Torna solo per Pasqua PRENDI 9 PAGHI 6 IL 33% DI SCONTO
Torna solo per Pasqua PRENDI 9 PAGHI 6 IL 33% DI SCONTO
Home Blog Pagina 6

GASP Gas Stripping Fenomena in Galaxies

Il progetto di ricerca GASP ha come scopo principale quello di comprendere come le galassie vicine a noi possano evolvere a seconda
dell’ambiente in cui vivono e, in particolare, quali siano i meccanismi fisici che riescono
a strappare il gas delle galassie, influenzando la loro forma.

Dal Gas Strappato alle Galassie Medusa: Come l’Ambiente Modella l’Evoluzione Galattica

di Benedetta Vulcani, Bianca Maria Poggianti, Alessia Moretti, Marco Gullieuszik

Introduzione

Lo studio dell’evoluzione delle galassie è uno dei settori più attivi dell’astrofisica moderna. Studiare l’evoluzione delle galassie è fondamentale per comprendere l’universo e il nostro posto al suo interno. Le galassie sono i mattoni dell’universo; analizzare come si formano, evolvono e interagiscono ci aiuta a svelare i processi che hanno portato alla formazione delle strutture cosmiche su larga scala ovvero dell’Universo stesso. Inoltre, capire l’evoluzione delle galassie può offrire indizi sull’origine e sulla distribuzione della materia oscura, sull’espansione dell’universo e sulle condizioni che hanno permesso la formazione di stelle, pianeti e, in ultima istanza, la vita.
Le principali domande che gli astronomi si pongono sulle galassie riguardano la loro formazione, evoluzione e composizione. Ad esempio, ancora non sappiamo quali siano i processi che hanno portato alla nascita delle prime galassie nell’universo primordiale, quali fattori influenzino la loro evoluzione (come ad esempio le interazioni tra galassie o le attività del buco nero supermassiccio centrale), quali siano i meccanismi che regolano la formazione di nuove stelle al loro interno, cosa determini la loro forma e struttura e quale sia il loro destino finale. Queste domande guidano molte delle ricerche attuali in cosmologia e astrofisica, e la loro comprensione può offrire una visione più completa.

Fig. 1 – Osservatorio di Padova


Il progetto di ricerca GASP ha come scopo principale quello di comprendere come le galassie vicine a noi possano evolvere a seconda dell’ambiente in cui vivono e, in particolare, quali siano i meccanismi fisici che riescono a strappare il gas delle galassie, influenzando la loro forma. GASP è l’acronimo di “Gas Stripping Phenomena in Galaxies”, che vuol letteralmente dire “fenomeni fisici che riescono a strappare il gas alle galassie”. Il progetto è guidato dalla dott.ssa Bianca Maria Poggianti, direttrice dell’Osservatorio astronomico di Padova (Fig.1), una delle sedici sedi in Italia dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ente di ricerca nazionale dedicato all’astrofisica.
Il progetto GASP è stato finanziato dal Consiglio per la ricerca europeo con un ERC Advanced Grant di 2 milioni e mezzo di euro per cinque anni. L’importo è stato sfruttato principalmente per finanziare giovani ricercatrici e ricercatori a collaborare a questo progetto e a disseminare i risultati in conferenze di carattere nazionale e internazionale. Negli ultimi anni, all’Osservatorio di Padova una quindicina di persone tra personale a tempo indeterminato, PostDoc e dottorande/i, ha afferito al gruppo GASP. Al corposo gruppo si sono aggiunti circa venti altri ricercatori di istanza in altri istituti, sia sul suolo italiano che internazionale. La complessità degli studi affrontati infatti ha richiesto la collaborazione di scienziati con esperienze professionali complementari.


l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 271 VERSIONE CARTACEA

 

Fig. 9. Esempi di galassie che risentono della cosiddetta ram pressure stripping. Scie di materiale perso dalla galassia nel suo moto attraverso l’ammasso sono evidenti. GASP ha scoperto come in queste code si possano formare nuove stelle. (Credit: ESA/Hubble & NASA, M. Gullieuszik and the GASP team).

MESSIER 19 – Ammasso Globulare

Messier 19 - © NASA, ESA, and C. Johnson; Image Processing: Gladys Kobe

Indice dei contenuti

ABSTRACT

Si ritorna agli ammassi globulari con Messier 19. Per ricordare, a chi approccia la rubrica per la prima volta, gli ammassi globulari celesti sono insiemi di stelle a volte molto appariscenti che orbitano come satelliti intorno al centro di una galassia. Tali affascinanti strutture, ai confini delle galassie, riescono a mantenere al loro centro una densità di stelle molto elevata, assumendo una forma perlopiù sferica.

Storia delle osservazioni

Messier 19 è stato scoperto da Charles Messier il 5 Giugno 1764, solo due giorni dopo la scoperta di M18 (vedi Coelum Astronomia n°270). Lo descriveva così: “Nella notte tra il 5 ed il 6 Giugno, 1764, ho scoperto una nebulosa situata parallela ad Antares, tra lo Scorpione ed il piede sinistro dell’Ofiuco: la nebulosa è rotonda e non contiene alcuna stella; l’ho esaminata con un telescopio Gregoriano [un tipo di telescopio riflettore ideato dal matematico ed astronomo scozzese James Gregory, antecedente al telescopio Newtoniano, nda] calcolando il suo diametro in circa 3 minuti d’arco.”

Nel 1783, l’astronomo e fisico tedesco naturalizzato inglese William Herschel fu il primo a risolvere le componenti stellari della “nebulosa” vista da Messier, riclassificandola quindi in un ammasso, usando un telescopio da 10 piedi (circa tre metri) ed annotò: “A 250 ingrandimenti posso vedere cinque o sei stelle, mentre le altre appaiono come chiazze indistinte.”

L’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 271 VERSIONE CARTACEA


Cortina sotto le Stelle: Fotografie e Racconti di Cristian Bigontina tra Dolomiti e Astronomia

Foto 9: La Luna sorge sopra il Sorapis al tramonto mentre e in atto l’enrosadira.

Cristian Bigontina, fotografo paesaggista di Cortina d’Ampezzo, racconta la sua passione per la fotografia nata 13 anni fa grazie a corsi di astronomia. Specializzato in scatti notturni, unisce la bellezza del cielo stellato a quella delle Dolomiti, catturando eventi straordinari come l’aurora boreale, la cometa 12P Pons Brooks e la nebulosa di Orione. Con attrezzatura avanzata e tanta dedizione, Cristian trasforma ogni scatto in un’esperienza unica, cercando di trasmettere emozioni autentiche. Le sue opere celebrano la magia della natura, offrendo un viaggio visivo tra luci, silenzi e paesaggi mozzafiato.

Mi chiamo Cristian Bigontina, ho 38 anni, vivo a Cortina d’Ampezzo e sono appassionato di fotografie paesaggistiche. La mia passione per la fotografia è nata 13 anni fa grazie a dei corsi di astronomia che si svolgevano al planetario di Cortina. In questi corsi oltre a spiegare la volta celeste, mostravano come si potevano realizzare fotografie notturne.

Poi si sa che la fortuna ci vede benissimo e siccome mi facevano comodo ho vinto al gratta e vinci la somma necessaria per comprarmi una reflex (Canon 500d), la vita è davvero fatta di molte coincidenze! Nell’arco degli anni ho avuto la fortuna di confrontarmi con molti altri fotografi non solo di Cortina e grazie alla perseveranza nel cercare e testare differenti tecniche sono riuscito ad arrivare a quelli che considero, pur senza vanto, dei buoni risultati.

La fotografia per me non è mai stata la cattura dello scatto perfetto ma si tratta bensì di un’avventura. A partire dalla fase di studio passando per le nottate in bianco nei posti scelti, il vivere nel momento; vedere i cambiamenti di luce, l’aria che accarezza il viso, sentire il morbido prato o la dura roccia sotto ai piedi, ascoltare il rumore del silenzio appena cala la notte, cercare di creare scatti complessi, abbinare la bellezza della terra con quella del cielo. Confesso di non amare troppo la post produzione, preferisco l’impegno nel settare tutto al meglio sul campo così da ridurre al minimo ogni intervento successivo.

Attualmente mi sono minuto di un set completo composto da: una Canon 6D Mark II, 14mm samyang f 3.1, Canon serie L 16-35mm f2.8, Canon serie L 24-105mm f4, canon 70-300mm f 5.6, astroinseguitore Skywacher Star Adventurer. Un kit con il quale punto a realizzare fotografie capaci di creare un’emozione, forte quasi tangibile, quasi che l’osservatore sia poiin grado di immaginarsi in piedi li di fianco a me, in un magico e preciso momento. Naturalmente non sottostimo un’ennesima vivendo in luoghi che oltre alle bellissime montagne possono offrire un cielo notturno in tutta la sua magnificenza grazie all’esiguo inquinamento luminoso.

Se non bastasse nell’ultimo anno il cielo ci ha donato rari e affascinanti spettacoli. Fra essi l’aurora boreale (Sar) che sono riuscito ad immortalare in due occasioni. La prima è stata il 5 Novembre 2023 (foto 1).

Foto 1: Cortina d’Ampezzo e l’Aurora il 5 Novembre 2023

Ero a cena con mia moglie a San Vito di Cadore, nell’attesa in quella abitudine oramai consolidata di scrollare i social apprendo che era in atto un’aurora visibile sin dalle Dolomiti. Cena ovviamente saltata e con la comprensione di mia moglie rimasta comunque al ristorante, in poco ero a casa a prendere tutta l’attrezzatura necessari. Non avevo avuto tempo di progettare lo scatto e scegliere il posto più adatto perciò ho optato per il paese in cui abito, il belvedere di Pocol che si trova comunque lungo la strada per andare ai passi Giau e Falzarego. La foto è stata catturata con il 16-35mm, primo piano f 8, iso 1600 tempi da 2 secondi a 1 minuto e mezzo, i frame sono stati poi uniti in hdr in post produzione. Il cielo è uno scatto singolo di 10 secondi f8 8000 iso. Per il primo piano invece ho dovuto sfruttare più scatti per gestire le luci del paese.

L’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

APOD DEL 13 OTTOBRE 2024

Il video dell’aurora boreale realizzato dall’autore è stato riconosciuto come Astronomical Picture Of the Day del 13 ottobre 2024.
Setup e tecnica: zona delle Cinque Torri, Cortina d’Ampezzo. Scatto composto da 163 fotografie F 4.5, 13 secondi, iso 8000, focale 16mm. Canon 6D Mark II, 16-35mm Canon serie L F 2.8. Montaggio a cura di Diego Zardini.

Le immagini sono di proprietà di @Cristian Bigotina, vietata la riproduzione

L’articolo è pubblicato in COELUM 271 VERSIONE CARTACEA

VI Simposio Ottico Meccanici Italiani

VI Simposio Ottico Meccanici Italiani

07 dicembre 2024

Castel Gandolfo presso la Sede della Specola Vaticana – Albano Laziale

Il VI Simposio Nazionale degli Ottico-Meccanici Italiani rappresenta un appuntamento unico dedicato agli appassionati e professionisti del settore ottico e meccanico. Questo prestigioso evento si terrà nella suggestiva cornice della Specola Vaticana a Castel Gandolfo, un luogo iconico per l’astronomia e la scienza.

La giornata sarà ricca di attività, tra cui visite guidate al Museo degli Uffici della Specola e ai telescopi storici, come il celebre Carte du Ciel. Il programma prevede anche momenti di approfondimento scientifico con interventi di esperti, che presenteranno temi di grande rilevanza nel panorama ottico-meccanico, oltre a sessioni di osservazione astronomica serale con strumenti storici.

Un evento che celebra la tradizione e l’innovazione in un settore che guarda alle stelle, offrendo un’occasione per il confronto, la condivisione di esperienze e l’esplorazione di nuove frontiere tecnologiche.

Nel mese di agosto 2016, Gianfranco Coppola, storico ottico, e Adriano Lolli hanno dato vita a un progetto nato con l’obiettivo di riunire i vari operatori del settore. Con il prezioso contributo del compianto Paolo Campaner e di Antonello Satta, la prima edizione dell’evento si è tenuta a dicembre dello stesso anno a Musile di Piave, immortalata in un video disponibile su YouTube: Link al video.

Da quel momento, l’iniziativa è diventata un appuntamento annuale, con l’unica eccezione del periodo segnato dalla pandemia. Nel corso degli anni, l’evento è cresciuto progressivamente, come testimoniato in un video riassuntivo delle prime quattro edizioni, disponibile qui: Link al video.

La sesta edizione si terrà sabato 7 dicembre 2024 presso la prestigiosa sede della Specola Vaticana, a Castel Gandolfo – Albano Laziale. L’organizzazione di questa edizione è curata da Adriano Lolli, con il supporto di Claudio Costa e Antonello Satta.

Programma della Giornata

Programma del VI Simposio Nazionale Ottico Meccanici Italiani

Programma della giornata:

  • Ore 10-10:59: Arrivo e presentazioni presso la Specola Vaticana, Piazza Sabatini 5.
  • Ore 11: Visita al Museo degli Uffici della Specola Vaticana, con focus su storia, meteoriti, strumenti e libri antichi.
  • Ore 12: Visita ai Giardini Vaticani e pranzo al sacco.
  • Ore 15: Visita alle specole dei telescopi Carte du Ciel e Schmidt e all’attiguo Museo Astronomico.
  • Ore 17: Sala Conferenze Buffetti: apertura lavori con i saluti delle autorità ecclesiastiche.
  • Ore 20: Cena al ristorante Sor Capanna, Corso della Repubblica 12, Castel Gandolfo.
  • Ore 22: Osservazioni astronomiche (Luna, Saturno e Giove) con il telescopio storico Carte du Ciel del 1891.

 

Interventi e relatori al VI Simposio Ottico Meccanici Italiani

Relatori e tematiche principali

Adriano Lolli (Moderatore): L’ottica di Leonardo e il suo scopritore.

Richard A. D’Souza S.J.: Il telescopio Vaticano a tecnologia avanzata (VATT).

Claudio Costa: Dieci anni di restauro dei telescopi storici della Specola Vaticana.

Roberto Ciabattoni: Uso di filtri e camere multispettrali per la diagnostica su opere d’arte.

Roberto Ragazzoni: Campo grande, grandioso, grandissimo: i limiti dei telescopi.

Fabrizio Tamburini: Luce strutturata: dall’astronomia al computer ottico quantistico.

Massimo D’Apice: Compensatore di Dispersione Atmosferica basato su lamina ottica.

Antonello Satta: H-alpha solare: esperienze di autocostruzione.

Giove in opposizione: Uno spettacolo imperdibile del cielo di dicembre 2024

Condizioni favorevoli in dicembre per il gigante gassoso. Il 6 dicembre, Giove raggiungerà il perigeo, ossia il punto della sua orbita più vicino alla Terra. Il giorno successivo, il 7 dicembre, Giove sarà in opposizione al Sole esattamente dalla parte opposta rispetto al Sole nel cielo terrestre, sorgendo al tramonto e tramontando all’alba. La configurazione sommata alla precedente contribuirà a far apparire Giove come luminoso e visibile per tutta la notte, ideale per chi desidera osservarne i dettagli, come le sue bande di nubi e i principali satelliti. Infine, il 14 dicembre, Giove avrà una suggestiva congiunzione con la Luna, che passerà a circa 5°28′ a nord del pianeta.

Schema della posizione di Giove in opposizione rispetto al Sole. Orbite e pianeti non sono in scala.

Giove nella costellazione del Toro

Durante l’opposizione, mag -2.8 e diametro apparente 47,1”, Giove si troverà nella costellazione del Toro, una posizione che rende il pianeta facilmente individuabile. Dall’Italia, sarà visibile dalle prime ore della sera fino all’alba, raggiungendo il punto più alto nel cielo meridionale intorno alle 23:53. Sarà sufficiente guardare verso est subito dopo il tramonto per ammirare Giove come un punto estremamente luminoso.

Grazie alla coincidenza con il perigeo, ovvero il punto della sua orbita più vicino alla Terra, Giove apparirà più brillante e con un disco più grande del solito. Non va dimenticato tuttavia che essendo Giove un pianeta esterno la dimensione apparente del disco non subisce particolari variazioni fra la posizione in opposizione e quella in congiunzione con il Sole. Le condizioni saranno quindi ideali per l’osservazione astronomica, sia ad occhio nudo che con l’ausilio di telescopi.

Posizione di Giove in opposizione il 07 dicembre 2024. Crediti https://theskylive.com/

Un invito all’osservazione e alla condivisione

Per osservare Giove al meglio, consigliamo di utilizzare un telescopio, che permetterà di apprezzare dettagli straordinari come le sue bande atmosferiche colorate e i quattro satelliti galileiani: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Non meno spettacolare sarà il 14 dicembre, quando la Luna quasi piena sarà in congiunzione con Giove, creando un suggestivo duetto celeste nella costellazione del Toro.

La redazione di Coelum Astronomia, attraverso la sua rubrica mensile Il cielo del mese, dedica ampio spazio a questi eventi astronomici, con consigli pratici per l’osservazione e approfondimenti sulle caratteristiche dei pianeti. Vi invitiamo a consultare la nostra guida per non perdere nessun dettaglio di questo affascinante fenomeno.

