Prossimo alla partenza questo 2022 con Artemis I come carico secondario, il Near-Earth Asteroid Scout (NEA Scout), veicolo spaziale delle dimensioni di una scatola di scarpe, inseguirà quello che sembra essere l’asteroide più piccolo mai visitato da un veicolo spaziale. La missione si prefigge di raggiungere gli asteroidi più vicini alla Terra (NEA), grazie a una speciale vela solare che sfrutti le radiazioni emesse da Sole.
Il video del test di simulazione del dispiegamento della vela solare (credits NASA)
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Micro-mondi!
Attualmente l’obiettivo è 2020 GE, un ammasso roccioso di dimensioni inferiori a 18 m. Un vero e proprio micro-mondo!
Asteroidi più piccoli di 100 m di diametro non sono mai stati esplorati prima. NEA Scout userà una telecamera per osservare più da vicino l’asteroide, misurando le dimensioni, la forma, la rotazione e le proprietà della superficie dell’oggetto celeste.
Con una risoluzione della camera inferiori a 10 cm per pixel, il team scientifico sarà in grado di determinare se 2020 GE è un ammasso solido, o se è composto da rocce più piccole e polvere agglomerate.
Illustrazione grafica dell’asteroide di piccole dimensioni. Credit: NASA
«2020 GE rappresenta una classe di asteroidi di cui al momento sappiamo molto poco»
Ci ricorda Julie Castillo-Rogez, ricercatrice a capo della missione presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA in California, «Il progetto NEA ha permesso di individuare diversi obiettivi nella gamma di dimensioni da 5 a 30 m. Abbiamo quindi tutto il necessario per scoprire la verità sulla natura di questi oggetti celesti».
L’asteroide 2020 GE è stato osservato per la prima volta il 12 marzo 2020 dal Catalina Sky Survey dell’Università dell’Arizona. La missione NEA Scout si prefigge di favorire future missioni umane e robotiche che potrebbero utilizzare le relative risorse minerarie contenute in questi oggetti celesti e ampliare gli studi relativi alla difesa planetaria da questa classe di asteroidi.
«Sebbene i grandi asteroidi siano la principale preoccupazione per la difesa della Terra, oggetti come 2020 GE sono molto più comuni e possono rappresentare un pericolo per il nostro pianeta», prosegue Castillo-Rogez, «Ad esempio, il 15 febbraio 2013 un meteorite è esploso sopra i cieli russi creando un’onda d’urto che ha rotto le finestre di tutta la città e ferendo 1.600 persone. La meteora di Chelyabinsk era della stella classe di 2020 GE, con un diametro di circa 20 m».
Massa ridotta, prestazioni elevate
Parte del lavoro di NEA Scout è anche quello però di sviluppare la nuova tecnologia delle vele solari per viaggi nello spazio profondo.
Dopo il lancio, la navicella utilizzerà dei bracci meccanici in lega di acciaio inossidabile per dispiegare la vela che si espanderà fino a raggiungere dimensioni pari a 86 m².
Immagine di una vela solare dispiegata. Credit: NASA
Realizzata in alluminio rivestito di una plastica più sottile di un capello umano, la vela genererà una spinta propulsiva riflettendo fotoni solari, particelle quantistiche di luce che si irradiano dal Sole. La luce solare è una fonte di energia costante, che può quindi far viaggiare molto rapidamente un veicolo di piccole dimensioni nello spazio profondo. NEA Scout manovrerà la vela inclinandola a seconda dell’esposizione solare, alterando quindi la quantità di spinta e la direzione di marcia, in un modo simile ad una barca che sfrutta il vento per navigare.
Si stima che per settembre 2023, l’asteroide 2020 GE si avvicinerà alla Terra e NEA Scout, con l’aiuto gravitazionale della Luna, si avvicinerà all’obiettivo.
«NEA Scout realizzerà probabilmente il sorvolo più lento di un asteroide mai realizzato, con una velocità relativa inferiore ai 30 m/s», conclude Castillo-Rogez, «Ciò permetterà di raccogliere informazioni preziose e di osservare da vicino la superficie dell’asteroide».
NEA Scout pone quindi le base per le navicelle a vele solari. Anche la missione Solar Cruiser sfrutterà lo stesso tipo di tecnologia per viaggiare verso il Sole nel 2025.
L’esplorazione spaziale si apre a nuove fonti di energia!
Se vi chiedessero cosa ricordate del 2021, difficilmente rispondereste una delle immagini che potete vedere in questo video. E se è vero che per molti il 2021 è stato un anno difficile e da dimenticare, è altrettanto vero che cambiare prospettiva e – come si suol dire – vedere le cose “da fuori” non può che rivelare buoni spunti.
Molte delle immagini proposte da Kathryn Hansen, ricercatrice della Nasa che lavora come divulgatrice nella sezione dedicata allo studio della Terra, nel suo video di riepilogo del 2021 pubblicato sul sito della Nasa Earth Observatory, riguardano il clima o le conseguenze che il cambiamento climatico ha sul nostro pianeta, sulla sua geologia e sui fenomeni che lo interessano.
Immagini da satellite del sistema Landsat del 2021. Credit: NASA
Tutte le immagini del video sono state scattate dai satelliti Landsat, che da trent’anni raccolgono dati per studiare l’ambiente, le risorse, i cambiamenti naturali e artificiali che avvengono sul nostro pianeta e aiutare nella gestione e nel monitoraggio di eventi catastrofici come terremoti, tempeste, eruzioni vulcaniche.
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Aria
Parliamo di temperature estreme, del freddo eccezionale che in Texas e altri stati centrali degli Stati Uniti ha provocato un improvviso blackout, e dell’ondata di calore “storica e pericolosa” che, lo scorso giugno, ha colpito Stati Uniti e Canada. Nel video, una striscia rossa attraversa e colora le città di Seattle e Tacoma, che hanno registrato le temperature più alte di sempre nel mese di giugno 2021.
Acqua
Da quella che manca, per via della siccità, a quella che si scoglie, nei ghiacciai e nelle calotte polari, a quella che cambia aspetto e direzione. Il denominatore comune è lo stesso: ancora una volta, il cambiamento climatico.
Cominciamo dalla prima: in agosto, il lago Mead, situato nei pressi di Las Vegas e importante serbatoio per il rifornimento idrico di Stati Uniti e nord del Messico, ha raggiunto il suo minimo storico. Il punto più basso da quando Franklin Delano Roosevelt era presidente. Lo scorso agosto, dicevamo, il lago è arrivato a solo il 35 per cento della sua capacità. Le immagini scattate dai Landsat 7 e 8 sono chiare e non hanno bisogno di ulteriore spiegazione.
Ora l’acqua che si scioglie
Nella stessa estate, il 18 agosto, un iceberg grande 1270 chilometri quadrati (due volte le dimensioni di Chicago) si è staccato definitivamente dalla costa e si è scontrato con il Brunt Ice Shelf, una piattaforma glaciale situata tra il ghiacciaio Dawson-Lambton e la lingua glaciale Stancomb-Wills, lungo la costa della Terra di Coats, in Antartide. Le prime crepe sull’enorme lastra di ghiaccio chiamata A-74 erano emerse alla fine di febbraio: sei mesi dopo, l’enorme iceberg era libero di muoversi. Un timelapse del distaccamento e del successivo scontro con la Brunt Ice Shelf è stato ripreso dal satellite Sentinel-1 del programma Copernicus dell’Esa.
Iceberg A-74 vicino alla collisione con Brunt Ice Shelf. Credit: NASA
Non solo lo scioglimento dei ghiacciai e della calotta polare, anche la rottura degli iceberg è una conseguenza, senza possibilità di ritorno, del riscaldamento globale.
L’acqua che cambia, infine.
Quella di un terzo dei grandi fiumi degli Stati Uniti, che negli ultimi 35 anni ha mutato il proprio colore dominante, spesso a causa della presenza di sedimenti o della crescita di alghe. Le immagini scelte per il video mostrano come è cambiato il colore dal 1986 al 2020 lungo il fiume Rio Grande nel New Mexico. Oltre al colore più giallo, comunque, impossibile non notare anche la riduzione della quantità di acqua che il fiume contiene. Cambia anche direzione, a causa delle forze di marea estreme, l’acqua: accade a fine settembre nel Mare di Okhotsk, al largo della Russia orientale. Si trovava lì, a godersi lo spettacolo e immortalarlo per noi, il satellite della Nasa Landsat 8.
Fuoco
Chi non ricorda la massiccia eruzione vulcanica di fine settembre sull’isola delle Canarie La Palma: un muro di lava basaltica in lento movimento dal vulcano Cumbre Vieja si è fatto strada attraverso i paesi e le comunità dell’isola, coprendo più di mille ettari di terreno e costringendo all’evacuazione circa settemila persone. La colata lavica ha raggiunto il mare, ha distrutto più di tremila edifici, coperto completamente la strada costiera e dato vita a una nuova penisola. Nel video, all’immagine del fiume di lava infuocata segue il drastico colpo di spugna su tutto quel che c’era prima: un’enorme macchia di colore marrone sostituisce case, strade, campi coltivati, vita.
Più di tre mesi di eruzione, anche se meno raccontata della precedente, sono successi anche in Islanda, vicino alla capitale Reykjavik: la lava ha rotto la superficie vicino al vulcano a scudo Fagradalsfjall a fine marzo, annunciandosi già nel mese di febbraio con piccoli terremoti sulla penisola in cui si trova la capitale.
Terra
Quella che caratterizza e distingue il nostro pianeta, rendendolo unico e capace di enorme bellezza. Parliamo dei paesaggi nuvolosi sopra Sumatra, dipinti dall’aria umida che sale mentre scorre attraverso le montagne dell’Indonesia, dopo aver attraversato il mare di Java. Parliamo del colore dell’autunno in Giappone, dove il Momijiari, letteralmente la “caccia alle foglie rosse”, può durare fino all’inizio di dicembre nelle regioni meridionali del paese. E, perché no, parliamo anche dell’uomo, con le sue estesissime coltivazioni di mais nella regione del Midwest, negli Stati Uniti, e con la prima luce del satellite Landsat 9, lanciato dalla Nasa il 9 settembre 2021 e dedicato – come il suo predecessore Landsat 8 – principalmente alla rilevazione della temperatura superficiale della Terra per studiare il riscaldamento globale.
Il video si chiude con lo spettacolo naturale più antico e meraviglioso, l’eclissi di Sole. L’unica totale, nel 2021, si è vista dall’Antartide, dove la Luna ha oscurato completamente la nostra stella per circa due minuti.
Immagine dell’Operational Land Imager (OLI) Ddi Pensacola Mountains in Antartide prima e dopo l’eclissi di Sole. Credit: NASA
Insomma, il tempo dei bilanci per il 2021 è forse già finito, e ha lasciato posto a quello dei buoni propositi, o semplicemente alla frenesia del quotidiano. Ma, se permettete un consiglio, date un’occhiata al video: se non ridimensionerà alcune delle vostre posizioni, almeno vi regalerà tre minuti di stupore.
«Partirò da uno spunto di riflessione recapitato in questi giorni in redazione da parte di un nostro carissimo lettore».
Il testo, molto più articolato di quanto in realtà non mi sia possibile riportare in queste righe, poneva un quesito ma anche una personale opinione: è possibile, nel 2021, che una rivista scientifica possa ancora optare per il cartaceo come formato di distribuzione? Oggi che la minaccia ambientale è sempre più incalzante l’unico approccio accettabile è quello sostenibile e la stampa su carta evidentemente non è l’emblema di questo pensiero!
E noi siamo d’accordo, in toto, condividiamo la preoccupazione di questo lettore, sensibile, come oramai molti di noi oggi sono, sulle tematiche di consumo ed energetiche.
Dobbiamo a questo punto spiegare il perché della scelta editoriale e il ritorno a questo oggetto, una rivista, a cui, nonostante tutto, come redazione continuiamo a dare un enorme valore. Addurre la sola tradizione come motivazione non è sufficiente, non necessariamente infatti essa passa per il formato, è una tradizione anche la qualità dei contenuti, l’attenzione al lettore, il dialogo con le grandi istituzioni, non era necessario stendere tutto nero su bianco per dare continuità.
No, alla base non c’è un freddo ragionamento, c’è invece ahinoi passione.
Amiamo leggere, leggere molto, apprendere dalle righe, dalle pagine, tornare indietro, prendere nota, evidenziare, mostrare agli amici ed ai cari, interrompere e riprendere, anche a volte tenendo il segno con una benevola piega.
Si può fare anche online direte voi, anche con il pdf, ma non è la stessa cosa. Il paragone è banale, ma la TV non sostituisce la radio così come un ebook per quanto sempre più gradevole, non sostituirà un buon libro.
Questa rivista, in questo formato, è per quanti, fra gli affezionati lettori di Coelum, nutrono un ugual piacere nel gesto di sfogliare, riporre in uno scaffale e ogni tanto dare un occhio a quella fila di dorsi e ripensare a qualche concetto, qualche immagine che ha lasciato il segno e riprendere in mano questi pochi fogli anche a distanza di anni. A tutti gli altri invece chiediamo di pazientare, Coelum Astronomia si è sempre distinto anche per l’innovazione e siamo certi non vi deluderà neanche in futuro.
In Coelum Astornomia n° 2 del lontano ottobre 1997, la redazione dedicava un bell’articolo al compianto astronomo Leonida Rosino. Ricercatore dello scorso secolo pioniere nella scoperta ed indagine delle supernovae visibili dal nostro emisfero boreale.
Oggi con più di 20 anni di distanza, il lavoro di questo straordinario e pignolo indagatore continua a stupirci con documenti inediti.
Alla ricerca di informazioni sulle sue supernovae infatti, inizialmente ci siamo ritrovati in difficoltà, sul web non sembrano reperibili dettagli ne tanto meno immagini facilmente accessibili. Certo, è pur vero che stiamo parlando di testi di oltre 60 anni fa, ma in genere oramai online si ritrovano digitalizzati archivi di ogni sorta. Nel nostro contributo alla divulgazione astronomica non ci piace arrenderci facilmente, convinti del fatto che le vere informazioni siano quanto meno rare e preziose e quindi, come tutti i tesori, da ricercare.
