Un pallone superpressurizzato con a bordo il carico utile HIWIND viene gonfiato prima del lancio durante la campagna 2025 della NASA con palloni superpressurizzati a Wānaka, in Nuova Zelanda.
Crediti: NASA/Bill Rodman.
Il primo volo con pallone superpressurizzato della New Zealand Balloon Campaign della NASA ha raggiunto la quota di galleggiamento dopo il decollo dall’aeroporto di Wānaka, in Nuova Zelanda, alle 10:44 NZST di giovedì 17 aprile (18:44 di mercoledì 16 aprile, ora della costa orientale degli Stati Uniti). Il pallone, delle dimensioni di uno stadio di football americano, è in missione per 100 giorni o più alle medie latitudini dell’emisfero australe.
Un pallone superpressurizzato con a bordo il carico utile HIWIND viene gonfiato prima del lancio durante la campagna 2025 della NASA con palloni superpressurizzati a Wānaka, in Nuova Zelanda. Crediti: NASA/Bill Rodman.
«Sono estremamente orgoglioso del successo delle operazioni del team di oggi», ha dichiarato Gabriel Garde, responsabile dell’Ufficio del Programma Palloni della NASA presso il Wallops Flight Facility in Virginia. «Il lancio odierno rappresenta il culmine di anni di impegno e dedizione, sia negli Stati Uniti che, più recentemente, sul campo. Dalle impeccabili operazioni di lancio, al potenziale dei dati scientifici raccolti, fino al rivoluzionario profilo operativo della piattaforma a superpressione, il Programma Palloni della NASA è oggi più forte che mai.»
Il pallone, riempito con elio e con un volume di 18,8 milioni di piedi cubi, è salito a una velocità di circa 1.000 piedi al minuto, gonfiandosi completamente durante l’ascesa fino a raggiungere, dopo circa due ore, la quota operativa di 110.000 piedi (pari a circa 33,5 km) sopra la superficie terrestre. Sebbene la maggior parte del volo si svolgerà sopra l’oceano, durante la circumnavigazione del globo sono previsti alcuni attraversamenti di terra. Se le condizioni meteorologiche lo permetteranno, il pallone potrebbe essere visibile anche da terra, soprattutto all’alba e al tramonto. La NASA invita il pubblico a seguire la traiettoria in tempo reale [a questo link].
Oltre a testare e qualificare la tecnologia dei palloni ad alta pressione, il volo trasporta anche la missione HIWIND (High-altitude Interferometer Wind Observation), un progetto scientifico di opportunità. Il carico utile HIWIND misurerà i venti neutri nella termosfera, una regione alta dell’atmosfera terrestre. Comprendere questi venti aiuterà gli scienziati a prevedere meglio i cambiamenti nella ionosfera, che possono influenzare i sistemi di comunicazione e navigazione.
«Non posso che elogiare l’instancabile supporto e la straordinaria disponibilità dei nostri ospiti e partner in Nuova Zelanda», ha aggiunto Garde. «Siamo consapevoli dell’impatto che queste attività hanno sulle comunità locali e siamo profondamente riconoscenti per la loro collaborazione. È davvero uno sforzo internazionale, e sono impaziente di assistere a un volo lungo e fruttuoso.»
Intanto proseguono i preparativi per il secondo e ultimo lancio della campagna. Anche questo pallone ad alta pressione trasporterà esperimenti scientifici e dimostrazioni tecnologiche nell’ambito del volo di prova.
Autori dello studio: Kailash C. Sahu, Jay Anderson, Stefano Casertano, Howard E. Bond, Martin Dominik, Annalisa Calamida, Andrea Bellini, Thomas M. Brown, Henry C. Ferguson, Marina Rejkuba Istituzioni: Space Telescope Science Institute, University of St Andrews, INAF, ESO e altri
Il primo buco nero solitario confermato dalla deflessione astrometrica
Per la prima volta nella storia dell’astronomia, è stata confermata l’esistenza di un buco nero di massa stellare completamente isolato, non legato a nessuna stella compagna. L’oggetto in questione, denominato OGLE-2011-BLG-0462, è stato individuato grazie a una rara combinazione di effetti gravitazionali osservati nel corso di oltre un decennio con il telescopio spaziale Hubble e una rete di 16 telescopi da Terra.
Fino ad oggi, tutti i buchi neri conosciuti nella nostra galassia erano stati scoperti tramite le interazioni con una stella vicina — spesso con emissione di raggi X o onde gravitazionali da sistemi binari in fusione. Ma OGLE-2011-BLG-0462 si è manifestato solo attraverso un lente gravitazionale microlensing, ovvero una temporanea amplificazione della luce di una stella sullo sfondo, provocata dal passaggio del buco nero sulla linea di vista.
Una lente gravitazionale durata quasi un anno
L’evento microlensing è stato eccezionalmente lungo, con una durata di circa 270 giorni. Questo ha permesso ai ricercatori di raccogliere dati con una precisione senza precedenti. Le osservazioni dell’Hubble Space Telescope, distribuite su 11 anni, hanno permesso di misurare lo spostamento apparente della stella di fondo — una deflessione astrometrica prodotta dalla massa del buco nero.
In parallelo, la fotometria raccolta da Terra ha fornito informazioni cruciali sulla parallasse dell’evento, cioè sulla deformazione del segnale dovuta al moto della Terra attorno al Sole. L’unione di questi due approcci ha portato a una misura molto precisa della massa dell’oggetto.
Un corpo invisibile di 7 masse solari
I risultati dell’analisi, aggiornati nel 2025 con nuovi dati Hubble, confermano che il corpo lente è un buco nero con una massa di 7.15 ± 0.83 masse solari, situato a una distanza di circa 1.52 ± 0.15 kiloparsec dalla Terra (circa 5.000 anni luce), nel cuore del rigonfiamento galattico. La sua velocità rispetto alle stelle vicine è di 51.1 km/s, suggerendo che potrebbe aver ricevuto un “calcio” durante l’esplosione di supernova che ha generato il buco nero.
Importante sottolineare che nessuna luce è stata rilevata in corrispondenza della posizione del buco nero nemmeno nelle osservazioni più recenti e profonde. Questo esclude la presenza di una stella compagna luminosa o di una nana bruna e rafforza la natura isolata dell’oggetto.
Nessun compagno, nemmeno lontano
Gli autori dello studio hanno inoltre cercato eventuali compagni stellari a distanze fino a 2.000 unità astronomiche (circa 300 miliardi di chilometri), senza successo. L’assenza di una sorgente luminosa co-movente con il buco nero esclude la presenza di compagni con massa superiore a 0.2 masse solari.
Conclusione
La scoperta e conferma di OGLE-2011-BLG-0462 rappresenta un risultato epocale per l’astrofisica moderna. È il primo buco nero di massa stellare confermato come isolato, scoperto non attraverso la sua emissione, ma attraverso gli effetti gravitazionali che esercita sullo spazio-tempo attorno a sé. Un risultato ottenuto con la sinergia di fotometria ad alta precisione, astrometria milliarcosecondica e analisi sofisticata delle immagini, che apre la strada alla rivelazione di molti altri buchi neri silenziosi nascosti nella nostra galassia.
Immagine della galassia NGC4214 ripresa dall’astrofilo spagnolo Carlos Segarra con un telescopio da 200mm F.4 somma di 25 immagini da 4 minuti.
Proseguiamo il nostro percorso fra le supernovae extragalattiche più luminose della storia ed arriviamo al dopo guerra con la SN1954A scoperta il 30 maggio 1954 dall’astronomo svizzero Paul Wild nella galassia irregolare NGC4214. Anche questa fu una supernova molto luminosa, una delle poche che riuscì a superare la mag.+10 (sono solo sette le supernovae che vantano questo primato e la SN1954A occupa la sesta posizione in termini di luminosità).
Negli anni ’40 l’astronomo tedesco naturalizzato statunitense Rudolph Minkowski suggerì la suddivisione degli eventi di supernovae in due distinte categorie: le Tipo I i cui spettri non mostravano la presenza dell’idrogeno e le Tipo II che invece lo evidenziavano. Successivamente queste due categorie furono suddivise in ulteriori sottoclassi. Le supernovae del Tipo I furono suddivise nelle Tipo Ia, nei cui spettri è presente il silicio, nelle Tipo Ib, dove è presente l’elio, e nelle Tipo Ic dove non è presente né il silicio né l’elio. Le supernovae di Tipo II furono invece suddivise nelle Tipo IIL, in base alla linearità della loro curva di luce, nelle Tipo IIP, per quelle che nella curva di luce mostravano un appiattimento chiamato Plateau e nelle Tipo IIn, le SN che mostravano invece delle linee strette (narrow) dell’idrogeno. Ebbene la SN1954A è stata la prima supernova della storia classificata come Tipo Ib.
Paul Wild fotografato all’Università di Berna il 13 gennaio 2006 da Valerie Chetelat.
Paul Wild nacque a Wadenswil vicino Zurigo in Svizzera il 5 ottobre del 1925 e morì a Berna il 2 luglio 2014. Dal 1944 al 1950 frequentò l’università di matematica e fisica a Zurigo. Nel 1951 si trasferì negli Stati Uniti in California dove lavorò fino al 1955 al California Institute of Technology conducendo ricerche su galassie e supernove sotto la guida del connazionale Fritz Zwicky. Vanta al suo attivo la scoperta di 94 asteroidi, 7 comete, 5 novae della nostra galassia e 49 supernovae. La SN1954A rappresenta la sua prima scoperta in fatto di supernovae e pertanto ne era particolarmente affezionato visto anche la notevole luminosità che raggiunse.
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Dalle gare interregionali sono stati selezionati novanta finalisti provenienti da tutta Italia. Si metteranno alla prova con quesiti astronomici: in palio il titolo nazionale e un posto nella rappresentativa italiana alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia.
TERAMO, 22 aprile 2025 – Tutto è pronto per la XXIII edizione della Finale Nazionale dei Campionati Italiani di Astronomia, che si terrà dal 6 all’8 maggio 2025 a Teramo (in Abruzzo). Dopo un lungo percorso di selezione che ha coinvolto quasi 10mila studenti e studentesse in tutta Italia, i novanta migliori talenti dell’astronomia si sfideranno nella risoluzione di problemi teorici e di casi pratici per conquistare il titolo nazionale. Promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, la competizione è organizzata dalla Società Astronomica Italiana (SAIt) e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Quest’anno il Liceo Scientifico Statale “Albert Einstein” di Teramo ospiterà le prove ufficiali, confermandosi centro nevralgico dell’evento.
La cerimonia di apertura si terrà martedì 6 maggio 2025 a Giulianova (TE), alla presenza di autorità istituzionali e accademiche abruzzesi e nazionali. Moderatore d’eccezione sarà il giornalista e scrittore Angelo De Nicola. Durante l’evento, la prof.ssa Marica Branchesi (ordinaria di Astrofisica al GSSI – Gran Sasso Science Institute), terrà una lectio magistralis dal titolo “Una nuova esplorazione dell’Universo attraverso le onde gravitazionali”, offrendo al pubblico un emozionante affaccio sull’universo più estremo.
Mercoledì 7 maggio, presso il Liceo Statale “A. Einstein” di Teramo, i finalisti e le finaliste si cimenteranno in una competizione di alto livello, confrontandosi con sfide complesse per le quali dovranno mettere in campo tutte le proprie abilità e competenze in astronomia, astrofisica e matematica applicata. Nello specifico, la finale consisterà in una prova teorica (risoluzione di problemi di astronomia, astrofisica, cosmologia e fisica moderna) e in una prova pratica (analisi di dati astronomici).
Giovedì 8 maggio si terrà la cerimonia di premiazione della XXIII edizione dei Campionati Italiani di Astronomia. Saranno premiati diciotto studenti: cinque per ciascuna delle categorie Junior 1, Junior 2 e Senior, e tre per la categoria Master. A tutti loro verrà conferita la “Medaglia Margherita Hack” per l’edizione 2025 e il loro nome sarà inserito nell’Albo Nazionale delle Eccellenze. Inoltre, agli otto studenti che si classificheranno immediatamente dopo i vincitori sarà assegnato un diploma di merito, in riconoscimento dei risultati di rilievo conseguiti durante la competizione.
Tra i campioni nazionali saranno selezionati i componenti della squadra italiana che parteciperà alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica (IOAA), appuntamento prestigioso che riunisce i migliori giovani studenti del mondo: per la sezione senior è in programma a Mumbai (India) dall’11 al 21 agosto e per la sezione Junior a Piatra Neamt in Romania il prossimo ottobre.
“Le finali dei Campionati di Astronomia rappresentano la punta dell’iceberg della grande mole di lavoro che la SAIt, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica, porta avanti per interessare all’astronomia gli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado”, afferma la prof.ssa Patrizia Caraveo, presidente della Società Astronomica Italiana. “È uno sforzo corale della comunità astronomica italiana, reso possibile dal supporto del Ministero dell’Istruzione e del Merito – Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la formazione del personale scolastico e la valutazione del sistema nazionale di istruzione. Il successo della competizione è cresciuto negli anni – aggiunge – e testimonia l’interesse per una disciplina che, pur non essendo curriculare nel nostro ordinamento scolastico, per la sua valenza interdisciplinare va oltre il naturale legame con le leggi fondamentali della fisica. Le grandi rivoluzioni scientifiche hanno le radici nel cielo e i campionati di astronomia consentono di trasmettere ai ragazzi non solo il fascino delle stelle ma, anche, lo straordinario sviluppo della scienza”.
Autori principali: Nikku Madhusudhan (Università di Cambridge), M. Holmberg, S.-M. Tsai, G. J. Cooke, S. Sarkar, tra i numerosi co-autori. Osservatorio e strumenti: Telescopio Spaziale James Webb – strumento MIRI. Ente di riferimento: NASA, ESA, Agenzia Spaziale Canadese (CSA), Università di Cambridge.
Un’atmosfera ricca di idrogeno e un oceano nascosto sotto le nubi: il pianeta extrasolare K2-18 b, situato a 124 anni luce dalla Terra nella costellazione del Leone, continua a sorprendere gli scienziati. I nuovi dati del telescopio spaziale James Webb (JWST) hanno infatti rivelato segnali compatibili con la presenza di due molecole considerate biosignature: il dimetil solfuro (DMS) e il dimetil disolfuro (DMDS).
L’osservazione, condotta grazie allo strumento MIRI (Mid-Infrared Instrument) del JWST, ha prodotto il primo spettro di trasmissione in banda medio-infrarossa (6–12 μm) di un esopianeta potenzialmente abitabile. I risultati, pubblicati da un team guidato da Nikku Madhusudhan dell’Università di Cambridge, indicano una rilevazione di DMS e/o DMDS con una significatività statistica di circa 3σ, corrispondente a una probabilità di oltre il 99%.
Un pianeta oltre i confini terrestri
K2-18 b è circa 2,6 volte più grande della Terra e otto volte più massiccio. Orbita attorno a una nana rossa (spettro M2.5V), nella cosiddetta zona abitabile, ovvero dove le temperature potrebbero permettere la presenza di acqua liquida. Le sue caratteristiche lo rendono un perfetto candidato per il paradigma delle “hycean worlds” — mondi oceanici con atmosfera ricca di idrogeno, concetto introdotto da Madhusudhan nel 2021.
Rispetto ai pianeti simili alla Terra, questi mondi sono più facili da osservare: la loro atmosfera è più estesa e trasparente alle osservazioni spettroscopiche. I risultati finora ottenuti sembrano confermare che K2-18 b ospiti effettivamente un’atmosfera H₂-ricca compatibile con il modello hycean, con abbondanze di metano (CH₄) e anidride carbonica (CO₂), e senza tracce significative di ammoniaca (NH₃) o monossido di carbonio (CO).
Le firme chimiche della vita?
La grande novità di queste nuove osservazioni è la conferma indipendente, e a lunghezze d’onda differenti (mid-IR anziché near-IR), della presenza di DMS e DMDS, molecole che sulla Terra sono prodotte quasi esclusivamente da organismi viventi, soprattutto da batteri marini. In particolare, il DMS è considerato un potenziale biosignature robusto per pianeti con atmosfera riducente, ovvero ricca di idrogeno, come quelli hycean.
Tuttavia, a causa della somiglianza spettrale tra le due molecole, non è ancora possibile distinguerle con certezza. Secondo il team, almeno una delle due è presente in quantità significative (≳10 ppmv), un valore straordinariamente alto se paragonato ai livelli terrestri di pochi ppbv. Per stabilire se la loro origine sia biotica o abiotica saranno necessari ulteriori studi.
La sfida dei falsi positivi
Gli autori mettono in guardia contro interpretazioni affrettate: sebbene su K2-18 b non sia stata rilevata H₂S — un precursore necessario per produrre DMS abioticamente — esistono comunque scenari, seppur improbabili, di formazione non biologica. Ad esempio, reazioni chimiche in atmosfera o impatti cometari, come quelli che potrebbero aver portato DMS sulla cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko (Hänni et al., 2024). Tuttavia, la quantità richiesta per spiegare le osservazioni supera di gran lunga quella ipotizzabile per processi puramente abiotici.
Prossimi passi
Il gruppo di Madhusudhan sottolinea l’urgenza di ulteriori osservazioni con JWST e di nuovi studi teorici e sperimentali. In particolare, è essenziale ottenere dati di laboratorio sui parametri spettrali del DMS e del DMDS in atmosfere H₂-ricche, a pressioni e temperature simili a quelle di K2-18 b. Questo permetterà di migliorare l’accuratezza dei modelli e ridurre l’incertezza nelle stime di abbondanza.
Una serie aggiuntiva di transiti osservati con JWST, stimano gli autori, potrebbe facilmente elevare la significatività delle rilevazioni a 4–5σ, un livello molto più robusto per una possibile biosignature.
Conclusione
Sebbene non possiamo ancora affermare di aver trovato vita oltre il Sistema Solare, lo studio di K2-18 b rappresenta uno dei passi più concreti mai fatti in questa direzione. La possibile presenza di DMS e DMDS — molecole complesse e indicatrici di attività biologica — in un pianeta oceanico, amplia sensibilmente i nostri orizzonti nella ricerca di biosfere aliene. Il JWST si conferma uno strumento fondamentale per questa nuova era dell’astrobiologia.
Questa immagine profonda del cluster della Vergine, realizzata da Chris Mihos e collaboratori con il telescopio Burrell Schmidt, rivela la luce diffusa presente tra le galassie appartenenti all’ammasso. Il nord è in alto, l’est a sinistra. Le macchie scure indicano le zone da cui sono state rimosse le stelle brillanti in primo piano. La galassia più grande visibile (in basso a sinistra) è Messier 87.
Crediti: Chris Mihos (Case Western Reserve University) / ESO
Un programma di citizen science ha portato alla scoperta di 34 nuovi candidati “blue blobs”, una rara popolazione di sistemi stellari isolati nel cluster di galassie della Vergine.
Nel vasto e dinamico ambiente del Virgo Cluster – uno dei più vicini e studiati agglomerati di galassie – un nuovo studio guidato da Michael G. Jones (University of Arizona) ha identificato 34 nuovi oggetti candidati appartenenti alla categoria dei cosiddetti “blue blobs”. Di questi, 13 presentano caratteristiche ad alta affidabilità, con sei già confermati tramite spettroscopia ottica grazie al telescopio Hobby–Eberly Telescope (HET).
I blue blobs sono nubi di formazione stellare isolate, estremamente povere di massa (meno di 100.000 masse solari), ma inaspettatamente ricche di metalli, immerse nel mezzo caldo intra-ammasso. Sono tra i prodotti più estremi del fenomeno del ram pressure stripping, un processo in cui il gas di una galassia in caduta in un cluster viene strappato via dall’interazione con il mezzo intra-ammasso (ICM). Il gas così rimosso, se sufficientemente denso, può collassare e dare origine a nuove stelle lontano dalla galassia madre.
“Le proprietà di questi oggetti sono incompatibili con quelle delle galassie a bassa massa” spiega Jones. “Sono troppo giovani, troppo isolati, e troppo ricchi in metalli per essere normali galassie nane.”
Una scoperta resa possibile dalla scienza partecipativa
Per identificare questi oggetti, il team ha lanciato un progetto su Zooniverse, coinvolgendo centinaia di volontari nella classificazione visiva di oltre 150.000 immagini ottiche e ultraviolette provenienti da tre grandi survey:
Next Generation Virgo Cluster Survey (NGVS) con il telescopio CFHT,
Dark Energy Camera Legacy Survey (DECaLS),
e dati UV del telescopio spaziale GALEX.
I partecipanti dovevano cercare strutture irregolari, isolate e molto blu, accompagnate da emissione ultravioletta: segnali tipici di formazione stellare recente. Il contributo umano si è rivelato cruciale, dato che i blue blobs hanno morfologie irregolari e bassa luminosità superficiale, caratteristiche che rendono difficile il loro riconoscimento da parte di algoritmi automatici.
Conferme spettroscopiche e proprietà sorprendenti
I sei blue blobs confermati presentano velocità radiali coerenti con l’appartenenza al cluster della Vergine e abbondanze metalliche elevate, incompatibili con galassie nane formatesi in isolamento. Queste caratteristiche confermano l’ipotesi che siano nati da gas pre-enriched, cioè gas già arricchito da precedenti cicli stellari, e strappato a galassie più grandi.
Inoltre, alcuni blue blobs sembrano essere le controparti ottiche di precedenti rilevamenti di nubi di idrogeno neutro (H I) privi di emissione ottica, noti come “dark clouds”. Questo collegamento è stato rafforzato dalla somiglianza delle velocità Hα dei blue blobs e delle loro rispettive nubi H I.
Una popolazione distribuita lungo i filamenti del cluster
La distribuzione spaziale dei nuovi candidati mostra che tendono a formarsi lungo i filamenti galattici che si estendono verso il centro del cluster, ma evitano le zone centrali più dense e calde. Questo suggerisce che la formazione di blue blobs sia favorita da condizioni ambientali intermedie: abbastanza dense da innescare il ram pressure stripping, ma non così estreme da distruggere il gas strappato prima che possa formare stelle.
“È significativo che questi oggetti non sembrino provenire da galassie appena entrate nel cluster,” sottolinea Jones. “Molti si trovano in regioni tipiche di membri già presenti da tempo, indicando che il stripping può agire anche dopo diverse orbite.”
Una nuova classe di oggetti, forse un nuovo paradigma
Nel complesso, questi risultati rafforzano l’idea che i blue blobs siano i cugini estremi delle galassie jellyfish: nubi stellari nate dal gas strappato, ma che si sono completamente staccate dal loro progenitore galattico. La loro giovinezza, composizione chimica e isolamento pongono sfide significative ai modelli attuali di evoluzione galattica nei cluster.
Ulteriori conferme spettroscopiche sono in corso con HET e il radiotelescopio GBT, ma per comprendere appieno la storia evolutiva di questi oggetti sarà necessario studiarne le popolazioni stellari risolte, un compito che solo il James Webb Space Telescope (JWST) potrà affrontare.