Condividete le vostre immagini su PhotoCoelum

Se avete la passione per la fotografia astronomica, approfittate di queste notti per catturare lo spettacolo di Giove in opposizione. Caricate le vostre immagini su PhotoCoelum, la nostra piattaforma dedicata alla condivisione delle più belle foto astronomiche. Le migliori immagini saranno selezionate e pubblicate nelle nostre future edizioni, contribuendo a diffondere la meraviglia del cielo notturno.

Non dimenticate di condividere con noi le vostre impressioni e osservazioni: il cielo di dicembre ci offre opportunità straordinarie per apprezzare la bellezza e la vastità dell’universo.


Vuoi essere sempre aggiornato sul Cielo del Mese?

ISCRIVITI alla NEWSLETTER!

Infinity2 – Il Liceo di Montegiorgio Vola nello Spazio

Le possibili applicazioni dell’anidride carbonica nello spazio e l’alga spirulina futuro cibo degli astronauti.

Dopo Infinity I pubblicato in Coelum Astronomia n°262 arrivano nuove sonde nello spazio per il Liceo Scientifico di Montegiorgio (FM): il progetto “Infinity 2”.

a cura di Antolini Ettore, Braschi Matteo, Staderini Alessandro, Vitali Chiara.

Introduzione

Dopo “Infinity 1” nuove sonde spaziali realizzate presso il Liceo Scientifico “E.Medi” di Montegiorgio – IISS “ C.Urbani” (FM) – e lanciate nello spazio dall’Islanda.

Un progetto straordinario quello che è stato portato avanti dagli studenti e dalle studentesse del Liceo che, divisi in due team di lavoro, gruppo “base” e gruppo di “missione”, hanno ideato e realizzato i lanci delle sonde, cariche di esperimenti scientifici, nel nord Europa dal 3 al 12 aprile 2024 insieme ai loro docenti. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha attenzionato fin da subito la rilevanza di questo Progetto presentandolo a Roma.
Infinity2” ha fatto seguito ad un primo esperimento condotto tra il 2022 ed il 2023, consistente nel lancio in Italia di una sonda con pallone aerostatico per studiare i gas serra e per fare riprese video concernenti la curvatura terrestre. Il credito acquisito da questa esperienza didattica, premiata dall’ASI a Milano durante il Contest 2023 “Verso lo spazio con Samantha” direttamente dall’astronauta Samanta Cristoforetti, ha incoraggiato i docenti del team di ricerca e sperimentazione didattica Antolini Ettore,Vallorani Andrea e Vitali Chiara nella prosecuzione dell’applicazione delle discipline STEM alla innovativa “didattica aerospaziale” . Questa volta i ragazzi dello Scientifico “E.Medi”, supportati anche dai docenti Braschi Matteo e Staderini Alessandro, hanno predisposto due nuovi esperimenti scientifici rispetto all’esperienza precedente (Infinity1): la sonda “Ísland”, che ha portato a bordo un esperimento per misurare l’incidenza dei raggi UVB e UVC su tratti genomici della spirulina, e la sonda “Helianthus”, che è stata equipaggiata con due speciali capsule contenenti CO2 per sperimentare la possibilità di trasformare l’anidride carbonica in ossigeno in seguito all’urto delle particelle, accelerate dall’energia d’impatto proveniente dai raggi cosmici. Anche il progetto “Infinity 2”, come il suo precursore “Infinity1”, è nato come attività didattica per alunni di scuola superiore: gli obiettivi pertanto sono stati calibrati in modo da favorire la buona riuscita sia dell’attività scientifico-sperimentale che dell’attività formativa e di crescita personale dei discenti, con l’ambizione di far vivere loro un sogno e l’emozione fantastica di vederlo realizzato tra le loro mani. “Infinity2” è stato condotto grazie al sostegno integrato più fondi diversi riservati alla scuola e qui di seguito elencati:
– Monitor ex 440 Transizione ecologica e digitale
– Pon Avviso 22550 del 12/04/2022 – FESR REAC EU – Laboratori green, sostenibili e innovativi per le scuole
– PNRR Piano Scuola 4.0 – Azione 1 – Next generation class – Ambienti di apprendimento innovativi
– PNRR Piano Scuola 4.0 – Azione 2 – Next generation labs – Laboratori per le professioni digitali del futuro
– PNRR Riduzione dei divari territoriali – Azioni di prevenzione e contrasto alla dispersione scolastica
– PNRR Formazione docenti Progetti nazionali per lo sviluppo di modelli innovativi di didattica digitale integrata
La capacità innovativa gestionale con il conseguente impiego creativo delle risorse è stata attenzionata dall’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca) e condivisa nella biblioteca nazionale.
Inoltre è risultata fondamentale la collaborazione di Giovanni Fuggetta e il sostegno della Leonardo s.p.a., attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, e il patrocinio dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana).

I 36 ragazzi del Liceo Scientifico “Medi” di Montegiorgio hanno lavorato nei laboratori della scuola opportunamente attrezzati con l’acquisto di strumenti e materiali specifici per la preparazione delle sonde: dieci di loro hanno raggiunto l’Islanda per i lanci mentre gli altri hanno continuato a coordinare le attività dalla sede scolastica. “Infinity 2” è stata un’esperienza sperimentale altamente formativa, che ha collocato l’Istituto Scolastico all’avanguardia nel settore nuovissimo della didattica aerospaziale, addirittura: “prima scuola superiore al mondo” secondo le parole dell’astronauta Samantha Cristoforetti pronunciate durante la restituzione dei dati degli esperimenti in ASI durante la notte dei ricercatori il 27 settembre 2024.

Il documento pubblicato nella Biblioteca Nazionale INDIRE è disponibile https://biblioteca.indire.it/content/994/show

Infinity II il saluto di Samantha Cristoforetti 

Affrontiamo le questioni

Infinity2 è stata una missione che ha visto impegnati alcuni studenti e i loro docenti ed ha avuto come obiettivo il lancio di palloni aerostatici in Islanda. A ciascun pallone aerostatico è stata agganciata una sonda costruita dagli stessi studenti e dai loro insegnanti, ognuna con un diverso esperimento.
Uno dei lanci ha riguardato l’invio nella stratosfera di una sonda (denominata Ìsland) con agganciate due capsule contenenti alga spirulina (Arthrospira platensis). L’intento è stato quello di misurare, tramite analisi del DNA eseguita prima e dopo il lancio, l’incidenza dei raggi UVB, UVC e cosmici su tratti genomici della spirulina. Nella stessa esperienza, inoltre, si è confrontata anche la capacità di isolamento termico dell’acqua e della CO2.

Una delegazione di ragazzi del team Infinity2: Miconi Chiara, Finucci Sofia, Monini Matilde, Santucci Nicola, Romagnoli Alessio, Tiburzi Alessandro, Santoni Tommaso, Vittori Matteo, Espinosa Valentino, Nori Nicola.

Un altro lancio ha previsto invece di far salire fino alla stratosfera una sonda (denominata Helianthus) con agganciate due capsule in vetro contenenti CO2. L’esperimento mirava a verificare la possibilità di trasformare l’anidride carbonica in ossigeno molecolare a seguito dell’urto delle particelle della stessa CO2 accelerate dall’energia d’impatto proveniente dai raggi cosmici su un catalizzatore in oro.

Sonda Island

Il meccanismo d’azione ipotizzato consiste nel far sì che i raggi cosmici colpiscano la molecola di anidride carbonica. L’urto con conseguente trasferimento di energia dal raggio cosmico alla molecola di CO2 dovrebbe accelerare la molecola fino a farla urtare contro il catalizzatore in oro con un’energia tale da provocare la separazione del carbonio dall’ossigeno. Tale processo innescherebbe una reazione a catena che dovrebbe portare ad una trasformazione della CO2 in ossigeno molecolare.

Partendo dai risultati dell’esperimento degli scienziati Giapis e Yao del California Institute of Technology (Caltech) in cui sono riusciti a convertire l’anidride carbonica in ossigeno molecolare, si è pensato di utilizzare i raggi cosmici per accelerare la CO2. L’energia necessaria a far acquisire sufficiente energia cinetica da spezzare la molecola di anidride carbonica ed avere la ricombinazione molecolare dell’ossigeno a seguito dell’urto con la lamina d’oro è di almeno 80 eV. L’energia dei raggi cosmici è tra i 108 eV e 1020 eV quindi enormemente superiore.

Sonda Helianthus

Oltre ai dati in letteratura emersi, la nostra analisi statistica ha confermato la possibilità di intercettare raggi cosmici con un’energia sufficiente ad innescare la reazione di scissione con una probabilità prossima al 100% non appena al di sopra dei 15 Km di quota.

Da letteratura specializzata risulta che il numero di particelle di alta energia almeno 1 GeV che colpisce la superficie di 1 metro quadrato in un secondo è circa 1000 (tra i 15 ed i 40 km di altezza). Nel nostro caso la superficie interessata (lamina d’oro) era di circa 20 cm2.

La sonda è rimasta esposta ai raggi per circa 115 minuti (6900 s) e la probabilità considerando una distribuzione Poissoniana che venisse colpita da almeno un raggio era praticamente del 100%:

Ad essere colpite dai raggi cosmici sono state delle ampolle in vetro (sistemi di reazione) con all’interno una lamina in oro con la funzione di catalizzatore. Nelle ampolle, provviste di apposito rubinetto di carica/scarica, è stato dapprima fatto il vuoto parziale, e successivamente sono state caricate di anidride carbonica
I vettori di lancio utilizzati nei due esperimenti sono stati due sonde completamente progettate e realizzate nei laboratori della scuola. Le sonde sono state abbinate ciascuna ad un vettore di trazione, un pallone aerostatico P2000 con punto di esplosione tra i 39000 e i 41000 m.

Gonfiaggio e lancio sonda

ANALISI DEI DATI

l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 271 VERSIONE CARTACEA

Scoprire le Onde Gravitazionali a Frequenze Nanohertz: il Ruolo di MeerKAT Pulsar Timing Array MPTA

Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)

La ricerca sulle onde gravitazionali continua a rivelare nuovi orizzonti nell’astronomia moderna. Uno dei protagonisti di questa rivoluzione è il MeerKAT Pulsar Timing Array (MPTA), un progetto che sfrutta le straordinarie capacità del radiotelescopio MeerKAT per esplorare fenomeni cosmici a frequenze nanohertz. Questo approccio unico offre una finestra su eventi che si svolgono su scale temporali e spaziali vastissime, come la fusione di buchi neri supermassicci.

La sfida di osservare l’universo con i pulsar

I pulsar millisecondari sono al centro di questo straordinario esperimento. Questi oggetti, che emettono impulsi radio con regolarità estrema, funzionano come orologi cosmici incredibilmente precisi. Misurando con accuratezza i tempi di arrivo di questi impulsi sulla Terra, gli scienziati possono individuare lievi variazioni attribuibili alla distorsione dello spazio-tempo causata dalle onde gravitazionali.

Il MPTA ha registrato osservazioni di 83 pulsar in un periodo di 4,5 anni, accumulando un’enorme quantità di dati ad alta precisione. Con un errore mediano di soli 3,1 microsecondi, questi dati rappresentano uno dei dataset più completi e dettagliati mai raccolti in questo campo. Secondo il team, questa precisione consente di esplorare il fondo stocastico di onde gravitazionali, una sorta di “rumore cosmico” generato dall’incoerente sovrapposizione di onde gravitazionali provenienti da sorgenti come binarie di buchi neri supermassicci e fenomeni esotici dell’universo primordiale.

Prime evidenze di un fondo gravitazionale

Le osservazioni del MPTA hanno fornito indizi incoraggianti sulla presenza di un fondo gravitazionale a frequenze nanohertz. Questo segnale si manifesta come una correlazione temporale nei residui di tempo misurati tra i pulsar. Tali correlazioni, modellate attraverso la funzione Hellings-Downs, indicano che il segnale potrebbe effettivamente derivare da onde gravitazionali e non da processi casuali o da rumori strumentali.

Uno degli aspetti più affascinanti di questa ricerca è la rilevazione di un potenziale “hotspot” anisotropico nella mappa delle onde gravitazionali a 7 nHz. Sebbene sia necessario approfondire per confermare la natura astrofisica di questo segnale, questa scoperta potrebbe suggerire che alcune sorgenti di onde gravitazionali siano distribuite in modo non uniforme nel cielo.

Il video mostra una rappresentazione artistica di coppie di buchi neri supermassicci e del tessuto spazio-temporale distorto dal loro impatto. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology

Collaborazione e confronto globale

I risultati del MPTA si inseriscono in un contesto internazionale di ricerca, in cui altre collaborazioni, come il North American Nanohertz Observatory for Gravitational Waves (NANOGrav) e l’European Pulsar Timing Array (EPTA), hanno riportato evidenze simili. La loro significatività statistica varia tra 3 e 4𝜎, ma un consenso definitivo sulla scoperta di un fondo gravitazionale richiede ulteriori verifiche.

La precisione unica di MeerKAT permette però al MPTA di emergere come un contributore fondamentale. I dati mostrano un’ampiezza del segnale gravitazionale leggermente superiore rispetto a quella registrata da altre collaborazioni, un risultato che potrebbe derivare dalla maggiore sensibilità del radiotelescopio MeerKAT e dalla qualità del suo set di dati.

Una finestra su fenomeni straordinari

La ricerca del MPTA non si limita a confermare l’esistenza di onde gravitazionali, ma punta anche a caratterizzarne la distribuzione e l’origine. Se confermata, l’anisotropia del segnale potrebbe fornire indizi fondamentali sull’evoluzione dei buchi neri supermassicci e sulla loro distribuzione nell’universo. Allo stesso modo, un fondo gravitazionale isotropo potrebbe supportare teorie legate ai fenomeni dell’universo primordiale, come la formazione di stringhe cosmiche o le transizioni di fase.

Il futuro della ricerca con MeerKAT

Con un dataset che continua a crescere, il futuro della ricerca del MPTA appare promettente. Nuove osservazioni e aggiornamenti tecnologici miglioreranno ulteriormente la sensibilità, permettendo di distinguere con maggiore precisione i segnali astrofisici dai rumori di fondo. Questo lavoro non solo aiuterà a confermare l’esistenza del fondo gravitazionale, ma aprirà anche la strada a una nuova comprensione dei processi che hanno plasmato il nostro universo.

Mentre gli scienziati continuano a esplorare le onde gravitazionali con il MPTA, una cosa è certa: siamo testimoni di una nuova era dell’astronomia, in cui la comprensione dell’universo si espande ben oltre i limiti della luce visibile, raggiungendo le pieghe più sottili dello spazio-tempo stesso.

Le antenne che formano il radiotelescopio sudafricano MeerKAT. Crediti: Enrico Sacchetti / Inaf

Il MeerKAT Pulsar Timing Array è un esperimento internazionale che utilizza il sensibilissimo radiotelescopio MeerKAT (gestito dal South African Radio Astronomy Observatory) proprio per osservare, circa ogni due settimane, decine e decine di pulsar e misurare il tempo di arrivo degli impulsi radio con una precisione che può raggiungere le decine di nanosecondi. “Grazie a queste caratteristiche, MPTA costituisce il più potente rivelatore di onde gravitazionali di frequenza ultra bassa nell’intero emisfero australe”, sottolinea Federico Abbate, ricercatore dell’INAF di Cagliari e tra gli autori di tutti e tre gli articoli pubblicati oggi. 

A 18 mesi di distanza dalla prima serie di pubblicazioni da parte di altri tre esperimenti internazionali (tra cui l’European Pulsar Timing Array, EPTA, in cui sono è coinvolto INAF, l’Università di Milano Bicocca e il Gran Sasso Science Institute), i risultati pubblicati oggi offrono nuove prospettive per la comprensione dei buchi neri più massicci dell’Universo, sul loro ruolo nella formazione del cosmo e sull’architettura cosmica che hanno lasciato dietro di sé. 

Caterina Tiburzi, ricercatrice dell’INAF di Cagliari coinvolta nella collaborazione EPTA, spiega: “Comprendere e modellare il rumore di fondo che affligge il segnale delle pulsar, causato dagli effetti del gas ionizzato interposto tra le stelle, la Terra e il Sole, è l’elemento chiave per confermare definitivamente i risultati di MPTA, così come quelli di EPTA e degli altri esperimenti precedenti. I nuovi ricevitori a bassa frequenza di MeerKAT saranno strumenti straordinari per questo scopo”. 

“Oltre all’entusiasmo per i nuovi esiti osservativi – conclude infine Andrea Possenti, dell’INAF Cagliari, e membro della collaborazione MPTA fin dalla sua fondazione nel 2018 – questo è un momento cruciale, che dimostra come la collaborazione internazionale negli esperimenti di tipo Pulsar Timing Array, nei quali INAF è coinvolto da oltre 20 anni, spalancherà infine le porte dell’astronomia delle onde gravitazionali di frequenza ultra bassa”. Interviste a cura di Media INAF.

