari cosmici puntati verso la Terra, le pulsar sono stelle di neutroni, ossia i resti compatti (una ventina di chilometri di diametro) ed estremamente densi, derivati da potenti esplosioni di supernova. La teoria mostra che deve esistere una massa massima per una stella di neutroni. Il valore di tale massa massima non è noto con precisione, ma esistono indicazioni sperimentali che almeno fino ad una massa totale pari a circa 2,2 volte la massa del Sole, la stella continua comunque ad essere una stella di neutroni.  D’altro canto, molteplici evidenze osservative indicano che i buchi neri (oggetti così densi e compatti per cui nemmeno la luce può allontanarsi da essi) si formano dal collasso che ha luogo alla fine della evoluzione di stelle molto più massicce di quelle che producono le stelle di neutroni. In questo caso la massa minima osservata finora per il nascente buco nero è circa 5 volte la massa del Sole. Bisogna allora domandarsi quale tipo di oggetto compatto si formi nell’intervallo di masse fra 2,2 e 5 volte la massa del Sole, in quello che i ricercatori chiamano “gap di massa per i buchi neri”: una stella di neutroni estremamente massiccia, un buco nero estremamente leggero o altro? Ad oggi non esiste una risposta chiara.

Nell’ambito delle due collaborazioni internazionali “Transients and Pulsars with MeerKAT” (TRAPUM) e “MeerTime”, gli esperti sono stati in grado prima di rilevare e poi di studiare ripetutamente i deboli impulsi provenienti da una delle stelle dell’ammasso, identificandola come una pulsar radio, un tipo di stella di neutroni che gira molto rapidamente ed emette onde radio nell’Universo come un faro cosmico. Questa pulsar, denominata NGC 1851E (ossia la quinta pulsar nell’ammasso globulare NGC 1851), ruota su se stessa più di 170 volte al secondo, e ogni rotazione produce un impulso ritmico, come il ticchettio di un orologio.

Le antenne del radiotelescopio MeerKAT, in Sudafrica. Crediti: SARAO

Spiega Ewan Barr, dell’Istituto Max Planck per la Radioastronomia di Bonn e primo autore (assieme alla dottoranda dello stesso istituto Arunima Dutta) dello studio: “Il ticchettio di questi impulsi è incredibilmente regolare. Osservando come cambiano i tempi dei ticchettii, tramite una tecnica chiamata pulsar timing, siamo stati in grado di effettuare misurazioni estremamente precise del moto orbitale di questo oggetto”.

L’estrema regolarità degli impulsi osservati ha permesso anche una misurazione molto precisa della posizione del sistema, dimostrando – tramite osservazioni col telescopio spaziale Hubble – che l’oggetto in orbita attorno alla pulsar non era una normale stella, bensì un residuo estremamente denso di una stella collassata. Inoltre, il fatto che l’orbita stia progressivamente cambiando l’orientamento rispetto a noi (un effetto chiamato tecnicamente “precessione del periastro” e previsto dalla relatività generale) ha mostrato che la compagna ha una massa che era contemporaneamente più grande di quella di qualsiasi stella di neutroni conosciuta e tuttavia più piccola di quella di qualsiasi buco nero conosciuto, posizionandola esattamente nel gap di massa dei buchi neri.

 

Alessandro Ridolfi, primo autore della scoperta di NGC 1851E (conosciuta anche col nome alternativo PSR J0514-4002E), nel 2022, co-autore della pubblicazione su Science, nonché postdoc presso l’INAF di Cagliari, sottolinea: “Sin dalle prime osservazioni successive alla scoperta, questo sistema binario mostrava caratteristiche peculiari, in particolare per quanto riguarda l’elevata massa della stella compagna. Ulteriori osservazioni hanno evidenziato che si trattava addirittura di un sistema unico, con una stella compagna avente una massa in quella che per ora è la “terra di nessuno” per gli oggetti compatti, ovverosia quell’intervallo di masse per le quali la teoria non è oggi in grado di stabilire se si abbia a che fare con un buco nero leggero o una stella di neutroni pesante”. Ridolfi è uno dei vincitori del bando “Astrofit-INAF” e lavora alla ricerca di nuove pulsar esotiche ospitate in ammassi globulari.

 

Cristina Pallanca, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, prosegue: “Se si rivelerà essere un buco nero, avremo individuato il primo sistema binario composto da una pulsar e un buco nero, una sorta di Santo Graal dell’astronomia. Grazie ad esso avremo un’opportunità senza precedenti per testare con altissima precisione la teoria della relatività generale di Albert Einstein e, di conseguenza, per comprendere meglio le proprietà fisiche dei buchi neri”.

Potenziale storia della formazione della radiopulsar NGC 1851E e della sua stella compagna. Crediti: Thomas Tauris (Aalborg University / MPIfR)

E aggiunge Marta Burgay, un’altra ricercatrice di INAF-Cagliari coinvolta nel progetto: “Se invece si trattasse di una stella di neutroni, la sua massa elevata imporrà nuovi vincoli alla natura delle forze nucleari, vincoli che non si possono ottenere con nessun esperimento di laboratorio”.

 

Il sistema si trova nell’ammasso globulare NGC 1851, un denso insieme di vecchie stelle molto più fitte rispetto alle stelle del resto della Galassia. Mario Cadelano, ricercatore al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, lo descrive: “Un sistema binario così non poteva che crearsi in un ambiente altrettanto straordinario: l’ammasso globulare NGC 1851 è un insieme di centinaia di migliaia di stelle mantenute unite dalla loro stessa forza di gravità, formatosi circa 13 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva appena 800 mila anni e la nostra Galassia stava attraversando le prime fasi di formazione. All’interno degli ammassi globulari, le stelle interagiscono continuamente durante il corso della loro vita: si scambiano energia, collidono, si uniscono in nuovi sistemi binari e così via. Il nucleo di NGC 1851 è dinamicamente molto attivo, anche più rispetto a quello di altri ammassi globulari, e questo ha favorito la formazione del sistema binario unico nel suo genere che abbiamo scoperto”.

 

Le regioni centrali di NGC 1851 sono così affollate che le stelle possono interagire tra loro, sconvolgendo le loro orbite e nei casi più estremi scontrandosi. Si ritiene che sia stata una di queste collisioni tra due stelle di neutroni a creare l’oggetto massiccio che ora orbita attorno alla radio pulsar. Tuttavia, prima che venisse creata l’attuale binaria, la radio pulsar deve aver acquisito materiale da un’altra stella in una cosiddetta binaria a raggi X di piccola massa. Un tale processo di “riciclaggio” è necessario per riportare la pulsar alla velocità di rotazione attuale.

 

La scoperta di questo oggetto misterioso mette in luce le potenzialità degli strumenti utilizzati in questa survey e delle antenne che arriveranno nel futuro. Andrea Possenti, ricercatore anch’egli presso la sede sarda dell’INAF, commenta: “Questa scoperta è l’apice degli studi finora condotti, grazie al sensibilissimo telescopio MeerKAT, sulle pulsar negli ammassi globulari, un campo di ricerca dove INAF, tramite il gruppo di Cagliari, ricopre dall’inizio un ruolo primario. Ruolo importante sia sul fronte della ricerca di nuove pulsar, 87 quelle scoperte fino ad oggi con il solo radiotelescopio sudafricano, sia ai fini dello studio di quelle note. Il bello è che c’è ancora tanto da scoprire in questi densi sistemi stellari, sia con le osservazioni a MeerKAT, sia, ancor più, con l’avvento del rivoluzionario radiotelescopio SKA. Senza contare – conclude Possenti – che collisioni fra stelle di neutroni come quella ipotizzata per spiegare l’origine di questo sistema potrebbero costituire ulteriori eventi, rari ma di grande interesse, per telescopi per onde gravitazionali, come Virgo, Ligo e il futuro Einstein Telescope”.