Questa immagine distribuita dalla China National Space Administration (CNSA) e pubblicata dall'agenzia di stampa Xinhua mostra la combinazione lander-ascender della sonda Chang'e-6, ripresa da un mini rover dopo l'atterraggio sulla superficie lunare, il 4 giugno 2024. Crediti: CNSA/Xinhua tramite AP, Archivio
I nuovi dati ottenuti dalla missione cinese Chang’e-6 potrebbero cambiare per sempre la nostra comprensione della Luna. Per la prima volta nella storia dell’esplorazione spaziale, sono stati riportati sulla Terra campioni prelevati dalla faccia nascosta del nostro satellite naturale, e in particolare dal vastissimo cratere South Pole–Aitken Basin (SPA). Le analisi chimiche di questi frammenti hanno portato alla prima stima diretta del contenuto d’acqua nel mantello lunare di quel settore, rivelando un valore sorprendentemente basso: appena 1–1,5 microgrammi per grammo di roccia.
Questo dato – pubblicato in un recente studio coordinato da ricercatori dell’Institute of Geology and Geophysics della Chinese Academy of Sciences (IGGCAS) e basato su misure condotte con tecniche di spettrometria a massa su scala micrometrica – suggerisce che il mantello della Luna possa presentare una dicotomia emisferica nella distribuzione dell’acqua, con la parte visibile (nearside) significativamente più ricca di componenti volatili rispetto a quella nascosta (farside).
“Questi nuovi valori costringono a rivedere le stime complessive sull’acqua nella Luna intera,” affermano gli autori del lavoro, “e forniscono supporto al modello di formazione per impatto gigante.”
Analisi ad altissima precisione
I ricercatori hanno esaminato frammenti basaltici raccolti dal suolo lunare CE6C0200YJFM001, un campione di 5 grammi restituito sulla Terra il 25 giugno 2024. Le analisi si sono concentrate su minerali come apatite e su inclusioni vetrose intrappolate in olivine e ilmenite, che possono trattenere tracce di acqua sotto forma di idrossili e di idrogeno isotopico (δD).
Grazie a strumenti come la NanoSIMS 50L e la microsonda elettronica JXA-8100 operanti presso IGGCAS, è stato possibile determinare la composizione isotopica dell’idrogeno con risoluzione nanometrica e correggere le misure per gli effetti della radiazione cosmica, sfruttando un’età di esposizione stimata in circa 108 milioni di anni.
Un mantello “più asciutto” sul lato nascosto
Confrontando questi dati con quelli ottenuti da precedenti missioni come Chang’e-5, Apollo e Luna, tutte riferite a campioni provenienti dalla parte visibile della Luna e dalla ricca regione del Procellarum KREEP Terrane, emerge un quadro inaspettato: il mantello sottostante al bacino SPA potrebbe essere fino a 10 volte più povero d’acqua rispetto alle zone campionate finora.
Questa possibile asimmetria emisferica – in parte speculare alla già nota distribuzione superficiale del torio (Th), altro elemento incompatibile – suggerisce che la faccia nascosta della Luna sia stata meno influenzata da processi magmatici ricchi in volatili, forse a causa della posizione rispetto all’epicentro dell’impatto gigante che avrebbe originato il nostro satellite.
Implicazioni per l’origine della Luna
I nuovi dati rafforzano le ipotesi a favore di un’origine per impatto gigante, secondo la quale un corpo delle dimensioni di Marte si sarebbe scontrato con la Terra primitiva, generando un disco di detriti che avrebbe poi dato origine alla Luna. In tale scenario, l’acqua sarebbe stata in gran parte dispersa dal calore dell’impatto, e la sua distribuzione successiva all’interno della Luna risulterebbe eterogenea, come ora sembra confermare la scoperta fatta da Chang’e-6.
L’isotopia dell’idrogeno nei campioni CE6, tuttavia, è coerente con quella già rilevata nei campioni del lato visibile (δD medio attorno a −123‰), suggerendo che la composizione isotopica del mantello lunare sia rimasta omogenea nel tempo, forse ereditata dalla cristallizzazione dell’oceano magmatico primordiale.
Verso nuove missioni lunari
Il campione CE6 rappresenta un punto di svolta. “Abbiamo ora un primo valore concreto per il contenuto d’acqua nel mantello della farside lunare,” spiegano gli autori. Ma restano ancora molte domande aperte: l’intera faccia nascosta è così secca? O il cratere SPA rappresenta un’eccezione geologica? Missioni future, come quelle previste dal programma Artemis della NASA e dalle successive fasi del progetto cinese Chang’e, potranno fornire nuovi campioni per confermare o smentire questa dicotomia idrica.
A cura di Lorenzo Barbieri dell’Associazione Astrofili Bolognesi
Il progetto RAMBo, nato dall’iniziativa di un gruppo di astrofili bolognesi, ha permesso la rilevazione delle radiometeore sfruttando la tecnologia analogica. L’evoluzione verso il digitale ha portato alla creazione di CARMELO, un sistema basato su ricevitori SDR e Raspberry Pi, capace di registrare e analizzare gli echi meteorici con maggiore precisione. Grazie a strumenti di elaborazione avanzati, CARMELO filtra i falsi positivi e consente il monitoraggio in tempo reale degli eventi, fornendo dati statistici sull’attività meteorica. L’espansione della rete osservativa, che già conta numerosi ricevitori, permetterà di affinare la ricostruzione delle traiettorie e delle velocità delle meteore. Con il coinvolgimento di scuole e astrofili, il progetto mira a rendere la radioastronomia meteorica accessibile a un pubblico sempre più ampio.
Indice dei contenuti
Gli Inizi
Tutto iniziò una quindicina di anni fa al termine di una serata di G-Astronomia svoltasi a casa mia con un gruppo di soci dell’Associazione Astrofili Bolognesi e con la compagnia di buon vino. Un nostro socio radioamatore, Marco Calzolari, ci mise a disposizione una radio Yaesu da tavolo che collegammo ad un’antenna autocostruita; con pochi semplici passaggi e attendendo alcuni minuti emerse dal rumore di fondo un piccolo “ping”: era il primo eco attribuibile ad una radiometeora ascoltato dai presenti. Si tratta del prodotto del fenomeno “meteor scatter”: quando un meteoroide penetra nell’atmosfera terrestre, l’attrito con le molecole d’aria provoca la vaporizzazione del corpo celeste, generando una scia luminosa nota come meteora. Oltre a questo spettacolo visivo, l’evento produce un cilindro di plasma composto da ioni ed elettroni liberi, risultato della disintegrazione degli atomi del meteoroide durante l’impatto con le molecole della ionosfera. Questa scia ionizzata ha la capacità di riflettere le onde radio, comportandosi come un vero e proprio specchio per le frequenze radio VHF (Very High Frequency). Di conseguenza, un trasmettitore che emette onde radio in queste frequenze può vedere il suo segnale riflesso dalla scia ionizzata, permettendo a un ricevitore sintonizzato sulla stessa frequenza di “osservare” la meteora, anche in assenza di visibilità direttaa.
Fig. 1 – Il segnale radio viene riflesso dal cilindro ionizzato delle meteore seguendo la legge della riflessione, quindi l’eco può essere rilevato solo se l’angolo di incidenza coincide con quello di riflessione. Il punto P rappresenta la zona di riflessione speculare, ossia il punto visibile nei ricevitori. La parte frontale della meteora, essendo semisferica, riflette il segnale in modo diffuso e più debole. Tuttavia, in casi rari di meteore ad alta energia, può verificarsi un’eco di testa, rilevabile dai ricevitori radio.
Nel corso dei decenni, numerosi radar sono stati progettati specificamente per lo studio delle meteore attraverso il meteor scatter. In Italia, ad esempio, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) aveva installato un radar meteorico a Vedrana di Budrio, vicino Bologna, che purtroppo non è più operativo. A livello internazionale, il Canadian Meteor Orbit Radar (CMOR) è uno dei più noti strumenti dedicati a questo tipo di osservazionib, affiancato da altri progetti in Belgio, Giappone e Regno Unito. Questi radar permettono di raccogliere dati dettagliati sulle orbite e sulle caratteristiche fisiche delle meteore, contribuendo in modo significativo alla nostra comprensione dei piccoli corpi del sistema solare.
L’Esperienza nell’Analogico
Per noi astrofili, l’installazione e la gestione di un radar meteorico rappresenta però una sfida, sostanzialmente a causa dei costi elevati associati agli apparati trasmittenti e alla loro manutenzione. Nel tempo tuttavia si è trovato il modo per aggirare parte dell’ostacolo sfruttando trasmettitori esistenti e lasciando così agli appassionati solo il compito di gestire la ricezione. Un esempio è il trasmettitore militare GRAVES, situato in Francia, che grazie alla sua potenza è largamente utilizzato da anni dagli astrofili europei. Nel giro di poco tempo quindi avevamo installato lo stesso apparato testato durante la cena nella sede dell’AAB utilizzando una radio analoga a quella di Marco e montando un’antenna ad alto guadagno. Con molta soddisfazione, scelta la polarizzazione giusta, i “ping” piovevano copiosi. Avevamo realizzato il primo sistema radar “forward scatter” (o bistatico) dell’AAB. I radar sono comunemente di due tipi: il backward scatter è quello più noto e diffuso in cui trasmettitore e ricevitore sono vicini ed addirittura possono utilizzare la stessa antenna, prima illuminando il bersaglio e poi ricevendone l’eco, mentre il forward scatter, assai diffuso nelle osservazioni di meteore, ha una configurazione come quella descritta nell’immagine: in questo caso il trasmettitore è sempre in potenza ed i ricevitori (che possono essere più di uno) sono sempre in ascolto.
Fig. 2 – La configurazione forward scatter del nostro RAMBo.
Insieme a Fabio Balboni e Daniele Cifiello, altro radioamatore, ci siamo quindi posti il tema: è possibile trasformare il semplice ascolto in una osservazione sistematica e continuativa misurando e catalogando questi echi? Il passo successivo è stato l’acquisto di un “Arduino” e la sua programmazione in c++. Con esso il segnale audio in uscita dalla radio veniva digitalizzato, i suoi parametri (orario, ampiezza e durata) trascritti in un file csv e resi disponibili al trattamento numerico. Il progetto RAMBo (Radar Astrofilo Meteorico Bolognese), così fu chiamato, funzionava a pieno regime registrando circa 2500 eventi al giorno (quasi un milione all’anno).
Fig. 3 – Nelle Perseidi del 2020 RAMBo evidenzia un filamento dello sciame assente negli anni precedenti ed invece previsto dalle analisi numeriche degli astronomi riguardanti gli influssi gravitazionali dei pianeti maggiori sul complesso dello sciame.
Che fare con tutti questi dati? Qui entra in scena Gaetano Brando, allora nuovo giovane iscritto all’ associazione ed esperto di programmazione python. Con lui abbiamo iniziato a fare statistiche e analisi numeriche sui dati facendo sul campo quelle scoperte che, per quanto note agli esperti del settore, per noi erano assolutamente nuove, ad esempio l’andamento diurno tendenzialmente sinusoidale o la presenza degli sciami meteorici come mostrato in figura 7. Poi sono arrivate anche le prime soddisfazioni: con RAMBo era possibile osservare gli sciami meteorici e confrontarli con le previsioni numeriche elaborate dai professionisti; i nostri articoli al riguardo sono stati pubblicati su WGN il periodico dell’IMO (International Meteor Organization) e su e-Meteor news (giornale elettronico). Il nostro progetto è stato illustrato all’IMC: congresso internazionale dell’IMOc. Per quanto entusiasmante l’esperienza di RAMBo soffriva però di alcuni limiti: 1) Presenza di falsi positivi: fulmini, transitori elettrici sulla rete (accensione di luci al neon, motori elettrici ecc.. motori a scoppio nelle vicinanze auto, moto e soprattutto rasaerba!) 2) Misura non del segnale radio ma della sua conversione in segnale audio effettuata dalla radio, con conseguenti dubbi sulla linearità e fedeltà. 3) Standard non comune condizionati dai parametri della radio. 4) Difficoltà replicabilità: realizzare la scheda elettronica di interfaccia tra radio ed Arduino non era affatto banale. 5) Costo considerevole: tra antenna, radio di un certo livello, arduino e scheda analogica il prezzo saliva. Un’unica soluzione risolveva tutti i problemi: passare al digitale.
Passaggio al Digitale
E qui sono arrivati i problemi e le frustrazioni: maneggiare la tecnologia SDRd non è per nulla facile se non si è esperti del settore. Con Gaetano abbiamo impiegato mesi e mesi cercando di far funzionare un dongle SDR ed un computer come volevamo, abbiamo dedicato innumerevoli serate al problema con conseguenti dissapori con altri soci dell’associazione più interessati ad altre attività. Ad un certo punto abbiamo deciso di rinunciare finché a distanza di un anno Gaetano scrive un messaggio: “Ho trovato in rete una libreria di python che si interfaccia con i dongle SDR!”. È stata la svolta e dopo mesi e mesi persi in vani tentativi in poche ore abbiamo scritto il primo software per realizzare un ricevitore meteorico per le radiometeore! Era l’embrione di CARMELO (Cheap Amatorial Radio Meteoric Echoes Logger).
Fig. 4 – L’embrione di CARMELO: un PC, un dongle da 13 euro fissato su un pezzetto di legno, un cavo coassiale utilizzato come antenna (dipolo) ed una radiolina utilizzata come trasmettitore.
Il passo successivo è stato il passaggio ad un microprocessore (abbiamo scelto per il suo costo e la sua ampia diffusione un Raspberry) e la scrittura di un software che risolvesse tutti i punti deboli del precedente progetto analogico (RAMBo). CARMELO utilizza una Fast Fourier Transform (FFT) per elaborare il segnale ricevuto e identificare automaticamente gli echi meteorici, scartando i falsi positivi. Una volta identificato un evento meteorico, il sistema registra i dati in un piccolo file. Altri soci AAB, Paolo Fontana ed Antonio Papini, hanno attivamente collaborato all’assemblaggio del prototipo.
1. La rete CARMELo
A questo punto era necessario un server a cui spedire i dati ed un sito che li mostrasse e grazie all’incessante lavoro di Gaetano anche ciò è diventato realtà.
Fig. 5 – L’attuale realizzazione di un CARMELo In esso sono visibili: l’alimentatore che converte la tensione 220 V a 5 V (1), il Raspberry sovrastato dalla schedina monitoria (non indispensabile) che con i led mostra il funzionamento di CARMELo (2), il dongle SDR (3), l’LNA (Low Noise Amplificator), (4) il filtro bassa banda (5), il cavo d’antenna (6), il cavo ethernet per la trasmissione dei dati in internet (7) ed il coperchio (8). Il sistema è stato progettato per essere economico, consentendo a chiunque di partecipare all’osservazione radio delle meteore con una spesa relativamente contenuta (ricevitore SDR circa 210 euro, antenna VHF circa 60 euro). Con un assemblaggio semplice permette a qualsiasi astrofilo di installare una stazione ricevente digitale presso la propria abitazione o osservatorio, senza la necessità di strumenti professionali.
Gli eventi mostrati (in tempo reale) vanno dalle più piccole meteore sporadiche di pochi millisecondi di durata e che corrispondono a meteore di 7° od 8° magnitudine e perciò inosservabili sia ad occhio nudo che con le videocamere, fino ai bolidi e super bolidi, con i quali il grado di ionizzazione è assai elevato, quindi l’eco è molto lunga. Tuttavia, poiché la maggioranza dei ricevitori CARMELO è sita in Italia e quindi in forward scatter, l’80% degli eventi rilevati da CARMELO è sulle Alpi oppure a nord delle Alpi. A riprova di ciò mostriamo l’incrocio di dati osservativi nostri e visuali a cui si è dedicata Silvana Sarto altra socia AAB che con entusiasmo è entrata nel gruppo.
2. Il tasso orario
Oltre alle singole osservazioni CARMELO fornisce una pagina statistica, che permette di monitorare il tasso orario delle meteore con una risoluzione temporale di un’oraf. Con l’espansione della rete, potremo abbassare ulteriormente questa risoluzione, migliorando la precisione delle osservazioni. Oltre a ciò, l’analisi incrociata tra tasso orario e durata degli echi permette di studiare la distribuzione della massa all’interno degli sciami meteorici. Questo porta ad indagare l’età dello sciame in base alla simmetria della distribuzione delle masse. Ad esempio, proprio questo tipo di confronto fatto per lo sciame delle Quadrantidi a inizio 2025 ha evidenziato come questo sciame abbia una struttura a cilindro avente all’esterno un “guscio” di meteore più piccole, e all’interno un filamento di meteore di maggior massag. Questa caratteristica è tipica degli sciami relativamente giovani nei quali né le perturbazioni dei pianeti massicci né la radiazione solare (effetto di Poynting – Robertson) hanno ancora comportato la migrazione dei meteoroidi più massicci verso “la periferia” dello sciame facendo quindi perdere la simmetria originaria.
Fig. 6 – Meteore registrate da CARMELo e simultaneamente viste dalla rete visuale GMN. Il confronto è stato fatto su una quindicina di giorni.
Ogni mese viene preparato un bollettino: il “CARMELo monthly report” che riassume l’attività meteorica registrata dalla rete e caratterizza gli sciami principali, poi pubblicato su eMeteorNews e su eMetNJournal ed anche sull’ “Astrophisic data system”. Questo lavoro è a cura di Mariasole Maglione, astrofisica ed esperta di comunicazione in campo industriale astronautico, astrofila vicentina ed ultimo ingresso nel nostro piccolo gruppo di lavoro.
3. Le forme d’onda
Uno degli aspetti più innovativi è la possibilità di visualizzare le forme d’onda di ogni meteora in tempo reale. Si tratta di una novità assoluta nel campo dell’osservazione radio amatoriale, permettendo agli astrofili di ottenere informazioni sulla natura di ogni singolo evento. Analizzando le forme d’onda, gli osservatori possono determinare: – Se la meteora è satura (ovvero, se il segnale è talmente forte da creare un cilindro di plasma che si comporta come un corpo solido). – Se la meteora ha subito frammentazione, osservabile tramite variazioni ondulatorie del segnalei. – Se è energetica al punto da mostrare l’eco di testa, riconoscibile anche dal tipico effetto Doppler del segnale radio.
Fig. 7 – Il tasso orario nel primo mese del 2025: si nota l’andamento sinusoidale quotidiano delle meteore sporadiche, dovuto alla posizione dell’osservatore sul globo terrestre nel suo movimento di rotazione della terra. Si nota inoltre l’aumento del tasso orario in corrispondenza del previsto sciame delle Quadrantidi.Fig. 8 – Fra il tasso orario e la durata media degli echi meteorici tra l’1 e il 6 gennaio 2025, che ci ha permesso di descrivere la composizione dello sciame. Questa analisi è descritta nel nostro bollettino di gennaio.
Programmi per il futuro
1. Traiettorie e velocità
Fig. 9 – Esempio di forma d’onda Nei primi 100 millisecondi, il segnale proviene dalla sfera di plasma creata dall’avanzamento della meteora nella ionosfera. La frequenza (in verde) mostra l’effetto Doppler. Dopo circa 100 millisecondi, il meteoroide raggiunge il punto di riflessione P, perpendicolare alla visuale dell’osservatore. A questo punto, lo spostamento Doppler scompare e la riflessione del cilindro ionizzato sovrasta quella dell’eco di testa in allontanamento. Successivamente si notano le oscillazioni tipiche della frammentazione della meteora.
Uno degli obiettivi più ambiziosi è la ricostruzione delle traiettorie delle meteore. Questo è possibile grazie alla presenza di più osservatori distribuiti sul territorio, che ricevono il segnale riflesso dalla stessa meteora con un leggero ritardo temporale.
Fig. 10 – Alcuni partecipanti al gruppo di lavoro di CARMELo. Da sinistra a destra: Gaetano Brando (AAB), Lorenzo Barbieri (AAB), Mariasole Maglione (Gruppo Astrofili Vicentini).
Ricostruendo la traiettoria del segnale ed individuando gli n punti P di riflessione speculare corrispondenti agli n osservatori è possibile calcolare la velocità della meteora proprio confrontando il ritardo tra i fronti di salitaj. Abbiamo confrontato decine di meteore registrate simultaneamente dalla rete CARMELo e dalla rete di telecamere GMN (Global Meteor Network) ed effettivamente, le velocità calcolate considerando i ritardi temporali dei fronti d’onda coincidevano, entro margini di errore minimi, con le velocità calcolate tramite le immagini dell’osservazione visuale. La sfida per il futuro è quella di calcolare anche le traiettorie prescindendo dall’uso del confronto con il video. Sarà una sfida impegnativa: occorrerà individuare algoritmi complessi e probabilmente potrà rendersi necessario far ricorso anche alle reti neurali.
2. L’inquinamento radioelettrico
All’inizio del 2025 c’è stato un aggiornamento del software di CAR MELO. Con la nuova versione, la banda passante è stata ristretta a 20 kHz e gli apparati sono stati dotati di un nuovo e più efficace filtro software sui falsi positivi.
Fig.11 – Il segnale trasmesso da T viene ricevuto dagli n ricevitori R dopo una riflessione negli n punti di riflessione speculare P.
Dopo questo aggiornamento, la nostra attenzione si è concentrata sul rumore: perché ciò che tutti gli astrofili ed astrofotografi ben conoscono riguardo l’inquinamento luminoso è esattamente drammaticamente vero anche per l’inquinamento radioelettrico. La maggioranza dei nostri siti soffre della presenza di ponti radio, torri 4G o 5G, oltre ai trasmettitori televisivi e radiofonici, ma anche in stazioni riceventi in luoghi relativamente non inquinati abbiamo rilevato la novità di questi ultimi anni e cioè i satelliti per la telefonia da cellulari in orbita bassa. Di conseguenza, una modifica che a breve verrà introdotta sarà l’utilizzo di un filtro a banda stretta, in perfetta similitudine all’osservazione fotometrica o alla fotografia amatoriale.
3. La velocità del microprocessore
L’amico Roberto Lulli, ricercatore associato INAF nei progetti Space Debris e SETI in qualità di analista programmatore, ha proposto una modifica al nostro software al fine di utilizzare in parallelo i quattro core del microprocessore, dedicando ogni core ad uno dei vari compiti che attualmente CARMELo svolge in maniera seriale. Qualora questa modifica andasse in porto potremmo più che raddoppiare la velocità del ricevitore con conseguenti evidenti miglioramenti sia nella risoluzione temporale delle forme d’onda, sia dell’individuazione degli istanti dei fronti di salita ed anche del numero delle meteore rilevate. Roberto, che è anche insegnante di informatica all’ I.T.T.S. “G. & M. Montani” di Fermo (FM), ha coinvolto nell’idea gli studenti dei propri corsi, che hanno risposto mostrando molto interesse. È la prima volta che CARMELo entra in una scuola e speriamo che altre ne seguano.
4. L’ampliamento della rete
Fig. 12 – Osservazioni simultanee dello stesso evento da parte di diversi osservatori della rete CARMELO. In alto si notano i diversi istanti tra i fronti di salita. In basso la dislocazione geografica. Si può apprezzare un andamento da sud ovest verso nord est.