Rosino osservò principalmente dall’Osservatorio di Asiago, ai tempi, ed ancora, oggi fra i massimi centri indagatori in termini di supernovae, e proprio allo staff dell’osservatorio ci siamo rivolti per trovare traccia delle scoperte. Il punto di partenza è un classico file Excel (un evergreen a quanto pare!), contenente un elenco, abbastanza lungo, di tutte le lastre ed immagini riprese dal 1942 ad oggi dai quattro strumenti disponibili nell’osservatorio. Il primo lavoro di recupero è stato evidenziare quelle che potevano contenere le immagini degli oggetti di nostro interesse.
Poi, grazie all’intervento dell’amico Mirko Villi, siamo entrati in possesso di una lista di testi, articoli e circolari riferite ai nostri 4 oggetti. Si tratta di documenti non facili da reperire perché appunto di più di mezzo secolo fa. L’aiuto tanto sospirato è arrivato infine dal gentile interessamento dell’astrofisica Lina Tomasella che prendendo a cuore la nostra ricerca, ci ha fornito le lastre originali ed inedite arricchite di testi con notizie davvero interessanti ed esclusive.
Leonida Rosino (1915 – 1997)
Leonida Rosino nel 1953 diventa direttore dell’Osservatorio di Asiago subentrando al posto di Giovanni Silva di cui ne fu assistente. Nel 1958 entra in funzione ad Asiago il telescopio Schmidt 50/40 F.2,5 con lo specchio sferico da 50cm e la lastra correttrice da 40cm progettato da tecnici di Asiago e realizzato dalle Officine Sarti di Bologna. A differenza del grande telescopio Galileo da 122cm di diametro in funzione dal 1942, anno di inaugurazione dell’osservatorio, questo “piccolo” telescopio Schmidt permetteva di ottenere immagini con un grande campo (circa 35°) ideale per la ricerca di stelle variabili, stelle a flares e naturalmente novae e supernovae. Le quattro supernovae che analizzeremo in questo articolo furono scoperte proprio con questo strumento.
L’Articolo completo è disponibile su COELUM ASTRONOMIA N° 254 FEBBRAIO MARZO 2022.
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LA COPERTINA
Una delle prime spettacoli della superficie del gigante gassoso Giove riprese dalla CAM della sonda Juno. Alessandro Mura ci svela i segreti e le ambiziose aspettative del team alla guida dello strumento.
ARTICOLI DI COPERTINA
Juno – Giove come non lo avete mai visto di Alessandro Mura Luna Gravity – da un’intuizione di Joseph Weber l’idea di studiare le onde gravitazionali sulla Luna di Matteo Massicci Il Site Testing – un lavoro avventuroso con molte responsabilità nei luoghi più impervi del pianeta di Gianluca Lombardi Telescopio Lensing – il Sole ci aiuterà a comprendere gli oggetti più lontani di Marco Sergio Erculiani L’Enigma di Bootes che tardi tramonta – seconda parte – la soluzione di Paolo Colona Le Supernovae Italiane – storia di grandi scoperte di Leonida Rosino di Fabio Briganti e Riccardo Mancini
Il primo numero di Coelum Astronomia con il ritorno al cartaceo è prodotto in edizione limitata. Molti hanno già prenotato la propria copia nelle scorse settimane e poche sono quelleora in magazzino. AFFRETTATI!
Pensando di trascorrere una lunga permanenza sulla Luna o su Marte (o comunque al di fuori della Terra), l’ambiente che sogniamo è un luogo illuminato dalla luce naturale, organizzato in ampi livelli multipiano e dove sarebbero presenti piante e acqua: un habitat accogliente secondo gli standard terrestri e dove al contempo sarebbe possibile ammirare il panorama spaziale in tutta sicurezza.
Progettare un ambiente simile all’interno di un involucro chiuso e pressurizzato (data la mancanza di atmosfera esterna) ci obbliga inevitabilmente a studiare soluzioni ecologiche in modo da salvaguardare le preziose riserve di aria e acqua dell’avamposto.
Le costruzioni e la loro disposizione dovranno essere modellate sulla base di una visione “organica” dell’urbanistica, dove ogni elemento diventerebbe un ingranaggio fondamentale all’interno di un ecosistema auto-alimentato e a impatto zero.
La costruzione di insediamenti extraterrestri potrebbe quindi costituire un’importante occasione per sperimentare nuove soluzioni per il riciclo dei rifiuti e la produzione di energia, sistemi che risulterebbero sicuramente utili anche sulla Terra dove l’azione dell’uomo sta già causando notevoli problemi di inquinamento che ormai non possono più essere ignorati.
Non in ultimo, ed è questo lo spirito con cui presentiamo questo lavoro, il vivere in un ambiente a bassa gravità aprirebbe ad opportunità ludiche e sportive inedite e sicuramente molto interessanti nell’ottica del turismo.
Non si tratterebbe solo di un avamposto in cui sopravvivere, ma di un luogo stimolante e divertente dove trascorrere una vacanza nello spazio!
L’Articolo completo è disponibile su COELUM ASTRONOMIA N° 254 FEBBRAIO MARZO 2022.
La sala è avvolta nel buio. Un suono basso, diffuso, penetrante, a metà strada tra il brusio della statica e la vibrazione del basso di un concerto elettronico. Il suono sale, si gonfia, diventa onnipresente.
Infine, il buio viene squarciato da un lampo di energia: chiara, tersa, purissima. Poi, la voce:
Questo è l’inizio dell’esperienza, potente e inaspettata, che ha vissuto chi ha partecipato ad una delle iterazioni della mostra Into the (Un)Known.
Ma prima di immergerci in un viaggio nel cosmo con il suo creatore, Giannandrea Inchingolo,
facciamo un passo indietro.
Fare divulgazione scientifica vuol dire tante cose, e le modalità sono varie quanto sono diverse le persone che la praticano.
Ci sono ricercatori e ricercatrici che, in ossequio alla terza missione degli enti di ricerca e delle università, prestano la loro voce per spiegare i loro studi e i loro risultati.
Ci sono giornalisti e giornaliste, che dalle pagine delle riviste e attraverso le frequenze delle trasmissioni, prestano la loro penna per raccontare la scienza, le sue notizie, e le sue scoperte.
Ci sono animatori ed animatrici, che all’interno dei festival e delle manifestazioni,
prestano il loro entusiasmo per coinvolgere il pubblico nel grande gioco della scienza. E, soprattutto negli ultimi anni, c’è una nuova generazione di divulgatori e divulgatrici, che sulle piattaforme di social media e negli spazi ibridi della comunicazione, partecipano ad una grande discussione collettiva sulla scienza, i suoi metodi, e il suo ruolo nella società.
In questa rubrica, cercherò quindi di coinvolgere alcuni di questi diversi operatori e operatrici della divulgazione, cogliendone per quanto mi riesce gli aspetti interessanti e innovativi. Per questo, la mia prima scelta non poteva che essere il lavoro di chi opera a metà strada tra ricerca scientifica ed espressione artistica, cercando sempre nuovi modi per coinvolgere ed emozionare.
L’Articolo completo è disponibile su COELUM ASTRONOMIA N° 254 FEBBRAIO MARZO 2022.
La ricerca di vita su altri mondi porta inevitabilmente al concetto di abitabilità, ovvero qual è la capacità di un pianeta o di sue particolari regioni a sostenere l’attività biologica di un organismo vivente.
Oggi sappiamo che la vita sulla Terra conosce pochi limiti.
È presente in quasi tutti gli ambienti anche i più estremi, dai più caldi come la solfatara dei Campi Flegrei sino ai ghiacciai dell’Antartide, dagli ambienti estremamente acidi come il lago artificiale Rio Tinto in Spagna a quelli aridi del deserto di Atacama in Cile.
Non è chiaro se la Terra alle origini somigliasse di più a qualcuno di questi ambienti, tant’è che ancora oggi, dopo decine di anni in cui si sono esplorate le vie che la chimica può aver intrapreso prima che la vita comparisse, continuano ad esserci accesi dibattiti nella comunità scientifica su quale fosse l’ambiente ideale dove la vita ha fatto la sua comparsa.
Se da una parte non si conoscono ancora i percorsi chimici più plausibili attivi nella Terra primitiva, dall’altra gli studi hanno evidenziato quali debbano essere le caratteristiche ambientali globali presenti nel nostro pianeta e le condizioni particolari, specifiche di certe aree geografiche che potrebbero rivelarsi i modelli geochimici da seguire quando cerchiamo la vita su altri pianeti.
Un prerequisito essenziale per la vita è la presenza di acqua.
Sappiamo infatti che la vita utilizza l’acqua come solvente. Ma un pianeta come Mercurio, cosi vicino al Sole con temperature superficiali che possono superare i 400 °C può avere acqua?
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Robotica e coding per la didattica dell’astronomia
La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere
Interno giorno. Laboratorio didattico.
Gruppo nutrito, età variabile, assortimento umano in età scolare. In mezzo, una
ragazzina sugli 8 o 9 anni: salopette, treccine, e occhioni, completo d’ordinanza della fanciullezza.
Allora: abbiamo visto quali sono i rover sbarcati su Marte nel corso degli anni. Adesso
è il momento di costruire! Che cosa servirà al nostro rover per andarsene in giro sul pianeta rosso? Silenzio.
«Forza. Nessuna timidezza. Non ci sono risposte sbagliate, solo
soluzione da valutare insieme. Tu, per esempio: prova a fare un’ipotesi.»
«Io? Boh. Non so. Le ruote?»
«Benissimo. Mi sembra un’ottima idea. E cosa serve per muovere
le ruote?»
«Il motore?»
«Eccellente. Questo è il cacciavite, là ci sono i pezzi che servono.
Comincia a montare.»
«Ma… io?»
«Certamente. Chi, se no? Ora sei tu l’ingegnera. Al lavoro.»
«Oh. Ok!»
Lo so, lo so: troppo bello per essere vero.
Eppure, sotto un sottile strato di vernice editoriale necessaria alla trascrizione della conversazione, questa è la rappresentazione fedele di una delle tante esperienze che mi sono capitate negli anni come divulgatore ed educatore scientifico.
Ho scelto proprio questo aneddoto per inaugurare la rubrica dedicata alla didattica dell’astronomia perché credo che racchiuda molte delle chiavi di lettura per una vera educazione alla scienza: a partire dal metodo socratico, fino al superamento degli stereotipi di genere, tutti aspetti imprescindibili per una didattica efficace e inclusiva.
L’Articolo completo è disponibile su COELUM ASTRONOMIA N° 254 FEBBRAIO MARZO 2022.
Cari amici, eccoci di nuovo sulle pagine di questa magnifica rivista.
Giorgia Hofer, astrofotografa
È stato un anno di cambiamento ed evoluzione per tutti, e ora sono sicura che per ognuno di voi c’è tanta voglia di novità e di rinnovamento.
Ho pensato tanto a come poter ricominciare a scrivere con la carica giusta, dare a questa
rubrica di Astrofotografia una sferzata di energia, cercando di offrirvi la possibilità di percepire e riprendere il cielo da più punti di vista.
È nata così l’idea di coinvolgere il gruppo di astrofotografi di cui faccio parte, il cui nome non vi suonerà nuovo:
Sto parlando dei Pictores Caeli.
Il nostro gruppo è nato per condividere idee e suggerimenti sull’astrofotografia, unendo le reciproche competenze tecniche e artistiche per sviluppare immagini di alta qualità, certificate
da un marchio condiviso.
Stefano De Rosa, Dario Giannobile, Giorgia Hofer, Marcella Giulia Pace e Alessia Scarso, questi i nostri nomi.
Siamo cinque appassionati del cielo come voi, ci occupiamo principalmente della fotografia paesaggistica sia a grande campo che a focali ridotte ed ognuno di noi ha un settore in cui è più ferrato:
Marcella sulle fotometeore,
Alessia sull’interpretazione contemplativa del paesaggio,
Dario sugli startrail ed in generale sulla tecnica fotografica,
Stefano è specializzato nella ripresa della Luna
ed io (Giorgia, ndr) nella ripresa a grande campo sulle Dolomiti.
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Quando scatto delle immagini del Sole, la nostra stella mi si presenta come un rosso ed intenso quadro impressionista. I vortici continui della superficie mi incantano ogni volta.
Giovanna Ranotto, astrofotografa
Per questo articolo, ho voluto proporvi tre immagini della cromosfera della nostra stella, così come si presentava giovedì 28 ottobre 2021.
Le immagini sono state scattate tra le 13.42 e le 14.09 ora italiana dalla località di Sciolze in provincia di Torino sulle colline a ridosso della città.
Nonostante sia agli inizi con questa tecnica di riprese del Sole e a causa del poco tempo che ho a disposizione per dedicarmi alla mia passione, mi ritengo abbastanza soddisfatta dei risultati che sto ottenendo.
Certo le difficoltà non sono mancate, ma pian piano, grazie all’esperienza, a molti tentativi falliti e con i preziosi consigli di amici astrofotografi solari più esperti di me, sto gradualmente acquisendo una buona pratica.
Ma come mi sono avvicinata all’astrofotografia solare?
In primis ritengo sia importante conoscere la teoria sul funzionamento del Sole e delle stelle in genere e possibilmente avere già un po’ di dimestichezza nelle osservazioni solo visuali del Sole le quali consentono di prendere confidenza con le caratteristiche principali della nostra stella.
L’osservazione e l’astrofotografia solare mi appassionano per la mutevolezza della nostra stella. Ogni giorno c’è sempre qualche dettaglio diverso: magari una protuberanza ha cambiato forma, oppure una macchia solare ha cambiato posizione, o anche si notano dei dettagli non sempre facili da identificare, insomma non ci si annoia mai!
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In meno di un secolo, l’uomo ha inviato nello spazio migliaia di sonde, lander e rover che hanno fatto la storia visitando angoli inesplorati del nostro Sistema Solare.