Video Uno zoom sull’ammasso globulare NGC 1851 seguito da una simulazione orbitale che mostra l’originale sistema binario pulsar-nana bianca che viene interrotto dall’arrivo di un massiccio terzo corpo di natura sconosciuta. Il nuovo arrivato caccia la nana bianca fuori dall’orbita e cattura la pulsar, formando un nuovo sistema binario con una pulsar in orbita attorno, molto probabilmente, a un buco nero leggero o a una stella di neutroni supermassiccia. Crediti: OzGrav, Swinburne University of Technology.

[COMUNICATO STAMPA INAF-UNIBO]

Fonte: MEDIA INAF

SISTEMI EQUATORIALI E LORO ALLINEAMENTO

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Figura 6c - mon - tatura che nasce come altazimutale e sono trasformate in equatoriali tramite l'aggiunta di una testata
Tempo di lettura: 3 minuti

MONTATURE PER
TELESCOPI Part.2

SISTEMI EQUATORIALI E
LORO ALLINEAMENTO

Nel numero COELUM 265 Christian Privitera ci ha introdotto, in base ai sistemi di coordinate, a diversi modelli di montature validi per i nostri telescopi.

Due le macrocategorie e in questo nuovo articolo pubblicato in COELUM 266 le protagoniste sono le montature equatoriali e il loro allineamento.

L’autore riporta una carrellata dei modelli ora in commercio vagliandone pro e contro tecnici e aggiungendo suggerimenti sulla loro scelta in funzione del livello di esperienza e in base agli obiettivi da raggiungere.

Ecco l’introduzione dell’autore:

Nel precedente articolo abbiamo visto quali sono le funzionalità delle montature altazimutali soffermandoci in particolare sulle caratteristiche dei modelli commerciali. In questa seconda parte, seguendo lo schema del precedente articolo, tratteremo
le montature equatoriali o parallattiche.

SCENDIAMO NEL DETTAGLIO

Dal punto di vista commerciale il panorama delle GEM è
molto variegato e se ne possono trovare modelli che vanno
dai 200€ ad oltre 30.000€. Un supporto elementare in grado
di gestire strumenti di 5-6 kg di peso è costituito dalla montatura
dell’esempio 6a); si tratta di una montatura dotata
di moti micrometrici, può essere motorizzate in AR, è molto
leggera e permette con una spesa contenuta (circa 200€) di
gestire per l’osservazione visuale un telescopio entry-level.

Figura 6a
Montatura Entry Level
max carico 5/6kg

Lo step successivo, con un aumento della capacità di carico per poter supportare
strumenti anche di 10 kg di peso, è ad esempio la montatura della fig. 6b), nata come clone delle montature Vixen Great Polaris, viene prodotta dalla Skywatcher con il nome di EQ5 ma è presente, con qualche variante, anche nei listini di altri marchi. Con una spesa di circa 450€, rispetto ai modelli di cui si è discusso precedentemente, queste montature hanno il vantaggio di poter installare un cannocchiale polare per l’allineamento preciso e veloce della montatura nonché di essere predisposte alla motorizzazione in entrambi gli assi con la conseguente possibilità di utilizzo di un sistema GOTO.
La costruzione non è curatissima e molte soluzioni meccaniche sono orientate all’economicità costruttiva, risulta tuttavia possibile iniziare con soddisfazione a fare fotografia astronomica con strumenti leggeri sotto gli 800mm di focale.

Figura 6b – SkyWatcher EQ5 – max carico 10kg

Altra proposta estremamente leggera, flessibile e trasportabile è rappresentata da montature del tipo di cui alla fig. 6c. (presenti ad esempio nei listini Ioptron e Skywatcher), che nascono come altazimutali e vengono trasformate in equatoriali grazie all’aggiunta di una testa di cui si è già discusso. La portata in termini di peso è limitata ma con una soluzione come questa, si può avere accesso alla fotografia astronomica con teleobiettivi o piccoli telescopi spendendo relativamente poco (circa 500 euro nel mercato del nuovo, circa 300 come usato).

Figura 6c – montatura che nasce come altazimutale e sono trasformate in equatoriali tramite l’aggiunta di una testata

L’articolo continua con la presentazione di altre SETTE soluzioni e un approfondimento RARO sulla meccanica alla base dei movimenti e del controllo.

Tutta la carrellata sulle Montature Equatoriali e consigli sono su COELUM 266

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Mancare il transito di Venere per ben due volte!

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Tempo di lettura: 3 minuti

Venere, la “cattiva stella”
di Guillaume Le Gentil

Come descrive tecnicamente nei box a corredo dell’articolo, ci sono solo due transiti di Venere per ogni secolo (e nel prossimo non saremo neanche così fortunati) e Guillaume Le Gentil, in un vorticoso giro intorno al mondo, sul finire del 1700 li manca entrambi.

Oltre 11 anni lontano da casa, dagli affetti, dalla carriera e tutto sfumato per..

L’articolo dedicato all’astronomo francese narra una vicenda appassionata di scienziato serie e accalorato perseguitato dagli imprevisti e dalla sfortuna, come le parole degli scritti storici testimoniano:

Questo è il destino che spesso attende gli astronomi! Avevo percorso più di diecimila
leghe; sembrava che avessi attraversato una così grande distesa di mari, esiliandomi dalla mia patria, solo per essere spettatore di una nuvola fatale che è venuta a posizionarsi
davanti al Sole nel preciso momento della mia osservazione, per privarmi dei frutti delle
mie pene e delle mie fatiche …”
G. Le Gentil, Voyage dans lesmers de l’Inde, 1779

Ecco una prima parte dell’articolo:

“La distanza Terra-Sole, così fondamentale
da essere definita unità
astronomica, è il primo gradino
che gli astronomi usano per
costruire la loro scala di distanze
nell’Universo. Il lento cammino
per arrivare al valore odierno
(149.597.870,7 km, risoluzione B2
della IAU) cominciò a partire dal
periodo classico, e fu tutt’altro
che semplice. Tolomeo (I secolo
d. C.) la considerava 20 volte più
piccola di quello che era, mentre
Riccioli, contemporaneo di Galileo
(17mo secolo), 3.5 volte. Anche
la stima di Edmund Halley (18mo
secolo), che pure diede un contributo
decisivo al problema e che
avremo modo di incontrare ancora
più avanti, era errata di una volta
e mezzo in difetto.
Un’occasione molto propizia per
fare dei passi avanti fu offerta
dai rari transiti di Venere, in particolare
da quelli del 1761 e 1769,
i primi dopo che fu consolidato
l’utilizzo del telescopio. Fu infatti
trovato un metodo geometrico (v.
box) che a partire dalle osservazioni
del dischetto del pianeta sul
Sole permetteva di dedurre il valore
cruciale dell’unità astronomica.
Per essere applicato, il metodo
richiedeva osservazioni contemporanee
da stazioni il più distanti
possibile, in un’epoca in cui questo
voleva dire viaggi lunghi anni
in luoghi sconosciuti, inospitali o
pericolosi. Fama e prestigio erano
certi per i coraggiosi astronomi
che avessero accettato l’incarico,
ben pochi tra i quali ebbero verosimilmente
un’idea di quello che
li attendeva (altrimenti non sarebbero
mai partiti). Se i più fortunati
riscossero in patria gli onori
che meritavano, una parte di essi
persero il transito, e qualcuno addirittura
la vita.
La Francia e l’Académie Royale des
Sciences furono in prima linea
nell’organizzazione delle spedizioni.
Una delle più sfortunate fu
quella che ebbe come protagonista
l’astronomo francese Guillaume
de Gentil, il quale dopo più di
dieci anni per mare mancò non
uno, ma entrambi i transiti in circostanze
che sarebbero quasi incredibili
se ad attestarle non ci
fosse il suo resoconto di viaggio,
il Voyage dans les mers de l’Inde
(Viaggio nei mari dell’India), da
cui è tratto in gran parte quanto
segue.
Facciamo un passo indietro di
tre secoli, e cominciamo il nostro
racconto.”