Da quanto detto finora emerge chiaramente che sia per quel che riguarda il tasso orario ed il conseguente studio degli sciami, sia per quel che riguarda la ricezione simultanea tra più ricevitori ed il conseguente lavoro su traiettorie e velocità delle meteore, l’ampliamento della rete potrebbe rappresentare un salto di qualità. Attualmente, la rete conta 13 ricevitori, dislocati in Italia, Regno Unito e USAk ed altre istallazioni sono attese in Croazia, a Porto San Giorgio e a Como, mentre interesse al progetto è stato mostrato da ricercatori in Catalogna. L’auspicio è che altri astrofili ed istituzioni vogliano entrare a far parte della rete osservativa. Per partecipare al progetto non servono competenze avanzate: basta un modesto investimento economico, una corretta installazione dell’antenna e tanta curiosità scientifica. Il ricevitore è pensato per essere autocostruitol, ma chi non volesse intraprendere il lavoro manuale può scriverci, lo metteremo in contatto con un autocostruttore di nostra fiducia. Ognuno può entrare a far parte della comunità dei radio osservatori meteorici tramite CARMELO! Tutte le informazioni per partecipare sono nel nostro sito www.astrofiliabologna.it/carmelo.
Fig. 13 – Installazione di un ricevitore
Riferimenti a) Cis Verbeeck, Jean-Louis Rault. Radio meteor observations. HANDBOOK FOR METEOR OBSERVERS: International Meteor Organization Edited byJürgen Rendtel 2022 b) https://fireballs.ndc.nasa.gov/cmor-radiants/index.html c) Barbieri, L. (2016)” An atenna,a radio and a microprocessor: which kinds of observation are possible in meteor radio astronomy?”.IMC – IMO Egmond, the Netherlands, 2-5 June 2016 – page 26 d) https://it.wikipedia.org/wiki/Software_defined_radio e) http://www.astrofiliabologna.it/graficocarmelo f) http://www.astrofiliabologna.it/graficocarmelohr g) Maglione M., Barbieri L. (2025)“January 2025 CARMELO report”, h) eMetN Journal https://ui.adsabs.harvard.edu/ i) W.G Elford, L Campbell: Effect of meteoroid fragmentation on radar observations ol meteor trails (ESAPSB2): NASA Astrophisic data system j) M.T. German: Utilizing Video Meteor Trails to Understand Radio Meteor Detection: WGN, the Journal of the IMO 51:4 (2023) k) http://www.astrofiliabologna.it/obs_on_line l) http://www.astrofiliabologna.it/about_carmelo
Un universo in rotazione per spiegare la discrepanza più controversa della cosmologia
Il cosiddetto Hubble tension, cioè il disaccordo tra la misura dell’espansione dell’universo da osservazioni locali e quelle derivate dalla radiazione cosmica di fondo (CMB), è oggi il più significativo punto critico del modello cosmologico standard ΛCDM. Mentre i dati del satellite Planck indicano un valore del parametro di Hubble di circa 67,4 km/s/Mpc, misure dirette su supernovae di tipo Ia osservate con il Hubble Space Telescope restituiscono un valore di circa 73 km/s/Mpc. La divergenza ha raggiunto un livello di significatività di 5σ, troppo elevato per essere attribuito a semplici errori sistematici.
In un nuovo studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, un gruppo internazionale di ricercatori propone un’idea sorprendente quanto antica: e se l’universo ruotasse?
Una lenta rotazione per armonizzare le due cosmologie
I ricercatori, guidati da Balázs Szigeti (Eötvös Loránd University) e István Szapudi (University of Hawaii), hanno sviluppato un modello cosmologico che incorpora una rotazione su larga scala all’interno di un fluido oscuro – un’entità teorica che unifica materia oscura ed energia oscura. Utilizzando l’approccio di tipo Sedov–Taylor per risolvere le equazioni di fluido autogravitante (il sistema di Euler–Poisson), il team ha simulato l’evoluzione del parametro di Hubble sia in assenza che in presenza di rotazione.
Sorprendentemente, una rotazione lenta ma costante, con un valore attuale dell’angolo di velocità pari a ω₀ ≈ 0,002 Gyr⁻¹, è sufficiente a colmare il divario tra i due valori osservativi di H₀. Questo valore è compatibile con le osservazioni cosmologiche esistenti e, soprattutto, prossimo al limite massimo teorico che evita paradossi temporali come i loop causali chiusi.
Una rotazione compatibile con la fisica conosciuta
L’idea di un universo rotante non è nuova: già Kurt Gödel nel 1947 ipotizzò una soluzione rotante alle equazioni di Einstein. Tuttavia, tali modelli sono spesso incompatibili con le osservazioni della radiazione cosmica di fondo. Il modello proposto in questo studio, al contrario, si basa su una rotazione globale estremamente debole, sufficiente per produrre un effetto cumulativo sull’espansione cosmica senza introdurre anisotropie rilevabili.
Il valore iniziale della rotazione stimato al tempo della decoupling (quando si è formata la CMB) è ω(t_CMB) ≈ 3,54 Myr⁻¹, coerente con la fisica del periodo. Il modello predice inoltre che il contributo della rotazione diminuisce con l’espansione dell’universo, risultando oggi appena percettibile ma ancora dinamicamente rilevante.
Una proposta affascinante, ma ancora da testare
I risultati sono promettenti, ma gli autori sottolineano che si tratta solo di un primo passo. Il modello considera esclusivamente l’effetto della rotazione sul parametro di Hubble, senza ancora affrontare l’intero complesso di vincoli osservativi del modello ΛCDM, come la formazione delle strutture, le oscillazioni acustiche barioniche o l’abbondanza degli elementi leggeri.
Ulteriori ricerche, in particolare simulazioni N-body rotanti e trattamenti relativistici completi, saranno necessarie per valutare la compatibilità del modello con l’universo osservato.
A Mirandola torna la Space Week con mostre, conferenze e uno sguardo oltre le stelle
Per il terzo anno consecutivo, Latitude 44.5 – il progetto dell’astrofotografo e divulgatore Luca Reggiani, ben noto anche per i suoi interventi nei nostri video social – porta a Mirandola una settimana dedicata all’astronomia e all’esplorazione spaziale, con una mostra di astrofotografia a ingresso libero e un ricco programma di conferenze gratuite.
L’edizione 2025 si svolgerà dal 3 all’11 maggio nella suggestiva cornice della Sala Trionfini, in Piazza Ceretti 9, e sarà un’occasione unica per immergersi nelle meraviglie del cosmo attraverso immagini mozzafiato e approfondimenti scientifici accessibili a tutti.
🌌 La mostra di astrofotografia sarà visitabile per tutta la settimana, offrendo uno sguardo privilegiato sull’universo attraverso gli scatti di appassionati e professionisti.
📚 Il programma delle conferenze – organizzate in occasione della Giornata Mondiale dell’Astronomia – prevede otto incontri con esperti del settore, tra cui astrofisici, divulgatori, astronomi, storici della scienza e tecnici di osservatori astronomici. I temi spazieranno dalla ricerca di vita extraterrestre alla geopolitica dello spazio, passando per i grandi telescopi come Hubble, James Webb ed Euclid.
Tra gli appuntamenti da non perdere:
03 maggio: La (probabile) vita extraterrestre con Lorenzo Pelloni (Planetario di Modena)
04 maggio: Alla ricerca del tempo perduto: Euclid e JWST con Roberto Castagnetti (CosMo)
08 maggio: Le stelle: vita, morte e miracoli con Aldo Zanetti (astronomo)
11 maggio: Stelle erranti con Matteo Marchionni (astrofotografo)
🎫 Ingresso gratuito con posti limitati: per garantire la partecipazione è consigliata la prenotazione tramite il QR code disponibile in locandina o via Eventbrite.
Un’occasione imperdibile per chi desidera avvicinarsi all’astronomia o approfondirne i temi più attuali in un clima di curiosità e condivisione.
Vi aspettiamo numerosi sotto le stelle!
Luca “Orione” – Latitude 44º50’ Astrophotography IU4FNS – Amateur Radio Station
Rappresentazione artistica della sonda Lucy mentre sorvola l’asteroide troiano (617) Patroclus e il suo compagno binario Menoetius.
Lucy sarà la prima missione a esplorare gli asteroidi troiani di Giove – antichi residui del Sistema Solare esterno intrappolati nell’orbita del gigante gassoso. Crediti: NASA’s Goddard Space Flight Center / Conceptual Image Lab / Adriana Gutierrez
Cortesia: NASA’s Goddard Space Flight Center / Conceptual Image Lab / Adriana Gutierrez Lucy è la prima missione spaziale dedicata all’esplorazione degli asteroidi troiani, una popolazione di piccoli corpi celesti residui della formazione del Sistema Solare. Questi oggetti precedono o seguono Giove nella sua orbita attorno al Sole e potrebbero offrire indizi sull’origine dei materiali organici sulla Terra.
La sonda Lucy della NASA si avvicina al piccolo asteroide Donaldjohanson, nel cuore della Fascia Principale, a meno di 80 milioni di chilometri di distanza. Il sorvolo avverrà il 20 aprile alle 13:51 EDT (19:51 ora italiana), a una distanza ravvicinata di 960 km, rappresentando una vera e propria prova generale per la missione principale: l’esplorazione degli asteroidi Troiani di Giove, prevista nei prossimi anni.
Una tappa intermedia, ma fondamentale
Dopo il primo flyby del novembre 2023, che ha visto Lucy incontrare l’asteroide Dinkinesh e il suo satellite naturale Selam, questo secondo passaggio su Donaldjohanson permetterà di affinare manovre e strumenti in condizioni simili a quelle previste per gli asteroidi gioviani. Durante l’avvicinamento, Lucy ruoterà autonomamente per mantenere nel campo visivo il bersaglio, grazie al sistema di tracciamento terminale, e attiverà tutti e tre gli strumenti scientifici principali:
L’LORRI, la camera ad alta risoluzione in bianco e nero;
L’Ralph, spettrometro nel visibile e infrarosso;
L’TES, spettrometro a infrarossi termici.
Le osservazioni si interromperanno però 40 secondi prima del punto di massimo avvicinamento, per evitare che la luce solare troppo intensa danneggi i sensori: “Gli strumenti sono progettati per osservare oggetti illuminati da una luce solare 25 volte più debole rispetto a quella terrestre”, ha spiegato Michael Vincent, responsabile della fase di incontro presso il Southwest Research Institute (SwRI) di Boulder, Colorado. “Guardare verso il Sole in queste condizioni potrebbe rovinarli.”
Una manovra coreografica nello spazio
Dopo il sorvolo, Lucy effettuerà una rotazione per riorientare i suoi pannelli solari verso il Sole e, circa un’ora più tardi, ristabilirà il contatto con la Terra. Il ritardo delle comunicazioni – circa 12,5 minuti luce – impone una gestione completamente autonoma dell’incontro.
“Una delle cose più strane da comprendere di queste missioni nello spazio profondo è la lentezza della velocità della luce”, ha aggiunto Vincent. “Quando inviamo un comando per vedere le immagini scattate durante il passaggio, dobbiamo attendere 25 minuti prima di riceverle.”
Un asteroide giovane, una storia antica
Donaldjohanson, così battezzato in onore del paleoantropologo co-scopritore di Lucy, lo scheletro fossile che ha ispirato il nome della missione, è considerato uno degli asteroidi più giovani mai visitati da una sonda, con un’origine che risale a 150 milioni di anni fa, frutto di una collisione catastrofica.
“Ogni asteroide racconta una storia diversa, e insieme queste storie compongono il grande mosaico della storia del Sistema Solare,” ha commentato Tom Statler, scienziato del programma Lucy presso il NASA Headquarters. “Le osservazioni da terra ci fanno pensare che anche questo oggetto avrà molto da raccontare. E sono pronto a restare sorpreso, ancora una volta.”
Dietro le quinte della missione Lucy
NASA Goddard Space Flight Center: gestione missione e sviluppo dello spettrometro L’Ralph
Southwest Research Institute (Boulder, CO): direzione scientifica e fase operativa
Lockheed Martin Space: costruzione della sonda e controllo di volo
KinetX Aerospace e NASA Goddard: navigazione
Johns Hopkins Applied Physics Laboratory: progettazione di L’LORRI
Arizona State University: progettazione dello spettrometro termico L’TES
Lucy è la tredicesima missione del Discovery Program della NASA, coordinato dal Marshall Space Flight Center a Huntsville, Alabama.
Il Rubin Observatory ha installato la fotocamera LSST da 3200 megapixel, la più grande mai costruita, sul telescopio Simonyi in Cile. Il team internazionale sta completando la messa in servizio, raffreddando il sistema a –100 °C. Dal 2025, la fotocamera realizzerà il più grande film astronomico mai prodotto, con un'indagine decennale del cielo.
Installata la fotocamera LSST da 3200 megapixel: al via la mappatura decennale dell’Universo dal Cerro Pachón in Cile.
di Gaëlle Suter
In cima al Cerro Pachón, nel nord del Cile, un progetto ventennale giunge a un momento storico: la fotocamera LSST (Legacy Survey of Space and Time), il più grande sensore digitale mai costruito per l’astronomia, è stata installata con successo sul telescopio Simonyi Survey del Vera C. Rubin Observatory. Con i suoi 3200 megapixel, la camera permetterà una mappatura senza precedenti dell’Universo, offrendo dati fondamentali per comprendere fenomeni come materia oscura, energia oscura e l’evoluzione cosmica.
Realizzata presso lo SLAC in California, la fotocamera LSST rappresenta un capolavoro di ingegneria scientifica. Composta da 189 sensori CCD, è progettata per acquisire immagini ad altissima risoluzione con una sensibilità tale da rilevare oggetti celesti debolissimi in tempi rapidissimi. Ogni esposizione sarà equivalente a una fotografia da 3200 megapixel, una capacità sufficiente a riprendere l’intero cielo visibile in appena pochi giorni.
Ma accendere una macchina del genere non è affare da poco. Le fasi attuali non riguardano più l’assemblaggio, bensì la messa in servizio, un processo delicato che prevede il raffreddamento dei sistemi elettronici e sensibili a temperature estremamente basse per garantirne la stabilità operativa.
Sotto zero per vedere l’Universo
Il cuore della fotocamera è il criostato, una camera che isola termicamente i componenti interni. «Il vuoto è essenziale per proteggere l’elettronica dai cambiamenti di temperatura», spiega Stuart Marshall, scienziato operativo della fotocamera e ricercatore senior presso SLAC. Una volta creato il vuoto, verrà attivato un circuito di refrigerazione che farà circolare un fluido a –50 °C, in grado di rimuovere il chilowatt di calore generato dal sistema elettronico. L’obiettivo è mantenere le componenti tra i –20 e –5 °C, mentre i sensori CCD richiedono un raffreddamento ancora più estremo, fino a –100 °C, per garantire immagini prive di rumore termico.
Lavoro di squadra tra scienza e ingegneria
Su una stretta piattaforma sospesa a cinque metri dal suolo, incastrato tra la fotocamera LSST e il telescopio, Stuart Marshall, scienziato operativo della fotocamera e ricercatore presso SLAC, è impegnato nel collegamento del sistema a vuoto della fotocamera LSST. (RubinObs/NOIRLab/SLAC/NSF/DOE/AURA/Y. Utsumi)
Le operazioni di messa in servizio sono condotte da un team internazionale altamente specializzato. Accanto a Marshall, anche la postdoc Yijung Kang di SLAC e Yousuke Utsumi, professore associato al National Astronomical Observatory of Japan (NAOJ), stanno contribuendo a portare online il sistema. Tutti lavorano a cinque metri d’altezza, su una piattaforma limitata a 125 kg di carico, incastrati tra la fotocamera e lo specchio del telescopio.
«Ogni parte del sistema deve essere compresa a fondo», spiega Utsumi. «Il lavoro è complesso, ma il team è pronto ad affrontare anche gli imprevisti più difficili.»
Countdown verso la prima luce
Una volta stabilizzata la temperatura e attivati i CCD, il momento tanto atteso si avvicina: la rimozione del gigantesco copriobiettivo da 1,7 metri di diametro, che avverrà con l’aiuto di una gru. A quel punto, per la prima volta, la luce delle stelle raggiungerà i sensori LSST. Gli specialisti delle osservazioni sceglieranno la porzione di cielo da analizzare, e il telescopio catturerà le prime immagini.
Queste immagini, proiettate su tre schermi giganti nella sala di controllo, segneranno l’inizio di quella che è stata definita “la più grande pellicola astronomica mai realizzata”: un’indagine di dieci anni sull’Universo visibile, che genererà un time-lapse ad altissima risoluzione della volta celeste, utile a studiare transiti planetari, supernove, movimenti di galassie e persino a migliorare i modelli di cosmologia.
Un’eredità per la scienza del futuro
Il Legacy Survey of Space and Time (LSST) non sarà solo un catalogo di immagini: sarà una risorsa scientifica globale. I dati saranno resi pubblici e accessibili agli scienziati di tutto il mondo, permettendo di affrontare questioni fondamentali come la natura della materia oscura e l’espansione dell’universo. Il Rubin Observatory onora la memoria dell’astronoma Vera Rubin, pioniera nello studio delle curve di rotazione galattiche che per prima dimostrò l’esistenza della materia oscura.
Con la prima luce prevista per il 2025, il Rubin Observatory si prepara a diventare uno dei pilastri della nuova astronomia osservativa.
In questo numero di COELUM, parliamo non di una ma bensì di due immagini che lo ShaRA Team ha realizzato fra il finire del 2024 e l’inizio del 2025: la Piccola e la Grande Nube di Magellano. Questi due oggetti sono fra i più caratteristici del cielo australe e non potevano di certo sfuggire alle grinfie del team di Astrofotografi remoti ShaRA!
Indice dei contenuti
ABSTRACT
In questo numero di COELUM, parliamo non di una ma bensì di due immagini che lo ShaRA Team ha realizzato fra il finire del 2024 e l’inizio del 2025: la Piccola e la Grande Nube di Magellano. Questi due oggetti sono fra i più caratteristici del cielo australe e non potevano di certo sfuggire alle grinfie del team di Astrofotografi remoti ShaRA!
di Aldo Zanetti e ShaRA Team
Il Target
SMC e 47 Tuc ottenuta con la formula del Superstack ShaRA partendo da quasi 14 ore di integrazione RGB+HaOIII col Nikon 100mm di apertura f/2 del servizio remoto Chilescope.LMC ottenuta con la formula del Superstack ShaRA partendo da quasi 32 ore di integrazione LRGB+HaOIIISII su due pannelli parzialmente sovrapposti, col Nikon 100mm di apertura f/2 del servizio remoto Chilescope.
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Nel progetto ShaRA#11, il team esplora Fornax A (NGC 1316), una spettacolare galassia radio del cielo australe, oggetto di interesse per la fisica delle alte energie e possibile sorgente di raggi cosmici ultra-energetici. L’immagine finale, frutto di oltre 31 ore di posa e complesse tecniche di elaborazione, rappresenta uno dei migliori risultati del team, nonostante numerose difficoltà tecniche e meteorologiche affrontate durante le riprese.
di Adriano Anfuso, Alessandro Ravagnin, Aldo Zanetti e ShaRA Team
Il Target
A destra. L’immagine finale di Fornax A soggetto del progetto n°11 di ShaRA Team, uno dei migliori elaborati prodotti dal gruppo superando non poche avversità
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Perseverance osserva l’orizzonte verso ovest: questo è il punto più occidentale che
abbia raggiunto finora. Sol 1380. NASA/JPL-Caltech/Piras.
Indice dei contenuti
Intro
Per la prima volta i resoconti dell’esplorazione dei rover occuperanno una parte minore di queste pagine scegliendo di dedicare più spazio a diverse ricerche pubblicate tra gennaio e febbraio. I risultati scientifici non sarebbero mai stati possibili senza i preziosissimi dati raccolti dai nostri emissari robotici, quindi senza indugiare oltre, trasferiamoci nel Cratere Jezero: si parte!
PERSEVERANCE, PIROSSENI E SERPENTINI
Il nostro rover ha vissuto due mesi decisamente partico¬lari, caratterizzati da poche nuove zone esplorate ma tan¬ti metri percorsi. Sembra una contraddizione? Vedremo… Il filo delle cronache riprende da Witch Hazel Hill dove abbiamo lasciato Perseverance a metà dicembre. Nel Sol 1363 il rover aveva appena raggiunto il bordo esterno del Cratere Jezero inaugurando la North Rim Campaign. Complice la pausa natalizia, le attività di rilievo ripren¬dono il primo gennaio del nuovo anno con un’abrasione superficiale ad esporre le antichissime rocce di questa regione pronte per essere ispezionate con le macro di WA¬TSON, le rilevazioni ottiche spettrali delle MastCam-Z, e lo spettrometro a raggi-X PIXL. Seguono ulteriori analisi, rimandate di alcuni Sol, dopo di chè il rover viene fatto muovere per 136 metri verso ovest in direzione della loca¬lità Mill Brook. Da questa posizione vengono scattati vari panorami con le NavCam, tra i quali quello che vedete in doppia pagina qui sopra. Lo scatto attualmente rappre¬senta la visuale più a occidente dell’intera missione. È il 6 gennaio e hanno inizio giorni di lavoro per gli scien¬ziati e tecnici del JPL condizionati più dai fatti in svolgi¬mento sulla Terra che su Marte: la California è flagellata da incendi devastanti e i centri di ricerca della NASA ven¬gono temporaneamente chiusi per consentire ai lavora¬tori di mettersi al riparo.
Lunghi spostamenti (indicati cronologicamente dai numeri a fianco alle frecce con i percorsi), una foto panoramica indicata con il marker azzurro a sinistra, due prelievi di successo a witch hazel hill, due prelievi falliti a cat arm reservoir. Tutto questo in appena due mesi! Mappa aggior¬nata al 21 febbraio. Nasa/jpl-caltech/piras.
Dopo due settimane di apparente inattività, impegnate invece in verifiche dei sistemi e test, il Sol 1395 Perseve-rance torna al lavoro ed esegue una nuova abrasione. La “Bad Weather Pond”, questo il suo nome, nelle immagi¬ni acquisite mostra una grande differenza nella texture rispetto a quanto portato alla luce nell’attività di 20 Sol prima: il materiale che appariva quasi friabile ha lasciato il posto, a circa 130 metri di distanza, a una roccia parec-chio più compatta.
Se ci limitassimo a seguire la missione dando unicamen¬te importanza a quanti km vengono macinati e ignoran¬do le considerazioni delle decine di scienziati coinvolti, giudicheremmo inaspettato ciò che invece avverrà nei due giorni dopo: Perseverance, infatti, percorre la strada a ritroso e torna a Witch Hazel Hill. Nel Sol 1400 (27 genna¬io) si posiziona nell’esatto punto dell’abrasione del Sol 1375 e l’indomani esegue un prelievo di roccia.