In questo momento, una flotta robotica composta da veterani e dalla più recente generazione sta trasmettendo dati e immagini dall’orbita terrestre, dalla Luna, dal Sole, dai pianeti interni ed esterni, dalla fascia di Kuiper e persino dallo spazio interstellare.
NASA/JPL-CALTECH/MSSS PROCESSING: ELISABETTA BONORA & MARCO FACCIN / ALIVEUNIVERSE.TODAY
Queste navicelle e robot di superficie estendono i nostri sensi nello spazio con i loro strumenti scientifici:
Sono i nostri occhi, il nostro udito, il nostro tatto e anche olfatto e gusto.
Tra tutti, gli strumenti di imaging, che possono includere fotocamere, telescopi, spettrometri, radar, sono certamente i più amati dal pubblico: grazie a loro riceviamo immagini spettacolari di luoghi esotici e inesplorati.
Molte missioni condividono pubblicamente queste foto, quasi in tempo reale, altre le rendono disponibile dopo qualche mese o anno, altre ancora non rilasciano quasi nulla. Ma, quando ci sono, questi cataloghi di immagini grezze offrono un modo coinvolgente per vivere l’esplorazione spaziale in prima persona.
L’Articolo completo è disponibile su COELUM ASTRONOMIA N° 254 FEBBRAIO MARZO 2022.
Nebulosa al di sopra del corno meridionale della costellazione del Toro, non contiene alcuna stella; possiede una luce biancastra, elongata nella forma di una fiamma di candela, scoperta durante le osservazioni della Cometa del 1758.
Traduzione dal Catalogo Messier – 3a versione del 1781, pubblicata nel 1784
Un brillante astro nel cielo diurno
Siamo agli inizi dell’anno mille, 1054 per la precisione, quando osservatori in Italia, Armenia, Cina, Nord America, Iraq e Giappone notano, vicino al Sole, una nuova stella.
Questo oggetto insolito – che ora sappiamo essere la supernova SN 1054 – è visibile a occhio nudo anche nel cielo diurno e ha una magnitudine stimata tra -4 e -7.5.
L’astro luminoso suscita subito grande interesse e astronomi cinesi proseguono le osservazioni diurne a fino alla fine di luglio di quello stesso anno, e notturne fino all’aprile di due anni dopo.
Pittura rupestre degli indios Anasazi nel Chaco Canyon, ora Stati Uniti d’America, ritraente la Luna insieme alla supernova SN 1054 – Foto a cura di Alex Marentes
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Messier 62, ripreso in questa sfavillante immagine del telescopio Hubble, è uno degli ammassi globulari dalla forma più irregolare tra quelli noti nella Via Lattea.
Il raggruppamento stellare si trova al confine tra le Costellazioni dell’Ofiuco e dello Scorpione, non lontano dalla luminosa supergigante Antares.
Se osservato con un binocolo, appare come un alone chiaro e indefinito. Piccoli telescopi possono rivelare la sua forma allungata, mentre telescopi da 200mm di apertura sono in grado di risolvere le stelle più luminose dell’ammasso.
Charles Messier individuò l’oggetto nel 1771 e lo descrisse così:
Una nebulosa molto bella, assomiglia a una piccola cometa. Il centro è brillante e circondato da un debole bagliore.
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La morte di una stella massiccia rappresenta uno degli eventi più spettacolari dell’Universo.
Questa ripresa del telescopio Hubble inquadra AG Carinae, una stella prossima a distruggersi, che risplende con la luminosità di un milione di Soli nella Costellazione della Carena, ad una distanza di circa 20.000 anni luce da noi.
AG Carinae è osservabile prevalentemente dall’emisfero australe ed è una delle stelle più brillanti della Via Lattea, sebbene le polveri che la circondano e la distanza dalla Terra la rendano non visibile a occhio nudo.
Appartiene alla classe elitaria delle Variabili Blu Luminose, stelle estremamente rare e massicce, che trascorrono qualche decina di migliaia di anni in questa fase.
Conosciamo soltanto una cinquantina di Variabili Blu Luminose: sono stelle ipergiganti, con masse che possono arrivare a 150 volte quella del Sole, destinate a una vita breve, bruciando furiosamente il combustibile nucleare a loro disposizione.
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“Boote che tardi tramonta” la soluzione dell’enigma
Nella prima parte di questo articolo abbiamo visto che Omero, nel quinto libro dell’Odissea, definisce il Boote come “tardo a tramontare”. Un’eventualità impossibile, dato che le costellazioni sono fisse sulla sfera celeste e quindi sorgono e tramontano tutte alla stessa velocità.
Perciò, fin dai primi studi filologici del Quattrocento, su tale verso è stato scritto molto senza trovare una spiegazione plausibile.
Un altro aspetto sorprendente che abbiamo avuto modo di vedere nella prima parte è che, a differenza di oggi, nell’antichità quel versetto non sembra però incontrare nessun problema di comprensione, tanto che tutti si sentivano liberi di ripeterlo, di variarlo, addirittura di scherzare sulla lentezza del Boote.
Per confronto, si tenga presente che, poche righe sopra, Omero dice che l’Orsa Maggiore è la sola costellazione circumpolare, e quel sola, che anche noi sappiamo essere un errore perché di costellazioni che non tramontano, e quindi circumpolari, ve ne sono diverse, scatenò furiosi dibattiti tra studiosi, al punto che perfino Aristotele scese in campo per difendere Omero nella disputa. Non è accaduto niente del genere per “Boote tardo a tramontare”, a dimostrazione, appunto, della sua pacifica comprensibilità per i nostri antenati.
In un crescendo di meraviglia, l’ultimo punto sottolineato nella prima parte è forse ancora più incredibile: alla fine dell’Antichità, il filosofo Severino Boezio si accorse che il senso di quel verso si andava perdendo e lo trasformò in una sfida intellettuale, in una sorta di test culturale per distinguere il vero sapiente dal mero erudito. Egli infatti, nel quinto libro del suo testo più famoso, il De Consolatione Philosophiae, scrive:
Se qualcuno non sa che le stelle di Arturo
Tramontano vicine al cardine sommo O perché il Boote conduca lentamente i
Carri e immerga tarde fiamme nell’acqua
Mentre invece sorge velocissimo Si stupirebbe delle leggi dell’alto cielo.
Andiamo quindi a scoprire insieme la soluzione a questo affasciante enigma!
L’Articolo completo è disponibile su COELUM ASTRONOMIA N° 254 FEBBRAIO MARZO 2022.
La missione BepiColombo è stata selezionata dall’agenzia spaziale Europea (ESA) alla fine del 2000 e dopo tutta una serie di complicazioni e incidenti di percorso è stata lanciata il 18 Ottobre 2018. La sonda arriverà a Mercurio nel Dicembre 2025 e impiegherà circa 3 mesi per inserirsi in orbita nominale intorno al pianeta.
Si tratta di una missione molto ambiziosa in quanto lavorerà molto vicina al Sole e orbiterà attorno a Mercurio, che ha la superficie rivolta verso il Sole molto calda.
È il pianeta con il più elevato gradiente termico tra l’emisfero buio e quello rivolto verso il Sole, arrivando a 600 K di differenza. Inoltre a causa della vicinanza al Sole il satellite è investito da una quantità di radiazione 10 volte superiore a quella che normalmente arriva sulla Terra. L’analisi termica e la protezione dalle radiazioni hanno richiesto molte risorse e sforzi tecnologici e di progettazione.
I 3 moduli di BepiColombo a Estec, nell’hangar ESA dove sono stati effettuati gli ultimi test prima di inviare tutto in Guyana francese
L’82% dei materiali e dispositivi utilizzati per la missione sono stati disegnati e realizzati appositamente, molto probabilmente un record per le missioni spaziali.
Una delle tante innovazioni introdotte sono stati i pannelli solari, su cui è stato depositato un particolare e specifico materiale, e fino all’ultimo hanno rappresentato un elemento critico del progetto al punto che sono state necessarie 9000 ore di test con una dose di radiazioni e temperature alle quali saranno sottoposti.
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Nell’era dell’esplorazione spaziale è sempre più decisivo il miglioramento della tecnologia in grado di catturare più indizi utili possibili per comporre il vastissimo puzzle dell’universo.
In particolare, la ricerca e la caratterizzazione degli esopianeti è di vitale importanza per aiutarci a rispondere agli interrogativi più ambiziosi: Quanti e quali tipi di esopianeti esistono? Quello che sappiamo dei pianeti è corretto? Siamo soli nell’universo?
Fortunatamente, parafrasando Richard Feynmann, la cassetta degli attrezzi a disposizione degli astronomi è abbastanza fornita. Secondo lo schema disegnato da Perryman esistono tre macro- gruppi di ricerca.
Il primo (dynamical effect) utilizza gli effetti dinamici come ad esempio l’effetto doppler della luce generato dal moto radiale della stella a causa della presenza di un pianeta che gli orbita attorno.
Il secondo (microlensing) sfrutta la deformazione del percorso rettilineo della luce quando attraversa un campo gravitazionale importante. Il terzo gruppo (photometry) usa la fotometria, ovvero l’analisi della luce. Appartengono a questa categoria il metodo dei transiti ed il direct imaging.
[…]
Il metodo del direct imaging è decisamente molto promettente, tuttavia per poterlo implementare è necessario possedere una altissima risoluzione angolare e grande flusso di luce.
Questo si traduce in una enorme area collettrice dei telescopi e strumenti sempre più sofisticati.
Si pensi che per poter osservare un pianeta come la Terra alla distanza di 30 pc riducendolo ad un singolo pixel sarebbe necessario avere un telescopio con una apertura utile di 90 km! L’uso di interferometri parimenti richiederebbe tempi di integrazione estremamente lunghi, centinaia di milioni di anni, per ottenere un segnale accettabile.
Diagramma dell’albero di Perryman, in cui sono schematizzati i più comuni metodi di rilevazione e caratterizzazione degli esopianeti.
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COME SCEGLIERE IL POSTO
DOVE COSTRUIRE UN TELESCOPIO
OTTICO-INFRAROSSO
Siamo già entrati nell’epoca dei telescopi ottico-infrarosso giganti, o per meglio dire, Estremamente Grandi (Extremely Large Telescopes, o ELT). Progetti bilionari, con propositi ambiziosi, che richiedono enormi investimenti, innovazione ingegneristica, creazione di imponenti opere civili e infrastrutture, stipulazione di accordi internazionali, utilizzo di risorse umane ed economiche senza precedenti, progettazione di nuovi sistemi di controllo e immagazzinamento e gestione dei dati.
L’European Extremely Large Telescope (E-ELT, di 39 m di diametro), il Thirty Meter Telescope (TMT, di 30 m di diametro) e il Giant Magellan Telescope (GMT, di 22 m di diametro) sono ormai in avviata fase di costruzione, e saranno pronti entro la prossima decade per affrontare casi scientifici sino ad ora impossibili da sbrogliare.
Scoprire e caratterizzare sistemi planetari e proto-planetari, identificare pianeti terrestri e studiarne l’atmosfera, capire la formazione e l’evoluzione dei buchi neri, districare l’interrogativo sulla formazione e l’evoluzione delle galassie ad alto redshift
e chiarire l’origine della materia oscura, sono solo alcuni dei quesiti che questi giganti si propongono di decifrare.
Ma tutti gli sforzi e le ambizioni si vedrebbero vanificati se, alla fine di tutto, questi nuovi telescopi ottico-infrarosso giganti non fossero sovrastati da un cielo trasparente e calmo, privo di nuvole, lontano da fonti di inquinamento luminoso, e in condizioni climatiche eccellenti; il tutto incasellato in modo tale da permettere a questi nuovi occhi dell’umanità di puntare al cielo notturno per il maggior tempo possibile, senza interruzioni, e poter finalmente produrre nel modo migliore quei dati così importanti per la ricerca.
Un po’ di Didattica
La scelta dei siti ideali per i nuovi ELT ha richiesto l’impegno di molti gruppi di ricerca in tutto il Mondo, in un lavoro globale di studio di cime inesplorate e già note.
La caratterizzazione di nuovi siti astronomici è una vera e propria branca dell’Astronomia moderna, e viene definita Site Testing.
Stazione di monitoraggio presso Cerro Armazones, Cile.
Il Site Testing è una scienza multidisciplinare, in cui trovano posto nozioni di Astronomia, Climatologia, Meteorologia, Sismologia, Geologia, Geografia, Ingegneria, Politica ed Economia.
Non tutti questi fattori hanno però lo stesso peso, e non tutti vengono considerati nella loro completezza, avendo influenze parziali e variabili nella Funzione di Merito finale che darà il punteggio definitivo ad ogni sito e che lo collocherà in una classifica generale da cui
poi verrà scelto quello in grado di rappresentare il compromesso migliore per la costruzione del telescopio.
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«Da lungo tempo io non ho più pubblicato nulla che possa in certo modo servir di contraccambio. Però negli ultimi sei mesi mi è riuscito di fare un lavoro, il quale può interessare almeno altrettanto i geologi, quanto gli Astronomi: è il rilievo della carta di Marte, di cui ti presento una copia. Spero che la vorrai gradire come piccolo dono.
Non senza meraviglia si trova che in Marte la distribuzione del liquido e del solido è ben altra, che presso di noi. Vi sta ciò che sulla Terra più non si vede in così grande scala: estese aree di continenti sommersi sott’acqua a piccole profondità sono le regioni
ombreggiate in ½ tinta. La moltitudine dei canali è molto maggiore di quanto abbia potuto indicare, ma ho dovuto limitarmi a quello, che si può constatare con certezza. In certi momenti il pianeta pareva avviluppato di una rete a ricami diversi. Questo lavoro mi ha cagionato più piacere nel farlo, che se avessi io scoperto i satelliti del pianeta»
Così scriveva l’astronomo Giovanni Virginio Schiaparelli nel 1878 al suo amico Quintino Sella, ingegnere minerario, mineralogista e co-fondatore della Società Geologica Italiana nonchè più volte ministro delle finanze durante il periodo 1862-73 (Pizzarelli e Roero, 2015).