Il Viaggio di Guillaume Le Gentil alla caccia dei transiti di Venere

A corredo dell’articolo due BOX sapienti:

  • Quanti e quando saranno i transiti di Venere sul Sole
  • e il calcolo dell’unità astronomica attraverso di essi (un suggerimento utile anche per le scuole).

Il resto dell’articolo è pubblicato in COELUM 266

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Cos’è che fa splendere il Sole? e gli abitanti del Sole come sono fatti?

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Tempo di lettura: 3 minuti

Che cos’è che fa splendere il Sole?

E’ la domanda che si è posto Claudio Elidoro e a cui egli stesso ha cercato di dare risposta non tanto in quanto processo fisico/chimico oramai abbastanza noto, ma, come l’autore anticipa in prefazione, attraverso gli step storici che ci hanno portato, noi tutti, alla conoscenza attuale dei processi.

Le parole dell’autore ad introdurre l’articolo:

“Ritengo che chiedersi quale possa essere il meccanismo che permette al Sole di brilla
re sia una domanda spontanea e quasi inevitabile. Ai nostri giorni, pur con le indispensabili semplificazioni, anche chi frequenta la scuola primaria ha modo di conoscere la risposta scientificamente corretta. Ma non è sempre stato così. Che all’origine di questa energia vi fosse una sequenza di reazioni nucleari che, coinvolgendo atomi di idrogeno, producono atomi di elio è parte del nostro sapere scientifico solamente dal 1939. Proviamo dunque a ripercorrere a grandi linee le risposte che, nel corso del tortuoso cammino che spesso caratterizza la scienza, sono state proposte.”

Il racconto passa dalle intuizioni di Lord William Thomson, attraverso i ragionamenti e le supposizioni di molti altri scienziati noti: Hermann von Helmholtz, Marie Skłodowska Curie, Albert Einstein e altri fino alla comprensione moderna del fenomeno.

Ecco l’anteprima dell’articolo:

“Facile comprendere come il Sole occupi
da sempre un posto particolare
nella società umana. Fin dall’antichità
non solo gli viene riconosciuto
un ruolo chiave nel garantire una
situazione climatica favorevole alla
vita, ma le periodicità del suo cammino
in cielo (alternanza giorno/
notte e ciclo stagionale) si rivelano
anche un ottimo strumento per tener
traccia dello scorrere del tempo.
Inevitabile che – sia per la potenza
che mostra di avere, sia per la sua
costante presenza fin dalla notte
dei tempi – nelle civiltà del passato
venga identificato con una divinità
e adorato come tale. Poco importa
definire quali siano la vera natura e
l’origine dello splendore e del calore
del Sole. L’idea di Aristotele (384
– 322 a.C.) che le leggi della natura
valide sulla Terra non siano necessariamente
vincolanti per gli oggetti
celesti taglia la testa al toro: a differenza
dei fuochi terrestri, quel mondo
ardente può bruciare per quanto
tempo vuole senza creare nessun
problema. Per Aristotele la Terra è costituita
da materiali che decadono
e la luce che qui viene prodotta non
può durare a lungo: le fiamme sussultano
e cambiano continuamente
di forma, il combustibile si esaurisce
e la luce si spegne. Sul Sole, però, le
cose funzionano in modo differente
e quel fuoco che lo alimenta si comporta
in modo differente dai roghi a
noi famigliari.
Nel 1833, anno in cui l’astronomo
britannico John Herschel (1792 – 1871)
pubblica il suo Trattato sull’astronomia,
affrontando brevemente la
questione della fonte dell’energia
solare non può che ammettere che
si è di fronte a un grande mistero e
che gli astronomi sono in grandissima
difficoltà. «Se si potessero azzardare
congetture per l’origine della
radiazione solare – scrive Herschel
– dovremmo guardare piuttosto alla
nota possibilità di una generazione
indefinita di calore per attrito, oppure
alla sua eccitazione per scarica
elettrica, piuttosto che a qualsiasi
combustione di combustibile ponderabile,
sia solido che gassoso».
La grandissima difficoltà proviene
soprattutto dal fatto che chiedersi
come il Sole produca la sua energia è
strettamente collegato alla domanda
relativa alla sua età: due facce
di una medesima medaglia. Infatti,
se riusciamo a determinare quanta
energia produce il Sole, possiamo
verificare se le fonti di energia proposte
sono in grado di sostenere tale
produzione per tutto il tempo dell’esistenza
del Sistema Solare.
A proposito di quest’ultimo valore,
nel 1650 il vescovo irlandese James
Ussher (1581 – 1656).. ”

L’intervento di Claudio Elidoro si chiude con un BOX dedicato ad una curiosa supposizione: il Sole, al pari di altri pianeti doveva essere abitato! Teoria bizzarra diremmo oggi, ma allora…

L’articolo completo dedicato al Sole e “ai suoi abitanti” è su COELUM 266.

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Cosa sopprime l’attività degli AGN all’interno degli ammassi di galassie?

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Getto relativistico emesso dal buco nero super massiccio al centro di un AGN. Crediti: NASA/JPL-Caltech.
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Cosa sopprime l’attività degli AGN all’interno degli ammassi di galassie?

Si definisce nucleo galattico attivo (active galactic nucleus, AGN) la stretta regione al centro di alcune galassie caratterizzata da una luminosità estremamente elevata, che arriva spesso a coprire l’intervallo di lunghezze d’onda dell’intero spettro elettromagnetico, dalle onde radio ai raggi gamma. Tale radiazione è prodotta dall’attività del buco nero super massiccio (super massive black hole, SMBH) localizzato nel nucleo galattico e avente massa pari a 106-10M⊙, il cosiddetto motore centrale. Un SMBH diviene attivo solo se in grado di inglobare una quantità sufficiente della materia che gli orbita attorno, disposta su disco di accrescimento: ne consegue che l’accrescimento, ovvero la caduta verso il SMBH della materia ad esso circostante, rappresenta il principale meccanismo responsabile dell’emissione proveniente dagli AGN. In particolare, solo nell’1−10% degli AGN l’emissione avviene sotto forma di getti relativistici che si estendono su scale del Mpc, in direzione perpendicolare al disco di accrescimento e allineati con il suo asse. Situata al di sopra del disco di accrescimento, la corona è invece una zona composta da gas caldo e ionizzato: l’elevatissima temperatura, dell’ordine di circa 108−9K , la rende quindi una delle sorgenti primarie di raggi X. All’esterno della corona si trova poi la regione delle righe larghe (broad line region, BLR), il cui nome fa riferimento alle righe di emissione allargate (broad) originate dalle nubi di gas mediamente caldo, molto denso e in rapida rotazione attorno al SMBH che la costituiscono. La BLR è racchiusa e talvolta parzialmente oscurata dal toro di polveri, una struttura a forma di toro (o ciambella) capace di assorbire, termalizzare e riemettere nella banda del medio infrarosso la radiazione ottica e ultravioletta generata dalle regioni centrali. Al di fuori del toro di polveri si trova, infine, la regione delle righe strette (narrow line region, NLR), il cui gas, meno caldo, denso e veloce, produce righe di emissione strette (narrow) in confronto a quelle della BLR.