ABRASIONI DEI SOL 1375 (PIÙ IN ALTO) E 1395. NASA/JPL-CALTECH/PIRAS
La località dove ci troviamo, Shallow Bay, presenta delle rocce ricche di pirosseno a basso contenuto di calcio (LCP). Per i geologi è un materiale di enorme interesse e rappresenta il primo campione dell’era Noachiana (l’intervallo che va da 4,1 a 3,7 miliardi di anni fa) che Perseverance può raccogliere. Si ipotiz¬za che l’affioramento appartenga a un’estesa unità rocciosa con alto contenuto di pirosseni ma la vista dall’orbita per ora la identifica come l’unica località che esponga con simili caratteristiche, fattore esclu¬sivo che aumenta il valore scientifico del campione. Le immagini di verifica al termine del prelievo, scat¬tate inquadrando la punta cava per svelarne il contenuto, non sembrano incoraggianti. A un primo sguardo la pun¬ta sembra vuota, ma le successive riprese con CacheCam (la camera dedicata all’osservazione dell’interno delle fiale immediatamente prima della loro chiusura) confer¬mano la presenza di campioni di materiale. Si tratta in ef¬fetti del prelievo più esiguo finora, solo 2,91 cm di roccia, ma tanto basta per dichiarare l’operazione un successo e poter così sigillare il 26esimo campione, battezzato Silver Mountain.
LA PUNTA SEMBRA VUOTA, MA AL SUO INTERNO CI SONO DEI PICCOLI FRAMMENTI DI ROCCIA. SOL 1401. NASA/JPL-CALTECH/PIRAS.CACHECAM CONFERMA LA PRESENZA DI ROCCIA ALL’INTERNO DELLA FIALA. SOL 1401. NASA/JPL-CALTECH.
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Oggi, lunedì 14 aprile, Blue Origin scriverà una nuova pagina nella storia dell’esplorazione spaziale con la missione NS-31, portando in volo suborbitale la prima equipaggiata interamente femminile dai tempi di Valentina Tereshkova, la pioniera sovietica del 1963.
Il decollo è previsto per le 13:30 UTC, dal Launch Site One di Blue Origin, situato a circa 50 km a nord di Van Horn, Texas. La diretta streaming sarà disponibile sul sito ufficiale di Blue Origin, su YouTube, su X (ex Twitter) e anche sul sito Space.com, a partire dalle 12:00 UTC, ovvero 90 minuti prima del lancio.
La missione durerà poco più di 10 minuti e attraverserà tutte le fasi classiche del volo suborbitale: dal distacco del booster, alla fase di microgravità oltre la linea di Kármán, fino all’atterraggio con paracadute nel deserto texano.
Un equipaggio eccezionale, sei storie da raccontare
La NS-31 sarà molto più di un semplice volo: rappresenta un messaggio di ispirazione, innovazione e inclusione, incarnato nelle sei protagoniste a bordo:
✦ Aisha Bowe
Ex ingegnera aerospaziale della NASA e CEO di STEMBoard, è un’attivista globale per l’educazione STEM. Aisha sarà la prima persona di discendenza bahamense a volare nello spazio. Con sé porterà cartoline scritte da studenti di tutto il mondo e condurrà tre esperimenti scientifici su biologia vegetale e fisiologia umana.
✦ Amanda Nguyễn
Scienziata specializzata in bioastronautica, attivista e nominata al Premio Nobel per la Pace. Ha lavorato con NASA, MIT e Harvard, contribuendo alla missione Kepler e allo Space Shuttle STS-135. Sarà la prima donna vietnamita e del Sud-est asiatico a volare nello spazio, unendo simbolicamente USA e Vietnam attraverso la scienza.
✦ Gayle King
Giornalista e conduttrice di CBS Mornings, è una delle voci più rispettate dei media americani. Ha deciso di accettare questa sfida come un passo fuori dalla sua “comfort zone”, portando con sé lo spirito di chi continua a esplorare, in ogni fase della vita.
✦ Katy Perry
Superstar globale della musica e UNICEF Goodwill Ambassador, Katy è impegnata da anni in cause educative e sociali. Vedere la Terra dallo spazio sarà per lei un messaggio potente rivolto a sua figlia e alle nuove generazioni: “Raggiungete le stelle, nel senso più letterale possibile”.
✦ Kerianne Flynn
Produttrice cinematografica e filantropa, ha firmato documentari sulla parità di genere e i diritti delle donne come This Changes Everything (2018). Per Kerianne, il volo spaziale è un’estensione naturale del suo spirito avventuroso e un’eredità da lasciare a suo figlio Dex.
✦ Lauren Sánchez
Pilota, giornalista premiata con un Emmy, vicepresidente del Bezos Earth Fund e fondatrice di Black Ops Aviation, la prima compagnia aerea cinematografica fondata da una donna. Il suo obiettivo dichiarato è ispirare la prossima generazione di esploratori, anche attraverso il suo recente libro per bambini The Fly Who Flew to Space.
Programma della missione (in orari UTC – Italy UTC+02):
13:30 – Decollo (liftoff)
13:32:40 – Separazione del booster
13:37:30 – Atterraggio del booster
13:40:30 – Atterraggio della capsula con l’equipaggio
Durante il volo, la capsula raggiungerà un’altitudine di oltre 100 km, attraversando la linea di Kármán, confine simbolico dello spazio. Il tutto si concluderà con un atterraggio dolce, grazie ai paracadute, nel deserto del Texas.
Dove vedere la diretta
📡 Lunedì 14 aprile, ore 12:00 UTC – Live streaming su:
CAPE CANAVERAL, Florida (AP) — Il telescopio spaziale James Webb ha catturato immagini dell’asteroide che, all’inizio di quest’anno, aveva fatto preoccupare gli scienziati, finendo in cima alla lista degli oggetti potenzialmente pericolosi per la Terra.
Scoperto alla fine del 2023, l’asteroide 2024 YR4 era stato inizialmente valutato con una probabilità del 3% di impattare la Terra nel 2032. Ma successive osservazioni hanno permesso agli scienziati di ridurre praticamente a zero questo rischio, dove rimane tuttora. Resta però una lieve possibilità che possa colpire la Luna. Questo asteroide compie un passaggio vicino alla Terra ogni quattro anni.
La NASA e l’Agenzia Spaziale Europea hanno diffuso mercoledì le immagini riprese da Webb, in cui l’asteroide appare come un piccolo punto sfocato. Secondo le due agenzie spaziali, Webb ha confermato che l’asteroide misura circa 60 metri di diametro, più o meno come un edificio di 15 piani. È l’oggetto più piccolo mai osservato da questo osservatorio, che è il più grande e potente mai lanciato nello spazio.
Questa immagine fornita dall’Agenzia spaziale europea mercoledì 2 aprile 2025, catturata dal telescopio Webb della NASA, mostra l’asteroide 2024 YR4. (Agenzia spaziale europea tramite AP)
L’astronomo Andrew Rivkin, della Johns Hopkins University, ha dichiarato che le osservazioni condotte con Webb sono state un esercizio “prezioso” in vista di eventuali asteroidi futuri che potrebbero rappresentare una minaccia. Anche telescopi da Terra hanno continuato a monitorare questo corpo celeste negli ultimi mesi.
«Tutto ciò — ha spiegato Rivkin in un comunicato — ci offre una finestra per comprendere meglio com’è fatto un oggetto delle dimensioni di 2024 YR4, incluso il prossimo che potrebbe dirigersi verso di noi».
Visuale verso sud nel Sol 1264. C’è un moderato effetto fisheye in questa foto della NavCam, ma quella che si vede è la montagna che a settembre ha messo alla prova Perseverance. NASA/JPL-Caltech/Piras
Indice dei contenuti
Intro
Vediamo insieme alcuni dei più interessanti aggiornamenti su Perseverance e un po’ di notizie relative a missioni spaziali del presente e del futuro che riguardano il Pianeta Rosso. Si parte!
La scalata di Perseverance
Il rover della NASA ha iniziato a fine agosto la sua ascesa verso sud dando inizio al quinto capitolo della sua esplorazione di Marte, la Crater Rim Campaign. In queste aree Perseverance sta affrontando alcune delle sue salite più ripide di sempre, guadagnando decine di metri in altezza nell’arco di poche settimane. Oltre agli spostamenti quasi quotidiani il rover ha sinora documentato anche l’abrasione di una roccia sedimentaria (vedi foto). Rilevazioni come questa saranno probabilmente ripetute lungo il percorso in modo da dare agli scienziati elementi per valutare come la geologia muti mentre il rover si allontana dagli scenari familiari che ha frequentato nei mesi passati tra Neretva Vallis e Bright Angel (l’area in cui, tra le altre cose, ha eseguito il suo ultimo prelievo e che risulta visibile nella zona più a nord della mappa).
Mappa con la posizione di Perseverance al 26 settembre (sol 1280 di missione). NASA/JPL-Caltech
Grazie alle posizioni sopraelevate che sta raggiungendo possiamo godere di spettacolari paesaggi attorno al rover acquisiti per mezzo delle NavCam e delle MastCam-Z. Le montagne più lontane risultano oscurate a causa delle tempeste di sabbia che affliggono questa zona di Marte. Oltre all’immagine in apertura di articolo vi propongo un panorama della regione frutto di un mosaico che si estende orizzontalmente. Tante altre foto trovano abitualmente spazio nelle pagine virtuali della rubrica ‘News da Marte’ ospitata sul sito di Coelum Astronomia.
Su questi tratti la navigazione procede a basse velocità, come deducibile dalle linee contorte in alto nella mappa e dall’alta densità di pallini bianchi. Ogni pallino rappresenta la posizione in un determinato Sol, quindi la distanza di un pallino da quello che lo precede indica quasi sempre lo spostamento che il rover ha compiuto in quella determinata giornata. Possiamo ragionevolmente supporre che la ragione dell’apparente lentezza non sia dovuta ad eventuali ostacoli del terreno da evitare (le immagini panoramiche non ne mostrano di rilevanti) ma piuttosto alle precauzioni adottate dai piloti che hanno fatto avanzare il robot su una collina parecchio scoscesa.
Foto della camera WATSON che documenta l’abrasione eseguita nel Sol 1257 (2 settembre). NASA/JPL-Caltech
Intorno al Sol 1264 (9 settembre) Perseverance è arrivato in un’area più pianeggiante e di lì a poco avrebbe potuto riprendere ad aumentare considerevolmente le distanze percorse giornalmente superando i 150 metri per Sol. Ma dopo alcuni giorni di terreni abbastanza monotoni c’è qualcosa che cattura l’attenzione dei geologi: è una roccia molto particolare, come mai ne erano state osservate prima su Marte, che viene battezzata Freya Castle.
Mosaico di immagini della Left MastCam-Z scattate nel Sol 1266 (11 settembre), la camera era puntata verso est. L’inquadratura inclinata non è un errore di processamento ma conseguenza della reale inclinazione del rover (la direzione della salita è verso destra rispetto all’immagine). NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras
Quella strana roccia a strisce
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Da decenni, l’umanità si interroga sulla possibilità di altre civiltà intelligenti nell’universo. L’equazione di Drake suggerisce che la nostra galassia potrebbe ospitarne milioni, eppure non abbiamo ancora ricevuto alcun segnale. Questo enigma, noto come paradosso di Fermi, ha dato vita a diverse ipotesi. Tra le più affascinanti, la teoria della selezione naturale cosmologica di Lee Smolin propone che gli universi si evolvano come organismi viventi, riproducendosi attraverso i buchi neri e favorendo condizioni adatte alla vita.
Facendo congetture ragionevoli circa i parametri che compaiono nell’Equazione di Drake – lo strumento matematico introdotto dall’astronomo americano Frank Drake nel 1961 per fornire una stima del numero di civiltà intelligenti nella nostra galassia – si arriva al risultato che, in questo preciso istante, ci potrebbero essere circa un milione di civiltà che cercano di comunicare tra cui molte sicuramente più avanzate della nostra ma, nella nostra ricerca di civiltà extraterrestri, ancora non abbiamo ricevuto alcun segnale. Questo paradosso – formulato da Enrico Fermi nel 1950 nel corso di un pranzo con Teller, York e Konopinski con la celebre domanda “Dove sono tutti quanti?”– non sta tanto nella non esistenza di civiltà extraterrestri, quanto piuttosto nel fatto che non incontriamo segnali di civiltà intelligenti mentre invece la nostra galassia, alla luce di congetture ragionevoli a partire dall’Equazione di Drake, dovrebbe brulicarne. Da oltre mezzo secolo sono state proposte varie soluzioni al paradosso di Fermi. Tra le soluzioni che prevedono che gli alieni sono già stati qui ma non ce ne siamo accorti, in particolare, il regno della fisica teorica ci prospetta una linea di pensiero che, se dimostrata, proverebbe l’esistenza di molti altri universi tendenti allo sviluppo di civiltà extraterrestri tecnologicamente avanzate; una congettura ancora più ardita implica che sarebbe stata proprio una di queste civiltà a creare il nostro universo. Ciò che è veramente interessante è che questa teoria porta ad una previsione precisa che può essere testata. Nell’ambito della ricerca di una teoria del tutto in grado di unificare tutte le forze della natura, abbiamo importanti indizi che portano ad un approccio teorico in cui i valori di tutta una serie di parametri (come le masse delle particelle elementari e l’intensità relativa delle forze fondamentali) devono essere inseriti “a mano”, cioè ad una teoria del tutto che non riesce a spiegare perché i parametri fondamentali hanno proprio i valori che osserviamo, il che significa che comporta l’esistenza di una moltitudine di universi possibili, ognuno dei quali avrebbe valori diversi per i vari parametri fondamentali. Ma per quali motivi i valori dei parametri fondamentali sono proprio quelli necessari alla vita?
Figura 1: Nella teoria della selezione naturale cosmologica, la singolarità al centro di un buco nero costituirebbe l’origine di un nuovo universo, diverso dal progenitore per i valori di alcuni parametri fondamentali.
Per rispondere a questo interrogativo esistono sostanzialmente tre linee di pensiero. Alcuni ritengono che tali valori siano stati disposti dal caso (ma, in base a calcoli eseguiti da Lee Smolin, fisico teorico del Perimeter Institute of Theoretical Physics di Waterloo, in Canada, la probabilità di incappare in un insieme di parametri casuali che portino ad un universo favorevole alla vita è addirittura di 1 su 10 229). Un secondo approccio consiste nel prendere in considerazione il principio antropico, l’idea che i parametri sono regolati su valori così improbabili proprio allo scopo di permettere il venire all’esistenza di creature razionali come noi, ma molti scienziati si sentono a disagio con ragionamenti di questo tipo. Un terzo approccio, sostenuto da Smolin, consiste nell’applicare l’evoluzionismo darwiniano alla cosmologia: secondo Smolin, le costanti – e forse anche le leggi – della fisica si sono evolute fino alla forma attuale seguendo un processo simile alla mutazione e alla selezione naturale, sulla base di processi di generazioni di nuovi universi da parte di buchi neri che si formano in un universo. Sulla base di questa visione, a livello cosmologico avrebbe luogo un processo analogo alla selezione naturale biologica: possono riprodursi solo gli universi che possiedono al loro interno il numero maggiore di buchi neri. In questo articolo, ci proponiamo di esplorare le prospettive introdotte da questo peculiare approccio cosmologico.
La Teoria di Smolin
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IMPIEGO DI FILTRI E CAMERE MULTISPETTRALI PER LA DIAGNOSTICA SU OPERE D’ARTE
La prima domanda da porsi è se sia possibile vedere l’invisibile. Apparentemente la risposta l’abbiamo già data: se è invisibile non si vede. Forse è utile cominciare dalle definizioni ufficiali che troviamo comunemente sui dizionari.
VISIBILE
Che può essere visto o percepito dall’occhio umano. In ottica si dice delle radiazioni elettromagnetiche percepite dall’occhio, corrispondenti al campo di lunghezze d’onda compreso tra i limiti convenzionali di 400 nm (estremo violetto) e 800 nm (estremo rosso) (fig. 1a e 1b).
Fig.1a – La radiazione elettromagnetica percepita dall’occhio – Fig.1b – Una superficie riflette alcune bande dello spettro elettromagnetico e l’occhio percepisce i colori.
INVISIBILE
Che non si può percepire con la vista (occhio umano), per la distanza, la dimensione o altro. Di cose che, per la loro distanza e piccolezza o per loro intrinseca natura, non si riesce a percepire con la vista (ma possono per lo più essere percepite con l’aiuto di strumenti) (fig. 2).
Fig. 2 – La parte di spettro elettromagnetico che è rilevabile solo strumentalmente.
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Le lucenti stelle blu, visibili in basso a destra in questa scintillante ripresa del telescopio James Webb, appartengono alla galassia nana irregolare Leo P, situata a circa 5 milioni di anni luce di distanza da noi nella Costellazione del Leone. Nella piccola galassia la formazione stellare è particolarmente attiva e sono presenti notevoli quantità di stelle blu, giovani e massicce. La struttura simile a una bolla bluastra visibile in basso nell’immagine è una regione ricca di idrogeno ionizzato, che circonda una calda e gigante stella di tipo O.
L’immagine ripresa dalla NIRCam (Near-Infrared Camera) a bordo del JWST combina dati nell’infrarosso a lunghezze d’onda di 0,9 micron (in blu), 1,5 micron (in verde) e 2,77 micron (in rosso). Le stelle di Leo P appaiono bluastre per vari motivi: galassie con formazione stellare attiva come questa sono ricche di stelle blu giovani e massicce. Inoltre Leo P è quasi priva di elementi più pesanti di idrogeno ed elio, di conseguenza le sue stelle povere di metalli tendono ad essere più blu rispetto alle stelle simili al Sole. La struttura simile a una bolla visibile in basso è una vasta regione HII che circonda una stella di tipo O, calda e massiccia. Credit: NASA, ESA, CSA, K. McQuinn (STScI), J. DePasquale (STScI)
Secondo gli astronomi le grandi galassie si formano grazie a un processo di “accrescimento gerarchico”, attraverso fusione e accrescimento di galassie minori. Le galassie di piccola massa sono le strutture galattiche più diffuse nell’Universo, ma sono anche estremamente sensibili alle perturbazioni interne ed esterne. Tuttavia, Leo P è un oggetto raro: al contrario di gran parte delle galassie nane osservabili, si trova in una posizione molto isolata, alla periferia estrema del Gruppo Locale cui appartiene anche la Via Lattea. Con il suo contenuto in metalli estremamente basso (appena il 3% degli elementi pesanti presenti nel Sole) e la sua bassa massa stellare (circa 400.000 masse solari), Leo P assomiglia molto alle mini-galassie che si sono formate all’alba dell’Universo e offre la possibilità di ricavare indizi sul loro aspetto, quale era miliardi di anni fa. Le galassie nane solitarie come questa, non soggette a fusioni o interazioni con altre galassie, potrebbero mantenere per miliardi di anni le loro proprietà originarie e costituiscono un eccellente laboratorio per studiare l’evoluzione galattica in un ambiente “incontaminato”. Utilizzando la Near-Infrared Camera (NIRCam) a bordo del telescopio Webb, un team di astronomi ha misurato luminosità e colore di oltre 15.000 singole stelle in Leo P. Si è scoperto che la mini-galassia, come le altre sue simili, ha cominciato a formare stelle attivamente ai primordi della storia universale, ma in seguito ha smesso improvvisamente, in un periodo di poco successivo all’Epoca della Reionizzazione. A questa pausa durata vari miliardi di anni è seguita un’insolita riattivazione dei fenomeni di formazione stellare, che perdura ancora oggi. L’Epoca della Reionizzazione, databile probabilmente tra 450 e 900 milioni di anni dopo il Big Bang, è quel periodo in cui il gas primordiale, una nebbia opaca di freddo idrogeno, passa dallo stato neutro a quello ionizzato, grazie alla radiazione energetica dei primi oggetti luminosi. In quell’epoca i fotoni ultravioletti ad alta energia riempirono il cosmo, surriscaldando forse il gas nelle galassie più piccole e sopprimendo così la loro capacità di produrre stelle. Un’altra possibilità è che molte stelle nelle galassie nane primordiali abbiano subìto esplosioni energetiche di supernovae, espellendo ad alta velocità nello spazio il gas molecolare indispensabile per formare nuove stelle. Le osservazioni hanno rivelato che oggetti simili a Leo P, ma inseriti in un ambiente popolato da altre galassie, hanno smesso definitivamente di formare stelle poco dopo l’Epoca della Reionizzazione, trasformandosi in galassie “spente”. Al contrario, Leo P, dopo una fase di “letargo” durata vari miliardi di anni, si è riaccesa di giovani luci stellari. Questa differenza di comportamento tra galassie nane isolate e galassie nane all’interno di ammassi suggerisce che, nel determinare la cessazione definitiva della formazione stellare, influisca anche l’ambiente circostante. Le mini-galassie isolate potrebbero avere chance migliori di accumulare nuovamente gas e riaccendere la formazione stellare, mentre quelle in ambienti più densi potrebbero trovarsi all’interno di aloni di gas caldo in grado di inibire il raffreddamento necessario per formare nuove stelle. Oppure potrebbero vedersi strappare via il gas da galassie più grandi nelle vicinanze, tramite deprivazione mareale. Osservazioni come questa possono aiutare gli astronomi a comprendere come le piccole strutture primordiali si siano evolute nel corso di miliardi di anni e quali processi dirigano la formazione delle galassie.
Collaborazione Internazionale
Il JWST, il più grande telescopio spaziale mai lanciato, è una partnership tra NASA, ESA e CSA. Grazie a strumenti avanzati come NIRSpec e MIRI, e al supporto europeo, il Webb continua a rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo primordiale.
Un’anomalia termica lontana dalle aurore gioviane ha sorpreso gli astronomi. Uno studio, guidato da Henrik Melin dell’Università di Leicester, rivela che un’improvvisa compressione del campo magnetico di Giove, provocata dal vento solare, ha generato un gigantesco riscaldamento atmosferico a latitudini inaspettate.
Il pianeta Giove è noto per le sue spettacolari aurore polari, generate dall’interazione tra il suo potente campo magnetico e particelle cariche provenienti sia dal Sole che dalla luna Io. Ma nel gennaio 2017, osservazioni effettuate con il telescopio Keck II alle Hawaii hanno rilevato qualcosa di inedito: una vasta regione atmosferica, lontana dai poli, con temperature superiori di 200 K rispetto alla media, in un’area di ben 180° di longitudine. L’anomalia, visibile solo per poche ore, ha sollevato interrogativi sulla sua origine.
Il team di ricercatori, tra cui anche membri della NASA e dell’Università del Colorado, ha utilizzato dati raccolti dalla sonda Juno e modelli avanzati del vento solare per ricostruire il contesto. Proprio in quelle ore, Giove aveva subito un impatto con un flusso solare ad alta velocità. Questo evento aveva compresso la magnetosfera, spingendo la sonda Juno fuori da essa per alcune ore e innescando, secondo gli autori, un processo simile a quanto avviene sulla Terra con le “Large-Scale Traveling Ionospheric Disturbances” (LSTIDs).4
Esempio di immagine ripresa dalla camera di guida NIRSPEC del telescopio Keck (in alto) e immagine spettrale corrispondente (in basso), registrate il 25 gennaio 2017 alle ore 11:42 UT. (In alto): immagine di Giove ottenuta con una camera di guida filtrata tra 2,134 e 4,228 μm, utilizzata per indicare la posizione della fenditura spettrale rispetto al pianeta. Durante tutta la sessione osservativa, la fenditura è stata mantenuta fissa in corrispondenza del mezzogiorno locale gioviano. Le regioni luminose nell’immagine corrispondono principalmente alla luce solare riflessa dai banchi di nubi di ammoniaca e dalle foschie polari. In alto a sinistra si può anche distinguere il satellite Europa. (In basso): immagine spettrale di Giove, suddivisa in due ordini spettrali, che mostra la radianza spettrale in funzione della lunghezza d’onda e della latitudine planetocentrica. Il metano assorbe fortemente la luce solare alle lunghezze d’onda più corte (a sinistra), mentre alle lunghezze d’onda più lunghe (a destra) prevale la luce solare riflessa. Le righe di emissione di H₃⁺ sono visibili in entrambi gli ordini spettrali e si estendono verticalmente dal polo nord (e oltre il bordo superiore del pianeta) fino a poco a sud dell’equatore.