La sensibilità e curiosità geologica dimostrata da Sella, tanto da aver promosso la realizzazione della prima Carta Geologica del Regno d’Italia, si accese nel vedere quelle carte di Marte e invitò Schiaparelli all’Accademia dei Lincei per presentare il
suo lavoro davanti ai maggiori astronomi europei, per poi ottenere in Parlamento un finanziamento con il quale potenziò il telescopio dell’Osservatorio di Brera.
Sappiamo bene l’impatto che ebbe l’accurata cartografia di Marte prodotta da Schiaparelli
nel mondo scientifico, anche per quella imprecisa traduzione del termine canali nel mondo anglosassone che alimentò idee sulla presenza di canali costruiti artificialmente sul pianeta da una civiltà aliena descritta dai libri di Percival Lowell.
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Il futuro lunare dello studio delle onde gravitazionali
Una rete di sensori lunari in grado di rivelare le vibrazioni del nostro satellite prodotte dal passaggio delle onde gravitazionali.
No, non stiamo parlando di una suggestione contenuta all’interno di un racconto di fantascienza, ma di una possibilità reale di cui si sta occupando una collaborazione internazionale istituita al fine di valutare la realizzazione di un’antenna di onde gravitazionale lunare, LunarGravitational-Wave Antenna (LGWA), a cui l’INFN contribuisce insieme al Gran Sasso Science Institute (GSSI), all’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV).
Un gruppo di ricerca a cui è affidato il compito di valutare e analizzare, da un punto di vista teorico, fattibilità e caratteristiche di un simile progetto nell’ambito dei programmi NASA e ESA che prevedono, nel prossimo futuro, il ritorno dell’uomo sulla Luna e la costruzione di basi permanenti sul nostro satellite.
Per quanto ambiziosa, la proposta può contare sui risultati di esperienze sperimentali condotte sin dalla metà del secolo scorso sulle cosiddette barre di Weber, strumenti dimostratisi fino a oggi inefficaci per l’individuazione delle onde gravitazionali a causa delle loro modeste dimensioni, il cui principio di funzionamento potrebbe tuttavia risultare efficace invece se applicato all’analisi delle vibrazioni di un corpo di dimensioni planetarie come la Luna.
L’idea di misurare con grande precisione le vibrazioni di oggetti solidi con l’intento di individuare il segnale del passaggio di un un’onda gravitazionale, una perturbazione dello spazio-tempo in grado di deformare temporaneamente e in maniera quasi impercettibile anche la materia, si deve a Joseph Weber, fisico statunitense pioniere della ricerca sperimentale nel campo delle onde gravitazionali.
Un’intuizione che a partire dagli anni ‘50 portò alla costruzione di antenne risonanti, note come barre di Weber, costituite da cilindri di alluminio di diverse tonnellate di peso distanziate e sospese all’interno di camere a vuoto per isolarle dai rumori sismici e acustici.
Grazie alla presenza di sensori in grado di convertire l’oscillazione meccanica in segnale elettrico, tali dispositivi avrebbero quindi potuto, almeno in linea teorica, vibrare all’unisono e rivelare un’onda gravitazionale che li avesse attraversati.
An artist’s impression of gravitational waves generated by binary neutron stars. Credits: R. Hurt/Caltech-JPL
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Se vogliamo mantenere in salute il nostro pianeta, unico nel Sistema Solare a poter ospitare la vita, dobbiamo sforzarci di conoscere il più possibile tutti i suoi “fratelli” meno fortunati, gli altri sette pianeti che orbitano intorno al Sole.
Come dei novelli studiosi di una “fisiologia planetaria”, dobbiamo studiare i malati per imparare come mantenerci in salute. È necessario capire come i pianeti si siano evoluti, se mai alcuni di essi siano stati potenzialmente abitabili nel passato, come i quattro più piccoli (Mercurio, Venere, la Terra e Marte) siano stati guidati, nella loro evoluzione, dai quattro giganti (Giove, Saturno, Urano e Nettuno). Tra questi ultimi, il protagonista è senz’altro Giove. Tutte le teorie sulla nascita e l’evoluzione del Sistema Solare ruotano intorno alla sua “storia personale”, perché è probabilmente il primo a formarsi e quindi quello che più di tutti ha influenzato gli altri.
Sebbene molto possa essere compreso di un pianeta anche solo grazie all’osservazione da remoto, l’osservazione in-situ (ossia da vicino) ci offre informazioni altrimenti irraggiungibili. Possiamo studiarne la gravità e struttura interna, il suo campo magnetico, il suo ambiente; abbiamo la possibilità di osservare regioni non visibili da terra, come ad esempio i poli.
Già nel 1973 la NASA era riuscita a far volare la sonda Pioneer 10 fino a Giove, regalandoci alcune spettacolari immagini prima di proseguire il suo viaggio verso i pianeti più esterni. Avere una sonda in orbita intorno a Giove, però, offre ben altre potenzialità scientifiche, e allo stesso tempo richiede uno sforzo tecnologico ben più intenso.
Alla fine degli anni ‘70 la NASA iniziò a progettare una missione interamente dedicata a Giove: Galileo. Dopo Galileo, i cui risultati scientifici furono in parte compromessi da alcuni problemi tecnici, fu la volta di Juno, lanciata nel 2011 ed in orbita intorno a Giove dal 2016.
DALLA MITOLOGIA
Nel mito di Io e Zeus, questi nasconde i suoi segreti in una coltre di nubi, attraverso il quale Giunone (Juno, in inglese) si forza di scrutare. Chiamata così in onore della consorte del Dio greco, la sonda Juno osserva il pianeta Giove in maniera completa, anche al di sotto del folto strato di nubi che lo ricopre. Juno ne studia la magnetosfera facendo misure di campo magnetico, di particelle energetiche e di campi elettrici magnetici; osserva la sua aurora (cioè l’interazione della magnetosfera con l’alta atmosfera) e l’atmosfera superficiale fino a mille chilometri di profondità. Ha anche un Gravity Experiment, che permette di calcolare il campo gravitazionale del pianeta con l’obiettivo finale di spiegare se il pianeta abbia o meno un core (cioè un nucleo) solido. Tutte queste misure sono fondamentali per capire come il pianeta si sia formato.
L’aurora Nord di Giove e, nel riquadro, uno zoom sul footprint aurorale di Io, ottenuto da JIRAM. Credits: ASI / INAF / JIRAM -NASA / JPL-Caltech / SwRI
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Grande appuntamento per i cultori della storia dell’Astronomia. Giovedì 20 Gennaio a Trieste: il Prof. Guido Cossard dell’Associazione di Ricerche e Studi di ArcheastronomiaValdostana sarà protagonista di un incontro presso l’Antico Caffè San Marco (Via C. Battisti, 18 a Trieste) nell’ambito del ciclo di appuntamenti didattici “Ci sono più cose in cielo e in terra…”, organizzato dal Centro Studi Astronomici Antares Trieste assieme al prestigioso “Antico Caffè San Marco”.
Appuntamento nel quale il prestigioso ospite presenterà il suo bellissimo volume “CIELI PERDUTI – ARCHEOASTRONOMIA: LE STELLE DEI POPOLI ANTICHI”.
In questo speciale appuntamento, i presenti avranno la possibilità di spaziare dalle stelle all’archeologia, esplorare l’affascinante mondo dell’Archeoastronomia avendo come guida un noto esperto di questa disciplina, che mette in relazione gli studi astronomici con i contesti archeologici, offrendoci delle ipotesi su come gli antichi abitanti della Terra interpretavano i fenomeni celesti o osservavano i movimenti della volta celeste. Vi aspettiamo numerosi!
Il rover dell’ESA Rosalind Franklin ha completato con successo tutti i test funzionali e la manutenzione necessaria.
Strumenti ed equipaggiamento sono pronti per il volo: il 2022 non poteva incominciare meglio!
Il viaggio della missione ExoMars. Credit: ESA
«Il rover è pronto per la sua missione» ha dichiarato Pietro Baglioni, a capo del team ExoMars dell’ESA, «Il recente successo dei test di qualifica del paracadute ci dà la confidenza necessaria per poter iniziare la campagna di lancio nei tempi previsti».
Solo una volta ogni due anni si presenta la possibilità per un veicolo spaziale di raggiungere Marte, nel minor tempo possibile (circa nove mesi). Grande quindi l’entusiasmo per questa missione; in attesa del volo, Rosalind si trova in una camera ultra-pulita presso la sede di Thales Alenia Space a Torino. È infatti importante evitare ogni tipo di contaminazione prima della partenza. Accanto al rover, la sua futura compagna di viaggio: la piattaforma di atterraggio Kazachok.
Dopo un’ulteriore revisione finale verso Aprile di quest’anno, tutti i componenti del veicolo spaziale (ovvero modulo di trasporto Terra-Marte, modulo di discesa con piattaforma di atterraggio e rover) saranno spediti presso il sito di lancio a Baikonur nel Kazakistan.
Piattaforma Kazachock. A differenza del rover, che si sposterà andando in esplorazione ed effettuando diverse ricerche scientifiche, la piattaforma rimarrà sul sito di atterraggio per indagare il clima, l’atmosfera, le radiazioni e la possibile presenza di acqua (Credit immagine: ESA)
«Prima di questo ultimo viaggio, dovremmo caricare sul rover un software che faciliterà l’esplorazione autonoma di Marte», spiega Pietro Baglioni.
Primi passi in territorio marziano
Questa sarà la fase cruciale della missione.
Dopo il delicato momento di atterraggio del rover sulla piattaforma, l’uscita da Kazachok sarà la fase più attesa: un’operazione complessa, che gli ingegneri hanno studiato nei minimi dettagli già qui sulla Terra.
Nella sede di ALTEC, il gemello del rover Rosalind Franklin (chiamato Amelia), ha eseguito diversi test in un simulatore terrestre del pianeta rosso. Qui in arco di tempo di cerca 15 minuti, è stata simulata l’intera fase di sviluppo ed uscita del rover dalla piattaforma, ma in realtà su Marte tutto ciò durerà qualche giorno (all’incirca una settimana). Infatti, dopo l’atterraggio, il veicolo sarà sottoposto ad una serie di controlli e self test, prima di procedere al sollevamento delle ruote e al dispiegamento dei pannelli solari e dell’asta con le telecamere.
Amelia nel centro di simulazione ALTEC di Torino. Credit: ESA
Andrea Merlo, Capo della Robotica presso Thales Alenia Space, afferma: «L’uscita del rover su Marte è un’operazione delicata. Dobbiamo essere attenti e farlo funzionare molto lentamente, per garantire che tutte quante le strumentazioni funzionino in sicurezza».
Kazachok ha due rampe d’uscita: una anteriore e posteriore. Rosalind è progettato per percorrere anche pendenze assai ripide, ma spetta alla stazione di controllo terrestre decidere come far muovere il rover.
«Attendiamo questo momento da tanto tempo», racconta Pietro Baglioni, «Nel 2021, a causa dei disagi della pandemia di COVID-19 l’impegno per arrivare alla fine del progetto è stato notevole, con doppi turni e senza pause. Ma grazie alla collaborazione tra l’industria europea e quella russa, siamo giunti al capolinea».
Dietro le quinte
In fase di progettazione sono state riscontrate alcune problematiche. Per risolverle, ingegneri e tecnici hanno lavorato in parallelo sui vari moduli dello spacecraft, incluso il sistema paracadute e l’elettronica del modulo di discesa. Nel frattempo, a Baikonur sono iniziati i preparativi per la campagna di lancio ed il team responsabile per le operazioni è pronto presso il centro ESOC di Darmstadt in Germania.
Pietro Baglioni conclude: «Il 2023 è alle porte, e finalmente anche Rosalind potrà unirsi agli altri rover marziani con un laboratorio scientifico qualificato a bordo. E’ un passo importantissimo per l’industria spaziale europea».
L’articolo completo sul n. 254 di Coelum Astronomia
Torniamo a ripercorrere la storia delle dieci supernovaescoperte da italiani nelle galassie del catalogo di Messier. Nel numero 249 di Novembre 2020 è stata trattata la prima supernova, la SN1957B scoperta dal prof. Giuliano Romano in M84. Proseguendo ora in ordine cronologico, troviamo le quattro supernovae scoperte dal famoso astronomo prof. Leonida Rosino.
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SN1960R in M85
La prima delle quattro supernova che analizziamo è la SN1960R che rappresenta la primissima supernova scoperta da Leonida Rosino e anche la seconda supernova in assoluto scoperta da un italiano dopo quella individuata il 18 maggio 1957 da Giuliano Romano.
Fu individuata nella famosa galassia lenticolare M85 posta nella costellazione della Chioma di Berenice a circa 55 milioni di anni luce di distanza e accompagnata a soli 30” ad Est dalla galassia a spirale NGC4394.
Nella notte fra il 18 e 19 gennaio 1961, precisamente alle 00:55 TU del 19 gennaio, il tecnico di turno in osservatorio Valerio Pertile eseguì una posa di 15 minuti sulla galassia M85 (NGC4382) utilizzando la pellicola Kodak 103a-O.
La mattina seguente l’immagine venne sviluppata e controllata da Leonida Rosino che notò subito un nuovo oggetto situato 8” ad Est e 132” a Sud dal centro di M85 e con una luminosità intorno alla mag.+14.
Venne perciò comunicata la scoperta telegraficamente alla Centrale Astronomica di Copenhagen, che il 23 gennaio emanò la circolare n. 1750 inviata ai più importanti osservatori mondiali, ufficializzando la scoperta.
Nella stessa data però il famoso astronomo svizzero di origini bulgare, Fritz Zwicky – che per primo coniò il termine “supernova” – trasferito negli Stati Uniti dal 1925, emanò a sua volta la circolare n. 88 del Technological Institute di California informando della scoperta fatta il 15 gennaio della supernova in M85 ad opera del suo allievo Gates, su una lastra del Palomar Observatory del 20 dicembre 1960 con l’oggetto che mostrava una luminosità pari alla mag.+12.