Schema delle componenti di un AGN.
Crediti: Urri & Padovani

Una galassia che ospiti un AGN viene allora definita galassia attiva. Tuttavia, la storia evolutiva delle galassie dipende non solo dalle loro proprietà intrinseche, ma anche dall’ambiente in cui si trovano: pertanto, galassie attive residenti all’interno di ammassi subiranno un’evoluzione diversa rispetto a quella delle loro controparti isolate, le galassie di campo. Poiché la tendenza delle galassie a raggrupparsi in ammassi consegue dalla struttura gerarchica assunta dall’Universo al momento della sua formazione, è logico pensare che anche la percentuale di SMBHs attivi, ossia di AGN, sia influenzata da questa peculiare condizione. Infatti, numerosi studi hanno mostrato che negli ammassi più grandi, quelli con massa superiore a 1014M⊙, può verificarsi la soppressione dell’attività degli AGN via ram pressure stripping (i.e., il processo per cui la pressione esercitata dal gas caldo e denso presente nel mezzo intergalattico sulle galassie d’ammasso rimuove parte del materiale utile a “nutrire” i SMBHs che esse contengono). Allo stesso tempo, ulteriori indagini segnalano l’esistenza di un lieve eccesso di emissione di raggi X nelle zone più esterne degli ammassi di galassie dinamicamente rilassati (i.e., privi di segni di precedenti collisioni violente o distruttive con altri ammassi di galassie), ma non in quelle degli ammassi di galassie disturbati (i.e., perturbati dall’interazione con altri ammassi di galassie più o meno lontani).

Struttura interna di una galassia attiva.
Crediti: Urri & Padovani.

Questa variegata fenomenologia ha motivato gli astrofisici a ricercare quali proprietà degli ammassi di galassie siano causa della stimolazione o della soppressione dell’attività degli AGN nel dominio X dello spettro elettromagnetico. In un recente studio condotto su 19 ammassi di galassie di grande massa e con rilevata emissione di raggi X, estratti dalla LoCuSS survey nel ristretto intervallo di redshift 0.16−0.28, sono state utilizzate le precise misure spettroscopiche dei telescopi XMM-Newtone Chandra per individuare le sorgenti puntiformi di raggi X attorno ad essi. A questi dati sono stati aggiunti quelli dello spettrografo Hectospec del telescopio MMT, grazie a cui gli ammassi selezionati sono stati opportunamente caratterizzati; nello specifico, le osservazioni nell’ottico hanno permesso di visualizzare eventuali deformazioni morfologiche delle galassie ospiti, identificando quelle disturbate. Per determinare gli effetti dell’ambiente sull’attività degli AGN, si è proceduto alla divisione dell’area occupata da ciascun ammasso in anelli concentrici di uguale raggio centrati sul picco di emissione in banda X, il primo comprendente le regioni centrali e il secondo quelle più esterne. In questo modo, si è potuto calcolare il numero di sorgenti di raggi X in entrambi i cerchi per ogni ammasso, ottenendo pertanto una stima di quanti AGN sopravvivono mediamente vicino e lontano dal centro. Gli ammassi sono stati poi classificati in base non solo alla presenza di nuove sorgenti di raggi X entranti per cattura gravitazionale, ma anche al loro stato dinamico.

Da tale, complessa analisi è emerso

Immagini di AGN identificati nel
campione di ammassi di galassie
selezionato. Crediti: arXiv.

che il numero di AGN nelle regioni esterne degli ammassi di galassie supera quello relativo alle regioni centrali, data l’azione meno marcata del ram pressure stripping, e che l’ingresso di nuove sorgenti di raggi X non influisce sulla distribuzione di quelle già presenti. Inoltre, i risultati hanno confermato la mancanza di eccesso di emissione X nella periferia delle galassie disturbate, proprio in virtù delle ripetute interazioni violente da esse subite nel corso del tempo. Si può allora concludere che i meccanismi cui si imputa la soppressione dell’attività degli AGN negli ammassi di galassie siano il ram pressure stripping nelle zone in prossimità del centro, e le interazioni violente in quelle più distanti da esso.

 

Fonte: arXiv

Tempi duri per M31 e LMC

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Stella nana bianca che sottrae materia alla stella compagna. Crediti: NASA/CXC/M.Weiss
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Resti di novae ricorrenti:
la carestia in M 31 e LMC

Si chiamano variabili cataclismiche le stelle facenti parte di un sistema binario compatto in cui si verifica un trasporto di massa instabile tale da provocare dei cambiamenti sostanziali della loro luminosità nel corso del tempo. La stella donatrice è solitamente di piccola massa e si trova nella fase di sequenza principale (tipo spettrale G o M) o di gigante rossa, mentre quella ricevente è una nana bianca più o meno vicina al valor limite di massa detto massa di Chandrasekhar (MCh≃1.44 M⊙), raggiunto il quale si verifica un’esplosione di supernova Ia che comporta la distruzione della stella stessa. L’accrescimento di materiale ricco di idrogeno da parte di una nana bianca con massa inferiore a MCh determina l’innesco di reazioni termonucleari sulla sua superficie e la conseguente espulsione periodica della materia in eccesso in esplosioni violente di tipo nova, responsabili dell’aumento di luminosità.

Le stelle novae sono quindi variabili cataclismiche caratterizzate da esplosioni di tipo nova. Esse vengono suddivise in diverse classi a seconda del periodo di variabilità (i.e., l’intervallo di tempo che intercorre tra due successive eruzioni di materia superficiale): tra queste, le novae ricorrenti presentano un periodo di variabilità di qualche decennio o secolo. Essendo le eruzioni delle novae ricorrenti molto frequenti, ci si aspetta che i resti del materiale espulso rimangano visibili attorno alla stella per più di 1000 anni per via del continuo “rifornimento” di nuova materia. In particolare, nel 2019 è stata osservata nella vicina galassia Andromeda (M31) una nova ricorrente unica nel suo genere in quanto circondata da resti di enorme dimensioni (i.e., estesi per un massimo di 134 pc, ove 1 pc = 3.086 × 10¹³ km). Chiamata M31N 2008-12a,ma abbreviata poi in 12a, e avente periodo di variabilità di circa 359 giorni, la nova ricorrente di M31 ospita una nana bianca di massa pari a 1.38 M⊙, ovvero di poco inferiore a MCh, motivo per cui essa è soggetta ad eruzioni estremamente aggressive che danno luogo ad un “super resto” di nova (nova super-remnant, NSR). Il NSR di 12a è risultato chiaramente visibile nelle strette bande di emissione H𝛼e [S II] (𝜆 = 6713, 6731 Å), ma non nella banda [O III] (𝜆 = 5007 Å), in immagini prese da telescopi terrestri.

Poiché la teoria prevede l’esistenza di NSR attorno a ciascuna nova ricorrente e poiché nel 2023 è stato scoperto che, in effetti, la celebre nova ricorrente KT Eridani nella Via Lattea è circondata un simile NSR, un gruppo di ricercatori di Liverpool e New York ha dato vita alla prima campagna osservativa di NSRs in M31 e nella Grande Nube di Magellano (Large Magellanic Cloud, LMC) utilizzando i dati tabulati nella (LGGS). Al momento si conoscono 4 novae ricorrenti in LMC e 20 in M31, di cui una è proprio 12a; il campione finale comprende tutte le novae ricorrenti di LMC e 19 su 20 di M 31, data l’esclusione della già studiata 12a, per un totale di 23 oggetti. Tuttavia, 5 delle 19 novae ricorrenti di M 31 sono state eliminate a posteriori perché troppo vicine al bulge (i.e., nucleo) della galassia per essere analizzate opportunamente con il metodo della fotometria annulare (dal latino “annulus”, letteralmente “piccolo anello”, i.e., zona compresa fra due cerchi concentrici).

Localizzazione delle 19 novae ricorrenti di M 31 facenti parte del campione
selezionato per l’analisi fotometrica. Crediti: arXiv.
Localizzazione delle 4 novae ricorrenti di LMC facenti
parte del campione selezionato per l’analisi fotometrica.
Crediti: arXiv.

L’applicazione del metodo della fotometria annulare alle immagini di LGGS nelle bande strette H𝛼, [S II] e [O III] e nelle bande larghe𝑉e𝑅 per le stelle target non ha però mostrato alcuna emissione degna di nota attorno a queste: ciò sembrerebbe indicare la mancanza di NSRs associati al campione di novae ricorrenti esaminato.