Fonti: Oxford Accademy

Il 2025 l’Anno dei Lunistizi Maggiori

Fig. 2 - Variazione della declinazione apparente della Luna nel biennio 2024-2025: periodo lunistiziale. Dati: JPL’s Horizons system NASA (DE441), coordinate topocentriche, intervallo un’ora. Monte Mario, Roma (Lat. 41°55′21″N; Long. 12°27′09″E).

La Luna è protagonista di diversi movimenti apparenti, alcuni dei quali danno vita a fenomeni affascinanti e spesso rari. Un esempio significativo sono i lunistizi, che si verificano con un ciclo di circa 18,6 anni e che possono essere osservati solo poche volte nel corso della vita di una persona.

Nel 2025 avremo l’opportunità di assistere ai lunistizi maggiori e sarà possibile ammirare la Luna sorgere e tramontare nei suoi punti di declinazione massima e minima.

Il prof. Salvatore Marinucci ci guida attraverso una spiegazione dettagliata del fenomeno, offrendo utili consigli per prepararsi al meglio e non perdere questi eventi straordinari.

I lunistizi maggiori sono fenomeni astronomici complessi che offrono preziose opportunità per comprendere l’influenza delle forze gravitazionali sulla Luna. Per le antiche civiltà questi eventi probabilmente rappresentavano momenti di connessione con il cielo e forse erano inclusi nei loro calendari rituali. Oggi, grazie agli strumenti moderni e ai progressi dell’astronomia, possiamo documentare questi inconsueti fenomeni. Il 2025 offrirà interessanti occasioni per appassionati e osservatori del cielo, che potranno catturare immagini e video indimenticabili del nostro affascinante satellite naturale.

Generalità sui lunistizi

I lunistizi sono fenomeni astronomici che si verificano ciclicamente. Durante il periodo dei lunistizi maggiori, la Luna sorge e tramonta progressivamente più a nord e più a sud fino a raggiungere posizioni limite ogni 18,6 anni circa. Quando la Luna sorge al suo estremo settentrionale descrive un ampio arco nel cielo, apparendo molto alta. Invece, quando sorge al suo estremo meridionale percorre un arco più breve, apparendo molto bassa all’osservatore: questo percorso della Luna è particolarmente evidente durante il plenilunio. Si hanno i lunistizi maggiori, in generale, quando la Luna raggiunge posizioni limite, ovvero i punti più estremi a settentrione e a meridione (Fig. 1).

Fig. 1 – Le posizioni assunte dalla Luna (L) al suo sorgere sull’orizzonte durante i lunistizi minori e maggiori
(periodo 18,6 anni circa). Confronto con le posizioni estreme raggiunte dal Sole (S) in un anno.
A ovest, la situazione risulta essere sostanzialmente simmetrica.

Nel corso del biennio 2024-2025 si può notare che la Luna sorge e tramonta alternativamente più a nord e più a sud del solito con un periodo di circa due settimane, raggiungendo declinazioni massime e minime quasi mensilmente (Fig.2). La Luna sorge e tramonta sull’orizzonte locale in posizioni più distanti rispetto a quelle raggiunte dal Sole, che si arresta ai solstizi d’estate e d’inverno.

Fig. 2 – Variazione della declinazione apparente della Luna nel biennio 2024-2025: periodo lunistiziale.
Dati: JPL’s Horizons system NASA (DE441), coordinate topocentriche, intervallo un’ora. Monte Mario, Roma (Lat. 41°55′21″N; Long. 12°27′09″E).

Le antiche popolazioni, che osservavano la Luna per scopi pratici e rituali, potrebbero aver preso in considerazione questi fenomeni, anche se accadono poco frequentemente nel corso della vita di un individuo. Diversi studi suggeriscono che numerosi siti archeologici siano allineati ai lunistizi. Sebbene non ci siano prove definitive sulla consapevolezza degli osservatori dell’epoca, è plausibile che questi eventi suggestivi abbiano avuto un qualche ruolo nelle antiche culture.


l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 271 VERSIONE CARTACEA

Coelum Astronomia: Un Natale di Solidarietà e Formazione 

 

Quest’anno, Coelum Astronomia sceglie di celebrare il Natale con un gesto concreto di solidarietà e supporto alla formazione scolastica. Dal 1° dicembre 2024 al 6 gennaio 2025, per ogni abbonamento sottoscritto o rinnovato, Coelum attiverà due abbonamenti gratuiti a favore di istituti scolastici di secondo grado.

Perché lo facciamo?

Crediamo che la divulgazione scientifica debba raggiungere anche i più giovani e che le scuole siano il terreno fertile per seminare curiosità, passione e conoscenza. Con questa iniziativa, vogliamo contribuire a portare più scienza nelle aule, arricchendo il percorso educativo degli studenti.


Come funziona l’iniziativa?

1️⃣ Ogni abbonamento, due omaggi scolastici
Per ogni abbonamento sottoscritto o rinnovato durante il periodo natalizio, due istituti scolastici di secondo grado riceveranno un abbonamento gratuito a Coelum Astronomia, valido per un anno.

2️⃣ Una lettera speciale nel primo numero
Gli istituti selezionati riceveranno il primo numero dell’abbonamento accompagnato da una lettera che presenterà l’iniziativa e il valore educativo della rivista.

3️⃣ Il tuo contributo conta!
Gli abbonati potranno segnalare le scuole che desiderano includere nell’iniziativa. Inoltre, sarà possibile scegliere se essere citati nella lettera inviata all’istituto oppure mantenere l’anonimato. Se non ci sono segnalazioni, Coelum sceglierà le scuole beneficiarie in base a criteri di necessità e interesse.


Un impegno a lungo termine per le scuole

Questa iniziativa si inserisce in un programma più ampio che Coelum dedicherà agli istituti scolastici per tutto il 2025. Con la nostra rubrica didattica già esistente e nuovi servizi in arrivo, puntiamo a supportare sempre di più gli insegnanti di materie scientifiche (STEM) e a promuovere l’astronomia e l’aerospazio come strumenti per ispirare gli studenti.


Unisciti a noi e fai la differenza!

Con un semplice abbonamento, puoi regalare conoscenza e ispirazione a centinaia di studenti in tutta Italia. Non è solo un dono per te, ma un contributo tangibile alla crescita educativa delle nuove generazioni.

📚 Abbonati ora e regala un Natale di scienza e conoscenza!
Con il abbonamento più scienza nelle scuole: insieme per crescere!


 

La Luna del Mese – Anno 2024

Questo contenuto è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l'abbonamento Clicca qui . Se sei già abbonato accedi al tuo account dall' Area Riservata

Coelum Astronomia 271 VI/2024 Digitale

0
Questo contenuto è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l'abbonamento Clicca qui . Se sei già abbonato accedi al tuo account dall' Area Riservata

La Galassia Sombrero brilla in una nuova immagine del telescopio JWST

L'immagine mostra una galassia su uno sfondo nero dello spazio. La galassia appare come un disco molto oblongo di colore blu, inclinato da sinistra a destra (circa dalle ore 10 alle ore 5). Al centro spicca un piccolo nucleo luminoso. Un disco interno più definito presenta una dispersione di stelle punteggiate, mentre il disco esterno, di tonalità bianco-azzurro, ha una struttura irregolare e simile a nuvole. Sullo sfondo nero dello spazio si notano puntini colorati, rappresentanti galassie lontane, disseminati intorno alla galassia principale. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI

Il telescopio spaziale James Webb JWST ci regala un nuovo spettacolare sguardo alla Galassia Sombrero, una delle strutture cosmiche più affascinanti del nostro universo. Grazie alla sua straordinaria capacità di osservare l’infrarosso, Webb ha catturato dettagli mai visti prima, offrendo agli astronomi informazioni preziose sulla composizione, la storia e i segreti di questa galassia. Scopriamo insieme le ultime rivelazioni di questa icona cosmica, immersa tra polveri stellari e luce antica.

L’immagine mostra una galassia su uno sfondo nero dello spazio. La galassia appare come un disco molto oblongo di colore blu, inclinato da sinistra a destra (circa dalle ore 10 alle ore 5). Al centro spicca un piccolo nucleo luminoso. Un disco interno più definito presenta una dispersione di stelle punteggiate, mentre il disco esterno, di tonalità bianco-azzurro, ha una struttura irregolare e simile a nuvole. Sullo sfondo nero dello spazio si notano puntini colorati, rappresentanti galassie lontane, disseminati intorno alla galassia principale. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI

Il telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA continua a stupire il mondo scientifico e il pubblico con le sue straordinarie immagini del cosmo. Stavolta, il protagonista è la Galassia Sombrero (M104), che si presenta in tutta la sua maestosità in una nuova immagine catturata dall’osservatorio spaziale.

La Galassia Sombrero, nota per la sua iconica forma a cappello con un nucleo brillante circondato da un disco scuro di polvere, si trova a circa 31 milioni di anni luce dalla Terra nella costellazione della Vergine. Grazie alle capacità all’infrarosso di Webb, i dettagli precedentemente nascosti di questa galassia sono ora visibili con una chiarezza senza precedenti.

I ricercatori affermano che la natura grumosa della polvere, dove MIRI rileva molecole contenenti carbonio chiamate idrocarburi aromatici policiclici, può indicare la presenza di giovani regioni di formazione stellare. Tuttavia, a differenza di alcune galassie studiate con Webb, tra cui Messier 82 , dove nascono 10 volte più stelle rispetto alla Via Lattea, la galassia Sombrero non è un focolaio particolare di formazione stellare. Gli anelli della galassia Sombrero producono meno di una massa solare di stelle all’anno, rispetto alle circa due masse solari all’anno della Via Lattea.

Il buco nero supermassiccio al centro della galassia Sombrero, noto anche come nucleo galattico attivo (AGN), è piuttosto docile, persino con una massa di ben 9 miliardi di masse solari. È classificato come un AGN a bassa luminosità, che fa lentamente uno spuntino con il materiale in caduta dalla galassia, mentre emette un getto luminoso, relativamente piccolo.

Sempre all’interno della galassia Sombrero risiedono circa 2000 ammassi globulari, una raccolta di centinaia di migliaia di vecchie stelle tenute insieme dalla gravità. Questo tipo di sistema funge da pseudo laboratorio per gli astronomi per studiare le stelle: migliaia di stelle all’interno di un sistema con la stessa età, ma masse e altre proprietà variabili rappresentano un’intrigante opportunità per studi comparativi.

Un’immagine a due pannelli.
Vista Webb (in alto): La galassia appare come un disco molto oblongo, blu, che si estende diagonalmente (dalle 10 alle 5). Il nucleo è piccolo e brillante al centro, circondato da un disco interno chiaro punteggiato di stelle. Il disco esterno, bianco-azzurro, ha una struttura irregolare, simile a nuvole.
Vista Hubble (in basso): La galassia si presenta come un disco oblongo di colore bianco pallido, con un nucleo brillante che domina il disco interno. Il disco esterno è più scuro e presenta una struttura irregolare. Credit:
NASA, ESA, CSA, STScI, Hubble Heritage Team (STScI/AURA)

L’immagine rivela un disco interno luminoso, punteggiato di stelle, che sembra emergere dal nucleo brillante. Intorno, un disco esterno bianco-azzurro mostra strutture irregolari, simili a nuvole, che sembrano catturare la luce delle stelle in formazione. Sullo sfondo, lo spazio nero è punteggiato di galassie lontane che testimoniano l’immensità del cosmo.

Questa osservazione offre agli scienziati un’opportunità unica per studiare la struttura e la composizione della Galassia Sombrero. I dati raccolti da Webb potranno aiutare a rispondere a domande fondamentali sulla formazione e l’evoluzione delle galassie a spirale con bulbi prominenti.

Il telescopio JWST, lanciato nel 2021, continua a dimostrare la sua capacità di spingersi oltre i limiti dell’esplorazione cosmica, aprendo nuove finestre sul nostro universo. Con questa immagine, Webb non solo ci mostra un capolavoro galattico, ma stimola anche l’immaginazione e il desiderio di comprendere meglio l’universo che ci circonda.

Fonte: https://esawebb.org/news/weic2427/

La Nebulosa Chitarra: quando una stella rock lascia la sua scia nel cosmo

Raggi X: NASA/CXC/Stanford Univ./M. de Vries et al.; Ottico: (Hubble) NASA/ESA/STScI e (Palomar) Hale Telescope/Palomar/CalTech; Elaborazione delle immagini: NASA/CXC/SAO/L. Frattare

Gli astronomi hanno recentemente osservato un oggetto cosmico straordinario, soprannominato Nebulosa Chitarra, utilizzando i telescopi spaziali Chandra e Hubble della NASA. Questa struttura, associata alla pulsar PSR B2224+65, deve il suo nome alla somiglianza con una chitarra, visibile nella luce dell’idrogeno incandescente. La forma caratteristica deriva da bolle create dalle particelle espulse dalla pulsar PSR B2224+65 attraverso un vento costante.

Al vertice della “chitarra” si trova la pulsar, una stella di neutroni in rapida rotazione, residuo del collasso di una stella massiccia. Mentre si muove nello spazio, la pulsar emette un filamento di particelle e luce X, catturato da Chandra, che si estende per circa due anni luce. Questo filamento ha mostrato variazioni nel corso di due decenni, come evidenziato dalle osservazioni di Chandra nel 2000, 2006, 2012 e 2021.

La combinazione di rotazione rapida e campi magnetici intensi nella pulsar porta all’accelerazione delle particelle e alla produzione di radiazioni ad alta energia, generando coppie di elettroni e positroni. Queste particelle, spiraleggiando lungo le linee del campo magnetico, emettono raggi X rilevati da Chandra. Quando la pulsar e la sua nebulosa circostante attraversano regioni di gas più denso, le particelle più energetiche riescono a sfuggire, formando il filamento osservato.

Raggi X: NASA/CXC/Stanford Univ./M. de Vries et al.; Ottico: (Hubble) NASA/ESA/STScI e (Palomar) Hale Telescope/Palomar/CalTech; Elaborazione delle immagini: NASA/CXC/SAO/L. Frattare

Le osservazioni suggeriscono che le variazioni nella densità del mezzo interstellare influenzano sia la formazione delle bolle nella nebulosa a idrogeno sia le fluttuazioni nel filamento di raggi X, simile a una fiamma che si accende e si spegne. Questo fenomeno offre agli astronomi l’opportunità di studiare come elettroni e positroni si muovono attraverso il mezzo interstellare e come questi processi contribuiscono all’iniezione di particelle nel cosmo.

Il programma Chandra è gestito dal Marshall Space Flight Center della NASA, mentre lo Smithsonian Astrophysical Observatory controlla le operazioni scientifiche e di volo.

Fonti: NASA

La prima immagine dettagliata di una stella morente fuori dalla Via Lattea: WOH G64

La stella WOH G64, catturata dallo strumento GRAVITY sul Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO). Si tratta della prima immagine ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, la Via Lattea. La stella si trova nella Grande Nube di Magellano, a oltre 160.000 anni luce di distanza. Al centro dell’immagine si nota un bozzolo luminoso di polvere che avvolge la stella. Un anello ellittico più debole intorno ad esso potrebbe rappresentare il bordo interno di un toro di polvere, ma saranno necessarie ulteriori osservazioni per confermare questa ipotesi. Credit: ESO/K. Ohnaka et al.

Un passo significativo nell’astronomia è stato compiuto con l’acquisizione della prima immagine ravvicinata di una stella morente in una galassia oltre la Via Lattea.

Grazie alla precisione del Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’ESO, gli astronomi hanno immortalato WOH G64, una supergigante rossa situata nella Grande Nube di Magellano, a 160.000 anni luce da noi. Questo traguardo, guidato dall’astrofisico Keiichi Ohnaka dell’Universidad Andrés Bello, rappresenta un punto di svolta per lo studio delle stelle extragalattiche, finora estremamente difficili da osservare.

La stella WOH G64, catturata dallo strumento GRAVITY sul Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO). Si tratta della prima immagine ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, la Via Lattea. La stella si trova nella Grande Nube di Magellano, a oltre 160.000 anni luce di distanza. Al centro dell’immagine si nota un bozzolo luminoso di polvere che avvolge la stella. Un anello ellittico più debole intorno ad esso potrebbe rappresentare il bordo interno di un toro di polvere, ma saranno necessarie ulteriori osservazioni per confermare questa ipotesi. Credit:
ESO/K. Ohnaka et al.

Una stella gigante in trasformazione
Con una massa circa 2000 volte superiore a quella del Sole, WOH G64 è nota per essere una delle stelle più grandi della sua categoria. L’immagine, ottenuta con lo strumento di seconda generazione GRAVITY, mostra un bozzolo di polvere e gas che circonda la stella in una forma inaspettata e allungata, simile a un uovo. Secondo Ohnaka, questo bozzolo potrebbe essere il risultato della massiccia espulsione di materiale prima dell’inevitabile esplosione in supernova.

Le osservazioni hanno rivelato che la stella si è notevolmente affievolita nell’ultimo decennio, un segno di cambiamenti significativi nelle sue fasi finali. Gli scienziati ritengono che il bozzolo e il suo oscuramento possano essere influenzati da materiali espulsi o dalla presenza di una stella compagna, ancora ipotetica.