Questa comunicazione tardiva fatta di Zwicky innervosì non poco il nostro Rosino. In quegli anni infatti si sapeva molto poco sulla natura fisica delle supernovae ed era perciò importante che un oggetto così luminoso venisse seguito per ottenere un’accurata fotometria e dei preziosissimi spettri. Invece, com’era già successo per la scoperta della SN1957B in M84 da parte di Giuliano Romano, anche questa volta Zwicky mantenne riservata la notizia della scoperta fatta da Gates al Palomar Observatory.
Nella notte fra il 21 e il 22 gennaio (alle 3,30 TU del 22 gennaio) l’astronomo Francesco Bertola, che lavorò ad Asiago dal 1963 al 1972, utilizzando il telescopio Galileo, ottenne il primo spettro con una posa di 150 minuti su pellicola Kodak 103a-F.
Da un primo esame si pensò erroneamente che la supernova dovesse appartenere a quelle di tipo II. Furono però ripresi altri spettri il 26 gennaio, il 7-10-19 febbraio ed anche il 12 e 15 marzo e l’ulteriore studio di questi spettri ottenuti sempre da Bertola dimostrò che la SN1960R era in realtà una supernova di tipo Ia con il massimo di luminosità che si era verificato intorno al 19 dicembre 1960, quindi in corrispondenza dell’immagine ripresa a Monte Palomar.
Abbiamo provato ad entrare in possesso anche della lastra originale di scoperta ottenuta da Gates a Monte Palomar, e dopo essere stati sballottati fra vari indirizzi mail dello storico osservatorio americano, siamo entrati in contatto con la mitica Jean Muller che, per chi non la conosce, è la donna astronoma con il maggior numero di scoperte di supernovae – ben 107! – e seconda come numero totale soltanto al grande Fritz Zwicky.
Jean ci ha promesso che quando andrà a Monte Palomar (a causa del Covid gli accessi all’osservatorio sono purtroppo limitati) cercherà in archivio l’immagine di scoperta e l’eventuale spettro, ma ha tenuto a puntualizzare che probabilmente l’immagine non è più disponibile e se anche lo fosse, non è detto che sia ancora di buona qualità poiché fu realizzata su pellicola oltre sessant’anni fa. Aspettiamo comunque fiduciosi il risultato della sua ricerca, dovremo però attendere la prossima primavera.
Immagine dell’ultima supernova esplosa in M85 la SN2020nlb ottenuta in remoto dalla Namibia dall’astrofilo svedese di origini polacche Grzegorz Duszanowicz con un Celestron C14 F.7,3 + ccd SBIG ST-10XME, somma di 60 immagini da 30 secondi
SN1964F in M61
Proseguendo nell’analisi di queste quattro storiche supernovae, arriviamo alla SN1964F, la sesta supernova scoperta da Leonida Rosino e individuata nella stupenda galassia a spirale barrata M61, posta nell’ammasso della Vergine e distante circa 50 milioni di anni luce.
Considerata ad oggi la regina delle galassie Messier in fatto di esplosioni di supernovae (con ben 8 eventi conosciuti!) nel 1964 contava al suo attivo solamente due supernovae:
la SN1926A scoperta dagli astronomi tedeschi Maximilian Franz Wolf e dal suo allievo Karl Wilhelm Reinmuth
la SN1961I scoperta dall’astronomo americano Milton Lasell Humason.
Nella notte del 30 giugno 1964 alle ore 21:24 TU il tecnico di turno in osservatorio, ancora una volta Valerio Pertile, eseguì una posa di 15 minuti sulla galassia M61 (NGC4303) utilizzando la pellicola Kodak Panchrome-Royal.
Come da prassi operativa, la mattina seguente l’immagine venne sviluppata in camera oscura dai tecnici dell’osservatorio e controllata da Leonida Rosino che individuò facilmente una nuova stella di mag.+14 posta 25” Ovest e 3” Sud dal centro della galassia.
M61 era già stata ripresa anche il 3 giugno con il limite dell’immagine a mag.+17, ma la supernova non era visibile.
Il nuovo transiente fu seguito dall’Osservatorio di Asiago fotograficamente da Francesco Bertola con il telescopio Galileo da 122 cm subito dopo il tramonto dei giorni 1 – 3 – 8 – 11 – 16 luglio, evidenziando una leggera diminuzione di luminosità di circa mezza magnitudine, ma a causa della bassa altezza della galassia sull’orizzonte non fu possibile riprendere uno spettro. Cosa che invece riuscì oltre oceano dall’Osservatorio di Monte Wilson in California con lo storico telescopio Hooker da 2,5 metri. L’unico spettro ripreso permise di classificare la supernova di tipo II con il massimo di luminosità che si era verificato intorno al 13 giugno.
Immagine dell’ultima supernova esplosa in M61 la SN2020jfo ottenuta da Manfred Mrotzek dal Backyard Observatory in Buxtehude – Germania con un telescopio TEC 140 mm F.5,4 + ccd Atik 460EX
SN1972Q in M99
Arriviamo così alla terza supernova scoperta da Leonida Rosino in una galassia Messier, la diciassettesima delle 23 da lui scoperte.
Questa volta ci troviamo nella stupenda galassia a spirale M99. Distante circa 50 milioni di anni luce, anche se posta nella costellazione della Chioma di Berenice, M99 è una delle galassie più brillanti della ammasso della Vergine. Possiede una curiosa particolarità: una strana asimmetria dei suoi bracci. In particolare il braccio ad Ovest è più aperto rispetto agli altri e questo potrebbe essere dovuto ad una collisione avvenuta in passato con un’altra galassia.
Ad oggi sono quattro le supernovae conosciute esplose in questa fotogenica galassia, ma nel dicembre 1972 in M99 era stata registrata soltanto una supernova, la SN1967H scoperta il 2 luglio 1967 dal famoso astronomo svizzero Fritz Zwicky.
Nella notte del 14 dicembre 1972 alle ore 02:57 TU il tecnico di turno in osservatorio, questa volta Romeo Baù, eseguì una posa di 5 minuti sulla galassia M99 (NGC4254) utilizzando la pellicola Kodak 103a-O. Di prassi venivano sempre riprese due immagini dello stesso campo stellare e se il nuovo oggetto era presente in entrambi, era quasi certo che non si trattava di un difetto della pellicola. Questo metodo operativo, con la doppia immagine, viene adottato anche oggi con i moderni ccd proprio per escludere eventuali difetti o falsi positivi. I programmi professionali arrivano a riprendere anche tre o quattro immagini della solita galassia, essendo i tempi di posa ridotti a poche decine di secondi. L’individuazione del nuovo oggetto da parte di Rosino non fu però facile perché immerso nella condensazione del braccio Nord della galassia e con una luminosità pari alla mag.+15,8.
Il 16 dicembre la supernova fu immortalata con lo Schmidt “grande” 92/67 poi, a causa delle avverse condizioni meteo, si dovette aspettare il 6 gennaio 1973 con la supernova scesa sotto la sedicesima magnitudine e seguita ancora fotometricamente per tutto il mese di gennaio e febbraio, fino al 9 marzo, data dell’ultima ripresa con la supernova scesa ormai alla mag.+17,5.
Purtroppo a causa della luminosità della supernova prossima alla mag.+16 ed inoltre immersa in una condensazione dei bracci della galassia, non fu possibile riprendere lo spettro di conferma. Il limite spettroscopico del telescopio Galileo, che oggi con i moderni ccd arriva fino alla mag.+17, cinquant’anni fa con le pellicole fotografiche era molto inferiore. Stranamente lo spettro di questa supernova non fu ripreso neanche da altri osservatori dotati di telescopi di maggior diametro come per esempio Monte Palomar. Però seguendo l’evoluzione fotometrica fatta ad Asiago dalla data di scoperta fino al 9 marzo 1973 siamo quasi sicuri che la SN1972Q era una supernova di tipo II.
Immagine dell’ultima supernova esplosa in M99 la SN2014L ottenuta da Marco Burali dall’Osservatorio MTM con un telescopio Takahashi FRC 300 + ccd FLI 1001
SN1973R in M66
L’ultima supernova scoperta da Rosino in una galassia Messier fu la SN1973R.
Si tratta della sua diciottesima scoperta, individuata nella bella galassia a spirale barrata M66 posta a circa 35 milioni di anni luce nella costellazione del Leone. Ad oggi sono quattro le supernovae esplose in questa galassia e un LBV Supernova Impostor, ma fino al 1973 nessuna supernova conosciuta era stata individuata. Rosino perciò ottenne la primissima scoperta in questa fotogenica galassia, che è accompagnata dalla vicina M65 e dalla NGC3628 formando il famoso Tripletto del Leone, tanto caro agli astrofotografi.
Nella notte del 19 dicembre 1972 alle ore 01:14 TU il tecnico dell’osservatorio Angelo Rigoni eseguì una posa di 15 minuti sulla galassia M66 (NGC3627) utilizzando la pellicola Kodak Tri-X. Controllando l’immagine Rosino non ebbe difficoltà ad individuare una luminosa stella di mag.+14,5 posta 25” Nord e 49” Ovest dal centro della galassia. La precedente immagine di M66 ripresa ad Asiago risaliva al 1° dicembre con limite a mag.+17,5 ma con la supernova non ancora visibile.
Nel giugno del 1973 era stata inaugurata la stazione osservativa di Cima Ekar, per allontanarsi dal disturbo delle luci del centro di Asiago, con l’entrata in funzione del telescopio Copernico da 1,82 metri, che è tutt’ora il più grande telescopio operante sul territorio nazionale.
Nella notte del 28 e 29 dicembre e in quella del 18 gennaio 1974 ed anche il 14 marzo, con il telescopio Copernico furono ripresi gli spettri di questa supernova che risultò essere di tipo II. I gas eiettati dall’esplosione viaggiavano ad una velocità di circa 11.000 km/s, con il massimo di luminosità che doveva essere stato raggiunto pochi giorni prima, intorno al 14-15 dicembre, prossima alla mag.+14.
L’evoluzione fotometrica mostrò un rapido declino dalla fine di dicembre fino alla metà di gennaio per poi stabilizzarsi per circa 30 giorni alla mag.+16,5 in una specie di Plateau. Alla fine di febbraio la luminosità proseguì in un lento declino che la portò alla fine di maggio ad essere oltre la mag.+18,5.
Immagine dell’ultima supernova esplosa in M66 la SN2016cok ottenuta da Paolo Campaner con un riflettore da 400mm F/5.5 + ccd Atik428, somma di 10 immagini da 75 secondi
Quando scatto delle immagini del Sole, la nostra stella mi si presenta come un rosso e intenso quadro impressionista. I vortici continui della superficie mi incantano ogni volta. Per questo articolo, ho voluto proporvi tre immagini che mostrano la cromosfera della nostra stella, così come si presentava giovedì 28 ottobre 2021
Giovanna Ranotto, astrofotografa
L’articolo completo è disponibile sul n. 254 di Coelum Astronomia.
Segue l’integrazione all’articolo, completa dei passaggi da seguire per migliorare le immagini in post-produzione.
La post-produzione
Personalmente ho scelto SharpCap, un software intuitivo e gratuito, liberamente scaricabile dal sito ufficiale. Può essere utilizzato anche con webcam e frame grabber USB dedicati.
Scegliendo come soggetto il Sole è bene optare per l’acquisizione di video piuttosto che di singole immagini: ciò consente, nella successiva fase di elaborazione, di allineare e sommare i singoli fotogrammi di ogni ripresa video così da migliorare il rapporto segnale/rumore e ottenendo un’immagine finale più nitida e definita.
Elenchiamo i passaggi da seguire su questo software:
Fig. 1 Una volta selezionata la camera, le opzioni che di solito controllo sono Capture Format and Area e Camera Controls.
Con Capture Format and Area si impostano spazio colore, area di cattura (ovvero le dimensioni del video o dell’immagine in pixel), binning e formato in cui verrà salvato il video. Con Camera Controls invece modificherete esposizione e guadagno. Visto che il disco solare è molto più luminoso delle protuberanze visibili sul bordo, per l’esposizione occorrerà usare valori diversi: maggioriper le protuberanze, minori per il disco. Nel caso delle protuberanze, non bisogna esagerare con l’esposizione, altrimenti si rischia di saturare dettagli che potrebbero essere interessanti. Anche il guadagno non deve essere eccessivo, pena un forte aumento del rumore. Volutamente non inserisco valori numerici esatti, perché bisogna sperimentare finché non si trova una quadra che permetta di ottenere risultati gradevoli.
Fig. 2 Lanciare l’acquisizione del filmato cliccando su Start Capture.
Nella nuova finestra che si apre va indicato il nome del soggetto in Target Name oppure scrivendo direttamente nella casella apposita. Come numero di frames imposto 1000, il che equivale a una ripresa di circa un minuto. Non vado oltre perché poi rischio di avere una deriva dell’immagine se la montatura non è perfettamente stazionata al polo, il che rende più difficoltosa la successiva fase di elaborazione. In basso compariranno il numero di frame ripresi e in quanto tempo e il rate, cioè il numero di frame al secondo.
Una volta terminata l’acquisizione, in alto comparirà una notifica di acquisizione completata (Capture complete), evidenziata in colore verde.
Terminata questa parte, si procede con l’ultima fase di post-produzione.
L’elaborazione dei filmati
Si può iniziare l’elaborazione dei filmati, nel mio caso con AstroSurface, gratuito e progettato per girare sotto ambiente Windows. Per gli amanti di Linux l’opzione è passare attraverso il software Q4Wine.
Fig. 3 Come prima cosa aprite il video cliccando su Open Files → Open SER or AVI
Ora spostatevi su Register nella finestra che si apre. Si aprirà a questo punto una nuova finestra, come mostrato di seguito.
Fig. 4 I numeri nei quadrati gialli indicano la sequenza dei passaggi da fare.
Non ci si può sbagliare, perché per esempio cliccando sulle opzioni di 2 se non si sono eseguiti prima i passaggi di 1 semplicemente non si può procedere. Trascinando il mouse create un rettangolo: se delle giuste dimensioni diventerà verde.