Per spiegare tale “carestia” di NSRs sono state avanzate diverse ipotesi. La più probabile è che la maggior durata del periodo di variabilità delle novae ricorrenti di M31 e LMC rispetto a quello di 12a ostacoli la formazione di una concentrazione considerevole di materia intorno a queste, fatto che contribuisce a diminuire l’intensità delle emissioni luminose nelle bande fotometriche analizzate. Periodi di variabilità più lunghi corrispondono ad un minor tasso di accrescimento di materia sulla stella nana bianca o ad una minore massa intrinseca di questa: in altre parole, le proprietà strutturali del sistema binario in cui avviene l’esplosione di nova e l’interazione tra le stelle membro definiscono l’efficienza e la visibilità delle eruzioni. Ergo, i NSRs esisterebbero, ma non risulterebbero rilevabili nelle immagini di LGGS. Alternativamente, si può supporre che l’esistenza del NSR di 12a sia un evento raro e che la maggior parte delle novae ricorrenti sia pertanto priva di NSRs.

Ad ogni modo, indipendentemente dalla causa della carestia di NSRs in M31 e LMC, i ricercatori hanno in programma di effettuare un’ulteriore analisi dei dati di LGGS sfruttando osservazioni più profonde nelle bande fotometriche H𝛼e [S II], in cui si prospettano emissioni più evidenti e marcate da parte dei NSRs.

Fonte: arXiv.


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News da Marte #24

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Tempo di lettura: 6 minuti

 

Bentornati su Marte! Tra la congiunzione solare di novembre e il rallentamento dei lavori per le vacanze di Natale, il sito della NASA dedicato a Mars 2020, la missione che include il rover Perseverance e l’elicottero Ingenuity, non ha ricevuto molti aggiornamenti ufficiali sullo stato delle attività. Questo ha costretto il vostro autore a una ricostruzione basata, ancora più del solito, sull’analisi di foto grezze, mappe e altri “indizi”.

Questo primo aggiornamento dell’anno è dedicato a Ingenuity che dopo la congiunzione ha eseguito cinque voli, purtroppo non tutti eseguiti esattamentecome da programmi. Si parte!

Le foto durante la congiunzione

Data l’impossibilità di svolgere nuove attività aeree durante le settimane della congiunzione di novembre, gli scienziati hanno avuto l’idea di usare Ingenuity e le sue camere per degli studi più “statici” di Marte. È stata sfruttata la posizione sulla collina sabbiosa, raggiunta al termine del volo 66 , e l’elicottero ha fotografato a intervalli regolari il terreno attorno a lui dal Sol 964 al 985. In questo modo si è analizzato il modo in cui la regolite marziana viene spostata dal tenue vento nell’atmosfera del Pianeta Rosso. Queste informazioni saranno poi correlate con le misurazioni meteorologiche eseguite dal rover Perseverance. La camera a colori di Ingenuity, rivolta verso nord-ovest, ha scattato una foto al giorno sempre alla stessa ora locale, circa le 10:18 del mattino.

Suolo marziano fotografato da Ingenuity nei Sol 964 (sopra) e 985. NASA/JPL-Caltech/Piras

Si nota che dal primo all’ultimo Sol di osservazione le ombre si allungano, segno che il Sole si presentava progressivamente più basso all’ora scelta per gli scatti. L’emisfero nord attualmente si trovava infatti nella stagione estiva in avvicinamento all’equinozio d’autunno che si è verificato il 12 gennaio, e le giornate di Ingenuity e Perseverance si stanno progressivamente accorciando. Elaborando queste immagini ho aumentato intenzionalmente il contrasto per esaltare le minime differenze nella posizione della regolite, intuibili in particolare in corrispondenza dell’impronta della gamba di atterraggio in primo piano.

L’intera sequenza delle 21 fotografie è qui mostrata in un video, con uno zoom proprio sull’impronta menzionata.

 

Ingenuity decolla di nuovo

Con la fine della congiunzione Ingenuity riparte: il Sol 990, 2 dicembre terrestre, decolla per la sua attività numero 67 che consiste in un volo di 393 metri eseguiti in 2 minuti e 16 secondi. Con questo spostamento l’elicottero viene fatto dirigere verso nord-ovest proseguendo le attività di esplorazione delle aree che nelle prossime settimane saranno raggiunte anche dal rover. Al termine di questo volo Ingenuity e Perseverance tornano lontani quanto non lo erano da parecchi mesi, con una distanza reciproca stimabile in circa 1500 metri.

Il 68esimo volo ha avuto luogo il 16 dicembre o Sol 1002. Con uno spostamento di 702 metri percorsi in 131 secondi l’elicottero ha eseguito un test di spostamento ad alta velocità in direzione nord-est facendo poi ritorno al luogo di partenza e qui riatterrando. Nel momento della sua esecuzione si è trattato del secondo volo più lungo di sempre e ha visto quasi eguagliato il record di 704 metri del 25°, eseguito ad aprile 2022. La differenza è che lo spostamento del 2022 era consistito in un’unica tratta in linea retta mentre quest’ultimo ha incluso anche una frenata, una pausa per fotografare il sito e un’altra accelerazione per il ritorno al punto di partenza.

Per questa attività e le successive descritte nell’articolo sono state rilasciate complessivamente poche decine di foto in totale, ma tra esse è ugualmente possibile trovare dettagli interessanti. Ne è un esempio proprio questa istantanea catturata da Ingenuity nei momenti dell’atterraggio del volo 68, con l’ovale rosso nella parte bassa che evidenzia le quattro impronte lasciate a conclusione della precedente attività.

Fotogramma della discesa a conclusione del volo 68. Visibili in basso, evidenziate nell’ovale rosso, le impronte lasciate durante l’atterraggio 67. NASA/JPL-Caltech/Piras

È stato possibile percorrere la stupefacente distanza di oltre 700 metri in un tempo relativamente breve grazie alla grande velocità di 10 m/s che potrebbe diventare la nuova normalità per Ingenuity.

La difficoltà di volare ad alta velocità

Un particolare interessante sulle recenti sperimentazioni dei tecnici dell’elicottero riguarda il fatto che queste velocità di spostamento molto elevate mettono alla prova, oltre che l’aerodinamica delle eliche del drone, anche il software di navigazione autonoma.

Il computer di bordo usa infatti la camera in bianco e nero puntata verso il suolo per osservare il movimento delle caratteristiche superficiali e stimare la distanza percorsa attraverso il confronto tra frame. Velocità troppo elevate rendono i fotogrammi, pur se consecutivi, troppo diversi tra loro, facendo sì che il software di navigazione non riesca a ricostruire correttamente velocità e direzione dell’elicottero. La soluzione che viene implementata è l’incremento dell’altezza di volo, in modo da inquadrare una porzione più ampia di superficie e far sì che i dettagli del terreno cambino meno rapidamente anche nel caso di spostamenti ad alta velocità.

Meno recentemente, in particolare con i voli 57, 58 e 59, sono state testate invece minori velocità di atterraggio, e più precisamente quella con cui l’elicottero discende gli ultimi metri prima di toccare il suolo. Inizialmente sviluppato per toccare il suolo a un metro al secondo, Ingenuity è stato riprogrammato per sperimentare una velocità inferiore del 25%. Queste prove stanno aiutando la progettazione dei futuri velivoli che andranno su Marte, i quali se saranno in grado di atterrare in modo più dolce potranno far uso di gambe di atterraggio più leggere con ricadute positive sull’autonomia di volo e sulla possibilità di essere dotati di carichi scientifici più avanzati.

Sempre a proposito di esperimenti, a inizio dicembre la NASA ha rilasciato informazioni riguardo al fatto che due voli dello scorso mese sarebbero stati impiegati per testare le prestazioni in beccheggio e rollio con dei voli ad alta velocità. Questo ha avuto conferma sia con il volo 68 che quello che è seguito nel Sol 1007 (20 dicembre).