“Questa ondata di calore potrebbe essere stata trasportata verso l’equatore da forti venti atmosferici, generati da un’improvvisa intensificazione dell’aurora,” scrivono gli autori, fra cui anche Tom Stallard e Henrik Melin dell’Università di Leicester. “Oppure potrebbe essere stata causata da un meccanismo energetico ancora sconosciuto, legato alla magnetosfera interna.”
Utilizzando osservazioni spettroscopiche infrarosse e sofisticate simulazioni, il team ha calcolato che l’anomalia si è spostata verso sud con velocità comprese tra 0,46 e 2,02 km/s, valori sorprendentemente simili a quelli osservati sulla Terra durante eventi aurorali estremi. La temperatura raggiunta in alcuni punti ha toccato i 950 K, un valore di norma riservato alle regioni aurorali polari.
Ma c’è di più: la posizione della regione calda non coincideva con aree di alta densità di H₃⁺ (l’idronio ionico), un tipico indicatore di riscaldamento da particelle precipitate, il che suggerisce un’origine dinamica piuttosto che locale.
I modelli solari HUXt e Tao-MHD, insieme ai dati in situ della sonda Juno (equipaggiata con lo strumento Waves), confermano che l’ambiente spaziale di Giove stava vivendo un momento di forte turbolenza. “L’emissione radio tipica del plasma magnetosferico era scomparsa e poi riapparsa, un chiaro segnale che la sonda era temporaneamente uscita dalla magnetosfera, schiacciata dal vento solare,” riportano gli autori.
Questa scoperta ha importanti implicazioni: l’influenza del vento solare si estende ben oltre le regioni aurorali, modificando l’intero bilancio energetico dell’alta atmosfera di Giove. Una dinamica che, finora, era stata considerata secondaria rispetto ai processi interni del pianeta.
Proiezioni cartografiche delle temperature di Giove e analisi della struttura calda osservata al di sotto della fascia aurorale, tutte registrate in corrispondenza del mezzogiorno locale del pianeta. Pannello a: mostra le temperature in funzione della longitudine e della latitudine, con l’ovale principale dell’aurora evidenziato in nero. Questo ovale rappresenta le regioni collegate magneticamente lungo le linee di campo fino a una distanza di 25 raggi gioviani nel piano equatoriale del pianeta. Pannello b: rappresenta una porzione del pannello a, in proiezione equirettangolare, e include l’adattamento al centro della struttura calda. Qui, la struttura è collegata ai punti dell’aurora a essa più vicini (seguendo il percorso più breve sulla superficie sferica, o “cerchio massimo”) tramite frecce nere. Sono inoltre sovrapposte le impronte magnetiche relative a distanze equatoriali di 5,9 raggi gioviani (l’orbita di Io) e 2,0 raggi gioviani. Pannello c: indica a quali regioni della magnetosfera equatoriale corrisponde la struttura calda, in termini di distanza dal centro del pianeta espressa in raggi gioviani (noti anche come L-shell). Pannello d: mostra la distanza tra la struttura calda e l’ovale aurorale, utilizzata per calcolare la velocità del movimento. Le velocità sono ottenute dividendo la variazione di distanza per l’intervallo temporale tra i punti di osservazione. In totale sono state determinate sei velocità, ciascuna calcolata da coppie di punti distanziati da un dato intermedio. Un esempio è riportato nel corpo del testo, con dettagli sul modello magnetico utilizzato. Le barre d’errore nei pannelli b e d derivano dalle incertezze nel puntamento del telescopio e dalle condizioni atmosferiche durante le osservazioni. Il pannello b è riportato nuovamente nella Figura S4 (nei materiali supplementari) per offrire una visione libera da annotazioni della struttura calda.
Il fenomeno osservato rappresenta la prima prova diretta di un meccanismo globale di trasporto termico atmosferico scatenato da un evento solare, e apre la strada a nuove indagini sia teoriche che osservazionali. In futuro, studi continui su più rotazioni gioviane potranno stabilire se questi eventi sono isolati o se rappresentano un elemento ricorrente del comportamento atmosferico di Giove.
Messier 21 è un giovane ammasso aperto situato nella costellazione del Sagittario, scoperto da Charles Messier nel 1764. Composto da circa 105 stelle, include anche giovani astri in formazione. Appartenente all'associazione Sagittarius OB1, si distingue per compattezza e per la “Croce di Webb”, una curiosa configurazione stellare.
Indice dei contenuti
Introduzione
Con Messier 21 approdiamo nuovamente agli ammassi aperti. Questi oggetti celesti, a differenza degli ammassi globulari, sono formati da un gruppo (che può essere anche di migliaia) di stelle nate nello stesso periodo da una nube molecolare gigante. Un esempio facile da ricordare per questa categoria è l’ammasso delle Pleiadi (M45) nella costellazione del Toro.
Storia delle osservazioni
M21 è situato nella Costellazione del Sagittario, e fu scoperto da Charles Messier il 5 giugno 1764, mentre era impegnato nella ricerca di comete. Lo descrisse come un “ammasso di stelle vicino al precedente” (riferendosi a Messier 20, la Nebulosa Trifida), osservando stelle di magnitudine 8 e 9 apparentemente immerse in una nebulosità diffusa. Tuttavia, il suo strumento non permise di distinguere con chiarezza l’ammasso, e l’impressione di una nebulosità si rivelò in seguito errata. L’ammasso non ricevette particolare attenzione nelle decadi successive. Né l’astronomo inglese William Herschel né suo figlio John fornirono descrizioni dettagliate, mentre l’ammiraglio William Henry Smyth lo osservò nel 1835 e lo descrisse come “un ammasso grossolano di stelle telescopiche, in una regione ricca della galassia”, notando una coppia stellare prominente al centro. Negli anni successivi, le osservazioni confermarono la presenza di stelle di tipo spettrale B0 e B1, suggerendo che si trattasse di un ammasso molto giovane. Solo con studi più recenti, grazie a osservazioni spettroscopiche e fotometriche, è stato possibile determinare con maggiore precisione l’età e la composizione di M21. Gli studi indicano che l’ammasso ha circa 4.6 milioni di anni, con una popolazione stellare che mostra una formazione relativamente omogenea.
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A.R.A.R. (ARAR Aps – Associazione Ravennate Astrofili Rheyta) e A.A.F. (Gruppo Astrofili Astro Amici Forlivesi) organizzano uno Star Party Romagnolo di fine primavera nelle colline degli Appennini, aperto a tutti gli appassionati (visualisti, astrofotografi, fotografi, curiosi).
Nella giornata di sabato si svolgeranno alcune attività aperte a tutti: prova di strumentazioni, confronti, osservazione del Sole con strumenti adeguati, cottura pietanze con forni solari e spiegazione della tecnica (a cura di Matteo Muccioli), laboratori e conferenze (con l’Astronomo Luca Angeretti alias Omino delle Stelle. Sarà inoltre presente il negozio Adriasky di Rimini con novità e strumenti. Infine ci sarà la possibilità di partecipare, nella giornata di sabato, al mercatino in cui ognuno potrà vendere e/o comprare accessori/strumenti ecc.
L’appuntamento è per l’ultimo week-end di maggio, da venerdì 30 maggio a domenica 1 giugno 2025, nella suggestiva location, immersa nel verde, di Corte San Ruffillo (via San Ruffillo, 12 – Dovadola FC).
La teoria della Relatività Generale di Albert Einstein, formulata all’inizio del secolo scorso (per la precisione nel 1915), è stata una delle più sorprendenti teorie scientifiche della storia dell’umanità e ha rivoluzionato la nostra conoscenza del cosmo. Einstein soppianta il concetto classico di forza, che si utilizzava nella descrizione della gravità classica elaborata da Newton, e ne rivoluziona i concetti base. Tempo e spazio non sono più enti assoluti, ma co-protagonisti negli eventi fisici. Massa ed energia modificano spazio e tempo. La gravità è quindi la manifestazione della curvatura dello spazio-tempo, che a sua volta influenza i percorsi dei corpi, con massa, come pianeti e stelle, oppure senza massa, come i fotoni, i costituenti della luce.
Indice dei contenuti
Le predizioni della Relatività Generale
Come qualsiasi teoria fisica che si rispetti la Relatività Generale ha risolto un problema che attanagliava le menti di fisici e astronomi. Ha riprodotto esattamente l’angolo di precessione del perielio dell’orbita di Mercurio e ha predetto fenomeni ed eventi dei quali si ignorava l’esistenza. Tra le prime intuizioni della Relatività Generale, numericamente verificate dalle osservazioni, c’è l’effetto di deflessione della luce a causa della curvatura dello spazio-tempo ad opera di un corpo celeste, come una stella. Einstein predice che la posizione apparente di una stella (sorgente) che si trovi sul bordo del Sole (lente) dovrebbe essere spostata di circa 1.75 secondi d’arco (un angolo 1000 volte inferiore a quello che sottende la Luna nel cielo) rispetto alla sua posizione vera. La teoria della gravitazione classica di Newton prediceva un valore esattamente pari alla metà. In quegli anni ci si chiedeva quindi chi avesse ragione e in occasione di una eclissi di Sole, Sir Arthur Eddington, misurò un valore prossimo a quello della predizione della Relatività Generale, dando ragione ad Einstein e alla sua idea rivoluzionaria. Era stata osservata la prima lente gravitazionale, un vero e proprio miraggio creato dalla gravità. A seguire, attraverso la risoluzione delle complesse equazioni della Relatività Generale è stata anche ipotizzata l’esistenza di corpi celesti con una gravità così intensa da trattenere la luce, e che corpi in rotazione producono delle onde che si propagano all’interno del substrato dello spazio-tempo. Stiamo parlando di buchi neri e onde gravitazionali, osservati un secolo dopo la loro formulazione teorica, fornendo ulteriori decisive conferme della bontà della teoria di Einstein. La Relatività Generale è anche alla base della migliore descrizione che abbiamo del nostro universo, permettendoci di spiegare l’allontanamento accelerato delle galassie attraverso un modello cosmologico di riferimento nel quale l’universo nasce da un Big Bang e si espande indefinitamente.
Questa immagine schematica rappresenta come la luce di una galassia distante (sorgente) venga distorta dagli effetti gravitazionali di una galassia più vicina, che agisce come una lente e fa apparire la sorgente distante distorta e più luminosa, formando caratteristici anelli di luce noti come anelli di Einstein. (Crediti: ALMA (ESO/NRAO/NAOJ), L. Calçada (ESO), Y. Hezaveh et al.)
Lenti gravitazionali
I miraggi gravitazionali sono diventati sempre più comuni negli ultimi decenni. Inizialmente, il fenomeno è stato osservato all’interno della nostra galassia, dove stelle deflettevano la luce di altre stelle, sia nella Via Lattea sia in galassie vicine.
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Un nuovo studio pubblicato su Nature (Bellinger et al., 2024) ha identificato una caratteristica sorprendente nelle oscillazioni acustiche di stelle in fase avanzata di evoluzione. Analizzando 27 stelle subgiganti e giganti rosse dell’ammasso aperto M67, gli autori hanno individuato un plateau nelle “piccole separazioni” sismiche, legato alla profondità della zona convettiva. Un risultato che apre la strada a nuove stime di massa e età per le stelle giganti rosse nel campo.
Le oscillazioni acustiche: la voce interna delle stelle
Le oscillazioni di pressione (p-mode) nelle stelle simili al Sole sono causate dalla convezione superficiale. Le frequenze delle onde acustiche dipendono dalla struttura interna: le cosiddette “large separations” (Δν) misurano la densità media, mentre le “small separations” (δν₀,₂) – la distanza tra i modi di grado ℓ=0 e ℓ=2 – riflettono le condizioni nel nucleo. Queste ultime sono particolarmente utili per stimare l’età delle stelle nella sequenza principale.
Con l’evoluzione stellare però, quando il nucleo diventa inerte e la convezione si approfondisce, le small separations perdono il legame diretto con il nucleo e si credeva diventassero proporzionali a Δν, perdendo potere diagnostico. Ma le nuove osservazioni smentiscono questa ipotesi.
Una firma nel diagramma C–D: il plateau delle frequenze
Utilizzando i dati della missione Kepler/K2, il team ha ottenuto spettri ad alta precisione per un campione uniforme di stelle appartenenti all’ammasso M67 (NGC 2682), un sistema noto per la sua età ben determinata (circa 3.95 miliardi di anni) e una popolazione stellare omogenea.
Nel diagramma asterosismico C–D (Δν contro δν₀,₂), gli autori hanno individuato un plateau ben definito tra 17 e 22 μHz, un comportamento inaspettato che coincide con l’approfondirsi della zona convettiva dell’inviluppo. Questa discontinuità chimica interna provoca un’anomalia sismica nota come “acoustic glitch”, ovvero un’impronta nel profilo delle frequenze acustiche.
Il ruolo degli istituti di ricerca coinvolti
Lo studio è stato guidato da Earl P. Bellinger del Max Planck Institute for Astrophysics in collaborazione con scienziati di:
Università di Aarhus (Danimarca) – specializzata in asterosismologia tramite la Stellar Astrophysics Centre
Il team ha confrontato i dati con modelli teorici variando il fattore di “overshooting”, cioè il grado con cui i moti convettivi superano i confini stabiliti. Solo il modello con overshooting solare calibrato riproduce correttamente il plateau osservato.
Come affermano gli autori: “Il plateau sismico osservato nel diagramma C–D fornisce un nuovo vincolo sulla profondità raggiunta dalla zona convettiva e sulla composizione chimica interna delle stelle giganti.” — Bellinger et al., 2024
Un nuovo indicatore di massa e età stellare
Il plateau non è esclusivo di M67. Simulazioni su stelle con metallicità solare e masse tra 0.8 e 1.6 M⊙ mostrano un comportamento simile. Poiché la posizione del plateau varia con la massa, il diagramma C–D può essere utilizzato per datare stelle rosse isolate, fornendo nuovi strumenti per ricostruire l’evoluzione stellare e la cronologia della Via Lattea.
Dalla metà degli anni 70 dello scorso secolo, l’Italia fu attraversata da un’onda di interesse verso l’astronomia e, più in generale, le materie legate allo spazio, a seguito delle prime imprese spaziali e, in particolare, dell’enorme sforzo in campo astronautico da parte degli USA e dell’URSS. Il risultato più concreto è stata la costituzione di associazioni di appassionati a questa materia che avevano come obiettivo lo studio e l’osservazione del cielo. È in questo contesto che il 28 dicembre 1974 è stata costituita in Napoli, con atto privato, l’Unione Astrofili Napoletani (UAN).
Scansione dell’originale del verbale della prima riunione e della costituzione dell’UAN.
I 12 soci fondatori, alcuni provenienti da precedenti esperienze associative, si incontrarono per gettare le basi per un’associazione che tenesse a cuore non solo lo studio dell’Astronomia e delle discipline affini, sia dal punto di vista sperimentale che teorico, ma anche la divulgazione di questa materia al più vasto pubblico e il sostegno alla didattica scolastica.
Sin dall’inizio, la scelta degli obiettivi dell’associazione è stata di apertura a tutti gli interessati, qualsivoglia fosse il loro livello di interesse, cercando di raccogliere i cultori ma anche i curiosi dell’astronomia e delle scienze affini, in un’ottica di associazione generalista che ponesse sullo stesso piano le attività osservative con quelle culturali in senso più ampio, dall’Astronomia Culturale e dalla Gnomonica sino all’osservazione e allo studio di luna, pianeti, stelle variabili e, più recentemente, degli esopianeti, con osservazioni visuali, digitali, fotometriche e radioastronomiche.
Dopo aver festeggiato lo scorso 28 dicembre 2024 il cinquantesimo anniversario dalla fondazione, il Consiglio Direttivo dell’UAN ha deciso di dedicare tutto il corrente anno per ricordare il primo anno di attività dell’UAN, attraverso l’organizzazione di varie attività a livello locale e nazionale, come il LVIII Congresso della Unione Astrofili italiani (UAI), il IX Convegno Annuale della Sezione Didattica della UAI (vedi box) e il XXXIII Convegno Nazionale del Gruppo Astronomia Digitale.
Ripercorrere i cinquanta anni di ininterrotta attività della UAN e fare una scelta tra quanto realizzato non è cosa facile. In questi 50 anni oltre 2600 appassionati hanno aderito all’UAN; alla data odierna, sono regolarmente iscritti 210 soci. Come in altre realtà simili, c’è un gruppo di soci che, con entusiasmo e dedizione, gestiscono l’insieme delle attività che negli anni si sono ampliate, uscendo fuori dal territorio cittadino e proiettandosi nella più ampia Città Metropolitana di Napoli ed oltre. Qui di seguito sono riportate alcune delle realizzazioni più significative che hanno segnato questi anni e che rappresentano in modo concreto il risultato dell’impegno di tanti soci. Infatti, i risultati conseguiti sono il frutto di una attività di collaborazione e condivisione che, pur partendo da una proposta avanzata da un singolo socio, hanno trovato la loro realizzazione grazie al contributo di più soci. Poiché tanti sono stati i soci che si sono avvicendati sia nella composizione dei consigli direttivi sia nelle varie attività sperimentali e culturali, non è qui possibile darne un elenco esaustivo senza rischiare di dimenticarne qualcuno. Di seguito è l’elenco dei Presidenti che si sono succeduti alla direzione dell’associazione in questi cinquant’anni, in ordine alfabetico: Edgardo Filippone, Francesco Franchini, Luca Orazzo, Franco Ruggieri, Emilio Tagliaferri, Andrea Tomacelli. Già dopo qualche mese dalla fondazione, furono intrapresi contatti con l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte (OACN), all’epoca diretto dal professor Mario Rigutti, che in altre occasioni aveva dimostrato il suo interesse ad accogliere in Osservatorio appassionati di astronomia partenopei. Nel marzo del 1976 i rapporti si concretizzarono con l’accogliere soci dell’UAN all’interno dell’OACN, con la possibilità di utilizzare in autonomia un rifrattore storico con tripletto obiettivo da 180 mm f:17 costruito da Fraunhofer agli inizi dell’ ‘800, posto nella Torre Ovest sul piazzale dell’Osservatorio. Iniziò quindi il coinvolgimento della UAN in attività di divulgazione al pubblico e alle scuole dell’astronomia, in collaborazione anche con la Società Astronomica Italiana. Questa collaborazione, precedentemente riconosciuta con uno scambio di lettere tra il Direttore dell’Osservatorio e il Presidente dell’UAN, si tramutò nel 1992 in una convenzione ufficiale tra l’OACN e l’UAN con la quale si dava all’associazione la disponibilità d’uso di un locale dove riunire i soci per scopi esclusivamente legati allo studio dell’Astronomia, di un locale dove riunire i soci e di due cupole sul terrazzo dell’osservatorio dove porre le attrezzature dell’associazione. La sede può accogliere sino a 25 persone e ospita la biblioteca dell’UAN oltre che il sistema di videoproiezione per le riunioni, che si tengono quasi quotidianamente da parte dei vari Gruppi e Sezioni che raccolgono i soci con interessi comuni.
Sede Sociale dell’UAN ospitata nel locale sottostante la Torre Ovest con la biblioteca.Interno della Cupola Est con il telescopio Celestron C11 dell’UAN su montatura 10Micron GM2000.
Nelle due cupole sul terrazzo dell’OACN sono presenti telescopi dell’UAN, impiegati per le osservazioni dei soci e coinvolti in attività di partecipazione a progetti di ricerca amatoriali e di professionisti. Inoltre, sempre in Osservatorio, l’UAN ha installato più di recente una stazione remotizzata intitolata ad Attilio Colacevich, primo astronomo dell’OACN a introdurre l’osservazione fotometrica delle stelle negli anni ’50. La stazione a tetto scorrevole permette di fare osservazioni digitali del cielo in remoto, con un telescopio SC da 250 mm f:6,3. Con questo strumento, soci aderenti alla Sezione Esopianeti e Stelle Variabili oltre a seguire alcuni programmi osservativi di esopianeti hanno scoperto alcune stelle variabili a corto periodo.
Stazione osservativa “Colàcevich” progettata e costruita dall’UAN col tetto scorrevole aperto e vista del telescopio remotizzato Meade SC 250 mm f:6,3. In secondo piano la Cupola Est dell’OACN.
La città di Napoli ospita il più grande museo delle scienze dell’Italia meridionale: si tratta della Città della Scienza, che dal 1988 organizza ogni anno la manifestazione Futuro Remoto, visitata da migliaia di curiosi di ogni età. L’UAN partecipa ininterrottamente dal 1983 con osservazioni e una postazione fissa dove sono svolti semplici esperimenti che coinvolgono i visitatori.
Durante tutto l’anno l’UAN propone almeno un’attività al mese di osservazione del Sole e dimostrazioni su teoria e pratica d’uso di orologi solari, assieme a una presentazione nel grande planetario Digistar della Evans & Sutherland da 120 posti. Anche con Città della Scienza l’UAN ha in essere una convenzione per la progettazione e lo svolgimento di attività di divulgazione scientifica rivolta in particolare agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado. Recentemente, particolare successo ha avuto l’attività di gamification ed escape room, proposte di soci del Gruppo Costellazioni per la prima volta proprio alle ultime edizioni di Futuro Remoto. Proprio il Gruppo Costellazioni è stato l’artefice della trasformazione delle costellazioni della cultura occidentale in altre che rispecchiano la cultura partenopea: sono così nate le costellazioni napoletane, che sono state accolte ed inserite tra le costellazioni di varie culture disponibili nel programma di planetario digitale Stellarium e scaricabili gratuitamente dal sito stellarium.org.
Orologio Solare, Piazzale Tecchio a Napoli. Torre del Tempo e della Vita, l’elemento centrale alto 29m è lo gnomone dell’orologio solare progettato dall’UAN.
Un altro campo dell’astronomia dove sin dalla costituzione dell’UAN si sono cimentati soci dell’associazione è stata l’attività di studio e progettazione di orologi solari, portata avanti dalla Sezione Gnomonica. Nel 1990, in occasione dei mondiali di calcio, l’UAN fu contattata al fine di progettare un orologio solare orizzontale che sarebbe stato installato nell’area di Piazzale Tecchio prospiciente lo stadio San Paolo, oggi stadio Maradona e l’ingresso della Mostra d’Oltremare. Il progetto fu approvato e l’installazione gnomonica è risultata tra i più grandi orologi solari orizzontali italiani dell’era moderna, con il suo gnomone alto 29 m. Altre installazioni gnomoniche curate dall’UAN sono stati i rifacimenti nel 1980 di due orologi solari verticali per il Castello borbonico nel Parco Gussone della Reggia di Portici e nel 2015, in occasione della risistemazione del giardino prospiciente la Reggia stessa, sede dal 1864 della Reale Scuola di Agricoltura, poi della Facoltà di Agraria e dal 2012 del Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, la progettazione di un orologio azimutale-analemmatico, oggi facente parte del Museo delle Scienze Agrarie. L’orologio è diventato un elemento caratterizzante di questo giardino e della Reggia, meta di turisti oltre che di scolaresche in visita al sito storico.