Questo rettangolo e l’areache AstroSurface controllerà per decidere quali sono i migliori frame del video da sommare: in pratica è soltanto un’anteprima che mostra come varia l’immagine cambiando i parametri. Se le modifiche all’immagine diventeranno effettive, verranno applicate a tutta l’immagine (non solo alla zona del rettangolo verde).
Come impostazioni lascio quelle di default (come mostrato in Fig. 4). Lanciate l’analisi premendo Analyse. Questo processo può richiedere un po’ di tempo.
Ora occorre impostare la griglia di punti di riferimento che servirà ad Astrosurface per allineare i vari frame del video: per fare questo scegliete Multi-Points, a meno che non abbiate immagini di cattiva qualità.
Al punto 4a non cambiate nulla. Al punto 5 scegliete tif come Output: in questo modo, se successivamente si dovesse processare ulteriormente l’immagine con altri software tipo GIMP o Photoshop, non si verifica una perdita di informazioni come invece avviene nel caso di formati immagini compressi come il jpeg.
Fig. 5 Infine cliccate su Stack per avviare allineamento e somma dei frame, anche questo processo richiede un po’ di tempo.
Una volta terminato il processo cliccate su Edit (come indicato qui sotto in Fig.6) per aprire le regolazioni per i Wavelets, che ci serviranno per rendere l’immagine più incisa e contrastata.
Le opzioni da regolare sono Sharpen LF e Sharpen HF. Anche in questo caso occorre disegnare un’area rettangolare trascinando il mouse.
Aumentando gradualmente i parametri, vi accorgerete come man mano l’immagine della cromosfera via via migliori; suggerisco di aumentare poco per volta i valori dei parametri. Se il risultato non vi soddisfacesse, cliccate sul bottone Reset per riportare i parametri ai valori originari.
Cliccate infine su Do All → Ok per confermare le vostre scelte e applicare le modifiche all’immagine. Infine salvate l’immagine cliccando su Files → Save As Image or ROI.
Lo scorso 13 gennaio, il satellite GOES West della NOAA ha catturato una nuova eruzione esplosiva del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, situato nel Regno polinesiano di Tonga nel Pacifico meridionale.
Secondo le prime analisi, l’eruzione ha avuto raggio di 260 km, emettendo una grande quantità di cenere, vapore e gas per oltre 20 km nell’atmosfera. È stata circa sette volte più potente della precedente eruzione del 20 dicembre 2021.
A seguito dell’esplosione si è verificato un maremoto presso Nuku’alofa, la capitale di Tonga, dove è stata misurata un’onda di tsunami di 30 cm. A preoccupare invece è lo tsunami che ha raggiunto il Giappone, con un’onda di 1,2 m nella remota isola meridionale di Amami Oshima. Lo ha reso noto l’agenzia meteorologica giapponese, aggiungendo che sono possibili onde alte fino a 3 metri.
Nelle immagini riprese da satellite possiamo vedere l’estensione del pennacchio di cenere e più onde di gravità che si propagano verso l’esterno. Del GOES-R Series, ovvero l’attuale generazione di satelliti meteorologici geostazionari, la strumentazione in grado di catturare immagini nella banda visibile delrosso è l’ideale per identificare dettagli dell’eruzione a piccola scala.
Immagini ad Ash RGB, ovvero in infrarosso, utili per rilevare la cenere vulcanica e il gas di anidride solforosa emessi. Credit: NOAA
L’isola che non (c’era)
Hunga Tonga-Hunga Haʻapai, l’isola su cui si trova il vulcano, è di recente formazione. Il vulcano sottomarino ha raggiunto la superficie a seguito di una eruzione nel 2009, proprio a metà strada tra l’isola Hunga Tonga e Hunga Ha’apai (inizialmente erano divise!). Tra dicembre 2014 e gennaio 2015 una nuova eruzione ha infine unito le due isole.
Questa “nuova” isola è stata la prima del suo genere a formarsi durante l’era moderna dei satelliti. Pertanto, gli scienziati sono stati in grado di studiarne la nascita e l’evoluzione dallo spazio. Inoltre, dalla sua formazione, l’isola ha eruttato in modo intermittente, regalandoci incredibili immagini!
Immagini dell’eruzione, catturate dal satellite giapponese Himawari-8 mentre sorgeva il sole sulla regione. Credit: NOAA
Il GOES West, noto anche come GOES-17, fornisce attualmente una copertura satellitare geostazionaria dell’emisfero occidentale, inclusi gli Stati Uniti, l’Oceano Pacifico, l’Alaska e le Hawaii. Lanciato per la prima volta nel marzo 2018, il satellite è diventato pienamente operativo nel febbraio 2019.
Si configura quindi come lo strumento perfetto per osservare l’evoluzione di questo incredibile vulcano sottomarino. E chissà ancora di quante altre spettacolari eruzioni di questo tipo…!
Il Gruppo Astrofili Polidoro si propone al pubblico con una diretta web della prima Luna piena del 2022.
Martedì 18 gennaio il nostro satellite sarà trasmesso dai propri telescopi dell’associazione tramite la relativa pagina di Facebook.
Tutti gli appassionati potranno ammirare l’evento comodamente seduti davanti al proprio pc. Basterà collegarsi alle ore 21.30 al seguente link: https://www.facebook.com/astrofilipalidoro
Il SOMS Circolo Galilei propone un ciclo di conferenze scientifiche a tema “Donne e Scienza” per i primi mesi del 2022. Sarà un’occasione per avviare alcune riflessioni sulle questioni di genere in ambito scientifico, grazie ai contributi di alcune importanti relatrici che illustreranno i contenuti delle attività in cui sono impegnate e, contestualmente, le loro valutazioni sul problema della disparità di genere.
Si comincia il 18 Gennaio, con la prof.ssa Carlotta Sorba, storica dell’Università di Padova che racconterà “Storia di donne di Scienza“. La storia delle donne, accademiche e studentesse dell’Ateneo padovano, ma con uno sguardo ampio verso l’Italia e l’Europa, per far luce su una traiettoria fino ad ora poco indagata, che ha il suo inizio alla fine del Seicento; un percorso accidentato, visto che ancora oggi la presenza e il ruolo delle donne nelle università e nella scienza rimane una questione aperta e in buona parte da risolvere. Saranno anche disponibili alcuni suoi libri. Inizio ore 20.45
L’incontro con la professoressa Sorba si terrà solo in videoconferenza accessibile sulla pagina YouTube del Circolo Galilei (https://www.youtube.com/channel/UClmcCdIqLo17JyI2ZNyECpg) e sulle pagine FaceBook del Circolo Galilei SOMS Mogliano e di Officina 31021
Una mappatura da record per il Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI): in soli sette mesi è stata creata la mappa dell’Universo più grande e dettagliata di sempre!
Lo scopo del DESI è di creare una mappa tridimensionale dell’Universo raggiungendo regioni remote dello spazio e del tempo analizzando un database di dati relativi al redshift di galassie e quasar.
Indice dei contenuti
Finora sono state catalogate più di 7,5 milioni di galassie e ne sta aggiungendo altre a un ritmo di circa un milione al mese
Entro la fine della sua analisi, nel 2026, si prevede che DESI vanterà oltre 35 milioni digalassie nel suo catalogo, consentendo così un’enorme – e finora insuperabile – varietà di ricerca cosmologica e astrofisica.
Nell’immagine, uno spaccato della mappa 3D delle galassie dei primi mesi di lavoro del DESI. La Terra è al centro, con le galassie più lontane tracciate a distanze di 10 miliardi di anni luce. Ogni punto rappresenta una galassia. Questa versione della mappa mostra un sottoinsieme di 400.000 dei 35 milioni di galassie che saranno raccolti nella mappa finale. Credits: D. Schlegel/Berkeley Lab utilizzando i dati di DESI Ringraziamenti: M. Zamani (NOIRLab di NSF)
Scomponendo la luce di ciascuna galassia nel suo spettro di colori, DESI può determinare il redshift delle stesse, ovvero lo “spostamento verso il rosso” della frequenza dell’onda elettromagnetica. Questo parametro ci dice molto sulla distanza delle galassie catalogate: uno spettro elettromagnetico spostato verso il rosso indica infatti una lunghezza d’onda maggiore rispetto a quella di emissione, quindi un oggetto più lontano e “vecchio”.
Con una mappa 3D del cosmo in mano, i fisici possono tracciare ammassi e superammassi di galassie. Strutture che portano echi della loro formazione iniziale, quando erano solo increspature nel cosmo primordiale. Eliminando quegli echi, i fisici possono utilizzare i dati di DESI per determinare la storia di espansione dell’Universo.
DESI finora ha completato solo il 10% circa della sua missione quinquennale. Una volta completata, la mappa 3D finale fornirà una migliore comprensione dell’energia oscura e quindi fornirà a fisici e astronomi una migliore conoscenza del passato – e del futuro – dell’Universo.
«C’è molta bellezza racchiusa qui»
Così esordisce Julien Guy, scienziato del Berkeley Lab riferendosi a questa prima mappatura.
«Nella distribuzione delle galassie nella mappa 3D ci sono enormi ammassi, filamenti e vuoti. Sono le strutture più grandi dell’Universo. Ma al loro interno trovi un’impronta dell’Universo primordiale e la storia della sua espansione da allora».
Le scoperte del DESI hanno un fascino impareggiabile. Se questi sono solamente gli esordi della missione – tra l’altro ostacolata dai mesi di stop causa emergenza Covid – ci aspettiamo davvero grandi cose da questa incredibile tecnologia!
Un enorme pianeta gassoso, inizialmente sfuggito allo sguardo attento dei telescopi, è stato individuato da un astronomo dell’AUC Riverside e un gruppo di City Scientists (ovvero comuni cittadini che hanno partecipato alla ricerca, ndr).
L’esopianeta TOI-2180 b sembrerebbe avere lo stesso diametro di Giove, ma con una massa ben tre volte maggiore rispetto a quella del nostro gigante gassoso. Si ritiene che contenga 105 volte la massa della Terra, presentando elementi più pesanti dell’elio e dell’idrogeno.
I dettagli della scoperta sono stati pubblicati sull’Astronomical Journal.
Non si trova niente di simile nel Sistema Solare
Rappresentazione artistica di un esopianeta gigante gassoso che orbita attorno a una stella di tipo G, simile a TOI-2180 b. Credit: NASA
«TOI-2180 b è stata un’incredibile sorpresa», afferma l’astronomo dell’UCR Paul Dalba, che ha contribuito a confermare l’esistenza del pianeta, «Possiede infatti tre caratteristiche peculiari: ha un’orbita di diverse centinaia di giorni; è relativamente vicino al nostro pianeta Terra (379 anni luce sono considerati vicini per un esopianeta);possiamo osservarlo transitare davanti alla sua stella. È un caso molto raro individuare un pianeta che rientri in questi tre fattori».
Dalba spiega anche che il pianeta è particolare poiché impiega 261 giorni per completare un viaggio intorno alla sua stella: un tempo molto lungo rispetto a molti altri giganti gassosi conosciuti!
Per confermare la presenza di questo pianeta è stato messo in campo il satellite Transing Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA. Il suo scopo è quello di ricercare esopianeti tramite cali di luminosità, che si verificano quando un pianeta passa di fronte ad una stella.
Il satellite Transiting Exoplanet Survey, o TESS. Credit: NASA
«In generale, la regola è che bisogna avere tre “cali” o “transiti” prima di confermare di aver travato un nuovo pianeta», prosegue Dalba, «Un singolo evento non è sufficiente, perché potrebbe essere causato da un telescopio di passaggio con un jitter – variazione di segnale, ndr – o altri oggetti in transito».
Per queste ragioni solitamente TESS non si concentra su singoli eventi di transito, ma il gruppo di City Scientists invece sì.
Tom Jacobs, ex ufficiale di marina statunitense, esaminando i dati da satellite, ha osservato una debole variazione di luce della stella TOI-2180 in un’unica occasione. L’ex marines ha subito pensato che fosse un nuovo pianeta che transitasse davanti la stella e ha quindi contatto subito Dalba, specializzato nello studio dei pianeti che impiegano molto tempo per orbitare attorno alle loro stelle, per trovare una conferma alla sua ipotesi.
«Per svelare il mistero abbiamo utilizzato l’Automated Planet Finder Telescope dell’Osservatorio di Lick», racconta Dalba, «Abbiamo poi analizzato la spinta gravitazionale del gigante gassoso, che ci ha permesso di calcolare la sua massa e stimare con qualche probabilità la sua orbita».
Da quel momento, nella speranza di osservare un secondo transito, il team di ricercatori ha organizzando un sistema composto da 14 diversi telescopiin tre continenti nell’emisfero settentrionale. Così per 11 giorni nell’Agosto scorso, lo sforzo impiegato ha prodotto 20.000 immagini della stella TOI-2180, ma nessuna di queste sembra ancora confermare con certezza la presenza dell’esopianeta.
Tuttavia, i dati raccolti e analizzati hanno portato a stimare che TESS vedrà transitare il gigante gassoso a Febbraio di quest’anno. Non resta altro che attendere!
The Astronomical Journal (January 2022): “The TESS-Keck Survey. VIII. Confirmation of a Transiting Giant Planet on an Eccentric 261 Day Orbit with the Automated Planet Finder Telescope” by Paul A. Dalba, Stephen R. Kane, Diana Dragomir, Steven Villanueva Jr., Karen A. Collins, Thomas Lee Jacobs, Daryll M. LaCourse, Robert Gagliano, Martti H. Kristiansen, Mark Omohundro.
Il nostro centro galattico non è così oscuro e profondo come si pensava. Alexis Andrés e il suo team di ricercatori dell’Università di Amsterdam ha osservato che Sagittario A* si illumina in modo irregolare di giorno in giorno, con intervalli che si dilatano su un range temporale a lungo termine.
Sono stati oggetto di esame i dati raccolti in 15 anni per giungere ad una simile conclusione. Lo studio è poi stato pubblicato recentemente sulla Monthly Notice della Royal Astromical Society.