Un volo da record

Il volo 69, con una programmazione molto simile al precedente, ha visto Ingenuity spostarsi per 705 metri (nuovo record assoluto) toccando ancora la velocità di 10 m/s e riatterrando ancora una volta nel medesimo sito denominato Airfield Chi. Dopo aver terminato l’alfabeto latino siamo quasi agli sgoccioli anche con l’alfabeto greco!

Due giorni dopo l’elicottero riparte e completa l’attività numero 70 che è consistita in uno spostamento di 260 metri eseguiti in 133 secondi.

Fasi di atterraggio nel volo numero 70, Sol 1009. NASA/JPL-Caltech

Al termine di una pausa natalizia delle attività, il giorno dell’Epifania Ingenuity esegue il 71esimo volo.

Secondo i programmi l’elicottero avrebbe dovuto volare per 125 secondi percorrendo 358 metri, con uno spostamento definito di “riposizionamento” che, da previsioni, si deduce l’avrebbe dovuto riportare nei pressi del medesimo sito di atterraggio Airfield Chi. Ma le cose non sono andate come previsto.

Un problema di navigazione

Ingenuity non ha completato il volo secondo i programmi, ma ha percorso solo 71 metri interrompendo l’attività dopo appena 35 secondi. La ragione di questo, secondo un brevissimo aggiornamento pubblicato nell’account X (ex Twitter) del JPL, è da imputare a un terreno privo di caratteristiche superficiali che a un certo punto del volo ha impedito al software di navigazione di calcolare correttamente direzione e velocità di spostamento.

Si può ipotizzare che in quel momento, come già avvenuto in passato con il volo numero 53, sia intervenuto il sottoprogramma LAND-NOW che blocca il volo in corso e avvia un atterraggio di emergenza. Siamo rimasti col fiato sospeso per alcuni giorni, finché il 12 gennaio è stata rilasciata un’immagine acquisita da Ingenuity 3 giorni prima.

Scatto del Sol 1027 che mostra il terreno sotto Ingenuity confermando la buona salute dell’elicottero e l’esito positivo dell’atterraggio di emergenza. NASA/JPL-Caltech

La foto mostra la prospettiva familiare della camera di navigazione con Ingenuity posato al suolo e la sua ombra netta delle ore 10:11 locali.

La mappa ufficiale non è stata ancora aggiornata con il percorso compiuto in quest’ultimo volo incompleto, quindi ho provato a calcolarne una stima che ho inserito insieme agli altri spostamenti raccontati nell’articolo (aprire la GIF se questa non parte in automatico).

Animazione con la sequenza dei cinque voli raccontati nell’articolo. Pista d’atletica inserita come riferimento dimensionale. NASA/JPL-Caltech/Piras

Per questo aggiornamento dedicato esclusivamente a Ingenuity è tutto, alla prossima!

Onde gravitazionali e prime luci dell’Universo

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Coalescenza di un sistema binario di buchi neri. Crediti: LIGO/T. Pyle
Tempo di lettura: 5 minuti

Onde gravitazionali
e prime luci dell’Universo

Nel 1916 Einstein predisse l’esistenza delle onde gravitazionali nella teoria della relatività generale come naturale, matematica conseguenza del moto orbitale di oggetti stellari molto massivi l’uno attorno all’altro. Il progressivo e sempre più rapido avvicinamento di tali oggetti doveva essere tale da provocare la deformazione dello spazio-tempo circostante mediante delle “increspature” rivolte dalla sorgente verso l’esterno: le onde gravitazionali. Esse si dovevano inoltre propagare in maniera isotropa, ovvero senza direzione preferenziale, e alla velocità della luce, allungando e accorciando alternativamente la distanza fra i corpi celesti che incontravano lungo il cammino. La conferma ufficiale dell’esattezza dell’ipotesi di Einstein giunse però soltanto nel 2016, quando fu annunciato che l’associazione di rivelatori LIGO-Virgo-KAGRA era riuscita a misurare le onde gravitazionali originate dalla fusione di due buchi neri di circa 30M⊙(i.e., masse solari) ciascuno, costituenti un sistema binario (evento GW150914). Da allora la rete LIGO-Virgo-KAGRA, ormai giunta alla sua terza campagna osservativa, ha identificato circa 90 simili eventi, tutti probabilmente derivanti dalla coalescenza di buchi neri di grande massa in sistemi binari compatti.

Per comprenderne l’origine è necessario risalire ai progenitori delle binarie di buchi neri, partendo quindi dall’analisi dei relativi canali di formazione. Esistono due principali canali di formazione per le binarie di buchi neri: il canale di formazione “di campo” e il canale di formazione “dinamico”. Il primo coinvolge le stelle di campo (i.e., non appartenenti ad ammassi stellari), che nascono in sistemi binari ed evolvono imperturbate fino a diventare buchi neri coalescenti, mentre il secondo comprende sistemi binari influenzati o addirittura modificati dalle ripetute interazioni con le stelle vicine, di modo che l’evoluzione in binarie di buchi neri coalescenti risulta non spontanea, ma indotta. Ambienti ideali per la formazione di binarie di buchi neri dinamiche sono allora gli ammassi globulari (globular clusters, GCs), per via della loro elevata densità stellare. Più variegato è, invece, il campione di progenitori delle binarie di buchi neri di campo: se i più probabili progenitori sono le stelle di campo di popolazione I (Pop I), giovani e ricche di metalli, e di popolazione II (Pop II), vecchie e povere di metalli, recentemente un gruppo di scienziati giapponesi ha proposto di introdurre anche le stelle di popolazione III (Pop III), le cosiddette prime luci dell’Universo. Infatti, le stelle di Pop III, nate nell’Universo primordiale ancora privo di metalli poiché rilasciati in seguito dalle esplosioni di supernova, tendono ad avere masse molto maggiori rispetto alle stelle di Pop I/II e ad evolvere in giganti blu quando si trovano in un sistema binario, motivo per cui esperiscono un trasporto di massa stabile. Ciò accade per un semplice motivo: minore è il contenuto di metalli di una stella, e più efficace è la soppressione dei venti stellari che intervengono a strapparle massa nella fase evolutiva di gigante. Di conseguenza, le stelle binarie di Pop I/II, composte da materiale già processato dalle esplosioni di supernova, evolvono in giganti rosse e sono caratterizzate da un trasporto di massa instabile a causa della presenza di venti stellari, fatto che impedisce loro di ritenere una considerevole quantità di massa. Le stelle di Pop III dovrebbero allora per costituzione dare luogo a buchi neri con massa pari o superiore ai valori misurati dai rivelatori LIGO-Virgo-KAGRA, contenuti nel catalogo GWTC-3.

Tre fasi della coalescenza di un sistema binario di buchi
neri (i.e., spiraleggiamento, fusione e ringdown) e relativa
zona nel segnale dell’onda gravitazionale emessa.
Crediti: Kip Thorne (parte superiore), B. P. Abbott et al.
(parte inferiore); adattamento di APS/Carin Cain.

 

D’altro canto, il trasporto di massa instabile comporta il restringimento della distanza tra le stelle membro di un sistema binario, favorendo l’avvio della fase di coalescenza che porta alla loro fusione. Sembra pertanto ragionevole includere entrambi i gruppi di stelle di campo, quelle di Pop I/II e quelle di Pop III, tra i possibili progenitori delle binarie di buchi neri.