Un’opportunità unica di studio in tempo reale
Osservare l’evoluzione di una stella di questa portata è una rara opportunità per gli astronomi. Secondo Gerd Weigelt del Max Planck Institute for Radio Astronomy, questi cambiamenti offrono la possibilità di studiare in diretta gli ultimi istanti di vita di una supergigante rossa. Jacco van Loon, direttore dell’Osservatorio Keele, ha sottolineato l’importanza di WOH G64 come caso estremo di perdita di massa e oscuramento, un fenomeno che potrebbe precedere una catastrofica esplosione.

WOH G64, situata nella Grande Nube di Magellano a oltre 160.000 anni luce di distanza, è una stella morente con una dimensione circa 2000 volte quella del Sole. Questa immagine rappresenta la prima foto ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, resa possibile dal Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’ESO, in Cile.
La foto, ottenuta con lo strumento GRAVITY del VLTI, mostra la stella avvolta in un grande bozzolo di polvere a forma di uovo. Accanto all’immagine reale, un’illustrazione artistica ricostruisce la geometria delle strutture attorno alla stella, tra cui l’involucro luminoso e un torus polveroso più debole. La conferma della presenza e della forma di questo torus richiederà ulteriori osservazioni. Credit:
ESO/K. Ohnaka et al., L. Calçada

Strumentazione e futuro delle osservazioni
Le difficoltà di osservazione aumentano man mano che la stella si affievolisce. Tuttavia, futuri aggiornamenti come GRAVITY+ promettono di migliorare la capacità del VLTI, consentendo ulteriori studi di follow-up. Le nuove osservazioni aiuteranno a comprendere meglio i meccanismi delle fasi finali delle stelle giganti e a verificare modelli teorici.

Questo progresso segna una pietra miliare nell’osservazione delle stelle extragalattiche e prepara il terreno per scoperte future, aumentando la comprensione della vita e della morte stellare su scala cosmica.

Fonti: ESO

DESI d’altro canto è a favore del modello standard

The sparkling band of the Milky Way Galaxy backdrops the Nicholas U. Mayall 4-meter Telescope, located at Kitt Peak National Observatory (KPNO) near Tucson, Arizona.

Dopo le osservazioni del telescopio spaziale James Webb (JWST) pubblicate qualche giorno fa in grado di sollevare dubbi fondamentali sul modello standard Lambda-Cdm a favore della sempre più nota gravità modificata Mond (Modified Newtonian Dynamics), il progetto DESI del NOIRLab interviene per ristabilire gli equilibri.

 

I ricercatori hanno utilizzato il Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI) per mappare quasi sei milioni di galassie in 11 miliardi di anni di storia cosmica, consentendo loro di studiare come le galassie si sono raggruppate nel tempo e di indagare la crescita della struttura cosmica. Questa complessa analisi dei dati del primo anno del DESI fornisce uno dei test più rigorosi finora della teoria generale della relatività di Einstein.

La gravità ha modellato il nostro cosmo. La sua forza attrattiva ha trasformato le piccole variazioni nella distribuzione della materia nell’Universo primordiale nei filamenti tentacolari di galassie che osserviamo oggi. Un nuovo studio, basato sul primo anno di dati raccolti dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI), ha tracciato la crescita di questa struttura cosmica negli ultimi 11 miliardi di anni, fornendo il test più preciso mai realizzato sul comportamento della gravità su scala cosmica.

Il Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI) in azione sotto il cielo notturno sul telescopio Nicholas U. Mayall 4-meter Telescope at Kitt Peak National Observatory in Arizona.
Credit: KPNO/NOIRLab/NSF/AURA/T. Slovinský

DESI, un avanzato strumento scientifico, è in grado di catturare la luce di 5000 galassie simultaneamente. Progettato e gestito grazie ai finanziamenti del DOE Office of Science, DESI è installato sul telescopio Nicholas U. Mayall da 4 metri presso il Kitt Peak National Observatory, parte del programma NSF NOIRLab. L’indagine del cielo, giunta al quarto anno dei cinque previsti, si propone di osservare circa 40 milioni di galassie e quasar entro la fine del progetto.

Il progetto DESI coinvolge una collaborazione internazionale di oltre 900 ricercatori provenienti da più di 70 istituzioni in tutto il mondo, sotto la guida del Lawrence Berkeley National Laboratory (Berkeley Lab) del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti.

Nel nuovo studio, i ricercatori DESI hanno confermato che la gravità si comporta come previsto dalla teoria generale della relatività di Einstein. Questo risultato consolida il modello attuale dell’Universo e restringe il campo delle possibili teorie di gravità modificata, proposte per spiegare fenomeni come l’espansione accelerata dell’Universo, solitamente attribuita all’energia oscura.

La collaborazione ha pubblicato i risultati in diversi articoli disponibili oggi su arXiv, basandosi sull’analisi di quasi sei milioni di galassie e quasar. Grazie a questi dati, i ricercatori sono riusciti a risalire fino a 11 miliardi di anni nel passato, realizzando la misurazione più precisa mai ottenuta sulla crescita della struttura cosmica, superando gli sforzi precedenti che hanno richiesto decenni.

Risultati significativi 

I dati odierni offrono un’analisi estesa del primo anno di osservazioni DESI, che ad aprile ha prodotto la più grande mappa 3D dell’Universo fino a oggi, suggerendo che l’energia oscura potrebbe evolversi nel tempo. Mentre i risultati di aprile si concentravano su un aspetto specifico del raggruppamento galattico, noto come oscillazioni acustiche barioniche (BAO), questa nuova analisi si spinge oltre, studiando la distribuzione di galassie e materia su diverse scale spaziali. Inoltre, ha fornito vincoli più stringenti sulla massa dei neutrini, le uniche particelle fondamentali la cui massa non è ancora stata misurata con precisione.

L’accuratezza dei dati DESI ha permesso di ottenere i limiti più rigorosi mai registrati sui neutrini, complementari a quelli derivati da esperimenti di laboratorio. Questi risultati sono stati ottenuti grazie a mesi di verifiche incrociate e all’impiego di tecniche per mitigare pregiudizi inconsci, mantenendo i risultati nascosti agli scienziati fino alla fase finale.

Secondo Stephanie Juneau, astronoma del NSF NOIRLab e membro della collaborazione DESI:
“Questa ricerca fa parte di uno degli obiettivi principali dell’esperimento: comprendere le caratteristiche fondamentali del nostro Universo su larga scala, come la distribuzione della materia e il comportamento dell’energia oscura, oltre a studiare aspetti fondamentali delle particelle. Confrontando l’evoluzione della materia con le previsioni attuali, tra cui la relatività generale di Einstein, stiamo restringendo sempre più i modelli di gravità.”

La collaborazione sta attualmente analizzando i dati raccolti nei primi tre anni e prevede di pubblicare misurazioni aggiornate sull’energia oscura e sulla storia di espansione dell’Universo nel prossimo anno. I risultati odierni, coerenti con le precedenti analisi, rafforzano l’ipotesi di un’energia oscura in evoluzione, aumentando le aspettative per le prossime scoperte.

Uno sguardo verso il futuro

Mark Maus, dottorando presso il Berkeley Lab e l’UC Berkeley, ha sottolineato:
“La materia oscura costituisce circa un quarto dell’Universo e l’energia oscura un altro 70%, ma non sappiamo ancora cosa siano realmente. Poter osservare l’Universo e affrontare queste domande fondamentali è straordinario.”

Sebbene i dati DESI del primo anno non siano ancora accessibili al pubblico, i ricercatori possono già consultarli in anteprima. Questi dati sono disponibili sotto forma di file tramite la collaborazione DESI e come database ricercabili di cataloghi e spettri tramite l’Astro Data Lab e SPARCL del Community Science and Data Center, un programma del NSF NOIRLab.

Se hai bisogno di ulteriori miglioramenti o adattamenti, fammi sapere!

Fonti: https://noirlab.edu/public/news/noirlab2428/

Terzo Congresso della Space Weather Italian Community (SWICo)

0

27, 28 e 29 NOVEMBRE P.V.
AGENZIA SPAZIALE ITALIANA
VIA DEL POLITECNICO, ROMA

(Roma) L’ASI – Agenzia Spaziale Italiana ospita, dal 27 al 29 novembre p.v., SWICo2024, terzo congresso della Space Weather Italian Community. Tre giorni di interventi e dibattiti: occasione per mettere a confronto e rendere disponibili le competenze del Gruppo Nazionale “Space Weather Italian Community” (SWICo) che sono presenti in varie università, in Enti di Ricerca (INAF, INGV, INFN, CNR), in diverse realtà industriali e presso l’Agenzia Spaziale Italiana.


Con il progressivo sviluppo di sistemi tecnologici sempre più avanzati, le più significative manifestazioni dell’attività solare (emissioni di massa coronale, brillamenti,…) avranno un crescente impatto sulla nostra quotidianità – spiega il Prof. Umberto Villante, Presidente SWICo – Dipartimento Scienze Fisiche e Chimiche, Università degli Studi di L’Aquila – determinando ulteriori problemi per i satelliti, per le
comunicazioni, per il controllo del traffico aereo, blackout nella distribuzione di energia elettrica, etc., con conseguenze economiche assai rilevanti. E’ quindi indispensabile sviluppare le attività e gli studi in questo campo di ricerca che va, appunto, sotto il nome di Space Weather”.
Focus dei lavori di SWICo2024 e degli interventi in programma, gli studi sulle tempeste spaziali di elevata intensità che hanno il potenziale di minacciare le attività spaziali e i voli aerei lungo le rotte polari e che possono, inoltre, disturbare le comunicazioni radio, deteriorare la localizzazione GNSS ed essere la causa di blackout. Ne segue che, oggigiorno, lo studio e l’osservazione dello Space Weather rappresentano un aspetto chiave per le attività spaziali e per le possibili ricadute sulla società. Per questo motivo le grandi organizzazioni scientifiche internazionali, come ad esempio il COSPAR (Committee on Space Research) e la WMO (World Meteorological Organisation), e le agenzie spaziali come NASA (USA), ESA (EU), CNSA (PRC), JAXA (JP), DLR (D), e quella italiana (ASI) contribuiscono attivamente a programmi internazionali di Space Situational Awareness/Space Weather. Il Gruppo Nazionale “Space Weather Italian Community” (SWICo), costituito il 31 ottobre 2014, vede la partecipazione di personale delle Università, degli Enti di Ricerca e del settore privato con competenze scientifico-tecnologica nei settori di interesse del Gruppo. I relativi hanno lo scopo di comprendere e prevedere lo stato del Sole, degli ambienti interplanetari e planetari, e le perturbazioni solari e non solari che li influenzano, nonché di prevedere e fornire previsioni utili relative agli impatti potenziali su sistemi biologici e tecnologici.


Come in occasione dei precedenti Congressi, anche il Terzo Congresso SWICo intende essere un momento di incontro e confronto dell’intera comunità italiana impegnata nelle discipline in questione. Il Congresso è pertanto aperto anche ai non appartenenti a SWICo. E’ inoltre particolarmente incoraggiata la partecipazione attiva di studenti, dottorandi e giovani ricercatori. L’appuntamento dell’ASI offre, inoltre, l’opportunità del conferimento del Premio “Franco Mariani”, istituito per onorare la memoria di una personalità scientifica di statura internazionale, promuovendo il coinvolgimento di giovani ricercatori nelle discipline inerenti lo Space Weather.


Per ulteriori info e per il programma completo: https://swico2024.it/

SKA Square Kilometer Array: la futura rivoluzione arriverà dalle onde radio

SKA-Mid - wide angle artistimpression.jpg Una rappresentazione artistica di SKA-Mid, in Sud Africa: le antenne esistenti del progetto MeerKAT (a destra nell’immagine, ripresa reale) saranno incorporate nella struttura completa di SKA-Mid. La parte a sinistra nell’immagine è una rappresentazione artistica (Credits SKAO)

La ricerca astronomica si prepara a una svolta epocale grazie all’introduzione di tecnologie sempre più avanzate che aprono nuov frontiere nella comprensione dell’Universo. Tra queste, il progetto Square Kilometer Array (SKA) si distingue come una delle iniziative più ambiziose del prossimo decennio, promettendo di rivoluzionare la radioastronomia con una sensibilità e una precisione senza precedenti. Distribuito tra Sudafrica e Australia, SKA permetterà di esplorare con dettaglio fenomeni cosmici complessi, dall’origine delle prime galassie fino alla possibile rilevazione di segnali di vita extraterrestre. Il testo che segue approfondisce la struttura, gli obiettivi scientifici e il significativo contributo italiano a questo straordinario progetto.

Indice dei contenuti

Introduzione

Il prossimo decennio sarà sicuramente un periodo di rivoluzioni nella comprensione dell’Universo, grazie ad una nuova generazione di strumenti osservativi che operano in diverse frequenze. Ha inaugurato il nuovo corso il James Webb Space Telescope, che in un anno di osservazioni ci ha mostrato per esempio come l’Universo primordiale non sia popolato da galassie irregolari come si ipotizzava, ma da più placide galassie a disco. O ancora ci sta permettendo di studiare con dettagli impressionanti le atmosfere dei pianeti extrasolari. Ci proponiamo di capire il mistero della materia e dell’energia oscura con il telescopio Euclid, una missione che vanta una numerosa partecipazione italiana. L’Extremely Large Telescope, che con i suoi 39m di specchio principale sarà il più grande telescopio ottico terrestre, entrerà presumibilmente in funzione entro il 2028, permettendoci per esempio di studiare in dettaglio la complessità chimica dei sistemi protoplanetari. E allargando l’orizzonte all’astrofisica multimessaggera, nei prossimi due anni si arriverà alla decisione definitiva sul design tecnico e sulla posizione geografica del nuovissimo interferometro di terza generazione per le onde gravitazionali, l’Einstein Telescope, che vede la forte candidatura dell’Italia con il sito sardo di SosEnattos.

E sul fronte della radio astronomia? Il futuro si chiama SKA, acronimo di Square Kilometer Array, un progetto ambizioso di una vasta schiera di antenne radio e antenne suddivisi tra due continenti, l’Africa e l’Australia. Un progetto che, una volta completato, presumibilmente entro il 2028-29, rivoluzionerà il nostro modo di osservare l’Universo, con la sua gamma senza precedenti di applicazioni scientifiche, dalla cosmologia all’astrobiologia alla scienza dei dati.

Cos’è SKA?

Dopo oltre 30 anni di ideazione, progettazione e test, il progetto Square Kilometer  Array (SKA) sta per diventare una realtà. SI tratta di una struttura radio interferometrica di ultima generazione che promette di rivoluzionare la nostra conoscenza dell’Universo e delle leggi fondamentali della fisica. In breve, il progetto SKA prevede la costruzione di un sistema interferometrico costituito da 197 grandi antenne paraboliche orientabili che opereranno a media frequenza (SKA-Mid, operante tra 350 MHz e 15.4 GHz) e da 131.072 antenne log periodiche a bassa frequenza (SKA-Low, operante nell’intervallo di frequenze 50-350 MHz).

Il nome SKA deriva dal progetto originale, che prevedeva che tutte le sue antenne e parabole avessero un’area effettiva combinata di circa un chilometro quadrato. Il piano è stato in seguito ridimensionato a causa dei costi, anche se rimane la speranza di completarlo nella sua configurazione originale in una seconda fase.

L’area di raccolta rappresenta una componente fondamentale per capire le capacità osservative di SKA: se infatti la linea di base dell’array ne determina il potere risolutivo, cioè la capacità di apprezzare il più piccolo dettaglio della sorgente cosmica osservata, l’area di raccolta ne determina invece la sensibilità, con la conseguente possibilità di rilevare oggetti più deboli. Ci aspettiamo infatti di produrre immagini con una sensibilità 10-100 volte superiore a quella delle attuali infrastrutture radio, e di rilevare oggetti molto più deboli e lontani di quanto possano essere visti dai telescopi esistenti.

La sede principale del progetto si trova presso l’Osservatorio Jodrell Bank nel Cheshire, nel Regno Unito, anche se fisicamente è posizionato nell’emisfero australe, così da osservare la Via Lattea nella sua interezza, e ugualmente accedere allo spazio intergalattico. Nell’emisfero boreale come è noto, il nucleo della nostra galassia sfiora a malapena l’orizzonte durante i mesi estivi.


l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 265 VERSIONE CARTACEA

SNHUNT133: UN ENIGMATICO TRANSIENTE IN UN NUCLEO GALATTICO

Fig. 3 - Incremento di luminosità del transiente SNhunt133 rilevato dall'Osservatorio di Montarrenti in due distinte epoche

Un evento astronomico transiente è un fenomeno tipicamente violento, improvviso e molto energetico del cielo profondo, che compare e scompare in tempi relativamente brevi, non paragonabili alla scala temporale di milioni o miliardi di anni durante i quali i componenti del nostro Universo si sono evoluti. I transienti infatti, si sviluppano su tempi scala di giorni, mesi o anni, facilmente apprezzabili nel corso della vita umana. L’autore ci accompagna nello studio di un transiente specifico SNHUNT133.

di Simone Leonini

Cenni Storici e Concetti Base

Sin dall’antichità, la comparsa di “stelle nove” ha destato stupore e turbato il senso di immutabilità dei cieli, fondamento della visione aristotelica dell’Universo. L’illusione di un cielo immobile ed incorruttibile ha quindi resistito per secoli. Successivamente, quando si iniziò a mettere in discussione l’idea delle “stelle fisse” correlata al sistema geocentrico, si comprese che le “stelle visitatrici” non potevano appartenere alla sfera sublunare ma rappresentavano dei cambiamenti delle stelle incastonate nella sfera celeste, suscitando l’interesse degli astronomi che si impegnarono in rigorose osservazioni. Solo agli inizi del secolo scorso però, si comprese l’origine della straordinaria luminosità degli astri che apparivano improvvisamente in cielo per poi scomparire. Si intuì che non tutte le stelle che osserviamo nella volta celeste si trovano alla stessa distanza e che esistevano altre galassie oltre alla Via Lattea. Si distinsero quindi le supernovae dalle novae, fenomeni eruttivi meno energetici originati all’interno di un sistema stellare binario.Una nana bianca cattura materiale dalla compagna, principalmente idrogeno, generando un’esplosione dello stato superficiale della stella che non coinvolge la struttura del sistema, tanto che potranno ripetersi altri episodi deflagranti.