Questa immagine a raggi X del centro galattico unisce tutte le osservazioni di Swift dal 2006 al 2013. Sagittario A* è al centro. I raggi X a bassa energia (da 300 a 1.500 elettronvolt) appaiono rossi. I verdi sono di media energia (da 1.500 a 3.000 eV). I blu sono ad alta energia (da 3.000 a 10.000 eV). Credit: NASA
Il buco nero al centro della Via Lattea è una enorme sorgente di onde radio, raggi X e raggi gamma (la luce visibile è bloccata dell’interposizione di gas e polvere). Gli astronomi sanno da decenni che Sagittario A* a queste altissime frequenze lampeggia ad intermittenza, emettendo esplosioni di radiazioni da dieci a cento volte più luminose dei normali segnali che si osservano solitamente in un buco nero.
Per sapere qualcosa in più sulla natura di questi bagliori, Andrés ha analizzato i dati messi a disposizione dal Neil Gehrels Swift Observatory della NASA, un satellite in orbita intorno alla Terra dedicato al rilevamento dei lampi di raggi gamma. Lo Swift Observatory osserva i raggi gamma dal buco nero dal 2006. La ricerca ha mostrati alti livelli di attività dal 2006 al 2008, con un forte calo dell’attività nei quattro anni successivi. Dopo il 2012 però la frequenza dei raggi di luce è aumentata di nuovo.
«La lunga ripresa di dati dell’Osservatorio Swift non è stato un evento accidentale», afferma la coautrice e precedente supervisore di Andrés, la dott.ssaNathalie Degenaar anche lei dell’Università di Amsterdam, «Dalla ripresa dell’intensa attività ho chiesto regolarmente più tempo per compiere le osservazioni. Questo progetto richiede molto impegno e costanza, ma ci permette analisi mai tentate».
Infatti, nei prossimi anni il team di astronomi prevede di raccogliere dati sufficienti per escludere se le variazioni dei brillamenti di Sagittario A* siano dovute al passaggio di nubi o stelle gassose interposte sulla linea visuale fra noi e il buco nero, e contestualmente cercare altre cause dell’irregolarità nelle emissioni fino ad ora osservate.
«Il modo in cui si verificano esattamente questi brillamenti rimane infatti poco chiaro», conclude un altro membro della ricerca, il dott. Jakob van den Eijndendell’Università di Oxford, «In passato si ipotizzava che i bagliori si diffondessero dopo il transito di nuvole gassose o stelle, ma non ci sono ancora prove evidenti in grado di confermarlo. Sarà necessario proseguire con le indagini per convalidare l’ipotesi secondo cui le proprietà dei gas presenti nel buco nero abbiano più o meno un ruolo di rilevanza nei brillamenti».
Per approfondimenti:
Coleum Viaggio al Centro della Via Lattea clicca qui
Monthy Notices of the Royal Astronomical Society (Januart 2022): “A Swift study of long-term changes in the X-ray flaring properties of Sagittarius A* ” by A. Andrés, J. van den Eijnden, N. Degenaar, P. A. Evans, K. Chatterjee, M. Reynolds, J. M. Miller, J. Kennea, R. Wijnands, S. Markoff, D. Altamirano, C. O. Heinke, A. Bahramian, G. Ponti, D. Haggard.
Chi l’ha detto che i pianeti debbano essere tutti di forma sferica?
Bizzarro ci piace
L’attento sguardo del telescopio spaziale CHEOPS ci rivela infatti la strana forma di WASP-103b – un esopianeta collocato nella costellazione di Ercole – il quale è incredibilmente assomigliante a una… palla da rugby!
La particolare conformazione di questo esopianeta è spiegata dall’ESA, ente responsabile della missione CHEOPS: WASP-103b orbita molto vicino alla propria stella (impiega infatti meno di un giorno a compiere un giro completo!) e le intense forze di marea esercitate hanno comportato questa caratteristica deformazione.
L’esopianeta è stato scovato osservandone il transito attorno la propria stella ospite: lo studio della curvatura della luce ha permesso poi di rivelare dettagli sulle sue dimensioni e di derivare uno specifico parametro – denominato Love number – che misura la distribuzione della massa all’interno del pianeta.
Di WASP-103b ora non solo conosciamo la forma bizzarra, ma sappiamo anche che la sua massa è di 1,5 volte più grande di quella di Giove, il suo raggio il doppio del nostro gigante gassoso e la temperatura 20 volte più alta rispetto a quella di quest’ultimo.
Cheops reveals a rugby ball-shaped exoplanet (credits ESA)
Il Love number per WASP-103b è vicino a quello di Giove, il che suggerisce che la struttura interna dei due pianeti sia simile, nonostante WASP-103b abbia il doppio del raggio.
«In linea di principio ci aspetteremmo che un pianeta con 1,5 volte la massa di Giove abbia all’incirca le stesse dimensioni, quindi WASP-103b deve essere molto gonfiato a causa del riscaldamento della sua stella oppure forse per altri meccanismi», afferma Susana Barros dell’Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço and University di Porto (Portogallo), a capo della ricerca.
«Se riusciamo a confermare i dettagli della sua struttura interna con osservazioni future forse potremmo capire meglio cosa lo rende così gonfiato. Conoscere le dimensioni del nucleo di questo esopianeta sarà anche importante per capire meglio come si è formato», conclude.
Ma le bizzarrie non finiscono qui!
C’è un’ulteriore curiosità che ha attirato l’attenzione del team di ricerca.
Le interazioni di marea tra una stella e un pianeta delle dimensioni di Giove che transita a una così breve distanza solitamente farebbero accorciare il periodo orbitale del pianeta, avvicinandolo gradualmente alla propria stella per poi essere inghiottito dalla stessa.
Tuttavia, le misurazioni di WASP-103b sembrano indicare che il suo periodo orbitale stia aumentando – piuttosto di diminuire – e che il pianeta si stia allontanando lentamente dalla stella. Questa rilevazione incredibile fa pensare che qualcosa di diverso dalle forze di marea stia influenzando il moto del pianeta.
Si aprono moltissimi scenari e ci si prepara a ulteriori calcoli e rilevazioni per confermare o meno questo trend. Una delle ipotesi in ballo è che ci sia una stella compagna di quella principale che possa deviare l’orbita di WASP-103b. Compito di CHEOPS sarà proprio di approfondire queste ipotesi. In suo aiuto giungerà presto anche il JamesWebb Space Telescope, come preannuncia proprio l’ESA in un recente tweet dell’11 gennaio:
Per approfondire:
Vuoi saperne di più sull’attività di CHEOPS, progetto dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dello studio dei pianeti extrasolari? L’approfondimento sul sito dell’ESA dedicato a questa missione: Missione CHEOPS
Avviso per tutti i lettori di Coelum Astronomia in formato cartaceo.
Coelum Astronomia sta per arrivare ma….
ALL’INDIRIZZO FORNITO PER LA SPEDIZIONE
DEVE ESSERE PRESENTE
QUALCUNO INCARICATO A RITIRARE IL PACCO.
Si ricorda che il corriere, a differenza delle poste, non è autorizzato a lasciare il pacco incustodito. E’ indispensabile quindi che all’indirizzo fornito in fase di prenotazione Sia presente qualcuno autorizzato al ritiro.
Invitiamo chiunque avesse delle difficoltà a scrivere sin da ora a astroshop@coelum.com comunicando un nuovo indirizzo per la consegna.
Cosa prevede la modalità di consegna:
Appena partita la consegna con numero di vettura riservato ogni lettore riceverà una mail personalizzata all’indirizzo email fornito in fase di acquisto con avviso di consegna in 24 ore per l’Italia e massimo 48 ore per le isole
Nella mail è a disposizione un link per contattare con il corriere e comunicare eventuali esigenze
La redazione non sarà autorizzata a modificare l’indirizzo di consegna una volta partito il pacco
Il satellite della NASA, Juno, questa volta ha scattato particolari fotografie dei cicloni polari del pianeta più grande del nostro Sistema Solare. Tali immagini hanno fornito ad un team di oceanografi del materiale per un nuovo studio, pubblicato di recente su Nature Physics, che prova a descrivere la ricca turbolenza ai poli di Giove e le forze fisiche alla base della complessa meteorologia del pianeta.
Una moltitudine di nubi vorticose nella dinamica cintura temperata nord-settentrionale di Giove catturata in questa immagine dalla navicella spaziale Juno della NASA.
L’autrice della ricerca, Lia Siegelman, oceanografa fisica presso la Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California a San Diego, ha scelto di intraprendere questo tipo di studio dopo aver notato che i cicloni di Giove sembrano avere delle somiglianze con i vortici oceanici che ha approfondito durante il suo dottorato. Combinando le immagini da satellite e i principi della fluidodinamica, Siegelman e colleghi hanno fornito prove per un’ipotesi di lunga data, cioè che la “convenzione umida” – ovvero il fenomeno secondo cui l’aria più calda si alza e diventa meno densa – è alla base dei cicloni.
«Quando ho notato la ricchezza della turbolenza attorno ai cicloni, con filamenti e vortici più piccoli, mi sono subito ricardata della turbolenza che si vede nell’oceano attorno ai mulinelli», ha detto Siegelman, «Ad esempio, questi fenomeni sulla Terra sono particolarmente evidenti nelle immagini ad alta risoluzione delle fioriture di placton».
Tali similitudini potrebbero aiutare anche a capire i meccanismi fisici in gioco sul nostro pianeta.
«Studiare un pianeta così lontano e applicarvi una fisica che già conosciamo, è qualcosa di davvero affascinante», conclude Siegelman.
Juno è la prima navicella spaziale a catturare immagini dei poli di Giove. Questa è dotata di due sistemi di telecamere, uno per le immagini in luce visibile e un altro per le firme di calore, monitorate dal Jovian Infrared Auroral Mapper (JIRAM), uno strumento installato sul satellite e supportato dall’Agenzia Spaziale Italiana.
L’atmosfera turbolenta di Giove catturata dalla missione Juno della NASA.
I ricercatori hanno così analizzato una serie di immagini ad infrarossi. Sono state calcolate la velocità e la direzione del vento, considerando anche il movimento compiuti delle nuvole. Successivamente è stato preso in esame lo spessore delle nubi; ed è stato riscontrato che le regioni più calde corrispondono a nuvole sottili, mentre le regioni più fredde rappresentano una fitta copertura nuvolosa, che ricopre l’atmosfera di Giove. Di conseguenza, sembra che all’interno dei cicloni, l’aria che sale rapidamente all’interno delle nuvole agisce come una fonte di energia che alimenta il sistema atmosferico a diversi livelli, raggiungendo anche i grandi vortici circumpolari e polari.
Otto di questi cicloni si verificano al polo nord di Giove, mentre altri cinque al polo sud. I ricercatori non sono sicuri sull’origine di tali fenomeni fisici e da quanto tempo circolino, ma ora sembra essere chiaro che la “convenzione umida” sia il meccanismo che li sostiene.
Juno continuerà ad orbitare attorno a Giove fino al 2025, fornendo al team di Siegelman ulteriori immagini che potranno essere usate per approfondire la ricerca. Il progetto è supportato anche dal National Science Foundation, con una prospettiva a lungo termine, così che altri nuovi e interessanti misteri di Giove potranno finalmente essere svelati.
Nature Physics (January 2022): “Most convection drives an upscale energy transfer at Jovian high latitudes” by Lia Siegelman, Patrice Klein, Andrew P. Ingersoll, Shawn P. Edwald, William R. Young, Annalisa Bracco, Alessandro Mura, Alberto Adriani, Davide Grassi, Christina Plainaki & Giuseppe Sindoni.
Per approfondimenti sul tema ricordiamo il dossier “JUNO” sul n. 254 di Coelum Astronomia.
L’Atacama Pathfinder Experiment (APEX), telescopio gestito dall’ESO sul freddo altopiano di Chajnantor nel deserto di Atacama in Cile, ha catturato il pirotecnico spettacolo della Nebulosa Fiamma di Orione.
La regione della Nebulosa Fiamma osservata da APEX e VISTA (Fonte: ESO)
Nell’immagine rielaborata compaiono anche nebulose più piccole come la Nebulosa Testa di Cavallo, conosciuta grazie alle osservazioni dell’ex astronomo Thomas Stanke. Lui e il suo team hanno colto l’occasione per testare lo strumento SuperCam, installato su APEX. «Come amano dire gli astronomi, ogni volta che c’è in giro un nuovo telescopio o strumento, osserva Orione: ci sarà sempre qualcosa di nuovo e interessante da scoprire!», racconta Stanke. Gli studi effettuati con questa nuova tecnologia sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
La regione di Orione è una delle più famose aree del cielo osservate, ed ospita nubi molecolari giganti – vasti oggetti cosmici costituiti in maggior parte da idrogeno. Queste nubi si trovano a 1300 e 1600 anni luce di distanza da noi e costituiscono uno dei vivai stellari più attivi nelle vicinanze del Sistema Solare. La Nebulosa Fiamma, scattata da APEX, ospita al suo centro un ammasso di giovani stelle che emettono radiazioni ad alta energia e che fanno risplendere i gas circostanti.
La Nebulosa Fiamma osservata da APEX (Fonte: ESO)
Chiaramente è uno oggetto celeste con molto da offrire. Infatti, Stanke e collaboratori, oltre alla nebulosa, hanno potuto ammirare anche un’altra vasta gamma di oggetti. Ad esempio, nell’elenco possono essere inserite le nebulose Messier 78 e NGC 2071 – nubi di gas e polvere interstellari che si ritiene riflettano la luce delle stelle vicine. L’equipe ha persino scoperto una nuova nebulosa: un piccolo oggetto ribattezzato con il nome di “Nebulosa Mucca”.
Le analisi sono state condotte come parte della survey ALCOHOLS (APEX Large CO Heterodyne Orion Legacy Survey), che ha esaminato le onde radio emesse dal monossido di carbonio (CO) nelle nubi di Orione. L’utilizzo di questa molecola serve per sondare vaste aree del cielo, consentendo agli astronomi di mappare grandi nubi di gas che danno vita a nuove stelle. Infatti, a differenza di quanto potrebbero suggerire le “fiamme” che emergono dalle immagini, le nubi sono in realtà molto fredde, con temperature in genere di solo poche decine di gradi sopra lo zero assoluto.