Il team di ricerca giapponese si è avvalso del metodo bayesiano gerarchico per determinare il contributo di ciascun canale al numero di eventi di onde gravitazionali osservati, includendo le stelle di Pop III nell’analisi. Nella statistica bayesiana prima si assegna una probabilità (i.e., un grado di plausibilità) a ciascun evento osservato e poi si effettua un esperimento per verificare se l’ipotesi iniziale era o meno corretta: dato il condizionamento nel risultato dovuto a tale ipotesi, formulata a priori, si parla dunque di probabilità condizionata. In termini pratici, i modelli costruiti con il metodo bayesiano forniscono delle stime di probabilità a partire da una conoscenza pregressa, cui viene associato un errore a valle del confronto con i dati sperimentali per valutarne la bontà e l’affidabilità. In particolare, nel metodo bayesiano gerarchico si utilizzano più “sotto-modelli” per creare un modello finale complessivo: nel caso in questione, i sotto-modelli utilizzati inseriscono i contributi delle stelle di Pop I/II, delle stelle di Pop III e dei GCs in diversa misura, così da poter creare diverse combinazioni. Secondo i ricercatori giapponesi la combinazione vincente è data dal modello Pop I/II+Pop III+GCs, con rapporti di diramazione (i.e., frazioni di stelle che formano binarie di buchi neri seguendo le tre strade, Pop I/II, Pop III o GCs) di 0.86+0.11+0.02. Ora, i rapporti di diramazione mostrano che il contributo delle stelle di campo di Pop I/II prevale su quello delle stelle di campo di Pop III e quello dei GCs: ciò significa che la maggior parte delle binarie di buchi neri coalescenti del catalogo GWTC-3 ha come progenitori stelle di campo di Pop I/II e che i progenitori generati nei GCs sono, in proporzione, molto pochi. Al contrario, le stelle di Pop III, benché tendenzialmente escluse dal canale di formazione di campo in quanto mai direttamente osservate, hanno un peso non trascurabile sul modello bayesiano finale.

Meccanismo di funzionamento dei rivelatori di onde gravitazionali: a fascio di luce laser mandato nell’interferometro per misurare i cambiamenti di lunghezza dei bracci; b “beam splitter” per dividere il fascio di luce in due parti, una per braccio dello strumento; c rimbalzo dell’onda gravitazionale sullo specchio e ritorno verso l’interferometro; d allungamento di un braccio dell’interferometro e accorciamento dell’altro al passaggio dell’onda gravitazionale; e ritorno dei fasci di luce al team splitter inalterati. Crediti: Johan Jarnested, The Royal Swedish Academy of Sciences.

Il modello “best-fit”, ovvero maggiormente performante nella riproduzione dei dati del catalogo GWTC-3, ottenuto sembra in grado di coprire il range di massa dei buchi neri coalescenti schedati, ma fallisce nell’indicare il valore di 30 M⊙ come più frequente al suo interno (i.e., come picco della distribuzione di massa). Futuri sviluppi di questo lavoro di ricerca prevedono quindi variare i parametri del modello, includerne di nuovi e diversificare la trattazione teorica per ciascun gruppo di progenitori preso in esame, pur mantenendo il focus sulle stelle di Pop III.

Fonte: arxiv.org

Jhelum: il flusso stellare

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Flusso stellare associato ad una galassia a spirale. Immagine di Jon Lomberg.
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Il flusso stellare Jhelum dà indicazioni sulla storia di formazione della Via Lattea

 

L’alone della Via Lattea contiene numerose strutture di forma allungata, popolate da stelle aventi specifiche proprietà cinematiche e dinamiche, chiamate flussi stellari: si tratta dei resti di oggetti, per lo più ammassi globulari e galassie nane, che orbitavano attorno alla Galassia e sono stati a poco a poco distrutti dalla forza mareale di questa. La forza di marea compare quando si considerano corpi estesi soggetti alle reciproche attrazioni gravitazionali e il suo effetto si manifesta nella deformazione dei corpi stessi. Ora, grazie alla loro potente attrazione gravitazionale, le galassie più grandi sono in grado di deformare i sistemi stellari minori ad esse vicini fino a disgregarli, dando luogo ad un moto di trascinamento che spinge la materia verso il centro attrattivo. Tali sistemi stellari vengono dunque inglobati nella parte più esterna della galassia ospite, l’alone ,e ciò che rimane della loro originaria distribuzione di massa sono proprio i flussi stellari.

L’identificazione di flussi stellari nell’alone della Via Lattea porta quindi ad edurre che essa si sia formata attraverso una serie di simili eventi di accrescimento. In particolare, il flusso stellare Jhelum ha catturato l’attenzione degli scienziati per la sua inusuale e complessa morfologia: i dati estratti dal catalogo della missione Gaia(GaiaDR3) hanno infatti mostrato l’esistenza di due diverse componenti stellari all’interno di Jhelum, separate sia spazialmente sia nei moti propri delle loro stelle. La prima componente occupa una regione piuttosto stretta e appare molto densa di stelle, mentre la seconda, situata al di sotto, è caratterizzata da una maggiore estensione e da un aspetto più diffuso.

Componenti di Jhelum: quella stretta e densa in rosso, e quella larga e diffusa in blu. Immagine di arxiv.org.

Per isolare in modo più chiaro e distinto le due componenti nel diagra

Componenti di Jhelum separate per velocità radiale: quella stretta e densa in rosso, e quella larga e diffusa in blu. Immagine di arxiv.org.

mma colore- magnitudine di Jhelum è stato utilizzato l’algoritmo di machine learning LAAT (Locally Aligned Ant Technique), che ha lo scopo di evidenziare il contrasto tra le regioni a bassa e ad alta densità stellare nelle distribuzioni di posizione e moto proprio di un determinato sistema stellare. Se le regioni ad alta densità individuate dall’algoritmo vengono poi associate a delle sotto-strutture osservate nel diagramma colore-magnitudine, come nel caso delle componenti di Jhelum, si ottiene una corrispondenza biunivoca che prova la loro effettiva esistenza. I risultati di LAAT sono positivi e confermati da un’analisi delle velocità radiali delle stelle delle due componenti, misurate dalla survey S5 (Southern Stellar Stream Spectroscopic Survey).

 

Separazione spaziale iniziale (pannello in alto a destra) e finale (pannello in basso a destra) delle componenti di Jhelum ottenuta con l’algoritmo LAAT, e regione associata nel diagramma colore-magnitudine del flusso stellare (pannello a sinistra). Immagine di arxiv.org.

 

Le informazioni sulle dispersioni di velocità e di metallicità, che indicano la variabilità dei valori di velocità e di abbondanza di metalli rispetto al valor medio, quello più probabile, ricavate dallo studio dei moti propri delle stelle di Jhelum hanno permesso di associare ciascuna componente ad un sistema stellare progenitore. Da una parte, la componente più stretta e densa, avente basse dispersioni di velocità e di metallicità, sembrerebbe derivare dall’inglobamento di un ammasso globulare, dall’altra quella più larga e diffusa dall’accorpamento di una galassia nana. Ciò ha indotto i ricercatori a formulare la seguente ipotesi sull’origine di Jhelum: esso è probabilmente il risultato di un evento di accrescimento passato che ha coinvolto una galassia nana, contenente un ammasso globulare a sua volta esito di un evento di accrescimento ancora precedente.

Ma non solo: Jhelum fornisce importanti vincoli sulla storia di formazione della Via Lattea, che pare essere stata scandita dalla fusione del suo alone con sistemi stellari più piccoli che non sono riusciti a sfuggire alla sua attrazione gravitazionale.

Fonte: arxiv.org

Un diagramma HR per ascoltare il suono degli astri

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Diagramma HR sonificato. Crediti: arXiv.
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Un diagramma HR per ascoltare
il suono degli astri

 

Il diagramma HR (Hertzprung-Russel diagram, HRD) rappresenta da sempre uno strumento chiave per lo studio delle proprietà fisiche, della struttura della fase evolutiva delle stelle. Si tratta di un diagramma che mostra l’andamento della luminosità delle stelle (in asse y) in relazione alla loro temperatura (in asse x), e che viene spesso declinato nella sua variante osservativa: il diagramma colore-magnitudine (color magnitude-diagram, CMD), dove la luminosità viene sostituita dalla magnitudine assoluta e la temperatura dal colore. Infatti, la magnitudine assoluta corrisponde alla luminosità con l’introduzione della distanza dell’oggetto osservato, mentre il colore è un indicatore della temperatura, tale per cui le stelle blu risultano più calde e quelle rosse più fredde. La funzione esplorativa del diagramma HR si è rivelata estremamente utile nella caratterizzazione dei dintorni solari, degli ammassi globulari situati nell’alone della Via Lattea e della Galassia stessa, soprattutto a seguito del rilascio dei dati della missione Gaia. Essa ha fornito misure di astrometria, distanza e moto proprio delle stelle della Via Lattea precise e accurate come mai prima, tutte direttamente accessibili proprio attraverso il diagramma HR.