Se la ricerca e lo studio di questi eventi ha appassionato gli astronomi sin dai secoli scorsi, lo studio sistematico dei transienti ospitati nei nuclei galattici invece si è sviluppato solo negli ultimi vent’anni, forse anche a causa della loro bassa luminosità intrinseca rispetto al nucleo della galassia e delle difficoltà di scoperta.

I nuclei delle galassie possono mostrare principalmente tre diversi tipi di transienti: nuclei galattici attivi, supernovae o eventi di distruzione mareale.

I nuclei galattici attivi sono oggetti celesti che emettono una enorme quantità di energia non riconducibile ad ordinari processi stellari. Il motore che li alimenta infatti è un buco nero di massa compresa fra un milione e qualche miliardo di volte quella del Sole. In rotazione vorticosa nelle regioni centrali della galassia, ingurgitano enormi quantità di gas residuo di formazione stellare o rilasciato successivamente da stelle in evoluzione. Circondati dal cosiddetto disco di accrescimento in cui la materia in caduta spiraleggia verso il centro, si nascondono dentro una “ciambella” (più propriamente un “toro”) di polvere molecolare coplanare al disco di accrescimento.

Le supernovae sono invece eventi esplosivi stellari. Le supernovae “termonucleari” vengono generate dall’esplosione di un sistema binario stretto, di cui almeno una delle due componenti è una nana bianca. Le due stelle lentamente si attraggono fino a fondersi, oppure può avvenire un trasferimento di materia dalla stella compagna alla nana bianca. Se la massa risultante dalla fusione o dalla cattura di materia è superiore al limite di Chandrasekar (1.44 Masse Solari), la nana bianca non sarà più in grado di sorreggere il proprio peso e, dopo un rapido collasso, si innescherà una reazione termonucleare che disgregherà la stella in una violenta esplosione, espellendo materiale nel mezzo interstellare senza lasciare alcun resto compatto.


l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

Desidero ringraziare Irene Salmaso (Università degli Studi di Padova) per la lettura critica e gli utili suggerimenti.

Simone Leonini: Agente di viaggio, sposato e papà di Matilde, è astrofilo sin da bambino, quando si dedicava con passione all’osservazione planetaria e delle stelle variabili. Già direttore dell’Osservatorio Astronomico di Montarredi e presidente dell’Unione Astrofili Senesi, ha condotto per anni attività di divulgazione delle scienze astronomiche

L’articolo è pubblicato in COELUM 265 VERSIONE CARTACEA

Panorama Mosaico: APP per foto panoramiche

Fig. 06

Dopo diverse ore di esperienza sul campo, l’autore dell’articolo Gabriele Iocco, ha ideato e realizzato l’app Panorama Mosaico per facilitare il lavoro degli appassionati di Astrofotografia Paesaggistica.

 

Benché esistano in commercio teste panoramiche che applicate su un treppiedi sono progettate proprio per  la realizzazione di foto panoramiche e che fanno egregiamente il loro lavoro, l’applicazione che ho voluto sviluppare è un’alternativa gratuita e anche molto comoda dato che oramai abbiamo il nostro smartphone sempre con noi.

Ho iniziato a fare foto panoramiche circa due anno fa e man mano che prendevo confidenza con la tecnica è sorto in me il desiderio di creare panoramiche anche notturne includendo le stelle. Di notte però le condizioni di scarsa luminosità contribuiscono ad aumentare la difficoltà, poiché non siamo in grado di vedere cosa sta inquadrando effettivamente la nostra macchina fotografica. L’idea quindi è stata creare un’app che aiuti ad orientare la macchina fotografica di volta in volta nella giusta direzione catturando i fotogrammi che andranno a comporre il nostro mosaico.

Una volta scaricata dal playstore e avviata, l’app ci mostra le info sul suo funzionamento, dopodiché entriamo nella schermata d’inizio dove dobbiamo inserire tre informazioni che riguardano: il tipo di sensore utilizzato dalla nostra macchina fotografica, la lunghezza focale dell’obbiettivo e la percentuale di sovrapposizione che dovranno avere le nostre immagini [fig.1].

Fig.01 Anteprima Schermata APP “Panorama Mosaico”

 

Cliccando su tasto “Calcola” l’app calcolerà il FOV (angolo di campo inquadrato dall’accoppiata sensore/lunghezza focale) sia orizzontale che verticale, ad esempio se il sensore è FullFrame e la lunghezza focale 135mm, il FOV orizzontale sarà di 15.28°. Interpretare un simile dato è abbastanza semplice, avere un FOV di 15.28° significa che ogni scatto che andremo a catturare comprenderà una porzione di paesaggio relativa ad un angolo di 15.28°. Proseguendo, se si è optato per una percentuale di sovrapposizione pari al 50% vuol dire che ogni nuova immagine acquisita dovrà avere il margine sinistro coincidente con il centro dell’immagine precedente [fig.2].

Fig. 02

l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.
Panoramica Blockhaus Majella startrail
Numero scatti del mosaico: 27
Tempo esposizione per ogni scatto: 420 sec a 100 ISO f4.
Macchina fotografica Canon 6D non modificata
Filtro anti inquinamento luminoso: No
Obiettivo: Samyang 135 mm.
CREDITI: Gabriele Iocco
“Panoramica Blockhaus Majella stelle”
Numero scatti del mosaico: 12
Tempo esposizione per ogni scatto: 5 sec a 4000 ISO f4 per evitare di avere le stelle “allungate”.
Macchina fotografica: Canon 6D modificata fullspectrum
Filtro anti inquinamento luminoso: Optolong Lpro
Obiettivo: Samyang 135 mm.

 

L’articolo è pubblicato in COELUM 265 VERSIONE CARTACEA

Gli astronomi amatoriali scoprono due pianeti intorno alla stella TIC 393818343

La scoperta di mondi oltre il nostro Sistema Solare è un nuovo e affascinate campo di ricerca i cui protagonisti sono sia astronomi che astrofili cacciatori di pianeti. Alcuni di loro hanno scovato di recente due pianeti attorno a una stella simile al Sole: si tratta di un team con diversi italiani, coordinati da Giuseppe Conzo. La stella madre, TIC 393818343 di classe G, si trova nella costellazione del Delfino a circa 307 anni luce di distanza dal Sole. Ha una magnitudine di 8,98 ed è circa il 9% più grande del Sole. Oggi, alla luce delle recenti scoperte effettuate dagli astrofili, possiamo dire che TIC 393818343 è il centro di un sistema multi-planetario.

A maggio del 2024 Giuseppe Conzo e Mara Moriconi hanno scoperto il primo esopianeta orbitante attorno a questa stella: TIC 393818343 b – un gigante gassoso, quattro volte più massiccio di Giove, classificato come un Gioviano caldo e confermato dal Team del SETI guidato da Lauen Sgro, con un periodo orbitale di circa 16 giorni. Il pianeta orbita attorno alla stella madre su un’orbita altamente eccentrica (eccentricità pari a 0,6). È vicino alla sua stella molto più di quanto la Terra lo sia al Sole.

Light Curve TIC 393818343 b

Il secondo pianeta è TIC 393818343 c, scoperto in un secondo momento grazie alla collaborazione tra Conzo, Moriconi e altri astronomi dilettanti che hanno lavorato insieme utilizzando tecniche come la fotometria dei transiti e osservazioni da terra.

Il pianeta, nel sistema, ha un periodo orbitale di solo 7,8 giorni e orbita due volte più vicino alla sua stella madre. La sua temperatura di equilibrio dovrebbe essere intorno a 1027 K. Sulla base dei dati ottenuti, gli astrofili hanno classificato TIC 393818343 c come un gigante gassoso super nettuniano, escludendo la possibilità che possa essere un mondo terrestre. Pianeti come TIC 393818343 c sono generalmente poco comuni attorno alle stelle di tipo solare.

Light curve di TIC 393818343 c

Giuseppe Conzo ci spiega:

 “Stavamo osservando il pianeta TIC 393818343 b appena scoperto, perché volevamo monitorare eventuali ritardi o anticipi sul periodo. E’ una prassi che si utilizza normalmente sui pianeti recentemente trovati. Ci siamo accorti da queste osservazioni di un ritardo di circa 1 ora sul periodo in letteratura, dunque ci eravamo prefissati ulteriori osservazioni. Caso ha voluto che sbagliassimo involontariamente data della successiva osservazione, accorgendoci solo al mattino seguente che avessimo ripreso in una data errata. Non volendo buttare i dati ottenuti, abbiamo fatto a cuor leggero la fotometria, convinti di attenderci una magnitudine costante della stella in esame. Così non è stato ed abbiamo rilevato un primo transito molto diverso da quello osservato per il pianeta b. Chiaramente sono proseguite le osservazioni che hanno mostrato lo stesso evento nel tempo.”

A questo studio e alla scoperta sono coinvolti oltre a Giuseppe Conzo e Mara Moriconi (del Gruppo Astrofili Palidoro a Fiumicino), Nello Ruocco (Osservatorio Nastro Verde a Sorrento), Toni Scarmato (Toni’s Scarmato Observatory a Briatico) e gli americani Kyle Lynch e Nicolas Leiner.

È stato un affascinante lavoro di gruppo:

*Giuseppe Conzo* ha individuato per primo un transito sospetto ed ha condotto il team per le osservazioni necessarie e coordinato la stesura dell’articolo scientifico;

*Mara Moriconi* ha effettuato calcoli analitici sui principali parametri fisici del pianeta;

*Nello Ruocco* ha effettuato le osservazioni;

*Toni Scarmato* ha effettuato le osservazioni, ha condotto stime per le effemeridi preliminari ed ha analiticamente verificato la bontà del segnale ricevuto;

*Kyle Lynch* ha studiato l’aspetto genuino della sorgente e valutato la natura planetaria dell’oggetto;

*Nicolas Leiner* ha condotto un’analisi analitico-statistica per la stima della massa del pianeta.

Riguardo alla scoperta abbiamo chiesto un parere scientifico al Prof. Giovanni Covone, astrofisico della Federico II di Napoli:

“si tratta di una scoperta interessante per diversi motivi. Innanzitutto, è uno dei pochi sistemi planetari multipli intorno a stelle molto simili al Sole. Inoltre, dimostra che i dati raccolti dal telescopio TESS sono ancora ricchi di sorprese e il ruolo degli astrofili in questo campo è fondamentale.”

Il JWST sfida il modello standard: nuove prospettive sull’universo primordiale

JADES-GS-z14-0 (mostrata nell'estrazione), è stata determinata a un redshift di 14,32 (+0,08/-0,20), il che la rende l'attuale detentrice del record per la galassia più distante conosciuta. Ciò corrisponde a un periodo inferiore a 300 milioni di anni dopo il big bang. Credito: NASA, ESA, CSA, STScI, B. Robertson (UC Santa Cruz), B. Johnson (CfA), S. Tacchella (Cambridge), P. Cargile (CfA).
JADES-GS-z14-0 (mostrata nell'estrazione), è stata determinata a un redshift di 14,32 (+0,08/-0,20), il che la rende l'attuale detentrice del record per la galassia più distante conosciuta. Ciò corrisponde a un periodo inferiore a 300 milioni di anni dopo il big bang. Credito: NASA, ESA, CSA, STScI, B. Robertson (UC Santa Cruz), B. Johnson (CfA), S. Tacchella (Cambridge), P. Cargile (CfA).

Le osservazioni del telescopio spaziale James Webb (JWST) stanno sollevando interrogativi fondamentali sulla comprensione dell’universo primordiale. I dati ottenuti non sembrano confermare il modello standard Lambda-Cdm, che prevede che la formazione delle galassie sia agevolata dalla presenza di materia oscura, ma trovano maggiore coerenza con la teoria alternativa della gravità modificata Mond (Modified Newtonian Dynamics), che elimina la necessità della materia oscura.

Galassie luminose e massicce nell’universo primordiale

Secondo il modello Lambda-Cdm, le galassie nell’universo primordiale si sarebbero dovute formare attraverso un processo graduale: piccoli aloni di materia oscura avrebbero attirato materia ordinaria, portando alla formazione di galassie di massa crescente. Il James Webb, tuttavia, ha rivelato galassie antiche che appaiono già grandi e luminose, contraddicendo le aspettative del modello standard.

Come spiega Federico Lelli, ricercatore dell’INAF di Arcetri e coautore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal, il modello Lambda-Cdm prevede che galassie massicce come quelle ellittiche si formino in epoche più tarde della storia cosmica. Tuttavia, osservazioni precedenti di telescopi come Hubble, Spitzer e Alma avevano già suggerito che le galassie massicce esistessero sorprendentemente presto. Ora, il JWST ha fornito prove ancora più solide in questa direzione.

Teoria Mond: una sfida alla materia oscura

La teoria Mond, proposta da Mordehai Milgrom oltre 40 anni fa, introduce modifiche alle leggi di Newton ed Einstein per spiegare i fenomeni gravitazionali senza ricorrere alla materia oscura. Secondo Mond, le galassie massive si formano rapidamente nei primi centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, come confermato dai dati di JWST. Questa teoria è stata inizialmente ignorata dalla comunità scientifica, ma le recenti scoperte stanno spingendo gli esperti a riconsiderarla.

Il primo autore dello studio, Stacy McGaugh della Case Western Reserve University, sottolinea che le predizioni del modello standard non corrispondono a ciò che il JWST ha effettivamente osservato. «Gli astronomi hanno ipotizzato la materia oscura per spiegare la formazione delle strutture cosmiche, ma ciò che vediamo ora è più coerente con Mond», afferma.

Nuove prospettive dall’universo primordiale

Le osservazioni del JWST hanno mostrato che le galassie massive non solo si formano velocemente, ma alcune diventano “passive” (cessano di formare stelle) molto prima di quanto previsto dal modello standard. Inoltre, il telescopio ha individuato ammassi di galassie a epoche cosmiche più antiche di quelle compatibili con Lambda-Cdm, una scoperta che potrebbe riscrivere la nostra comprensione del tempo cosmico.

Un telescopio per nuove domande

Il JWST è stato progettato per rispondere a domande fondamentali sull’universo, ma i suoi dati stanno aprendo scenari inaspettati. A soli tre anni dal suo lancio, il telescopio sta già contribuendo a rivedere teorie consolidate, come dimostra questo studio che coinvolge anche ricercatori italiani come Federico Lelli.

Molte delle osservazioni necessitano di ulteriori conferme, ma la promessa di JWST di ridefinire l’astrofisica sembra più viva che mai. Se i dati continueranno a supportare la teoria Mond, potremmo trovarci a un passo dal superare uno dei pilastri della cosmologia moderna: l’idea della materia oscura.

Fonti: Media Inaf  Global Science   Arvix.org

Gestione delle crisi e rischi da disastro ambientale

LA VIA DELLA COMPLESSITA’ PER GLI STRUMENTI DI GESTIONE DELLE CRISI E DEI RISCHI DI DISASTRO

a cura di Alfonso Mangione Dip. FIBIOTEC –Fisica e Biotecnologie applicate allo Spazio, alla Geologia e all’ Ambiente, Istituto Euro-Maditerraneo di Scienza e Tecnologia

ABSTRACT

I recenti disastri che hanno colpito la zona di Valencia hanno messo in luce la vulnerabilità del territorio e la complessità delle risposte necessarie per gestire le crisi. Senza voler entrare nello specifico delle cause di tali eventi, l’obiettivo di questo articolo è offrire una prospettiva sul giusto approccio alla gestione dei rischi e delle emergenze. La gestione efficace delle crisi non può infatti limitarsi a un approccio tradizionale, ma deve abbracciare la complessità intrinseca degli scenari, integrando discipline diverse e sfruttando strumenti innovativi come le tecnologie virtuali e immersive. Questo articolo esplora come tale approccio multidisciplinare possa fornire nuove opportunità per migliorare la consapevolezza, la preparazione e l’operatività di soccorritori e cittadini di fronte a eventi disastrosi.