Questa regione del cielo è già stata scansionata molte volte in passato, a diverse lunghezze d’onda, ed ogni banda analizzata rivela sempre qualche nuova sorpresa. Un altro telescopio dell’ESO, il VISTA (Visible and Infrared Survey Telescope for Astronomy) vuole sfruttare la banda infrarossa per attraversare le spesse nubi di polvere interstellare ed individuare oggetti che altrimenti rimarrebbero nascosti.
Non resta far altro che puntare gli occhi al cielo ed attendere quale altro incredibile spettacolo Orione ha in serbo per noi!
Dodici composizioni inedite delle immagini dei satelliti Sentinel, del programma Copernicus,nel calendario Esa 2022
I colori e l’originalità di un Kandinskij e il contenuto scientifico di un programma spaziale: si presenta così la raccolta di dodici immagini che l’Agenzia spaziale europea (Esa) ha selezionato per il suo calendario 2022.
Copernicus e i satelliti Sentinel
CopernicusSentinelCalendar 2022, questo il nome sceltodall’Esa. Le immagini, infatti, provengono dai satelliti Sentinel del programma Copernicus, il programma europeo di osservazione della Terra di cui l’Esa fa parte. Lo scopo è quello di monitorare il nostro pianeta e il suo ambiente a beneficio di tutti i cittadini dell’Ue e non solo, attraverso lo studio dell’atmosfera, dell’ambiente marino, delle terre emerse e dei luoghi in cui il cambiamento climatico è evidente (come ghiacciai e foreste), ma anche attraverso il monitoraggio e la gestione di situazioni emergenziali come le catastrofi naturali. I Sentinel, attualmente, contano sei missioni composte da una costellazione di due satelliti ciascuna, in modo da soddisfare esigenze di copertura del territorio e garantire osservazioni ripetute. La strumentazione di bordo è varia e specificamente progettata per studiare un aspetto del nostro pianeta e delle attività umane su di esso. Sentinel-2, ad esempio, in orbita polare, produce immaginia diverse lunghezze d’onda ead alta risoluzione della vegetazione, del suolo e della copertura idrica, mentre gli strumenti a bordo di Sentinel-3 misurano con precisione e affidabilitàla topografia della superficie marina,la temperatura e il colore della superficie del mare e della terra; lo scopo primario di questa missione è supportare i sistemi di previsione degli oceani, così come il monitoraggio ambientale e climatico. E sulle previsioni climatiche lavora anche Sentinel-5P (il precursore di Sentinel-5, attualmente in costruzione), che fornisce dati tempestivi sulla quantità divari tipi di gas e aerosol che influenzano la qualità dell’aria e il clima.
Famiglia Sentinel Credit ESA
Le immagini per il 2022
Ci sono un po’ tutti questi scenari nelle immagini prodotte dal programma Copernicus, mentre quelle scelte per il calendario sono per lo più focalizzate sulle attività umane, ciascuna rielaborata per portare in evidenza un aspetto e dare un messaggio, e ciascuna spiegata con una semplice didascalia contenente i dati scientifici, i luoghi, i colori, e la fonte.
Facciamo allora qualche esempio. Gennaio ci porta nel sud della Spagna, ad Alméria, città costiera costellata di serre dal tetto bianco, tanto da essersi guadagnata il nome di “Mar de plastico”. Qui, fra produttori locali e grandi multinazionali, si coltivano milioni di tonnellate di frutta e verdura che finisce, ogni giorno, anche nei nostri supermercati. Febbraio e ottobre, invece, sembrano davvero un quadro astratto. Si tratta però delle pianure del Texas e dell’Arabia Saudita: in particolare, la prima è una sovrapposizione di tre immagini satellitari che rappresentano tre diversi indici (uno giallo, uno verde e uno rosso) che misurano il tasso di crescita della vegetazione all’inizio della stagione. Gli stessi indici sono anche quelli che compongono la seconda immagine, che però risulta dalla sovrapposizione di scatti presi in tempi diversi. Il filo conduttore, ancora una volta, l’importanza dell’attività agricola nell’economia. E di agricoltura parla, in realtà, la maggioranza delle immagini scelte dall’Esa per il 2022: dai campi coltivati in Israele e sulla striscia di Gaza nel mese di marzo, all’Imperial Valley di giugno: una zona desertica in California che l’uomo – utilizzando l’acqua del fiume Colorado – è riuscito a rendere una delle regioni più produttive per uva, cotone, noci e frutta. In aprile, trovano posto anche le risaie che sostengono la popolazione del Vietnam, la cui evoluzione temporale negli ultimi mesi del 2019 è mostrata grazie a una serie di immagini radar sovrapposte.
L’anno si chiude, infine, in Sud Corea: in trasparenza, nel mare azzurro, si notano delle piccole e numerosissime tracce blu scuro. Si tratta di veri e propri campi subacquei in cui le alghe marine crescono sulle corde dell’acquacoltura: la Corea è la più grande consumatrice mondiale e la quarta produttrice di alghe, molluschi e piccoli pesci.
Per vedere tutte le immagini raccolte ed elaborate dall’Esa, e per scaricare il CopernicusSentinelCalendar 2022 potete visitare il sito dell’Agenzia spaziale europea, nella sezione che l’ente ha dedicato all’osservazione della Terra.
Discovered on March 25, 1993, by astronomers Eugene and Carolyn Shoemaker and by amateur David Levy examining some photographic plates of Jupiter’s surroundings, the comet immediately aroused the interest of the scientific community: it had never happened that a comet was discovered orbiting a planet and not directly around the Sun.
Profile of Jupiter
Captured by Jupiter presumably between the second half of the sixties and the early seventies, it travelled in two years a very long orbit, which took it from a minimum distance of 35000 km from Jupiter to a maximum of 25 million kilometers. The comet made several transits near the gas giant, during which it suffered the intense tidal forces responsible for the final fragmentation of a nucleus of at least two kilometers in diameter. In 1993 Shoemaker-Levy 9 appeared as a long line of bright dots, bathed in the luminescence of their tails and on a collision course with Jupiter.
The studies conducted on the orbit of the comet shortly after its discovery led to the conclusion that it would fall on the planet by July 1994. It was then started an extensive observational campaign that involved many instruments for the recording of the event; among these, the Hubble Space Telescope, the ROSAT satellite, and the Galileo probe, which was en route for a rendezvous with the planet planned for 1995.
The impacts occurred on the side of the planet opposite the Earth, but the Galileo probe was able to observe them directly from a distance of 240 million kilometers. The rapid rotation of Jupiter then made observable from Earth the signs of the entry of individual fragments in the upper atmosphere of the planet.
The first impact occurred at 20:13 UT on July 16, 1994, when fragment A of the nucleus hit the southern hemisphere of the planet at a speed of 60 km/s. The instruments on board of Galileo probe detected a fireball that reached the temperature of 24000°C.
Over the next six days, 21 distinct impacts were observed, with the largest coming on July 18 at 07:33 UT when fragment G struck Jupiter. This impact created a giant dark spot over 12,000 km across and was estimated to have released an energy equivalent to 6,000,000 megatons of TNT (600 times the world’s nuclear arsenal). Two impacts 12 hours apart on July 19 created impact marks of similar size to that caused by fragment G, and impacts continued until July 22, when fragment W struck the planet.
So great was the disruption caused in the Jovian atmosphere, that the scars of the event remained observable from Earth for several months. The direct observation of impact events on Jupiter has led to the growing awareness, even in public opinion, that the impact of a comet or asteroid on our planet would have potentially devastating consequences. Therefore, the possibility of such a fall has become something concrete, from which one must, as far as possible, guard against. The general public was very impressed by the event, and the media devoted a great deal of attention to Shoemaker-Levy 9.
The role played by non-professional astronomers in identifying the signs of impact is also significant, thanks to a reduction in the cost of advanced observation instruments.
In 2009 and 2010, in fact, other impacts were recorded: the first on July 19, 2009 (just 15 years after that of Shoemaker-Levy 9), when the Australian amateur Anthony Wesley noticed from his observatory in New Wales a conspicuous dark spot that lasted for several days, probably the residue from the fall of a small asteroid.
The second occurred a year later, on June 3, 2010, when the same Wesley and the Philippine Christopher Go independently photographed a small flash in the Southern Equatorial Band. The light emission lasted only a couple of seconds and did not leave obvious signs in the atmosphere, so that the fall was interpreted as that of an object of only 8-13 meters in diameter.
The third was even less obvious and was recorded on August 20 of the same year by the Japanese amateur Masayuki Tachikawa in the Northern Equatorial Band.
On 10 September 2012 at 11:35 UT amateur astronomer Dan Petersen detected from Racine, Wisconsin, a fireball on Jupiter that lasted 1 or 2 seconds. The fireball was created by a meteoroid less than 10 meters in diameter, quite similar to the flash observed on 20 August 2010.
On March 17, 2016, an impact fireball observed on Jupiter’s limb was recorded by Gerrit Kernbauer, Moedling, Austria. This report was later confirmed by an independent observation by amateur John McKeon. The size of impact object was estimated to be between 7 and 19 meters.
Jupiter and its satellites
On May 26, 2017, amateur astronomer Sauveur Pedranghelu observed another flash from Corsica (France). The event was announced the next day, and was quickly confirmed by two German observers. The impactor had an estimated size of 4 to 10 meters.
In practice, after the impressive cometary collision of 1994, seven more impacts were recorded over 27 years, which forced astronomers to revise their estimates.
In a study published in 1988, the Japanese Nakamura and Kurahashi estimated that a comet with a diameter greater than 1 km could impact Jupiter every 500-1000 years, but obviously the statistics were revised in the light of the Shoemaker-Levy 9 event, so that soon were considered values between 50 and 350 years for an object of 0.5-1 km.
The evaluations fell even more after the impact of 2009, when always for an object of 0.5-1 km it came to assume a frequency of 10 years, and 1 year for a meteoroid of about 10 m in diameter. And obviously, they are further lowering in this period, after the two flashes of 2010.
In the end, it is understood that to get to a casuistry able to provide reliable data on the real rate of impact of meteoroids and comets on Jupiter, it will be necessary to monitor the planet constantly, and in this type of research could be the amateurs to do the lion’s share.
After all, it is clear that the increase of the findings in recent years, is not due to a random and abnormal increase of impacts, but to the increasing number of amateurs engaged in planetary observation and the increasing availability of astronomical instrumentation of absolute excellence.
The light emission that accompanies the entry of a meteoroid into the Jovian atmosphere lasts very few seconds (1-2 s) and is therefore necessary for continuous monitoring of the planet’s surface at high frequency for their detection. Professional astronomers agree that telescopes with a diameter between 15 and 20 cm are the ideal tools for their detection if equipped with webcams or other video recording tools.
So, what are we waiting for? Let’s all go and observe Jupiter!
L’atmosfera degli anni ‘80 era diversa da oggi, ma molto più genuina per lo spirito!
Vi sto scrivendo davanti a War Games, uno dei film più fichi di quell’anno assieme al ritorno dello Jedi, pronti ad essere già leggenda.
Lo sapevate che nel 1983 è stato realizzato il linguaggio C++?Mamma mia che nostalgia …
E nello spazio cosa succedeva? Beh, passi da giganti! Ci fu infatti la prima prova sperimentale dell’evoluzione delle galassie.
C.G. Kotanyi dell’Istituto di Ricerche Spaziali di San Paolo, in Brasile, J.H. Van Gorkom, della University of Chicago, e R.D. Ekers, dell’Australia Telescope National Facility, scoprono delle anisotropie dell’emissione di raggi X della galassia NGC 4438, nell’Ammasso della Vergine.
Le anisotropie sono delle fluttuazioni dall’uniformità, come piccole increspature in un mare piatto.
Gli scienziati hanno concluso che quella galassia si trovava nella fase finale di trasformazione da spirale a ellittica, e questo fenomeno non era mai stato osservato.
Nel 1983 fu scoperto un buco nero extragalattico. Fu accertato infatti che la sorgente di raggi XLMC X-3, nella Grande Nube di Magellano, la galassia più vicina alla nostra, era un buco nero con una massa 10 volte maggiore di quella del Sole!
I buchi neri erano scuri come le morositas ma decisamente meno morbidi.
Mentre super Mario Bros dominava i pixel delle console domestiche, i primi protosistemi solari nella Galassia si rivelavano al mondo. Gli astronomi dell’Osservatorio di Nobeyama in Giappone comunicarono infatti proprio in quell’anno di aver scoperto con un radiotelescopio alcune nebulose oscure nelle costellazioni di Orione, del Toro, di Cefeo e di Cassiopea, che mostravano un sistema planetario del tipo del Sistema solare in fase di evoluzione;
All’interno di Orione, a 1500 anni luce dalla Terra, una protostella con una massa pari a 35 volte quella del Sole stava nascendo.
Dal lato delle corse spaziali, venne lanciato il satellite IRAS (infrared astronomical satellite), frutto di una collaborazione tra Stati Uniti, Regno Unito e Paesi Bassi.
Da allora il satellite ha esplorato quattro volte il 96% del cielo, aumentando del 70% il numero delle sorgenti celesti infrarosse conosciute! Vi pare poco?
Tra le sue illustri scoperte ci furono 6 nuove comete e i dischi di materia intorno a molte stelle.
Fra le conquiste spaziali ci fu l’installazione del laboratorio spaziale europeo Spacelab 1.
Il 28 novembre la navetta spaziale statunitense Columbia portò in orbita il laboratorio spaziale Spacelab 1 ESA, con un equipaggio di 6 astronauti. Questa navetta conoscerà varie modificazioni (Spacelab 1, 2, 3, 4) e adattamenti funzionali per varie missioni specializzate, svolte in 14 anni di servizio, dal 1983 al 1997.
Infine, le sonde Venera 13 e 14 centrano i loro obiettivi sul pianeta più astioso del decennio.
Ed ora cari i miei cosmonauti togliete le cuffie e andate a cercare curiosità anni 80!
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