Diagramma HR. Crediti: Inaf.

Tuttavia, il diagramma HR rimane uno strumento prettamente visuale, che non permette quindi di ottenere informazioni sulle cosiddette serie temporali, ovvero i processi periodici che contraddistinguono alcune stelle, ripetendosi uguali dopo un certo intervallo di tempo (e.g., oscillazioni acustiche, brillamenti, macchie stellari). Tali informazioni derivano da telescopi per la ricerca di pianeti extrasolari come Kepler e TESS (Transit Exoplanet System Satellite), che misurano la variabilità delle stelle ospiti, e sono importanti perché collegate a parametri primari come massa ed età.

Per poter inserire le serie temporali di Kepler all’interno del diagramma HR, un gruppo di
ricercatori dell’Olanda e degli USA ha proposto di tradurle in suoni, anziché in immagini, avviando dunque un processo di “sonificazione”, ossia di sintesi delle serie temporali in onde sonore riproducibili da apparecchi quali cuffie e microfoni. Da notare che le onde sonore  sono state solo minimamente processate, al fine di mantenere le fondamentali differenze sia  tra i fenomeni fisici che le originano sia tra le stelle che le emettono: una scelta voluta, che però comporta talvolta la generazione di suoni poco piacevoli all’udito, come sottolineano i ricercatori.

Diagramma HR sonificato. Crediti: arXiv.

Le stelle sonificate tratte dal catalogo di Kepler (Kepler Input Catalogue, KIC) sono in totale 1958, e a ciascuna di esse sono stati assegnati i rispettivi valori di magnitudine assoluta e temperatura estratti dal catalogo di Gaia DR2: il risultato è pertanto un catalogo multidimensionale, che combina l’informazione sonora con quella visuale. Il passo successivo è stato la creazione di un nuovo diagramma HR interattivo con cui non solo vedere, ma anche ascoltare le stelle. Esso è stato chiamato diagramma HR sonificato (Sonified HRD) e pubblicato su un apposito sito, Star Sounder. Selezionando un punto nel diagramma HR sonificato si accede in modo immediato alle informazioni sulla corrispondente stella, identificata con il suo numero nel catalogo di Kepler (KIC number); oltre alle informazioni su magnitudine assoluta, temperatura, posizione e moto proprio, viene mostrata a schermo la serie temporale ad essa relativa, mentre un tasto “play” posto sotto al diagramma consente di ascoltarne il suono.

Quest’analisi comparata delle proprietà stellari potrebbe in futuro avere notevoli implicazioni sulla ricerca astronomica, facilitando e velocizzando l’acquisizione di una visione sinottica da parte degli scienziati. Inoltre, il diagramma HR sonificato possiede un ulteriore potenziale,   poiché la sua semplicità di utilizzo lo rende versatile nei campi della divulgazione e dell’insegnamento.

In fin dei conti, pure il matematico e filosofo greco Pitagora sosteneva che ogni corpo celeste produce un’unica, inconfondibile musica.

Fonte: arxiv.org

Sulla rarità dei satelliti grandi come la Luna

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Sulla rarità dei satelliti
grandi come la Luna

 

La presenza della Luna è di fondamentale importanza per la Terra, poiché essa contribuisce alla stabilizzazione dell’asse terrestre, favorendo quindi una condizione climatica più equilibrata, e controlla la durata del giorno e delle fasi di marea, con delle ripercussioni inevitabili sui cicli biologici. Ciononostante, uno degli aspetti peculiari della Luna è il suo essere un satellite piuttosto grande in confronto alle dimensioni della Terra. Una luna planetaria si definisce grande rispetto al pianeta ospite quando la sua massa è di poco inferiore o uguale al 10% della massa di questo. Sistemi pianeta-luna con simili caratteristiche sono molto rari, basti pensare che se ne trova soltanto uno nelle vicinanze della Terra, ovvero il sistema Plutone-Caronte, e che non ne è stato ancora confermato alcuno al di fuori del Sistema Solare.

Per comprendere la scarsità di tali candidate esolune (i.e., lune associate a pianeti extrasolari, ossia non appartenenti al Sistema Solare), i ricercatori hanno studiato l’origine della Luna e le condizioni per la generazione di grandi satelliti. Tra i vari modelli proposti, si propende per quello che vede la formazione della Luna come esito dell’impatto fra la Terra e Theia, un protopianeta delle dimensioni di Marte, e come successivamente segnata da collisioni con corpi minori.

Secondo questa cosiddetta teoria del grande impatto, gli impatti sarebbero, in generale, responsabili dell’esistenza di una certa quantità di vapore (i.e., gas misto a gocce liquide) nel disco di polveri e gas che circonda il neonato satellite, elemento imprescindibile per la determinazione della grandezza finale di questo. Gli scienziati hanno dunque adottato il metodo SPH(Smoothed Particle Hydrodynamics) per realizzare simulazioni di impatti con cui seguire l’evoluzione delle lune da essi derivate nel corso del tempo. Due i tipi di pianeti ospiti presi in esame: uno roccioso, e l’altro ghiacciato.

Simulazione d’impatto per un pianeta roccioso (in colore rossoarancio)
e per un pianeta ghiacciato (in colore blu-azzurro).
Crediti: arXiv.

Le simulazioni hanno innanzitutto mostrato che una protoluna circondata da un disco contenente una cospicua quantità di vapore post impatto non è in grado di crescere fino a raggiungere una dimensione grande rispetto a quella del pianeta associato a causa della forza di resistenza esercitata dal vapore mentre essa si forma. Tale forza agisce, infatti, nella stessa direzione di moto dell’oggetto target, ma in verso opposto, creando pertanto una resistenza che lo ostacola e induce a perdere energia. Nel caso di moto rotatorio, come quello delle piccole lune attorno al loro pianeta, il vapore provoca una progressiva perdita di momento angolare che le fa scivolare rapidamente verso quest’ultimo, e impedisce loro di superare il limite dei 100 m o km di diametro. L’effetto della forza di resistenza è allora tanto più rilevante quanto maggiore è la quantità di vapore iniziale nel disco protolunare: di conseguenza, solo i dischi inizialmente poveri di vapore permettono la formazione di grandi lune. Se, invero, essi perdono vapore dopo un certo periodo di tempo, anche la materia che li costituisce si riduce, al punto da risultare insufficiente a dare vita a satelliti simili alla Luna.

Regione in cui è permessa la formazione di grandi lune da parte di pianeti rocciosi (colonna di sinistra) e ghiacciati (colonna di destra). La regione è evidenziata in colore giallo-arancio e contiene pianeti di raggio inferiore a 1.6 raggi terrestri, corrispondenti a 6 masse terrestri. Crediti di arXiv.

In secondo luogo, le simulazioni sembrano predire che pianeti rocciosi con un raggio inferiore a 1.6 raggi terrestri (1 raggio terrestre = 6378 km) e pianeti ghiacciati con raggio inferiore a 1.3 raggi terrestri abbiano i requisiti giusti per ospitare delle lune di grandi dimensioni, in quanto non adatti a sviluppare dischi protolunari ricchi di vapore.

Il vincolo posto alla misura del raggio dei pianeti extrasolari è perciò stringente, fatto che spiega la difficoltà nell’osservazione di grandi lune al di là del Sistema Solare, a conferma della straordinaria unicità del pianeta Terra e della sua Luna.

Fonte: arxiv.org

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