INTRODUZIONE

Uno scenario di rischio o di crisi coinvolge una serie di attività che possono essere pensate come parti di sistema tipicamente complesso, in cui ogni elemento mostra connessioni, anche multiple e spesso non lineari, con gli altri. Senza addentrarsi nel dettaglio delle definizioni risulta intuitivo collegare ad una situazione di rischio alcune idee che accompagnano la nozione della complessità quali quella del sistema a molte componenti, fuori dall’equilibrio, adattivo, la non-linearità, il caos, l’auto-organizzazione, i comportamenti emergenti, e molti altri, inclusa la multidisciplinarità. Quest’ultima vede affiancare alla fisica discipline che vanno dalla psicologia all’antropologia, alla sociologia, alla storia ed oltre. Un segno dell’interesse crescente nei confronti degli aspetti psicologici, sociologici, e storici collegati alle crisi e ai disastri, in aggiunta e in connessione con le discipline tecniche è dato dall’attenzione specifica a loro dedicata nei programmi di finanziamento EU degli ultimi anni (un esempio indicativo in Ref [1] ).

Esaminare gli scenari di crisi sotto la luce della loro complessità, e quindi, innanzitutto, delle connessioni multiple tra un congruo numero di parti componenti (geografiche, gestionali, operative, culturali, economiche, etc.) potrebbe apparire un esercizio dispersivo, non esattamente a vantaggio della pronta operatività e in generale della promozione della resilienza di un territorio colpito. In prima analisi, infatti, risulta evidente la numerosità degli ambiti da tenere in considerazione, la loro vastità e articolazione, e la difficoltà di individuare le cause che conducono a determinati effetti risultanti, all’interno di un sistema (ovvero l’“ecosistema” a rischio) che si auto-organizza in molte componenti dialoganti.

Tuttavia, l’approfondimento di (almeno) una parte significativa delle componenti del sistema in crisi (il territorio, le comunicazioni, le relazioni trans-nazionali, la multiculturalità sociale, il rapporto con i media, la storia e l’evoluzione locale della percezione, etc.), permette di “pesare” il contributo di ognuna delle parti sul risultante scenario di rischio che si è presentato o che si potrebbe presentare. A questo scopo, appare chiaro il ruolo fondamentale dell’aspetto simulativo (numerico e virtuale/immersivo). Si aggiunga inoltre che l’approccio “per parti concorrenti” nell’analisi di uno scenario di rischio non deve necessariamente riguardare tutti gli ambiti dialoganti e le scale di analisi più ampie, ma può essere ridotto a territori circoscritti, a singoli tipi di rischio (incendio, terremoto, inondazione, crisi sanitaria o altro), può riguardare solo porzioni di popolazione (ad es. gruppi considerati “vulnerabili” per quel rischio in particolare), o soltanto alcune categorie di soccorritori, o un settore economico in particolare. Gli ambiti e la scala dell’analisi possono quindi essere ridotti ad esempio ad un singolo evento o territorio o gruppo di popolazione etc.. Operativamente, tale approccio può portare ad un contributo innovativo nell’analisi degli scenari da disastro che si presentano al singolo soccorritore che opera sul terreno, quando supportato dalle tecniche di realtà virtuale/immersiva. Molte ricerche e progetti, basati sulla realtà virtuale sono stati sviluppati in anni recenti per supportare i piani di intervento (coordinamento e attività operative sul terreno) [2,3]. Gli scenari possono essere costruiti aggiungendo gradualmente le diverse cause concorrenti, per consentire di testare direttamente l’influenza sull’operatività sul campo.

 

Complessità negli scenari da disastro

Il presentarsi di un evento di grande impatto generalmente modifica lo scenario reale nel quale i soccorritori sono chiamati ad operare, e nel quale le vittime devono muoversi, rispetto alla sua forma consueta. In generale, un gap sostanziale esiste tra ciò che la popolazione potrebbe comunemente attendere dal verificarsi dell’evento impattante e quello che ne risulta nel caso reale, a causa delle diverse variabili concorrenti. In termini estremamente semplici ed esemplificativi, è possibile considerare il caso di un evento off-shore quale un terremoto (o lo scorrimento della lava da un vulcano nel mare), che causa le conseguenti onde di maremoto. Sulla base delle esperienze comuni, si può immaginare la semplice situazione di una goccia d’acqua che, una volta lasciata cadere in un contenitore riempito di liquido, genera una serie di onde che si propagano fino ad infrangersi contro le pareti del contenitore. Similmente, se si agisce con una ferma spinta data sul fondo del contenitore, se non troppo rigido. Si potrebbe traslare tale idea di base sulla scala di un oceano, come situazione di partenza, per poi aggiungere gradualmente gli elementi (le parti) che concorrono successivamente alla costruzione dello scenario. In termini di simulazione dell’evoluzione, questo implica la descrizione fisica di alcune fasi salienti: l’evento “t0”, tipicamente un distacco che accade sul fondo del mare; le risultanti onde, che solitamente si propagano in un regime per il quale è almeno soddisfatta l’eguaglianza D:λ=1:20, dove D è la profondità delle acque, e λ è la lunghezza d’ onda, con una velocità v=(gD)1/2 (dove g è l’accelerazione di gravità), non dipendente da λ, che consente loro di procedere quasi inalterate (si consideri inoltre che le variazioni significative del fondo avvengono su scale molto maggiori rispetto alle lunghezze d’onda in questione, quando lontano dalla costa); infine, l’infrangimento sulla costa, dove ci si aspetta una riduzione della lunghezza d’onda e un aumento dell’ampiezza (i meccanismi sono descritti nei testi di base, e in alcuni studi, esperimenti e simulazioni specifici, ad es. Ref [4,5]). Lo schema di base restituisce quindi la possibilità di calcolare i tempi di arrivo, conoscendo la distanza dall’epicentro. Quello che accade nel caso reale può risultare non esattamente sovrapponibile alla sola descrizione di base sopra riportata, a causa di una serie di effetti locali (elementi concorrenti allo scenario) che influenzano l’effettiva propagazione dell’evento. Un livello ulteriore di dettaglio andrebbe oltre gli scopi del presente lavoro, tuttavia è possibile riassumere almeno alcuni degli elementi che possono influenzare la rappresentazione finale dello scenario, quali: (i) la velocità di rottura, il tempo di risalita e la modifica del fondo marino durante l’evento-origine, che forniscono il profilo iniziale delle onde [4,6-7]; (ii) la correzione per le maree [6]; (iii) gli eventuali effetti locali dovuti all’interazione con le coste, il terreno e le isole, così come gli effetti di amplificazione delle baie chiuse, gli effetti di diffrazione e riflessione [4,6-7]. Tali elementi concorrono ad aumentare il livello di complessità del fenomeno, così come delle simulazioni collegate e quindi la sua rappresentazione virtuale/immersiva (ad esempio quando implicano la necessità di utilizzare modelli di evoluzione non lineari o quando i termini descrittivi dell’amplificazione delle onde a partire dalla costa differiscono da funzioni polinomiali [6]) ma allo stesso tempo ne restituiscono una rappresentazione più adeguata.

Quindi, la “sfida” per una conoscenza accurata dei fenomeni e delle caratteristiche locali che contribuiscono ad accrescere il grado di complessità degli scenari, la loro catalogazione e la possibilità di inserirli gradualmente all’interno delle simulazioni e delle conseguenti riproduzioni virtuali, può rappresentare uno strumento considerevole sia nell’addestramento mirato dei soccorritori, che per i gestori delle crisi, oltre ad avere un ruolo nell’incrementare la consapevolezza del rischio da parte della popolazione.

NB: al momento della stesura e pubblicazione dell’articolo i recenti fatti di Valencia non erano ancora accaduti, perciò per accompagnare visivamente lo scenario di intervento la redazione e l’autore hanno optato per un’immagine di fantasia. Quella a seguire. Alla luce però dei nuovi fatti e riproponendo la lettura digitale dello studio del dott. Mangione una recente immagine tratta proprio dall’emergenza spagnola si presenta come più che opportuna. Vedi immagine a destra.

Generata con AI

Proposte metodologiche

La possibilità di incrementare la cognizione spaziale (intesa quale la capacità di avere contezza della posizione del proprio corpo all’interno di un ambiente, e di muoversi in questo senza perdersi) all’ interno di scenari complessi può contribuire in tutte le fasi collegate ad eventi impattanti. Una combinazione tra metodi utilizzati in ambiti differenti (quali la psicologia e le neuroscienze), le simulazioni numeriche (e la fisica in queste inclusa) e la realtà virtuale/immersiva può essere proposta quale schema per sviluppare strumenti utili allo scopo. In Ref [8] viene fatto uso di ambienti di realtà virtuale per indagare la qualità del trasferimento dell’apprendimento da un ambiente virtuale ad uno reale per indagare la cognizione spaziale, sulla base di tre fasi di conoscenza (Landmark, Route, e Survey), e secondo indicatori quali gli errori di percorso o le esitazioni.  Nel caso di uno scenario da disastro, questa attività, sia essa inglobata nelle sessioni di addestramento o anche quale strumento digitale autoconsistente, risulterebbe di supporto per i soccorritori, i gestori delle crisi e anche per le popolazioni. I soggetti coinvolti, in una prima fase, aumenterebbero la loro capacità di fissare nell’immediatezza un numero sufficiente di punti di riferimento caratteristici individuati nei diversi scenari ipotizzati. In una fase successiva, i soggetti sarebbero allenati ad acquisire le vie più brevi tra i punti di riferimento individuati, al fine di stimare distanze e scorciatoie. Le task sarebbero presentate con livelli di complessità crescente. A tale scopo, sarebbero simulati scenari di disastri differenti, gradualmente implementati, sulla base dei diversi elementi che possono influire sulla reale evoluzione del fenomeno. Oltre che per i soccorritori, l’attività risulterebbe utile alle vittime dei disastri (si pensi ad esempio ai casi di persone con disabilità). In questo caso, lo scopo finale sarebbe di muoversi con rapidità e in sicurezza al’ interno dello scenario proposto, e possibilmente allontanarsi da esso (a differenza del caso dei soccorritori, che necessitano invece di raggiungerlo). Inoltre, risulterebbe interessante introdurre la distinzione tra task presentate in un riferimento esocentrico ed egocentrico rispettivamente [8]. Nel caso dei disastri, il primo punto di vista si riferirebbe ai gestori della crisi, mentre il secondo sarebbe più appropriato per i soccorritori e le vittime.

Conclusioni

L’utilizzo degli scenari virtuali da disastro con crescente livello di complessità dovuto a variabili di contesto, è stato preso in considerazione al fine di migliorare la capacità di cognizione spaziale di gestori della crisi, soccorritori, e vittime. All’interno di un approccio multidisciplinare, è stato proposto uno schema che coinvolge specifiche task per aumentare l’individuazione dei punti di riferimento e dei percorsi più rapidi e più sicuri per muoversi all’interno di uno scenario da disastro, al fine di raggiungere le aree di crisi, o di abbandonarle.

Reference

[1] https://tinyurl.com/2p86725b

[2] Bernardini, G. et al., A Non-Immersive VirtualReality Serious Game Application for FloodSafety Training, SSRN Electronic Journal,2022. DOI:10.2139/ssrn.4110990, 2022

[3] Lovreglio, R., Proceedings, Fire andEvacuation Modeling Technical Conference(FEMTC) 2020. https://www.researchgate.net/publication/3438091011961, 2020

[4] Stevenson, D., Physics Today 58, 6, 10 (2005).doi: 10.1063/1.1996451, 2005

[5] Uy, A., The Physics of Tzunami, TheUniversity of British Columbia

[6] Mori, N., CEJ, 2012, 54:1,1250001-1-1250001-27, DOI:10.1142/S0578563412500015, 2012

[7] Shigihara, Y., CEJ, 2021, https://doi.org/10.1080/21664250.2021.1991730,2021

[8] Wallet, G., Journal of Virtual Realityand Broadcasting, Volume 6, no. 4urn:nbn:de:0009-6-17577, ISSN1860-2037, 2009

[/swpm_protected]

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

Stelle Giganti Sparse nel Blu – RCW 7

ESA/Hubble & NASA, J. Tan (Chalmers University & University of Virginia), R. Fedriani (Institute for Astrophysics of Andalusia)

ABSTRACT

La regione di formazione stellare RCW 7 rappresenta un’affascinante finestra sul complesso processo di nascita delle stelle massicce. Situata nella costellazione della Poppa a circa 5.300 anni luce di distanza, RCW 7 è una vasta nebulosa in cui gas e polveri interstellari si aggregano e collassano, dando origine a giovani e potenti astri. La radiazione ultravioletta e i forti venti stellari emessi da queste stelle in formazione non solo illuminano, ma anche plasmano il materiale circostante, generando una regione HII dal caratteristico bagliore rosato. Lo studio di RCW 7, e in particolare del sistema binario IRAS 07299-1651, permette di comprendere meglio le dinamiche che regolano i primi stadi della vita stellare, offrendo nuove prospettive sui processi che plasmano le galassie e influenzano l’evoluzione delle nubi molecolari.


RCW 7 o NGC 2409 Regione di Formazione stellare


Luci stellari come brillantini sparsi in un cielo azzurro in cui si addensano a tratti nubi tempestose: è la turbolenta regione di formazione stellare RCW 7, soggetto di questa straordinaria ripresa del telescopio Hubble. RCW 7 è una vasta nebulosa ricca di gas e polveri interstellari. Ospita stelle in formazione particolarmente massicce, capaci di emettere forti radiazioni ultraviolette e impetuosi venti stellari, che illuminano e modellano il materiale circostante, trasformando questo insieme di nubi cosmiche in una variopinta regione HII.

L’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

 

È nata una Stella di Neutroni

Introduzione

Come tutti sappiamo, la materia che ci circonda è formata da atomi, costituiti a loro volta da un nucleo centrale fatto da protoni e neutroni, e dagli elettroni che gli gravitano vorticosamente intorno.

Un po’ meno noto è forse il fatto che un atomo è quasi completamente vuoto; il nucleo, infatti, ha un diametro che è circa un centomillesimo di quello dell’atomo che lo ospita, mentre gli elettroni sono addirittura considerati puntiformi. Quasi completamente vuoto, quindi, allora perché non si può schiacciare un po’?

Normalmente, stando alle nostre esperienze quotidiane, un gas (che è fatto da atomi o da molecole libere tra loro) può essere compresso facilmente in un volume un po’ più piccolo aumentandone semplicemente la pressione, esattamente come quando gonfiamo una ruota di una bicicletta, con il risultato che gli atomi del gas si avvicinano un po’ tra di loro, di pari passo cresce anche la densità.

Un’operazione però che non si può eseguire ad oltranza; succederà infatti prima o poi che, come in un liquido o in un solido, gli atomi saranno vicini a tal punto che i loro orbitali atomici arriveranno a toccarsi, inutile continuare a “pressare”, non si andrà oltre. O quasi.

Al centro del nucleo terrestre che è composto quasi esclusivamente di ferro e dove vigono pressioni elevatissime che arrivano a 360 GPa (circa 3,5 milioni di atmosfere), la densità sale a circa 13 g/cm3 contro il classico 7,8 g/cm3 in condizioni normali; ancora più estremo è il centro del nostro Sole, dove, grazie ad una pressione di oltre 230 miliardi di atmosfere, la densità tocca picchi di circa 150 g/cm3, ovvero circa 20 volte la densità dell’acciaio.

Nane Bianche

Ma questo è solo l’inizio.

Una volta che il nostro Sole avrà terminato il suo combustibile nucleare, la materia che lo compone, non più sorretta dall’energia prodotta dalle reazioni nucleari, collasserà su se stessa, aumentando sempre di più la sua densità.

In condizioni normali la pressione di un gas ideale è proporzionale alla sua temperatura e alla sua densità; superando però una densità di 105 g/cm3, le distanze interatomiche sono tali che le nubi elettroniche dei vari atomi sono portate a compenetrarsi a vicenda e, viste le temperature in gioco (circa cento milioni di gradi Kelvin) sono completamente ionizzati, formando così un gas di nuclei ed elettroni; raggiunto il milione di gr/cm3 (1.000 kg/cm3), la pressione del gas è a un livello tale che essa risulta indipendente dalla temperatura e non segue più le leggi classiche, bensì viene regolato in base alla fisica della materia condensata, in cui il maggior contributo alla pressione è dato dal principio di esclusione di Pauli (vedi Coelum Astronomia n°258 pag.92).

Questa sostanza che abbiamo ottenuto, un gas di Fermi relativistico, è chiamata ‘gas degenere di elettroni’, si comporta non differentemente da un gas di elettroni allo zero assoluto e la sua densità media è dell’ordine delle tonnellate per centimetro cubo (un elefante adulto pesa tre tonnellate, pensate a condensarlo in una zolletta di zucchero).

Ma questo gas degenere è ancora relativamente comprimibile: aumentando la pressione, se la massa della stella di partenza è sufficiente, gli elettroni acquisteranno sempre maggiore velocità e la densità salirà di conseguenza; ne deriva che una nana bianca, dalle dimensioni tipicamente paragonabili a quelle della Terra, sarà stranamente più piccola nelle stelle con maggiore massa, grazie alla pressione finale più elevata.