Orologio azimutale-analemmatico progettato dall’UAN e installato nel giardino verso il mare della Reggia borbonica a Portici, Napoli.
Sempre per quanto riguarda le attività di Astronomia Culturale, sin dalla fondazione dell’UAN soci interessati all’archeoastronomia hanno portato avanti ricerche sul campo per rilevare e studiare l’orientamento e l’allineamento di templi e chiese presenti nell’area campana e regioni limitrofe, per trovarne relazioni con particolari fenomeni astronomici, principalmente con i solstizi e gli equinozi. In questo contesto sono stati scoperti, in particolare. due calendari lunari nel parco archeologico di Cuma, nelle vicinanze del cosiddetto antro della Sibilla Cumana.
La fotografia degli oggetti celesti e sempre stata al centro dell’attenzione del mondo della astrofilia. Purtroppo, la città di Napoli e i comuni limitrofi sono segnati da un forte inquinamento luminoso e atmosferico: all’epoca dell’astrofotografia basata sulle pellicole non era possibile pensare di ottenere immagini almeno sufficienti degli oggetti del profondo cielo dalla città. Tuttavia, in questi ultimi anni, la rivoluzione digitale ha consentito agli astrofili che abitano in zone segnate dall’inquinamento di ottenere risultati impensabili solo vent’anni fa. La Sezione Astrofotografia dell’UAN si è impegnata da una parte a dare un supporto a quanti siano interessati all’astrofotografia digitale e dall’altra a sviluppare tecniche al fine di ottenere i migliori risultati sotto i cieli della città. Così è nato il progetto “Il cielo possibile”, basato sull’impiego di filtri e di tecniche di ripresa che riducano al massimo gli effetti dell’inquinamento, rendendo possibile ottenere immagini soddisfacenti di oggetti del profondo cielo. Il progetto si è tramutato in una serie di roll up riportanti alcune foto esplicative dei risultati ottenibili dalla città, che sono mostrati nei luoghi dove l’associazione organizza attività pubbliche, per promuovere l’osservazione digitale anche dalla città, senza per altro rinunciare alle trasferte e star party che, però, possono essere fatte solo in alcuni periodi dell’anno e in luoghi lontani dalla propria postazione “casalinga”.
Planetario progettato e realizzato da soci dell’UAN per l’Istituto Comprensivo Virgilio 4 di Scampia, Napoli.
L’attività di divulgazione e di sostegno alla didattica della UAN è stata rivolta anche alle zone del disagio della città di Napoli, con eventi portati nella periferia della città. In questo contesto è stato dato avvio ad una collaborazione con l’Istituto Comprensivo Virgilio 4 del quartiere Scampia. Qui, circa dieci anni fa un gruppo di soci ha realizzato un planetario, costruendo completamente la struttura reggente una cupola di 3 metri di diametro, anch’essa realizzata ex novo in vetroresina, posizionandolo poi all’interno di un’aula. Il proiettore del planetario è di tipo analogico, modello GOTO3. Il planetario è stato inaugurato nel 2016 e in questi anni è stato impiegato per dimostrazioni agli studenti della scuola elementare e media, guidati da insegnanti per i quali l’UAN ha organizzato incontri di addestramento all’uso del planetario e di illustrazione dei sistemi di coordinate e di astronomia di base, utili per le dimostrazioni agli studenti. Al fine di organizzare al meglio le attività di sostegno alla didattica, è stato costituito il Gruppo Didattica UAN al quale partecipano docenti iscritti all’associazione, che coniugano quindi il loro interesse per l’astronomia in qualità di docenti e anche come astrofili, partecipando attivamente anche alle attività di divulgazione al pubblico e di osservazione al telescopio.
IX Convegno Nazionale di Didattica dell’Astronomia UAI, organizzato dall’Unione Astrofili Napoletani (UAN), ha avuto luogo presso l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte. Questa sede, simbolica e strategica, è un punto di riferimento per gli appassionati di astronomia e osservazioni celesti. Il convegno ha avuto con la presentazione delle attività della Sezione Nazionale di Didattica dell’Astronomia UAI mentre un momento significativo è stato l’intervento di Edgardo Filippone, che ha illustrato l’impegno dell’UAN nel campo della didattica, sono seguite le diverse presentazioni, che hanno coinvolto docenti ed astrofili, si sono concentrate su esperienze didattiche innovative e approcci personalizzati, offrendo spunti interessanti per l’insegnamento dell’astronomia. Nel pomeriggio, una visita guidata dell’Osservatorio ha offerto ai partecipanti l’opportunità di osservare il Sole attraverso un telescopio. Il convegno ha rappresentato un’occasione preziosa per approfondire la didattica dell’astronomia, creando un ponte tra conoscenza teorica e applicazione pratica, il tutto in un contesto di grande fascino e tradizione scientifica e sotto il Sole della bella Napoli. Tutti i presenti hanno ricevuto in omaggio una copia della rivista Coelum Astronomia, era presente anche la Direttrice Molisella Lattanzi, un gesto che ha sottolineato l’importanza della condivisione della conoscenza e della passione per l’astronomia.
Il pianeta WD 0806-661 b ruota intorno alla stella nana (A). Crediti: NASA
Nell’Universo post-stellare, là dove le stelle si spengono e restano come fioche nane bianche, può accadere qualcosa di straordinario: un pianeta sopravvive, e la sua atmosfera continua a raccontare la sua storia. È il caso di WD 0806-661 b, un esopianeta freddissimo, la cui atmosfera è stata studiata per la prima volta in dettaglio grazie alla straordinaria sensibilità del James Webb Space Telescope (JWST).
Il contesto: un campo ancora inesplorato
Gli esopianeti che orbitano attorno a nane bianche – le stelle giunte al termine del loro ciclo evolutivo – sono oggetti estremamente rari e difficili da osservare. La loro atmosfera, in particolare, rappresenta una sfida quasi impossibile per l’osservazione diretta. In questo contesto, WD 0806-661 b, scoperto da K. L. Luhman et al. nel 2011, rappresenta un caso eccezionale: un oggetto planetario a 2500 unità astronomiche dalla sua stella madre, con una temperatura stimata tra i 300 e i 345 K, simile a quella di un frigorifero.
Il ruolo cruciale del JWST
Lo studio, condotto da un team internazionale guidato da D. Barrado, H. Kühnle, Q. Changeat, B. E. Miles e altri, ha utilizzato lo spettrometro a bassa risoluzione MIRI-LRS (Mid-InfraRed Instrument – Low Resolution Spectrometer) a bordo del JWST, insieme all’Imager MIRI per misure fotometriche a 12.8, 15, 18 e 21 μm. I dati sono stati acquisiti nell’ambito del programma GTO 01276 (PI: Lagage), il 14 luglio 2023.
Un’atmosfera fatta di metano, acqua e ammoniaca
Attraverso un’elaborazione sofisticata dei dati e un’analisi di retrieval basata sul codice TauREx (Al-Refaie et al. 2021), gli scienziati sono riusciti a determinare la composizione atmosferica del pianeta. Sono state rilevate tre molecole chiave:
Metano (CH₄)
Ammoniaca (NH₃)
Vapore acqueo (H₂O)
Queste molecole definiscono una tipica atmosfera da “Giove freddo”, simile a quella dei giganti gassosi del Sistema Solare. I rapporti tra gli elementi principali mostrano un valore C/O = 0,34 ± 0,06 e N/O = 0,023 ± 0,004, in linea con altri oggetti della classe Y0, freddi e poco luminosi.
Nessuna nuvola… per ora
Nonostante il profilo temperatura-pressione del pianeta attraversi la curva di condensazione dell’acqua, l’analisi non ha rilevato la presenza di nubi di ghiaccio d’acqua o ammoniaca. Anche l’eventuale presenza di foschia o particelle opache è risultata trascurabile. Il modello privo di nuvole risulta quello statisticamente più solido.
Il mistero della massa e la chimica dell’ammoniaca
Una delle sorprese maggiori emerse dallo studio riguarda la massa del pianeta, stimata tra 0,45 e 1,75 masse gioviane: un valore significativamente più basso di quanto previsto dai modelli evolutivi, che la collocavano tra 6,3 e 9,4 MJ. Questo potrebbe significare che WD 0806-661 b è un oggetto giovane formatosi successivamente alla morte della stella madre. Una possibilità affascinante è che sia stato catturato gravitazionalmente dal sistema.
Altro elemento inaspettato è l’aumento dell’ammoniaca agli alti strati atmosferici, un comportamento che i modelli chimico-fisici faticano a spiegare. Si ipotizzano meccanismi dinamici non ancora compresi, come onde di gravità o convezione di tipo diabatica.
Una combinazione futura di osservazioni con lo strumento NIRSpec potrebbe fornire dati complementari sulle nubi e migliorare i vincoli su massa e composizione. I risultati ottenuti mettono in evidenza l’importanza di modelli atmosferici sempre più raffinati, che integrino anche scenari di formazione post-stellare.
Una nuova cometa sta attirando l’attenzione di astronomi professionisti e amatoriali: si tratta della C/2025 F2 (SWAN), scoperta di recente grazie alle immagini della camera SWAN (Solar Wind Anisotropies), montata a bordo della sonda SOHO, frutto della collaborazione tra NASA ed ESA. Prima di ricevere la designazione ufficiale dal Minor Planet Center (MPC), la cometa era conosciuta con il nome provvisorio SWAN25F.
Uno dei co-scopritori è l’astrofilo australiano Michael Mattiazzo, che aveva già individuato una cometa nel 2020 utilizzando lo stesso metodo, ovvero analizzando le immagini SWAN pubblicamente accessibili.
Dopo la conferma è stata “battezzata” C/2025 F2 SWAN.
L’ oggetto è molto promettente ed è già stato valutato tra l’ottava e la nona magnitudine. Il perielio è previsto il primo maggio, con un passaggio a circa 50 milioni di chilometri dal Sole. In quel momento la F2 SWAN potrebbe raggiungere la quinta magnitudine, forse la quarta, diventando teoricamente visibile ad occhio nudo. Le condizioni prospettiche però ben difficilmente permetteranno di avvistarla senza strumenti.
Di certo la cometa si renderà visibile in piccoli binocoli sotto cieli ideali. Attualmente l’oggetto si trova all’interno del Quadrato di Pegaso, mentre dal 13 aprile si trasferirà in Andromeda.
Occorre anche ricordare in questi giorni la luna disturba non poco le osservazioni e lo farà fino a dopo il 20 aprile. In questo periodo le sessioni andranno condotte poco prima del termine della notte astronomica.
Dal giorno 24, senza Luna, troveremo l’ “astro chiomato” in condizioni migliori dopo il tramonto tra le stelle del Triangolo, anche se sarà sempre più basso sull’orizzonte, tanto che a inizio maggio, quando avvicinerà le Pleiadi, non sarà facile rintracciarlo e successivamente impossibile.
Percorso della cometa C/2025 F2 SWAN dall’11 aprile al 05 maggio.
La C/2025 F2 SWAN arriva in un periodo poverissimo di comete luminose e vale senz’altro la pena fare qualche sacrificio per seguire il suo scomodo ma interessantissimo transito, che potrebbe riservare emozioni e sorprese.
Secondo il professor Paul Wiegert del dipartimento di fisica e astronomia della Western University (Canada), si ritiene che C/2025 F2 provenga dalla Nube di Oort, una regione remota del sistema solare popolata da miliardi di corpi ghiacciati, situata tra 2.000 e 5.000 unità astronomiche (AU) dal Sole.
La cometa è stata già fotografata da diversi astrofili, come Rolando Ligustri, che ha utilizzato un telescopio remoto nello Utah.
La cometa SWAN25F (c/2025 F2 SWAN), visibile in questa immagine, è stata fotografata dall’astrofilo Rolando Ligustri utilizzando un telescopio remoto situato nello Utah.
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Le Pleiadi (M45) tratte dall'archvio PhotoCoelum di Michele Bernardo.
Le Pleiadi, uno degli ammassi stellari aperti più noti e facilmente osservabili nel cielo notturno, non sono solo uno spettacolo per gli occhi. Secondo uno studio condotto da R. Liu et al. (2025), rappresentano anche un laboratorio ideale per comprendere i complessi meccanismi dinamici che regolano l’evoluzione interna degli ammassi stellari. Il lavoro, frutto della collaborazione tra diversi istituti tra cui la Chinese Academy of Sciences e l’Università di Peking, si concentra in particolare sulla distribuzione delle stelle binarie e su come esse vengano influenzate dalla dinamica gravitazionale interna del sistema.
Un ammasso giovane, ma già in fermento
Le Pleiadi contano oltre 1400 membri stellari (Lodieu et al. 2019; Hunt & Reffert 2023) e si trovano a una distanza di circa 135 parsec (circa 440 anni luce) dalla Terra. Nonostante siano relativamente giovani — circa 100 milioni di anni (Gossage et al. 2018; Niu et al. 2020) — mostrano già segni evidenti di segregazione in massa, cioè una tendenza delle stelle più massicce a spostarsi verso il centro dell’ammasso.
La particolarità di questo studio è l’attenzione riservata alle stelle binarie non risolte, ovvero sistemi di due stelle troppo vicine per essere distinte singolarmente con i normali strumenti ottici. Utilizzando i dati astrometrici di Gaia DR3 e fotometrici del catalogo 2MASS, i ricercatori hanno identificato oltre mille stelle della sequenza principale, classificandole come singole o binarie tramite un modello statistico avanzato.
Distribuzione delle stelle della sequenza principale (MS) nelle Pleiadi. Il colore indica la probabilità che una stella faccia parte di un sistema binario, mentre la dimensione dei simboli rappresenta la massa della stella. I cerchi pieni e tratteggiati indicano rispettivamente il raggio che racchiude metà della massa dell’ammasso (rh), secondo questo studio, e il raggio mareale (rt) riportato da J. Alfonso e A. García-Varela (2023).
Segregazione in massa e disgregazione delle binarie
I risultati mostrano che le stelle binarie tendono a essere più massicce rispetto alle stelle singole, confermando precedenti osservazioni (Bouy et al. 2015). Ma c’è di più: quando si analizza la distribuzione radiale — cioè la distanza dal centro dell’ammasso — emerge un quadro complesso. Le stelle più massicce, singole o binarie, si trovano prevalentemente nel nucleo centrale dell’ammasso, segno di una segregazione in massa in atto. Tuttavia, le binarie risultano distribuite in modo più disperso rispetto alle singole nella stessa fascia di massa.
Questo suggerisce che, nelle regioni centrali dell’ammasso, le interazioni dinamiche sono così intense da disgregare molte delle coppie binarie, soprattutto quelle composte da stelle meno massicce o con legami gravitazionali deboli. È una chiara firma del processo di disgregazione dinamica delle binarie, che si affianca alla segregazione in massa nel modellare la struttura dell’ammasso.
Diagramma colore–magnitudine delle stelle nella regione delle Pleiadi, basato sui dati fotometrici di Gaia. I punti grigi rappresentano le stelle di campo (cioè non appartenenti all’ammasso). I cerchi indicano le stelle della sequenza principale (MS) delle Pleiadi, con il colore che esprime il rapporto di massa tra i componenti nel caso di sistemi binari. Le linee rosse continua e tratteggiata mostrano rispettivamente le isocrone empiriche per stelle singole e per sistemi binari, derivate dalla Tabella 3 del Paper I.
La curva fb–R: un indicatore chiave
Uno degli strumenti chiave dell’analisi è la curva fb–R, che descrive la variazione della frazione di binarie (fb) in funzione della distanza dal centro (R). Il profilo osservato nelle Pleiadi è bimodale: la frequenza di stelle binarie è alta sia nel nucleo che nella periferia, mentre cala nelle zone intermedie.
Dividendo la popolazione in stelle di massa più bassa e più alta, emerge un doppio effetto:
Le stelle meno massicce mostrano un aumento della frequenza binaria con la distanza dal centro, coerente con il fatto che le coppie meno legate vengono facilmente disgregate nella regione centrale.
Le stelle più massicce, invece, mostrano una frequenza binaria più alta al centro. Questo è dovuto al fatto che le stelle più pesanti si spostano naturalmente verso il centro con l’evoluzione dinamica, portando con sé un’alta incidenza di sistemi binari.
Questo comportamento è stato previsto anche da simulazioni numeriche come quelle di Geller et al. (2013, 2015) e osservato in altri ammassi come NGC 1805 nella Grande Nube di Magellano (Li et al. 2013).
Nessun bisogno di un’origine “primordiale”
I ricercatori sottolineano che non è necessario ipotizzare che le Pleiadi siano nate con una concentrazione iniziale di binarie nel nucleo. I fenomeni osservati possono essere spiegati interamente come effetto dell’evoluzione dinamica interna, inclusa la formazione di nuove binarie attraverso interazioni a tre corpi (Converse & Stahler 2010) e il progressivo “indurimento” dei sistemi binari più stabili (Heggie 1975).
La vocazione del filosofo è di essere portatore del Tutto. Mentre gli altri si limitano a una specialità, a una parte, egli s’incarica della totalità. Dovrebbe conoscere […] le nozioni e le applicazioni degli altri uomini e specialmente degli esseri elitari, nella politica, nella religione, nelle tecniche e nelle arti; pensare a tutto, pensare il Tutto, ammesso che sia possibile… Poi, enucleare da questa ipotesi imperfetta una regola di vita, una saggezza… Naturalmente è un ideale irrealizzabile, soprattutto ai tempi nostri… Ma la filosofia viene definita da questa impossibilità. Jean Guitton
Indice dei contenuti
Abstract
La filosofia dovrebbe incaricarsi – perlomeno secondo il filosofo francese Jean Guitton – di pensare il tutto, di studiare la totalità. In ambito scientifico, la disciplina che ha lo stesso compito – certo con le dovute e innumerevoli differenze concernenti sia, genericamente, il concetto di “totalità”, sia gli approcci alle rispettive ricerche – è la cosmologia. Questa comunanza d’interessi, solo parziale ma significativa, ci spinge a ipotizzare che la filosofia, per realizzarsi pienamente, avrebbe bisogno della cosmologia, o almeno delle sue conoscenze più fondamentali riguardanti il cosmo fisico in cui siamo tutti noi immersi; al contempo, anche la cosmologia avrebbe bisogno della filosofia per approfondire il suo sguardo sull’universo. In questo articolo introdurrò brevemente solo questa seconda tesi, accennando poi al pensiero di uno dei suoi massimi interpreti: il filosofo e storico della scienza francese Jacques Merleau-Ponty.
Cenni a un approccio filosofico alla cosmologia
La cosmologia è la scienza che forse, più di ogni altra, ha bisogno della filosofia. Si pensi alla sua stessa tipica definizione: la cosmologia studia la struttura su larga scala dell’universo, dove con quest’ultimo termine s’intende tutto ciò che – in senso fisico – esiste, è esistito e per certi versi esisterà, pertanto l’universo è considerato come un sistema totale e unico, e con una sua storia. Si dice anche che la cosmologia studia l’universo come un tutto, o nel suo insieme, vale a dire essa non s’interessa direttamente dei corpi celesti (pianeti, stelle, galassie, e persino ammassi di galassie e superammassi) presenti nel cosmo, che del resto vivono a “piccole” scale rispetto alla “totalità”. Di questi corpi se ne occupa l’astronomia, osservandoli e descrivendone le proprietà, i raggruppamenti, i moti apparenti e reali, ecc., mentre l’astrofisica cerca di interpretare questi corpi e i fenomeni che li riguardano in termini di leggi fisiche note, che essa applica a modelli più o meno semplificati dei sistemi osservati. Invece, scopo principale dell’analisi della cosmologia è di ottenere una descrizione fisica coerente dell’universo nella sua interezza, dunque tentando di includere anche la sua parte inosservabile, tramite modelli che fanno uso di branche della fisica nota, modelli – si badi – di necessità estremamente semplificati, data l’enorme complessità del reale. Dunque la ricerca cosmologica spazia dalle leggi naturali, che permeano i corpi celesti in relazione al cosmo, alla sua struttura geometrica e topologica, dalle sue dimensioni spaziali e temporali alla sua formazione, evoluzione ed eventuale fine, inclusi ovviamente i fenomeni accaduti nel suo lontano passato che hanno dato luogo alla sua attuale conformazione.
È evidente la difficoltà di cogliere propriamente il significato dell’universo come un tutto, sia a livello spaziale (e topologico), sia temporale, sia nei suoi aspetti osservabili, sia nelle interconnessioni fra le sue parti. Del resto l’universo come un tutto non è certo dato dalla totalità degli oggetti, dei sottosistemi, dei processi ed eventi appartenenti all’universo osservabile. Quest’ultimo è soltanto una porzione di un sistema ovviamente più inclusivo che non è però “quantificabile” estendendo, fino a un limite a tutt’oggi del tutto imprecisato, il dominio dell’universo osservabile. Si ha bisogno, insomma, di un “salto” teorico; in altre parole, per rappresentare la composizione e la struttura dell’universo come un tutto bisogna costruirsi un sistema concettuale – il più comprensivo e globale possibile, che incarni la singola totalità integrata degli oggetti e dei processi fisici – che assuma la forma, come già detto, di un modello cosmologico. Un tale modello specifica, quindi, come l’universo come un tutto debba essere concepito, e come, a partire da questo, si possano poi comprendere anche i fenomeni nelle regioni relativamente più ristrette dell’universo osservabile.
Non è solo per mezzo, allora, dell’osservazione astronomica e dei dati che essa mette a disposizione che si può cogliere quel significato del concetto di “universo” al quale la cosmologia anela, ma è grazie all’adozione di un certo modello cosmologico, e quindi, in ultima istanza, alla nostra decisione di adottarne uno piuttosto che un altro. E il fatto importante, come sottolinea il filosofo Milton Munitz, è che “questa decisione si basa in fondo su una visione filosofica del ruolo epistemologico svolto da tali modelli cosmologici” (1990, p. 154)2. Ovviamente, la validità di un modello cosmologico è valutata soprattutto sulla base di evidenze e “riscontri fisici” riguardanti: osservazioni e misurazioni di oggetti e strutture cosmiche, analogie con altri sistemi fisici “minori”, concetti e modelli matematici e geometrici, leggi fisiche ed equazioni riguardanti aspetti “locali” dell’universo, e così via. Però, il cuore epistemologico e, più generalmente filosofico, di quella scelta rimane. Per giunta, data l’impossibilità di manipolare l’universo, di variarne le condizioni iniziali, di riprodurne le altissime energie protagoniste di alcune sue fasi, di analizzarne l’evoluzione da altre posizioni spaziali e in altre epoche temporali e, quindi, di “vedere” le sue prime fasi o le sue più lontane distanze, insomma data l’impossibilità di rendere la cosmologia una scienza direttamente sperimentale, risulta inevitabile il bisogno di affidarsi a delle scelte filosofiche che se da una parte certo contribuiscono, in maniera più o meno significativa, a dar forma alle nostre teorie cosmologiche e ai loro modelli, dall’altra influenzano anche la “genuinità” della nostra comprensione dell’universo. Si pensi al cosiddetto principio cosmologico, che asserisce l’omogeneità e l’isotropia spaziale del nostro universo a larga scala (cioè l’assenza, rispettivamente, di punti e direzioni particolari), o al principio copernicano, nel quale si sostiene che non siamo osservatori privilegiati (nessun luogo nell’universo è in una posizione “speciale”).
Da questi principi discende una ben precisa metrica per la struttura geometrica a larga scala dell’universo (aperta comunque a configurazioni topologiche diverse). Tali principi sono assunzioni ormai quasi date per scontate nella cosmologia standard, ed è naturale, sia perché i riscontri empirici a loro favore hanno assunto un ruolo consistente con il corpus teorico sottostante ai modelli, sia perché in fondo, senza di essi, l’impresa scientifica cosmologica risulterebbe difficilissima se non impossibile. Si pensi, infatti, al principio copernicano: se non valesse, ossia se noi fossimo in una posizione particolare, come potremmo continuare a fare affermazioni sulla globalità dell’universo sapendo che da altri punti di osservazione (per noi inesplorabili) lo scenario potrebbe drasticamente essere diverso? Eppure, quei principi non sono affatto verità sacrosante, i riscontri empirici e le osservazioni non sono per niente in grado di porre una qualche parola definitiva sulla loro validità, e infatti non è raro trovare dei cosmologi che si cimentano con l’analisi di universi in cui essi non valgono.
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Un team internazionale propone un’inedita combinazione di materiali terrestri e lunari per costruire pannelli solari direttamente sulla Luna. La soluzione, basata sull’utilizzo del regolite e di celle in perovskite, potrebbe rivoluzionare la produzione energetica delle future basi spaziali, combinando leggerezza, efficienza e protezione dalle radiazioni.
Con la missione Artemis 3 prevista per il 2026 e l’ambizioso progetto della Lunar Gateway, la possibilità di costruire una base lunare stabile non è più fantascienza. Tuttavia, per garantire la sopravvivenza umana nello spazio in modo sostenibile, la produzione di energia sulla Luna diventa una sfida cruciale. Attualmente, i pannelli solari impiegati nelle missioni spaziali, basati su semiconduttori III-V a multigiunzione, offrono un’ottima efficienza ma un rapporto potenza/massa ancora limitato. La soluzione potrebbe arrivare dalla Terra e… dalla Luna stessa.
Un gruppo di ricercatori guidato da Tobias Kirchartz, Sebastian Lang e colleghi, appartenenti al Forschungszentrum Jülich e alla Technische Universität Berlin, ha presentato un approccio innovativo: utilizzare il regolite lunare per realizzare pannelli solari in loco, integrando celle solari a base di perovskite depositate su “moonglass”, un vetro ottenuto proprio dal suolo lunare.
Energia dalla Luna, con la Luna
Il regolite lunare, abbondante e facilmente accessibile, può essere fuso tramite forni solari per creare lastre vetrose di protezione (moonglass), che fungono da substrato per le celle fotovoltaiche. Le perovskiti, semiconduttori emergenti noti per la loro efficienza e facilità di lavorazione, possono essere depositate su questi vetri con tecniche a bassa temperatura (<150°C), utilizzando quantità minime di materiale terrestre.
Secondo i ricercatori, questo metodo permette di raggiungere rapporti potenza/massa fino a 50.000 W/kg, un ordine di grandezza superiore rispetto alle soluzioni attuali. «Il nostro approccio ibrido ISRU (In-Situ Resource Utilization) è altamente realizzabile e facilmente scalabile nel prossimo futuro», affermano gli autori.
Il regolite simulato TUBS-T, prodotto alla TU Berlin, imita le caratteristiche dei terreni dell’altopiano lunare, ricchi di anortosite. Fuso in laboratorio a 1.550°C, ha generato un vetro trasparente, sufficientemente resistente e con una trasmittanza compatibile con l’assorbimento delle celle in perovskite (∼1.5 eV). Sebbene meno trasparente del vetro terrestre standard, il moonglass si è dimostrato efficace nel limitare la degradazione da radiazioni.
Celle in perovskite: prestazioni e resistenza oltre le aspettative
Le celle fotovoltaiche realizzate direttamente su moonglass hanno mostrato una qualità ottica e strutturale comparabile con quelle costruite su vetro convenzionale. Con configurazioni opache standard, l’efficienza ha raggiunto l’8,5% sotto condizioni di luce lunare (AM0), mentre configurazioni più avanzate, con contatti trasparenti in IZO (indium zinc oxide), hanno superato il 12%.
Una simulazione con moonglass sottile (0,1 mm) suggerisce che si potrebbero superare PCE del 21%, rendendo queste celle tra le più performanti mai proposte per applicazioni lunari.
Un’inaspettata resistenza alle radiazioni
Uno dei risultati più sorprendenti riguarda la tolleranza alle radiazioni. Durante test condotti con protoni ad alta energia (68 MeV), i dispositivi costruiti su moonglass hanno mantenuto il 96% dell’efficienza iniziale. Questa resilienza è stata attribuita alla presenza di ferro nel vetro lunare, che agisce come “spugna elettronica” simile al cerio nei vetri spaziali, impedendo la formazione di centri di colore che normalmente degradano le prestazioni dei vetri irradiati.
«Questa straordinaria resistenza del moonglass alle radiazioni – in combinazione con la tolleranza delle perovskiti – rappresenta un fattore chiave per l’affidabilità a lungo termine dei pannelli solari lunari», scrivono i ricercatori.
Meglio delle celle in silicio?
La produzione di celle in silicio direttamente sulla Luna, ipotizzata da decenni, resta un obiettivo complesso. Richiede processi ad alta temperatura, raffinazione spinta del silicio fino a livelli di purezza <1 ppb, e infrastrutture metallurgiche avanzate. In confronto, la fabbricazione di celle in perovskite su moonglass risulta di gran lunga più semplice, meno energivora e adatta a condizioni di bassa gravità.
Una via concreta per alimentare le basi lunari
Con un impianto produttivo compatto da circa 3 tonnellate, il team stima di poter produrre sul suolo lunare una capacità fotovoltaica di oltre 3 MW, sufficiente per sostenere una base abitata da circa 200 astronauti, basandosi sui consumi dell’ISS.
In conclusione, questa ricerca apre una strada concreta alla produzione energetica autonoma sulla Luna, essenziale per le future colonie spaziali. Combinando innovazione nei materiali, utilizzo di risorse locali e strategie ingegneristiche sostenibili, i pannelli solari in perovskite su moonglass si candidano come la tecnologia più promettente per illuminare il futuro lunare dell’umanità.
NOAA inaugura una nuova era dell’osservazione solare e del monitoraggio delle tempeste geomagnetiche con il primo coronografo moderno per la previsione del meteo spaziale.
Dal 25 febbraio 2025, chiunque può osservare quasi in tempo reale l’attività della corona solare grazie alle immagini trasmesse dal nuovo coronografo CCOR-1 (Compact Coronagraph), montato a bordo del satellite GOES-19 della NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). Le immagini, aggiornate ogni 15 minuti, sono pubblicamente disponibili sul sito del Space Weather Prediction Center (SWPC) e archiviate, dal 7 marzo, presso il National Centers for Environmental Information (NCEI).
Un Occhio Sulla Corona del Sole
Il CCOR-1 è progettato per monitorare costantemente la corona solare, ovvero lo strato più esterno e rarefatto dell’atmosfera del Sole, dove si originano fenomeni violenti come le espulsioni di massa coronale (CME). Queste gigantesche nubi di plasma, proiettate nello spazio interplanetario, possono raggiungere la Terra e interagire con il campo magnetico terrestre, generando tempeste geomagnetiche in grado di disturbare sistemi elettrici, comunicazioni radio, reti GPS e satelliti.
Con il CCOR-1, la NOAA inaugura il primo coronografo moderno pensato specificamente per la previsione operativa del meteo spaziale. Rispetto agli strumenti precedenti (come il LASCO a bordo del Solar and Heliospheric Observatory, SOHO), il nuovo coronografo fornisce aggiornamenti in tempi molto più rapidi — ogni 15 minuti — e in maniera continua.
Il video ripreso dallo strumento CCOR-1, mostra la corona solare. La dimensione del Sole è indicata dal piccolo cerchio vuoto al centro dell’immagine, mentre un disco scuro, circa quattro volte più grande, blocca la luce diretta della nostra stella. Questo accorgimento consente di osservare le strutture più deboli e delicate della corona, come le espulsioni di massa coronale (CME), che appaiono come nuvole luminose e filamentose di plasma che si allontanano dal disco centrale.
Previsioni Migliori per Proteggere Infrastrutture e Tecnologie
Le immagini di CCOR-1 rappresentano una fonte primaria di dati per le previsioni meteorologiche spaziali del SWPC. Grazie a queste osservazioni, è possibile prevedere l’arrivo di tempeste geomagnetiche con uno o tre giorni di anticipo, dando così il tempo necessario agli operatori di prendere contromisure fondamentali per la sicurezza di infrastrutture critiche, come le reti elettriche o le comunicazioni satellitari.
Le informazioni derivate da CCOR-1 sono già utilizzate da numerosi settori: dall’aviazione commerciale alla navigazione di precisione per l’agricoltura, fino all’esplorazione petrolifera e alla difesa nazionale. L’importanza di questi dati è cresciuta soprattutto alla luce dei numerosi eventi registrati negli ultimi mesi, inclusa la potente tempesta geomagnetica del 10 ottobre 2024, documentata in dettaglio proprio da CCOR-1.
Un’Icona del Sole: Come Funziona il Coronografo
Nelle immagini del CCOR-1, il Sole appare come un piccolo cerchio vuoto al centro, circondato da una schermatura nera che blocca la luce diretta della nostra stella. Questo permette di osservare le strutture più deboli, come le CME, che appaiono come nuvole di plasma luminose e filamentose che si espandono all’esterno.
Curiosità: due volte al giorno, un intenso lampo attraversa le immagini. Si tratta della Terra che “photobomba” il campo visivo dello strumento, riflettendo la luce del Sole attraverso oceani e nuvole — un fenomeno chiamato earthshine. Anche la Luna fa la sua comparsa quotidiana, passando attraverso l’inquadratura, anch’essa riflettendo la luce solare.
Il Futuro: CCOR-2 e L’Osservazione dallo Spazio Profondo
Il satellite GOES-19 entrerà ufficialmente in servizio come GOES-East il 4 aprile 2025, ma già oggi il CCOR-1 è operativo in via preliminare. In parallelo, NOAA lancerà un coronografo gemello, CCOR-2, a bordo della missione SWFO-L1 (Space Weather Follow On – Lagrange 1). Questo strumento sarà posizionato nel punto lagrangiano L1, a circa un milione di chilometri dalla Terra, offrendo una seconda prospettiva costante del Sole. Insieme, CCOR-1 e CCOR-2 garantiranno continuità e ridondanza delle osservazioni, anche in caso di guasti.
Dove vedere le immagini in diretta del Sole?
Tutti possono consultare le immagini aggiornate e le animazioni delle ultime 24 ore sul sito ufficiale dello SWPC.
Inoltre, l’archivio completo delle osservazioni CCOR-1 (e presto anche CCOR-2) è disponibile presso la sezione dedicata al meteo spaziale del NCEI.
In occasione del 35° anniversario del telescopio spaziale Hubble, lanciato nel 1990 come progetto congiunto NASA/ESA, l’Agenzia Spaziale Europea dà il via alle celebrazioni con una nuova e spettacolare immagine dell’ammasso stellare NGC 346, uno dei più attivi laboratori di formazione stellare nelle vicinanze della Via Lattea.
Questa immagine inaugurale fa parte di una serie celebrativa che riunisce alcune delle più iconiche osservazioni realizzate da Hubble, aggiornate grazie a nuove tecniche di elaborazione e a dati più recenti. L’obiettivo è quello di riproporre al pubblico meraviglie cosmiche già conosciute, ma ora ancora più dettagliate e suggestive.
NGC 346: una fucina di stelle nella Piccola Nube di Magellano
Protagonista di questa prima immagine è NGC 346, un giovane ammasso stellare situato nella Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea distante circa 200.000 anni luce nella costellazione del Tucano. Nonostante fosse già stato immortalato più volte da Hubble, questa nuova versione è la prima a combinare osservazioni a diverse lunghezze d’onda – infrarosso, ottico e ultravioletto – offrendo una visione senza precedenti della regione.
NGC 346 ospita più di 2500 stelle neonate, molte delle quali estremamente massicce e luminose. Nell’immagine si distinguono per la loro intensa luce blu, mentre la nube rosa incandescente e le scie scure serpeggianti indicano la presenza di polveri residue dal processo di formazione stellare.
Un ammasso stellare immerso in una nebulosa. Sullo sfondo si estendono sottili nubi di gas di colore azzurro pallido, che in alcuni punti si addensano e assumono tonalità rosate. Al centro dell’immagine, un gruppo compatto di stelle blu molto luminose illumina la nebulosa circostante. Attorno all’ammasso, si curvano ampi archi di polveri dense, situati sia davanti che dietro le stelle, compressi dalla loro intensa radiazione. Al di là delle nubi nebulose, si intravedono numerose stelle arancioni più distanti. Crediti: ESA/Hubble & NASA, A. Nota, P. Massey, E. Sabbi, C. Murray, M. Zamani (ESA/Hubble)
Una finestra sull’universo primordiale
La Piccola Nube di Magellano presenta una composizione chimica povera di elementi più pesanti dell’elio, i cosiddetti “metalli” in gergo astronomico. Questa caratteristica la rende simile all’universo primordiale, fornendo un’opportunità unica per studiare come avveniva la formazione stellare nelle epoche più remote della storia cosmica.
Grazie all’eccezionale risoluzione del telescopio Hubble, i ricercatori hanno potuto tracciare il moto delle stelle di NGC 346, osservando due set di dati a distanza di 11 anni. I risultati hanno rivelato che le stelle si stanno muovendo a spirale verso il centro dell’ammasso, guidate da un flusso di gas che dall’esterno alimenta la nascita di nuove stelle nel cuore della nube turbolenta.
Gli scultori di N66
L’energia sprigionata dalle giovani stelle di NGC 346 non solo alimenta la formazione stellare, ma modella attivamente l’ambiente circostante. I venti stellari e le radiazioni ultraviolette scavati nel gas residuo della nebulosa stanno creando una grande cavità all’interno della nube, come veri e propri “scultori cosmici”.
La nebulosa che circonda l’ammasso è denominata N66 ed è la più brillante regione H II (pronunciata “acca due”) della Piccola Nube di Magellano. Queste regioni sono nubi di idrogeno ionizzato illuminate da stelle giovani e calde. La presenza stessa di N66 testimonia la giovane età di NGC 346: le regioni H II infatti brillano solo per pochi milioni di anni, il tempo di vita delle stelle massicce che le alimentano.
Programmi di osservazione e cooperazione internazionale
Questa nuova immagine è il risultato della combinazione di più campagne osservative condotte nel corso degli anni, in particolare i programmi #10248 (PI: Antonella Nota), #12940 (PI: Phillip Massey), #13680 (PI: Elena Sabbi), #15891 e #17118 (entrambi guidati da Claire Murray).
Il telescopio spaziale Hubble continua a rappresentare uno degli strumenti più preziosi per l’astronomia moderna, frutto della cooperazione tra l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e la NASA. A 35 anni dal lancio, Hubble continua a stupire il mondo con immagini straordinarie e scoperte fondamentali sulla nascita e l’evoluzione dell’universo.
Una porzione di spazio profondo è popolata da numerose galassie di forme diverse e colori che vanno dal blu al bianco fino all’arancione, insieme ad alcune stelle vicine. Sulla sinistra, un piccolo riquadro mostra un ingrandimento di una minuscola zona dell’immagine. Al centro di questo riquadro si vede un puntino rosso, evidenziato da linee e contrassegnato con la scritta “Redshift (z)=13”, che indica la sua straordinaria distanza dalla Terra. Si tratta della galassia JADES-GS-z13-1, una delle più lontane mai osservate. Due galassie molto più grandi, visibili nella stessa area, sono indicate con “z=0.63” e “z=0.70”, valori che corrispondono a distanze molto inferiori rispetto a GS-z13-1. Crediti: ESA/Webb, NASA, STScI, CSA, JADES Collaboration, Brant Robertson (University of California Santa Cruz), Ben Johnson (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics), Sandro Tacchella (University of Cambridge), Phill Cargile (CfA), Joris Witstok, Peter Jakobsen, Alyssa Pagan (STScI), Mahdi Zamani (ESA/Webb)
A 330 milioni di anni dal Big Bang, la galassia JADES-GS-z13-1 sorprende gli astronomi con un segnale luminoso impossibile da spiegare con le teorie attuali.
Un nuovo studio pubblicato su Nature ha svelato una scoperta che sta facendo discutere la comunità scientifica internazionale: il James Webb Space Telescope ha individuato un segnale luminoso proveniente da una galassia così remota e antica che, secondo le attuali teorie cosmologiche, non avrebbe dovuto essere visibile.
La protagonista di questa scoperta è JADES-GS-z13-1, una galassia osservata com’era appena 330 milioni di anni dopo il Big Bang, in un’epoca in cui l’universo era ancora avvolto da una densa nebbia di idrogeno neutro. Eppure, da questo remoto angolo dello spazio, gli strumenti di Webb hanno rilevato un’emissione sorprendentemente intensa di Lyman-α, una caratteristica luce prodotta dagli atomi di idrogeno. Un evento che, in teoria, non avrebbe dovuto essere possibile.
Subito dopo il Big Bang, l’universo era una sorta di nebbia densa composta da atomi di idrogeno neutro, opachi alla radiazione ultravioletta. Solo centinaia di milioni di anni dopo, con la nascita delle prime stelle e galassie, la luce ultravioletta iniziò a “ionizzare” questi atomi, rendendo lo spazio trasparente alla luce: fu la cosiddetta epoca della reionizzazione.
Tuttavia, JADES-GS-z13-1 appare molto prima che questo processo fosse completo. “È come se un faro potentissimo riuscisse a bucare una fitta nebbia molto prima del previsto”, spiega Kevin Hainline dell’Università dell’Arizona, membro del team.
Una luce che non doveva esserci
Una piccola area ingrandita dello spazio profondo. Sono visibili numerose galassie di forme diverse, la maggior parte molto piccole, ma due appaiono grandi e brillanti. Al centro dell’immagine, un minuscolo puntino rosso: è la galassia GS-z13-1, estremamente lontana. A sinistra dell’immagine si vedono due linee luminose, chiamate spike di diffrazione, artefatti visivi causati dalla presenza di una stella brillante poco fuori campo. Crediti:ESA/Webb, NASA, STScI, CSA, JADES Collaboration, Brant Robertson (University of California Santa Cruz), Ben Johnson (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics), Sandro Tacchella (University of Cambridge), Phill Cargile (CfA), Joris Witstok, Peter Jakobsen, Alyssa Pagan (STScI), Mahdi Zamani (ESA/Webb)
Il team, guidato da Joris Witstok (Università di Cambridge e Cosmic Dawn Center di Copenaghen), ha osservato la galassia con lo spettrografo NIRSpec di Webb, confermandone la distanza estrema con un redshift di 13.0. Ma il vero colpo di scena è arrivato con l’osservazione di quella inaspettata linea di emissione di Lyman-α, chiara e intensa.
“Secondo i modelli attuali, quella luce non avrebbe dovuto attraversare la nebbia cosmica così presto nella storia dell’universo”, afferma Roberto Maiolino, co-autore dello studio e professore a Cambridge e University College London. “Eppure, è lì, ben visibile.”
Come ha fatto questa luce a farsi strada tra il gas neutro che avvolgeva l’universo primordiale? Gli scienziati stanno considerando due possibili spiegazioni. La prima ipotesi è che la galassia sia circondata da una “bolla” di idrogeno ionizzato, prodotta da stelle di primissima generazione, estremamente massicce, calde e luminose — molto diverse da quelle che vediamo oggi.
La seconda possibilità è ancora più affascinante: un nucleo galattico attivo (AGN), alimentato da uno dei primi buchi neri supermassicci dell’universo, potrebbe aver generato l’energia necessaria a ionizzare l’ambiente circostante.
La scoperta è parte del JADES (JWST Advanced Deep Extragalactic Survey), uno dei programmi chiave del telescopio Webb, che si sta rivelando una macchina del tempo impareggiabile per esplorare l’universo primordiale. Grazie alla sua sensibilità all’infrarosso, Webb riesce a scrutare più lontano – e più indietro nel tempo – di qualsiasi altro strumento mai costruito.
“Con Hubble sapevamo che avremmo potuto vedere galassie sempre più distanti”, ricorda Peter Jakobsen, già scienziato del progetto NIRSpec. “Ma ciò che Webb sta rivelando sulla natura delle prime stelle e buchi neri va ben oltre le aspettative.”
I “Big Five” delle meteoriti, come i celebri animali della savana africana, rappresentano i più grandi e affascinanti esemplari extraterrestri mai ritrovati sulla Terra. Tra questi spiccano le sideriti Hoba (Namibia, 60 t), Cape York (Groenlandia, 31 t), Campo del Cielo (Argentina, 30,8 t), Armanty (Cina, 28 t) e Bacubirito (Messico, 22 t). Composte principalmente da ferro e nichel, queste meteoriti resistono meglio all’ingresso atmosferico rispetto a quelle pietrose, come Chelyabinsk (2013). La loro storia, spesso intrecciata a miti locali, esplorazioni e musei internazionali, testimonia il costante legame tra il cielo e la Terra.
Introduzione
Elefante, Leone, Bufalo, Rinoceronte e Leopardo, compongono i famosi Big Five della savana africana. Questa hit parade stilata all’epoca in cui si abbattevano per sport questi splendidi animali è rimasta in voga anche oggi, quando (per la gran parte dei casi), si mira solo con la fotocamera e non più con i fucili da caccia. Anche per le meteoriti esiste una classifica per i più grandi esemplari conosciuti, tenendo conto che qualsiasi elenco è destinato nel tempo a modificarsi. Infatti nuovi esemplari vengono trovati di tanto in tanto in zone impervie e inoltre, grandi meteoriti, possono cadere in qualunque momento, come ci ha ricordato nel 2013 quello di Chelyabinsk la cui onda d’urto causò molti danni e feriti (soprattutto a causa delle vetrate infrante) nell’omonima città russa. Tra le centinaia di frammenti recuperati, il maggiore pesava 654 kg; un’inezia in confronto alle 9-10.000 tonnellate stimate del meteoroide originale, esploso a 30km di altezza. Chelyabinsk era però un meteorite pietroso; una condrite LL5 e questo tipo di rocce, offre una bassa resistenza alle vibrazioni ed agli stress meccanici all’ingresso in atmosfera. Ciò fa sì che queste tendano a frantumarsi, in molte piccole sezioni. Diverso è il caso delle meteoriti ferrose, che resistono assai meglio allo “scontro” e possono generare, anche nei casi di frammentazione, singole masse di molte tonnellate. Perciò quasi tutti i meteoriti più grandi conosciuti sono sideriti, con l’importante eccezione di Jilin, la condrite H5 caduta in Cina nel 1976 che con una massa principale di 1,7 tonnellate è di gran lunga la condrite ordinaria singola più grande conosciuta. Ma anche questo “gigante” tra le meteoriti pietrose sfigura vicino alle grandi sideriti che compongono i nostri “big five”.