Questo però vale fino a che la massa della stella rientra entro un certo valore, chiamato “limite di Chandrasekhar”; per i più arditi, questo valore si ottiene applicando la formula

dove ħ è la Costante di Planck ridotta, c è la velocità della luce nel vuoto, G è la Costante Gravitazionale, μe è la massa molecolare media per elettrone che dipende dalla composizione chimica della stella, mH è la massa dell’atomo di idrogeno e ω03 (≈ 2.0182) è una costante connessa alla soluzione dell’equazione di Lane-Emden (fonte: Wikipedia), e vale 1,44 masse solari.

Un’immagine ad alta definizione di Cassiopea A, che contiene
una stella di neutroni vicino al suo centro (Autore: Space Telescope
Science Institute Office of Public Outreach; Ringraziamenti:
NASA, ESA, CSA, STScI, D. Milisavljevic (Purdue University), T.
Temim (Princeton University), I. De Looze (University of Gent).

Stelle di Neutroni

Superato questo valore, la densità cresce sempre più e con essa la velocità degli elettroni, che giunge ad essere vicina a quella della luce; a questo punto, gli elettroni urtano così violentemente i protoni dei nuclei da fondersi con essi, dando origine ai neutroni.

È nata una stella di neutroni.

In realtà il processo è più complesso e comunque non omogeneo; un neutrone, nel vuoto e in quiete, ha una vita media di circa 15 minuti, e decade in un protone, un elettrone e un antineutrino:

 

l’energia rilasciata da questa reazione, distribuita come energia cinetica nelle tre particelle ottenute, è di 0,782±0,013 MeV, e questo significa che, per mantenere stabile un neutrone indefinitamente, è necessario rendere questo decadimento non più conveniente dal punto di vista energetico.

Ora, un aumento della densità del gas degenere comporta un innalzamento del livello di Fermi e quindi un corrispondente aumento dell’energia cinetica di ogni singola particella del gas, fino a che questo raggiunge la soglia necessaria a impedire quanto sopra e addirittura a ottenere il processo inverso, ovvero il processo chiamato neutronizzazione:

 

dove alcuni elettroni liberi vengono catturati dai protoni presenti nei nuclei, rilasciando neutrini che sfuggono dalla stella e formando neutroni, rendendone così i nuclei sempre più ricchi a spese dei protoni originari; la conseguenza è che il rapporto neutroni/protoni aumenta, creando nuclei che in condizioni normali sarebbero altamente instabili e decadrebbero quasi istantaneamente, ma che ora risultano stabili visto l’alto livello di Fermi degli elettroni e al gas degenere; contemporaneamente, grazie alla cattura elettronica, la pressione del gas cala e le forze gravitazionali possono continuare il loro lavoro di compressione.

Scendendo verso le profondità della stella, al crescere della densità i nuclei tenderanno ad avere un numero di massa sempre maggiore: fino a un ρ<1011 g/cm3 (ρ è rho, o ro: la diciassettesima lettera dell’alfabeto greco, e indica la densità) prevarranno quelli con numero di massa attorno agli 80, mentre arrivati a ρ=2×1011 g/cm3 predomineranno quelli vicini a 120.

Arrivati ad una densità critica di 4,3×1011 g/cm3, inizia quello che viene chiamato il ‘gocciolamento di neutroni’, ovvero un fenomeno in cui questi ultimi iniziano a fuoriuscire dai nuclei, dato che la forza di coesione nucleare n-n è inferiore a quella p-p e non è più sufficiente a mantenerli coesi; questo processo continua scendendo sempre più in profondità fino alla dissoluzione totale dei nuclei, o, meglio, fino al punto in cui questi tendono ad avere una distribuzione della densità nello spazio sempre meno localizzata nei loro centri, arrivando a sovrapporsi attorno a un ρ=2×1014 g/cm3; il risultato è così un gas degenere di neutroni liberi, con la presenza di un 2 o 3% di elettroni e protoni a un ρ=3×1014 g/cm3.

A pressioni più elevate, andando verso il centro, neppure i neutroni riusciranno a sopravvivere, come vedremo.

Mosaico tratto da 24 immagini effettuate dall’Hubble Space
Telescope tra il 1999 e il 2000 della Nebulosa del Granchio, al
cui centro troviamo una stella di neutroni. Crediti:NASA/JWST

Struttura di una Stella di Neutroni

Una volta terminata l’implosione della stella, otterremo un oggetto di una ventina di chilometri di diametro e fatto a strati, un po’ come una cipolla: 

Atmosfera

All’esterno troviamo una sottile atmosfera di carbonio spessa solo 10 centimetri, con una temperatura di circa 2 milioni di gradi Kelvin e una densità simile a quella del diamante vista l’enorme gravità presente sulla superficie, ovvero circa 100 miliardi di volte a quella a cui siamo normalmente abituati (analisi ottenuta dalle recenti osservazioni da parte di Chandra sulla Pulsar presente in Cassiopea A).

Per confronto, la nostra atmosfera si innalza per circa 100 km e ha una densità al livello del mare di 0,001 g/cm3.

Crosta Esterna

Subito sotto troviamo la crosta esterna, profonda circa 200 metri con un ρ che va da ≃ 1×109 g/cm3 a ≃ 4×1011, costituita da nuclei che partono dal 56Fe negli strati superiori ma che aumentano di massa e soprattutto di neutroni a mano a mano che si scende, fino a quando non inizia il fenomeno del gocciolamento dei neutroni; si presume che il fenomeno grazie al quale un nucleo di 56Fe possa aumentare di massa fino a divenire ad esempio 122Rb, fenomeno tutt’altro che banale, sia dovuto alla fotodisintegrazione di alcuni nuclei in particelle α e alla ricombinazione di queste ultime.

Grazie all’estrema gravità, le eventuali ‘montagne’ presenti sulla superficie sarebbero alte non più di qualche frazione di millimetro

Crosta Interna

C’è poi la crosta interna, spessa circa un chilometro e che arriva ad un ρ ≃ 2×1014g/cm3, pari alla densità nucleare, e che è composta da un reticolo cristallino di nuclei, elettroni relativistici e un superfluido di neutroni.

Questa zona finisce quando i nuclei iniziano a dissolversi

Nucleo Esterno

Il nucleo esterno invece è essenzialmente costituito da neutroni superfluidi, con una piccola percentuale di protoni superconduttivi ed un’identica quantità di elettroni degeneri relativistici, necessari per mantenere un equilibrio nelle cariche elettriche e che poi scompaiono completamente nella parte più interna (si arriva fino a un ρ circa doppio alla normale densità nucleare).

A queste densità inizia la creazione di particelle che normalmente non sono stabili in condizioni normali: attorno a un ρ di 2×1014g/cm3, il livello di Fermi degli elettroni raggiunge quello della massa di un muone (particella che come simbolo μ, che a riposo ha una massa di 105 MeV), e a questo punto diviene più conveniente introdurre un muone negativo con energia cinetica nulla piuttosto che creare un elettrone con un’alta energia cinetica.

Nucleo Interno

Il nucleo interno è ancora più interessante: viste le estreme densità ed energie raggiunte, vengono a crearsi le condizioni per cui è più conveniente creare degli iperoni ‘pesanti’ piuttosto che mantenere dei semplici neutroni, che hanno una massa a riposo minore; iniziano così ad essere create particelle come Σ⁻, Λ⁰ e altre ancora, con masse sempre più elevate a mano a mano che la pressione aumenta.

Altre teorie poi prevedono l’esistenza al centro di questi corpi celesti di un plasma di quark in stato superconduttivo e di gluoni, e altre ancora che ipotizzano la formazione in tali condizioni di quella che viene chiamata ‘materia strana’, formata da quark strani e che si presume possa addirittura rimanere stabile al di fuori di quelle immense pressioni; capire quali di queste teorie corrisponda al vero è tutt’ora una questione molto delicata e ben lungi dall’essere completamente chiarita, anche perché non è neppure sicuro che si riescano a raggiungere tali densità senza che la stella collassi definitivamente in un buco nero.

Tuttavia osservazioni recenti effettuate con l’osservatorio a raggi X Chandra hanno trovato due candidate precedentemente considerate stelle di neutroni ‘normali’, dove una risulta molto più piccola e l’altra molto più fredda di quello che dovrebbero essere secondo le leggi fisiche oggi conosciute, suggerendo l’ipotesi che esse siano composte da materia più densa del neutronio; queste deduzioni sono comunque messe in dubbio da parecchi ricercatori, e non sono conclusive.

Stelle da record

Con queste premesse, arrivare a stracciare dei record è molto facile, vediamoli insieme:

Campo Magnetico

Alcune stelle di neutroni hanno dei campi magnetici miliardi di volte di quello terrestre (che è di circa 50 μTesla), e in questi casi prendono il nome di Magnetar (contrazione di ‘Magnetic Star’).

Attualmente se ne conoscono meno di 30, e quella che ha la palma per il campo magnetico più potente sembra essere la SGR 1806−20, una stella sita a 42.000 anni luce da noi il cui campo, secondo il McGill Online Magnetar Catalog, arriva alla bellezza di 2×1011 Tesla.

Tenete presente che una simile intensità ucciderebbe qualunque essere umano lacerandone i tessuti a una distanza di oltre 1000 km per via del diamagnetismo dell’acqua, e che arriverebbe a smagnetizzare una carta di credito a una distanza corrispondente a quella dalla Terra alla Luna; inoltre questi campi deformano le strutture orbitali degli atomi facendo loro assumere la forma di un sigaro, così che, sottoponendo un atomo di idrogeno a un campo di 1010 Tesla, questo si allunga di 200 volte il proprio diametro originario.

Velocità di Rotazione

Tutti sappiamo che il periodo di rotazione terrestre è di 24 ore (un giorno), mentre il Sole ruota attorno al proprio asse in 27 giorni circa; quando però una stella collassa su se stessa, a causa della legge di conservazione del momento angolare (così come una pattinatrice che accelera la sua rotazione chiudendo le braccia), la stella è costretta ad accelerare in maniera vertiginosa la propria rotazione.

Tipicamente, le stelle di neutroni ruotano su se stesse con periodi che vanno da 1 a 30 secondi, ma uno studio del 2007 ha rilevato che la pulsar chiamata XTE J1739-285 ha un periodo di poco superiore ai 0,8 millisecondi (anche se in tempi successivi altri astronomi non sono riusciti ad ottenere lo stesso risultato), quindi la palma andrebbe a PSR J1748-2446ad, con una velocità di rotazione di 716 giri al secondo.

C’è comunque un limite alla velocità di rotazione raggiungibile: se questa superasse infatti i 1.500 giri al secondo, nonostante l’intensissima attrazione gravitazionale le pulsar potrebbero andare in pezzi; inoltre, oltre i 1.000 giri al secondo le stelle perderebbero più velocemente energia di quanto il processo di accrescimento possa renderle veloci grazie alla produzione di onde gravitazionali.

Gravità

Le stelle di neutroni sono gli oggetti ‘solidi’ (quindi buchi neri esclusi) con il campo gravitazionale più intenso sulla loro superficie, che arriva ad essere cento miliardi di volte (1011) quello terrestre, e quindi una monetina da un euro peserebbe lì come 200.000 (duecentomila) elefanti sulla Terra; questo comporta anche una velocità di fuga elevatissima, che è circa un terzo della velocità della luce nel vuoto (100.000 km/s).

Sono valori enormi: se un malcapitato astronauta volesse avventurarsi sulla sua superficie, nell’improbabile caso che riuscisse ad atterrare sano e salvo (dovrebbe sopportare enormi forze mareali mentre si avvicina, proprio come succede avvicinandosi ad un buco nero), verrebbe stritolato, schiacciato e infine annichilito dal calore presente e da quello generato dai suoi atomi leggeri, che subirebbero una fusione nucleare.

Densità

Beh, che dire, ci piace vincere facile 🙂

La densità nel nucleo interno, secondo quanto teorizzato, sarebbe dell’ordine dei 1015gr/cm3, ovvero l’equivalente di oltre 2.000.000.000 (due miliardi!) di elefanti per ogni cucchiaino da tè di detta sostanza (10 ml), oppure 1.400 (millequattrocento!) piramidi di Cheope, se preferite!

Da tenere presente che la densità all’interno di un nucleo atomico in condizioni normali è dell’ordine dei 1014g/cm3

Pressione

Qua è più difficile fare mente locale, visto che non abbiamo nessuna pietra di paragone a noi familiare che si possa facilmente usare.

Come stima dell’ordine di grandezza, diverse fonti riportano una pressione all’interno del nucleo di una stella di neutroni un valore di circa 1035 Pa (Pascal); ora, tenuto conto che 105 Pa equivalgono circa alla pressione dell’aria sulla superficie terrestre, avremo che la pressione al centro di una stella di neutroni è in una prima approssimazione equivalente a:

  • 1030 volte la pressione dell’aria al livello del mare (P = 105 Pa)
  • 1027 volte la pressione nella Fossa delle Marianne (P = 108 Pa)
  • 2,5×1023 volte la pressione al centro della Terra (P = 4×1011 Pa)
  • 3×1018 volte la pressione esistente nel centro del Sole (P = 3×1016 Pa)

Numeri a cui è difficile dare un senso; diciamo quindi solo che, nel centro di una stella di neutroni, la pressione è circa tre miliardi di miliardi di volte più forte che nel centro del Sole.

E ho detto tutto.

Riferimenti

  1. Bernardini, C. Guaraldo: Fisica del Nucleo
  2. Gittins, N. Andersson: Modelling neutron star mountains in relativity

Craig Heinke:Chandra X-Ray Observatory -Chandra Peers into Neutron Stars

Andrew W. Steiner: neutronstars.utk.edu

NASA’s HEASARC: Education& Public Information (per dimensioni e spessori degli strati)

Chandra X-Ray Observatory: press_110409

L’articolo è pubblicato in COELUM 266 VERSIONE CARTACEA

Nebulosa di Orione | M42 |

0

La protagonista dell’arco celeste invernale: M42

Salve a tutti appassionati Astronomi. Vi lascio una mia opera fatta nella serata di Halloween: Nebulosa di Orione | M 42 |, situata al di sotto della cintura nella costellazione di Orione a 1.350 anni luce dalla Terra.

La Nebulosa di Orione è un oggetto ad emissione a luce diffusa ed è facilmente visibile ad occhio nudo non solo grazie alla sua luminosità (magnitudine apparente di +4.0) ma alla sua immensa grandezza di circa 24 anni luce (pari a 210 mila miliardi di km).

La nebulosa si è generata grazie ad una potente esplosione di una stella (attualmente “Nana Bianca”), chiamata comunemente in astronomia con il termine: “Supernova”. I colori della nebulosa sono dovuti ai gas espulsi dalla stella stessa che lo ha generato (presente nel nucleo di Orione se andiamo a zoomare la fotografia). Gli astronomi hanno rilevato che all’interno di questo ammasso di gas e polveri ci sono degli elementi in particolare che compongono la nebulosa e sono: “idrogeno molecolare, acqua, il monossido di carbonio, la formaldeide, il metanolo, l’etere dimetilico, l’acido cianidrico, l’ossido e il biossido di zolfo”.

La Nebulosa di Orione è soprannominata come una “fucina di stelle”. Attualmente, nella regione Sud della nebulosa, si possono notare dei “dischi neri” (dischi protoplanetari) di dimensione importante che ruotano attorno ad una piccola stella (nana bruna) appena nata: questo vuol dire che si formando dei nuovi sistemi solari (sistemi extrasolari) nella quale presenteranno nuovi pianeti e oggetti celesti di varia forma e dimensione, esattamente com’è successo al nostro sistema solare circa 5 miliardi di anni fa. Sembra assurdo ma è reale.

La Nebulosa di Orione brilla nel periodo invernale, scomparendo poi nei periodi estivi dell’anno regalando uno spettacolo senza eguali, permettendo all’umanità di conoscere com’è stato l’avvenire del nostro sistema solare.

Questa foto è stata scattata dal mio semplice Seestar S50 e processata su PixInsight.

•- IL MIO SETUP -•

• Telescopi: Skywatcher 305/1500 – Seestar S50

• Montature: EQ6 – R Pro | Alt/Az Seestar S50

• Camera: Sony IMX 462 (Seestar S50) | SW 300″ (Camera del Samsung S23+ Ultra per il Planetario).

Cieli sereni ✨️.

Il Progetto DUSTER – Polvere di Luna

Mentre alcune agenzie spaziali si preparano per le prossime missioni di ritorno sulla Luna, scienza e ingegneria devono affrontare la sfida di misurare, controllare e mitigare un importante rischio ambientale associato: la polvere. Nasce il progetto DUSTER

Dalla polvere sulla Terra…

La polvere è onnipresente e può diventare un vero incubo. Sulla Terra, questo conglomerato di minuscole particelle, composte da acari, fibre, terra e polline, si trova su ogni tipo di superficie. Quando viene smossa, la polvere depositata può rimanere sospesa nell’aria: alcuni ne restano affascinati nel vederla illuminata dalla luce solare, tracciando traiettorie Browniane, mentre altri semplicemente starnutiscono. Fortunatamente, utilizzando uno strofinaccio o un aspirapolvere, ce ne possiamo facilmente liberare.