HOBA (NAMIBIA)
Nel Nord della Namibia, vicino alla città di Grootfontein1 si trova questo meteorite di 60 tonnellate (un tempo, prima di campionamenti, furti e vandalismi sembra arrivasse a 66 tonnellate). Venne scoperto per caso nel 1920 da un contadino che lo colpì con l’aratro, dissodando il terreno. E’ un “mattone” di ferro di 2,7×2,7×0,9 metri in un avvallamento del terreno circondato da un anfiteatro di muretti a secco. Si trova ancora nel punto del ritrovamento. È un tipo di siderite assai raro; un Atassite, che contiene un tenore di nikel molto più alto delle altre ferrose. Nonostante il suo aspetto “giovanile” (dovuto al clima estremamente secco) questo meteorite è caduto sul nostro pianeta circa 80.000 anni fa. È possibile che la forma, simile ad un sasso piatto, lo abbia aiutato a perdere velocità in modo meno traumatico, durante l’impatto con l’atmosfera. Il meteorite avrebbe quindi rimbalzato più volte, come un sasso lanciato sulla superficie di un lago.
Il meteorite Hoba a Grootfontein in Namibia massa 60t.
CAPE YORK (GROENLANDIA)
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Il telescopio posizionato al sito Dome Argus dalla spedizione cinese. Dome A in Antartide. Crediti: Zhaohui Shang
Nell’estate australe del 2023-2024, un gruppo di astronomi cinesi ha compiuto un’impresa scientifica straordinaria: osservare le stelle… di giorno. Non in un osservatorio qualsiasi, ma nel luogo forse più remoto e promettente della Terra per l’astronomia: Dome Argus, noto anche come Dome A.
Situato nel cuore del Plateau Antartico, a oltre 4.000 metri di quota, Dome Argus è il punto più elevato della calotta glaciale antartica, e uno dei luoghi più freddi e secchi del pianeta. Proprio per queste sue caratteristiche estreme, rappresenta un sito eccezionale per l’osservazione del cielo notturno nelle bande dell’ottico e dell’infrarosso vicino (NIR). Ma finora nessuno aveva mai misurato quanto il cielo fosse “buio” durante il giorno, in estate, quando il Sole non tramonta mai.
Un piccolo telescopio per un grande esperimento
L’esperimento, condotto da un team dell’Osservatorio Astronomico di Shanghai dell’Accademia Cinese delle Scienze (Shanghai Astronomical Observatory), si è avvalso di un telescopio compatto da 150 mm di apertura, installato in cima a una piattaforma alta tre metri sopra la superficie ghiacciata.
Lo strumento era dotato di una fotocamera NIR con sensore Sony InGaAs, sensibile alla luce nel range 400–1800 nm, e di un filtro centrato sulla banda J dell’infrarosso (attorno ai 1250 nm). Il filtro è stato progettato dal Nanjing Institute of Astronomical Optics & Technology (link).
L’apparato è stato trasportato a Dome Argus dalla 40ª spedizione antartica cinese, e ha operato per otto giorni in condizioni atmosferiche ideali: cielo sempre sereno e una stabilità dell’aria praticamente senza paragoni.
La base di ricerca Davis.Base di ricerca Mawson.
Stelle visibili anche con il Sole alto
Le osservazioni si sono concentrate su stelle brillanti visibili nel vicino infrarosso, una banda in cui la luce solare viene diffusa molto meno rispetto al visibile. Grazie a brevi esposizioni (circa 0,3 secondi), il telescopio ha rilevato stelle fino alla magnitudine J=5,3. Combinando 500 immagini brevi in una tecnica di “stacking”, è stato possibile scendere fino alla magnitudine J=10,06, ben visibile anche con il Sole sopra l’orizzonte.
Le misure di luminosità del cielo al mezzogiorno antartico – con il Sole a 27° sopra l’orizzonte – indicano un valore di circa 5,2 mag/arcsec² nella banda J, che si riduce a 5,8 intorno alla mezzanotte locale, quando il Sole scende a circa 10° sull’orizzonte.
Per fare un paragone: questi valori sono molto vicini (solo leggermente più luminosi) a quelli registrati durante il giorno in cima al monte Haleakalā, alle Hawaii – uno dei migliori osservatori astronomici in uso. E Dome Argus non aveva nemmeno un cupolino per schermare la luce solare riflessa dalla neve!
Il futuro dell’astronomia continua anche di giorno
Questi risultati aprono la strada a una nuova frontiera: l’osservazione continua, 24 ore su 24, di eventi luminosi transitori nel cielo australe. Supernove, esplosioni di raggi gamma, stelle variabili e persino detriti spaziali in orbita bassa possono essere monitorati da Dome Argus anche durante l’estate antartica, grazie alla relativa “oscurità” del cielo nell’infrarosso.
Il sito è perfetto anche per l’osservazione di oggetti in orbita terrestre: oltre l’80% dei detriti spaziali passa sopra Dome A almeno una volta per ogni orbita. In futuro, è previsto l’utilizzo di telescopi di classe 1 metro, che miglioreranno ulteriormente la sensibilità e permetteranno osservazioni più profonde e precise. Alcuni di questi strumenti potrebbero anche essere equipaggiati per la misurazione laser di precisione delle orbite dei satelliti – una tecnologia chiamata Satellite Laser Ranging (SLR).
Un laboratorio naturale unico al mondo
Le condizioni uniche di Dome Argus – assenza di inquinamento luminoso, atmosfera estremamente stabile e un’altissima percentuale di giorni sereni – ne fanno uno dei luoghi più promettenti per l’astronomia del futuro. Proprio grazie alla sua posizione (80°22′ S, 77°22′ E), la volta celeste australe rimane osservabile tutto l’anno, senza alternanza tra giorno e notte come avviene altrove.
Dome A si trova nel punto più alto del Plateau Antartico, a circa 4.093 metri sul livello del mare, su una calotta di ghiaccio spessa oltre 3.000 metri. La sua posizione isolata, su una dorsale lunga 60 km, lo rende uno dei luoghi meno esplorati del pianeta.
Coordinate: 80°22′ S, 77°22′ E Temperatura record: -82,5 °C nel luglio 2005 Clima: aria secca, assenza di vento forte, cielo sereno oltre l’80% del tempo
Un’importante stazione meteorologica automatica è stata installata nel 2005 da una collaborazione australiana-cinese. Questa raccoglie dati fondamentali per comprendere le condizioni ambientali estreme del sito, misurando temperatura, vento, pressione atmosferica, umidità e radiazione solare.
Dome A potrebbe essere il luogo più freddo della Terra: anche se il record appartiene ufficialmente alla stazione russa di Vostok, Dome A si trova a un’altitudine ancora maggiore e resta un serio candidato per future misurazioni da primato.
Fonte: Z. Li et al., 2024 (studio completo su Dome A)
Questa illustrazione artistica raffigura una regione di Venere che potrebbe presentare vulcanismo attivo e subduzione, dove la superficie sprofonda nel mantello. Le rocce in primo piano mostrano materiali poveri di ferro, forse analoghi ai continenti granitici della Terra. La missione VERITAS metterà alla prova queste interpretazioni.
Crediti: NASA/JPL-Caltech/Peter Rubin
Un team di ricercatori dell’Università della California a Riverside e del Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory ha avanzato una proposta affascinante e concreta: utilizzare un osservatorio spaziale per osservare direttamente le “ExoVenere”, pianeti rocciosi simili a Venere che orbitano attorno ad altre stelle. Lo studio è stato condotto da Stephen R. Kane, Emma L. Miles e Colby M. Ostberg (University of California, Riverside) insieme a Noam R. Izenberg (Johns Hopkins APL).
Il ruolo di Venere nella ricerca della vita
Comprendere l’abitabilità dei pianeti è una delle grandi sfide dell’astrobiologia. E se la Terra rappresenta l’esempio ideale di mondo abitabile, Venere ne è l’estremo opposto: un pianeta della stessa dimensione e composizione, ma con un’atmosfera soffocante, dominata da anidride carbonica e nuvole di acido solforico, in preda a un effetto serra incontrollato.
Studiare Venere non è solo utile per capire come sia arrivata a questo stato, ma anche per individuare le condizioni che possono rendere inabitabile un pianeta simile alla Terra. Ecco perché le missioni future come VERITAS, DAVINCI della NASA, e EnVision dell’ESA, avranno un ruolo centrale nel fornirci dati chiave per costruire modelli di evoluzione atmosferica applicabili anche agli esopianeti.
Un catalogo in crescita di mondi rocciosi caldi
Grazie a missioni come TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite), gli scienziati hanno già identificato centinaia di potenziali “ExoVenere”: pianeti rocciosi, di dimensioni simili alla Terra, che orbitano molto vicino alla loro stella, in una regione nota come Venus Zone (VZ). Al marzo 2024, sono almeno 334 i candidati identificati, ma si stima che il numero crescerà rapidamente man mano che verranno confermati oltre 7000 candidati.
Poiché i pianeti della VZ ricevono un’intensa radiazione stellare, sono più facili da osservare rispetto ai loro simili più freddi. Inoltre, se presentano temperature elevate, tendono a riflettere più luce e quindi a risultare più visibili per gli strumenti astronomici.
illustrazione della grande Corona Quetzalpetlatl, situata nell’emisfero sud di Venere, raffigura un vulcanismo attivo e una zona di subduzione, dove la crosta in primo piano sprofonda nell’interno del pianeta. NASA/JPL-Caltech/Peter Rubin
L’Habitable Worlds Observatory: il futuro è già in cantiere
Tra le raccomandazioni del decennale sondaggio dell’Astronomy and Astrophysics Decadal Survey del 2020 figura una missione rivoluzionaria: il Habitable Worlds Observatory (HWO). Questo futuro telescopio spaziale avrà lo scopo di osservare direttamente pianeti rocciosi potenzialmente abitabili attorno a stelle simili al Sole.
Ma c’è di più: HWO sarà anche in grado di identificare pianeti simili a Venere. L’osservazione diretta permetterà di analizzare lo spettro riflesso della luce dei pianeti, una tecnica più sensibile delle osservazioni in trasmissione per atmosfere dense e nuvolose. In particolare, sarà possibile cercare firme chimiche come il biossido di zolfo (SO₂), che potrebbe indicare attività vulcanica, oppure atmosfere dominate da anidride carbonica con nubi di acido solforico, segni distintivi di un ambiente inabitabile ma ricco di informazioni.
Una sinergia tra scienza planetaria e astronomia
Un aspetto chiave di questo approccio è l’integrazione tra le conoscenze acquisite all’interno del Sistema Solare e l’analisi degli esopianeti. Poiché non potremo mai visitare fisicamente questi mondi lontani, dovremo affidarci a modelli basati sui dati raccolti da pianeti come Venere e la Terra per interpretare ciò che vediamo.
Il lavoro dei ricercatori americani sottolinea proprio questo punto: finché non comprenderemo appieno i processi che hanno trasformato Venere in un inferno inabitabile, resterà difficile valutare il reale potenziale di altri mondi rocciosi scoperti attorno a stelle lontane.
Conclusioni
Studiare le ExoVenere non significa solo comprendere mondi alieni, ma anche fare luce su ciò che rende la Terra così speciale. L’osservazione di questi pianeti caldi e irrequieti potrà rivelarci quanto siano frequenti le condizioni estreme e quanto siano rari gli ambienti temperati.
Grazie all’Habitable Worlds Observatory, e con il supporto delle missioni dirette verso Venere, la scienza è pronta a compiere un nuovo passo nella comprensione della diversità planetaria. E chissà: tra le centinaia di ExoVenere già individuate, potremmo trovare un giorno anche un mondo che ci racconti una storia diversa da quella di Venere — una storia dove un destino infernale è stato evitato.
Fino al 1609, qualsiasi tipologia di azione investigativa del cielo è stata condotta unicamente mediante l’uso degli occhi, pertanto ne risultava fortemente limitata in termini di magnificazione e potere risolutivo. L’impiego del cannocchiale (de facto un telescopio rifrattore) come strumento per l’indagine astronomica, rappresenta una vera e propria rivoluzione: da quel momento, l’umanità ha sempre migliorato i suoi mezzi di osservazione, sia mediante lo sviluppo di design innovativi per i propri strumenti ottici, sia introducendo materiali ed ottiche di fattura sempre più raffinate. In poco più di 400 anni, si è passati dal cannocchiale di Galileo, avente pochi centimetri di diametro, fino ai telescopi odierni, i più estesi dei quali hanno, attualmente, diametro dell’ordine dei 10 metri (come il Gran Telescopio Canarias), con progetti di strumenti ottici fino ai 39 metri (ci si riferisce, a tal proposito, all’europeo Extremely Large Telescope, la cui prima luce dovrebbe avvenire nel 2027). In effetti, l’estensione di un telescopio per l’osservazione del cielo, quantificata mediante il diametro della sua apertura, è un parametro importante in quanto influenza la quantità di luce entrante nel sistema ottico in un certo periodo di tempo, ossia la magnitudine limite degli oggetti osservabili e la risoluzione ottenibile. Non è, tuttavia, il solo parametro da tenere in considerazione. Ugualmente significativo per valutare le prestazioni di uno strumento per l’indagine astronomica è il campo di vista, o Field of View (FoV), ossia l’area di cielo osservabile tramite lo strumento stesso. Questa superficie è, in genere, quantificata mediante l’angolo solido sotteso dalla stessa e si misura in gradi quadrati o in steradianti. I più grandi telescopi on-ground per lo svolgimento di survey astronomiche non superano, in genere, poche decine di gradi quadrati: se si pensa che l’intera volta celeste osservabile da un qualsiasi sito sulla Terra, approssimata ad una semisfera, sottende un angolo solido di circa 21.000 gradi quadrati, se ne deduce come i telescopi debbano essere puntati in continuazione per portare, all’interno del proprio FoV, gli oggetti di interesse. Questo implica, come intuibile, un notevole consumo di tempo e risorse. E se si disponesse di un sistema ottico avente un campo di vista dello stesso ordine di grandezza di quello che caratterizza la volta celeste, ossia 10.000 gradi quadrati, con un’apertura di dimensioni relativamente grandi, ad esempio 1 metro? In questo caso, non si avrebbe necessità di alcun puntamento per l’individuazione di sorgenti astronomiche e astrofisiche e si disporrebbe, al contempo, di uno strumento con elevata area di raccolta dei fotoni. Proprio questa è l’idea alla base di un telescopio innovativo, chiamato con ispirazione, “MezzoCielo”.
Introduzione
Da qualche decennio, l’astronomia vive una fase caratterizzata da emozionanti scoperte ed intense trasformazioni: un esempio è offerto dalla nascita e dallo sviluppo della cosiddetta “astronomia multi-messaggera”, la quale si propone di studiare una sorgente (o un evento) analizzando in maniera coordinata le informazioni ricavabili dai segnali astrofisici che la caratterizzano, comprendenti, tra gli altri, radiazione elettromagnetica e onde gravitazionali. Numerose sono anche le sfide che l’astronomia moderna è chiamata ad affrontare. L’inquinamento rientra sicuramente in questa categoria, ma quando si parla di inquinamento in ambito astronomico, non si intende solo quello luminoso: l’abbandono nelle orbite terrestri, in particolare in quelle basse o Low Earth Orbits (LEOs), di oggetti artificiali, quali satelliti a fine vita operativa, stadi di lanciatori, propellente e così via ha dato origine ad un nuovo tipo di pollution, costituito da una nutrita popolazione di space debris o detriti spaziali. Questi detriti spaziano in un ampio range di dimensioni e orbite di collocamento e, pertanto, velocità: un “censimento” operato dall’Agenzia Spaziale Europea e reperibile nel “ESA’s Space Environment Report” del 2023 indica chiaramente che i debris orbitanti attorno al nostro pianeta con dimensione superiore a 10 cm (e fino all’ordine del metro) sono almeno 32.000, distribuiti in maniera non uniforme tra le diverse orbite, essendo la maggior parte di essi, attorno alle 20.000 unità, collocati nelle orbite basse, fino a 2.000 km dal suolo. Diversi milioni sarebbero invece i detriti con dimensione minore di 1-10 cm e gli oggetti più estesi non ancora tracciati. E, con la costruzione in orbita (pianificata o attualmente in atto) di numerose costellazioni di satelliti, la previsione per il futuro prossimo è quella di un incremento sostanziale del numero dei debris. I detriti rappresentano un problema di sempre maggiore serietà per due motivi principali: il primo è legato alla capacità della maggior parte di essi di riflettere la radiazione elettromagnetica solare e quindi di interferire con le osservazioni astronomiche condotte da terra. Il secondo deriva dalla loro elevata velocità (inversamente proporzionale alla dimensione dell’orbita) e quindi dall’energia cinetica che li caratterizza: per fissare le idee, si consideri che l’energia cinetica di un oggetto di 10 g che si muova in orbita LEO alla velocità (tipica) di 7 km/s corrisponde approssimativamente a quella associata ad una autovettura di medie dimensioni (1500 kg) che si muova a circa 65 km/h. L’impatto con un tale oggetto sarebbe potenzialmente distruttivo per qualunque satellite o velivolo non adeguatamente schermato, con annessa produzione a cascata di ulteriori debris. Immediata è la considerazione che una tale situazione, protratta sufficientemente a lungo, potrebbe dar luogo ad un ambiente spaziale così ostile da impedire l’accesso dell’umanità alle orbite esterne, con notevoli danni, oltre che per la ricerca astronomica condotta con telescopi space-based, anche per l’intera società.
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Grazie alle più avanzate simulazioni cosmologiche, un team internazionale guidato da Lucio Mayer dell’Università di Zurigo ha esplorato i processi di formazione stellare nelle galassie primordiali che popolavano l’Universo a meno di 700 milioni di anni dal Big Bang. Il lavoro, realizzato tramite la simulazione ad altissima risoluzione Massive Black PS, ha mostrato come, in regioni molto dense dell’Universo primordiale, le galassie ricche di gas abbiano dato vita a dischi compatti che, a causa di instabilità gravitazionali, si sono frammentati in densi ammassi stellari.
Le simulazioni, che raggiungono una risoluzione spaziale di appena 2 parsec, sono tra le più accurate mai realizzate nel campo della cosmologia computazionale. Questi modelli hanno rivelato che le galassie coinvolte — incluse due compagne di massa inferiore — generano dischi di gas auto-gravitanti larghi meno di 500 parsec, che si frammentano in clump (grumi) massicci. Questi clump evolvono rapidamente in ammassi stellari compatti, con masse comprese tra 10⁵ e 10⁸ M⊙ e densità superiori a 10⁵ M⊙/pc².
Sorprendentemente, gli ammassi più piccoli presentano una stretta analogia con quelli scoperti di recente dal James Webb Space Telescope (JWST) nel sistema gravitazionalmente amplificato Cosmic Gems, situato a redshift z = 10.2. L’esistenza di tali oggetti era già stata ipotizzata, ma questa simulazione ne dimostra per la prima volta la formazione realistica all’interno di galassie a dischi altamente instabili.
Una nascita turbolenta
Il cuore della scoperta risiede nel meccanismo della frammentazione del disco di gas, regolato da un parametro noto come criterio di Toomre, che valuta la stabilità di un disco galattico rispetto al collasso gravitazionale. Nelle simulazioni, le condizioni sono ideali: dischi molto densi, ricchi di gas e soggetti a turbolenze compressive che favoriscono la formazione di grumi.
I risultati si allineano con la cosiddetta “Feedback-Free Burst” (FFB) theory proposta da Avishai Dekel (Università Ebraica di Gerusalemme), secondo cui, nelle prime epoche cosmiche, il gas riesce a formare stelle in modo estremamente efficiente prima che il feedback delle supernove riesca a interrompere il processo.
Una pioggia di buchi neri
Le simulazioni suggeriscono che la densità incredibilmente alta degli ammassi stellari possa favorire la formazione di buchi neri intermedi (IMBH). Secondo modelli recenti (Fujii et al., 2024), questi oggetti nascono attraverso fusioni stellari in ambienti ultra-densi, raggiungendo masse fino a 10⁵ M⊙. Successivamente, gli IMBH migrano verso il centro della galassia fondendosi tra loro e con un eventuale buco nero centrale preesistente, dando origine a un buco nero supermassiccio (SMBH) di almeno 10⁷ M⊙.
Questo meccanismo spiegherebbe l’osservazione, sempre da parte di JWST, di buchi neri sovramassicci (più massivi del previsto rispetto alla loro galassia ospite) già a redshift z > 6, come mostrato nei lavori di Y. Harikane, R. Maiolino, M. A. Stone e M. Yue.
Le simulazioni: uno zoom nel tempo
Il progetto utilizza il codice Gasoline2 e nasce come un’evoluzione del progetto MassiveBlack (guidato da Tiziana Di Matteo e Yu Feng presso la Carnegie Mellon University). Il volume simulato è uno dei più densi conosciuti, rappresentando un picco di 4–5σ nella distribuzione di densità cosmica. Le simulazioni seguono un periodo di soli 6 milioni di anni, ma con dettaglio senza precedenti: ogni clump, ogni formazione stellare, ogni frammento di gas è modellato con precisione pari a circa 2,4×10³ M⊙.
Anche galassie relativamente piccole, come il “Halo 47”, mostrano una straordinaria efficienza nella formazione di ammassi. In questi ambienti, oltre il 30% della massa stellare si concentra in ammassi compatti, un valore straordinariamente alto rispetto alle galassie odierne. Il destino finale di questi oggetti è spesso la fusione al centro galattico, contribuendo alla crescita dei buchi neri centrali.
Uno scenario multiplo per la nascita degli SMBH
Le simulazioni evidenziano due canali principali per la crescita dei buchi neri supermassicci:
Accrescimento e fusione di IMBH generati all’interno degli ammassi ultracompatti, prevalente nelle galassie di massa media o bassa.
Collasso diretto gravitazionale (“dark collapse”) in galassie molto più massicce, in cui il buco nero nasce già con massa 10⁷ M⊙ da una super-stella instabile, come proposto da L. Zwick e L. Mayer.
Entrambi i meccanismi forniscono una spiegazione convincente per la varietà di SMBH già presenti meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang.
Il quadro che emerge da queste simulazioni, supportato da dati JWST, offre una visione coerente e affascinante della formazione delle prime strutture cosmiche. In ambienti densi, le galassie sembrano favorire una modalità esplosiva ed efficiente di formazione stellare, che non solo dà origine a stelle e ammassi, ma anche ai semi dei colossali buchi neri che oggi popolano i nuclei delle galassie.
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