…alla polvere sulla Luna

Peró la polvere può essere fastidiosa e sgradevole anche fuori dalla nostra Terra, più in là, nello spazio. Quando gli astronauti delle missioni Apollo tornarono a casa dal nostro satellite, si resero conto di avere della polvere, proveniente dalla superficie lunare, attaccata alle tute spaziali, la quale provocava irritazione alla gola e lacrimazione.

Apollo 17 Harrison
Figura 0 L’astronauta dell’Apollo 17 Harrison Schmitt mentre raccoglie un campione di terreno, con la sua tuta spaziale ricoperta di polvere. Credito: immagine NASA AS17-145-22157.

Sulla Luna la polvere è composta da minuscole particelle affilate e abrasive, generate da granelli di roccia frantumata dall’impatto di meteoriti e micrometeoriti sulla superficie lunare.  Sono particelle, dotate di carica elettrostatica e si attaccano su tutte le superfici, dalle tute spaziali alle parti strumentali elettroniche ed ottiche dei moduli spaziali, e possono persino infiltrarsi nei polmoni degli astronauti.

A differenza della Terra, sulla Luna non è così facile liberarsi da questi minuscoli detriti  nonostante i tentativi degli equipaggi di spazzarli via dalle loro tute spaziali con spazzole o spesso con le mani, nessuno dei metodi è risultato efficace. La minore gravità lunare – un sesto di quella terrestre – inoltre fa sì che le minuscole particelle rimangano sospese per più tempo e possano quindi penetrare più profondamente nei polmoni.

Venere visto dalla Luna
Quando la missione Apollo orbitò attorno al lato nascosto della Luna, gli astronauti videro un arco di luce incredibilmente luminoso brillare all’orizzonte subito dopo il tramonto. Il punto luminoso in alto è il pianeta Venere. Credito: NASA.

Insomma saper controllare la presenza di polvere, che si trova anche sulla superficie di Marte, come su comete e asteroidi, rappresenta una vera sfida per le future missioni di esplorazione – sia con equipaggio umano che robotiche – su diversi corpi del Sistema Solare, incluso sul nostro satellite. Oltre a compromettere la salute degli astronauti per irritazione e inalazione, la polvere lunare ha molti altri effetti deleteri sulla strumentazione e l’equipaggiamento tecnico: tra i tanti il danneggiamento e la rottura delle tute spaziali, l’oscuramento della visione esterna, a causa del deposito sulle lenti delle telecamere e dei visori, false letture strumentali, perdita di adesione, intasamento delle meccaniche, abrasione, problemi di controllo termico (per esempio surriscaldamento dei radiatori), guasti nelle giunture sigillanti, l’elenco è decisamente lungo!

Differenze tra il suolo terrestre e lunare


l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

AUTORI

Karolien Lefever, direttrice del dipartimento di “Comunicazione e Documentazione” del Reale Istituto Belga di Aeronomia Spaziale (BIRA-IASB) 

Sylvain Ranvier, scienziato del gruppo di ricerca “Accoppiamento magnetosfera-ionosfera” del BIRA-IASB e coordinatore del progetto DUSTER 

Rosario Sanz Mesa, scientific manager e divulgatrice, e Julio Rodríguez Gómez PI presso l’unitá di sviluppo di strumentazione tecnologica, UDIT, dell’ Istituto di Astrofisica di Andalucía, IAA-CSIC

Traduzione all’italiano di Sebastiano de Franciscis, ricercatore e divulgatore scientifico presso l’IAA-CSIC.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

Arp 263 nella Costellazione del Leone

Credit: ESA/Hubble & NASA, J. Dalcanton, A. Filippenko

ABSTRACT

In questa insolita ripresa del telescopio Hubble una stella della Via Lattea, brillante come un fulgido diamante, mette in ombra la luce emessa dalle stelle di un’intera galassia di fondo, che appare come un insieme fitto di lucine sparse. Nonostante la predominanza della stella nella scena celeste, Arp 263 è un oggetto interessante e attraente da osservare, in particolare per le vaste e diffuse regioni di formazione stellare, simili a delicati mazzolini di fiori rosati.


Fiori Rosa per una Galassia Irregolare


L’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

 

TFOP – TESS FOLLOW-UP OBSERVING PROGRAM

“Ci sono infiniti mondi simili e diversi da questo nostro” – Epicuro 341-270 s.C.

Gli Esopianeti, gioielli cosmici, sono ovunque nell’universo eppure trovarli è molto più impegnativo che trovare il classico ago nel pagliaio. Anche se sono impossibili da fotografare direttamente possono essere osservati grazie a missioni dedicate per cercarli e caratterizzarli utilizzando tecniche indirette.

La prima missione progettata per la caccia ai pianeti nasce con la NASA, il 7 marzo 2009 con il lancio del telescopio spaziale Kepler il cui scopo era individuare nuovi esopianeti monitorando i cali periodici di luminosità causati dai transiti planetari.

Kepler ha scoperto più di 2300 mondi, sistemi multi-planetari e perfino pianeti nella zona abitabile ma i limiti di Kepler erano ben noti da prima del suo lancio e già al momento della progettazione si considererò che il satellite potesse esplorare una piccola una porzione della Via Lattea alla ricerca di pianeti delle dimensioni della Terra.

ALLA SCOPERTA DI NUOVI MONDI: TESS SEGUE LA MISSIONE KEPLER

Nel 2013 a seguito di un guasto il programma di indagine di Kepler termina e nel 2013 per prenderne il posto viene finanziato il nuovo strumento TESS Transiting Exoplanet Survey Satellite lanciato poi con successo nel 2018. Mentre Kepler si immergeva in profondità in una regione specifica del cielo, TESS ancora oggi osserva stelle che sono da 30 a 100 volte più luminose di quelle che osservava Kepler – in un’area 400 volte più grande – dove molte delle quali sono stelle simili al nostro Sole.

TESS ha prodotto e continua a produrre una grande quantità di dati che devono essere innanzitutto confermati. Infatti, nonostante la precisione dei suoi strumenti e il vantaggio di non essere disturbato dall’atmosfera terrestre, anche le osservazioni di TESS possono essere contaminate da fattori esterni. Ben una frazione importante dei pianeti candidati trovati da TESS si rivelano essere ad un’indagine successiva “falsi positivi”. Un falso positivo è un segnale simile a quello emesso dal transito di un pianeta davanti alla sua stella ma che in realtà la sua origine è diversa, forse strumentale oppure legata a fenomeni astrofisici. Rientrano ad esempio in questa ultima categoria le stelle variabili (come le binarie ad eclisse) che si trovano vicino ai target osservati.

A sostegno della missione TESS occorrono quindi osservazioni follow-up da terra al fine di escludere i falsi positivi e successivamente perfezionare le effemeridi dei pianeti confermati. Nasce così TFOP Tess Follow-Up Observing Program programma di follow-up di TESS con lo scopo di completare le osservazioni di TESS con dati raccolti da osservatori terrestri.

ASTROFILI A CACCIA DI ESOPIANETI

Il TFOP, grazie al contributo di Astronomi professionisti e di Astrofili, ha fino ad oggi confermato circa cinquecento pianeti extrasolari.

Gli osservatori terrestri si impegnano a riprendere fotometricamente i pianeti candidati trovati dal telescopio spaziale al fine di confermarne i transiti oppure tentano di ripetere l’osservazione mettendo in campo strumenti diversi come, ad esempio, spettroscopi, utile per determinare la massa dei target.

Abbiamo chiesto all’astronoma Karen Collins, membro dell’ufficio scientifico TESS, di raccontarci come opera TESS.

 “Il TESS Follow-up Observing Program (TFOP) ha l’obiettivo di confermare i cosiddetti TOI (TESS Object of Interest), che in genere sono segnali di possibili esopianeti in transito. Il gruppo è organizzato in cinque diversi sottogruppi (SG) e attualmente comprende oltre 650 cittadini fra astrofili, studenti e astronomi professionisti di tutto il mondo. Tutti gli osservatori con le competenze necessarie per contribuire a uno o più sottogruppi sono invitati a candidarsi per entrare a far parte del TFOP seguendo le istruzioni riportate sul nostro  sito web dedicato alle candidature (https://tess.mit.edu/followup/apply-join-tfop).”

Specificità dei gruppi di lavoro TESS

SG1 utilizza fotometria per identificare i falsi positivi dovuti a binarie ad eclisse vicine al TOI che contaminano le misure fotometriche di TESS e, nella maggior parte dei casi, per rilevare gli eventi di transito sul target. I tempi di transito misurati sono utilizzati per contribuire a perfezionare le effemeridi di TESS e, in alcuni casi, per misurare le variazioni temporali. Quando è possibile, si raccolgono anche osservazioni multibanda per verificare la dipendenza del segnale di transito dalla lunghezza d’onda: conferma di una binaria ad eclisse che non può essere distinta dal TOI.

Il team SG2 individua e misura parametri spettroscopici per calcolare in maniera più precisa la massa e il raggio delle stelle madri dei pianeti, per individuare i falsi positivi causati dalle binarie spettroscopiche e per identificare le stelle non adatte a misure precise di RV (quelle in rapida rotazione)

Il team SG3 usa immagini ad alta risoluzione (ad esempio con ottiche adattive) per rilevare oggetti vicini che non sono risolti nelle osservazioni di TESS o ad integrazione dei lavori del gruppo SG1.

Il team SG4 ottiene misure accurate di velocità radiali delle TOI con l’obiettivo di determinare le orbite dei pianeti intorno alla stella madre e calcolarne la massa.

Il gruppo SG5 compina dati fotometrici raccolti da più fonti come HST, Spitzer (non più attivo), MOST, CHEOPS e JWST, per confermare e migliorare le effemeridi fornite da TESS, ma anche per fornire curve di luce migliorate per eventi di transito o addirittura TTV Transit Timing Variation in alcuni casi.

Intervista a Karen Collins

Approfittiamo della preziosa disponibilità di Karen Collins per rivolgerle ancora qualche domanda.

Qual è il suo ruolo all’interno del programma TESS e più nello specifico nel TFOP?

Sono a capo del team SG1, insieme alla collega Cristilyn Watkins. Insieme, esaminiamo tutte le osservazioni presentate dai membri del team SG1 e aggiorniamo le valutazioni dei pianeti candidati man mano che il processo di follow-up procede fino alla conferma del pianeta o del falso positivo. Specifichiamo inoltre quale tipo di osservazione è necessaria per ogni TOI. Gli osservatori che hanno fornito le curve di luce secondo le nostre richieste e che si sono rivelate utili per la completa valutazione di un candidato pianeta diventano coautori degli articoli sulla scoperta di pianeti.

Karen Collins presso l’Apache Point Observatory

Cosa cerca principalmente il vostro team e qual è stata la scoperta più importante dell’ ultimo anno grazie ai dati di follow-up di TESS?

L’obiettivo generale del team TFOP è quello di contribuire alla conferma dei pianeti trovati da TESS. La maggior parte degli autori degli articoli sulla scoperta dei pianeti sono anche membri del TFOP, quindi lavoriamo a stretto contatto con loro durante il processo di pubblicazione. Ad oggi sono stati scoperti quasi 500 pianeti grazie a TESS e non saprei dire quale fra essi può rappresentare la scoperta più importante. Suppongo invece che sia proprio il gran numero di scoperte di pianeti da parte di TESS e del TFOP a rivestire una notevole importanza per gli studi statistici sugli esopianeti, sulla loro formazione e soprattutto indirizzare gli approfondimenti delle atmosfere grazie al James Webb Space Telescope (JWST).

La NASA consente l’accesso al database Exo FOP-TESS affinché tutti i membri di TFOP possano caricare le proprie osservazioni una volta che un esopianeta viene stato confermato.

Per i curiosi, tutti i candidati pianeti trovati da TESS, che dovranno poi essere confermati dal TFOP, sono presenti nel catalogo TOI (TESS Objects of Interest). Per consultarli https://tess.mit.edu/followup/

TESS non è in grado di approfondire lo studio e l’analisi delle caratteristiche dei nuovi pianeti non essendo stato progettato specificatamente per questo scopo non possiede infatti la strumentazione necessaria. In futuro, ed anche ora, TESS ricoprirà il ruolo di “puntatore” del telescopio spaziale James Webb (JWST). Una volta individuati quindi gli oggetti più interessanti sarà TESS a indicare al JWST la direzione verso cui puntare.

L’articolo è pubblicato in Coelum Astronomia 270

LE SUPERNOVAE EXTRAGALATTICHE PIU’ LUMINOSE ED IMPORTANTI DELLA STORIA (pt.2): SN1895B IN NGC5253

ABSTRACT

Quando si parla di supernovae, il nostro sguardo si allarga inevitabilmente verso gli angoli più remoti e affascinanti dell’Universo. L’articolo che segue vi guiderà attraverso le scoperte di alcuni degli eventi astronomici più luminosi e significativi mai osservati: le supernovae extragalattiche. In particolare, ci concentreremo su quelle che, grazie alla loro vicinanza e brillantezza, hanno lasciato un segno indelebile nella storia dell’astronomia. Attraverso un viaggio che inizia con la celebre SN1895B, scoperta dalla pioniera dell’astronomia Williamina Fleming, esploreremo come tali fenomeni abbiano contribuito a ridefinire la nostra comprensione delle galassie e del cosmo. Preparatevi dunque ad immergervi nella storia di queste esplosioni stellari, alla scoperta delle meraviglie e dei misteri che esse portano con sé.

SN1895B di Williamina Fleming

1)	Primo piano dell’astronoma scozzese, naturalizzata statunitense, Williamina Paton Stevens Fleming realizzato intorno all’anno 1890.
1) Primo piano dell’astronoma scozzese, naturalizzata statunitense, Williamina Paton Stevens Fleming realizzato intorno all’anno 1890.

L’articolo prosegue cronologicamente l’analisi delle supernovae più luminose e quindi più vicine ed importanti della storia. Dopo la SN1885A scoperta dall’astronomo tedesco Ernst Hartwig nella galassia di Andromeda (prima supernova extragalattica della storia), che abbiamo trattato nella puntata precedente (vedi COELUM 269), ci spostiamo di circa dieci anni più avanti, arrivando alla scoperta della SN1895B ad opera dell’astronoma scozzese, naturalizzata statunitense, Williamina Paton Stevens Fleming il 12 dicembre 1895, analizzando una lastra fotografica del 18 luglio 1895 nella galassia NGC5253.

L’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

Edwin Hubble a cento anni dalla sua prima grande scoperta

IL 23 NOVEMBRE 1924, CENTO ANNI FA, EDWIN HUBBLE PUBBLICÒ IN THE OBSERVATORY: “CEPHEIDS IN SPIRALNEBULAE“. UNO STUDIO BASATO SULLE SUE OSSERVAZIONI ASTRONOMICHE, NEL QUALE DIMOSTRÒ CHE LA VIA LATTEA NON È L’UNICA GALASSIA DELL’UNIVERSO DANDO COSÌ UNA SVOLTA ALLA STORIA DELL’ASTRONOMIA ED ALLA COMPRENSIONE DEL CIELO SOPRA DI NOI.

Il centenario di una delle sue scoperte più importanti ci offre l’opportunità di guardare da vicino il lavoro straordinario di Edwin Hubble. I suoi studi rivoluzionarono nel secolo scorso la nostra conoscenza del cosmo al pari di quanto fecero Copernico e Galileo tra 1500 e 1600. Possono la scienza e la tecnica restituirci non solo maggiore conoscenza della realtà che ci circonda, ma anche senso e significato? È buona cosa che qualunque disciplina non risponda a domande che non sono pensate per quella disciplina e che stia, per dirla con parole proprie, nel suo statuto epistemologico. Tuttavia è possibile, se non auspicabile, che le scoperte della scienza ed i traguardi della tecnica, spingano tutti e chiunque a riflettere sul significato della vita e sulle grandi domande umane. Diversamente la scienza e la tecnica rischiano di essere solo a servizio del potere, e rivestite di una presunta neutralità, che non hanno mai avuto davvero, essere concluse in sé stesse. Analoghe considerazioni si possono fare della vita e del modo di fare scienza delle donne e degli uomini che hanno accompagnato l’umanità nel viaggio del sapere, perché le persone e le scoperte che hanno fatto restano sempre un tutt’uno nel fluire della storia. Quando si tratta di esplorazione dello spazio, cielo profondo, fisica ed astrofisica, tutto sembra ancora più favorevole ed invitante.

Nato a Marshfield negli Stati Uniti il 20 novembre 1889, Edwin Powell Hubble alle leggi della terra, si laurea nel 1910 in giurisprudenza per compiacere il padre, preferì le leggi del cielo, studiando astronomia all’Osservatorio dell’Università di Chicago, dove conseguì il dottorato nel 1917 discutendo una tesi dal titolo “Investigazione fotografica di nebulose deboli”. E le nebulose furono, in effetti, il suo grande amore. Colgo qui un primo elemento di senso che possiamo condividere: il valore inestimabile della vocazione personale di ciascuno di noi. Uso un termine teologico, ma che rende ragione di un significato denso anche al di fuori dell’orbita di un credo religioso. Lo psicoanalista e psichiatra Jacques Lacan esprimeva questo concetto con una domanda: “Vivi all’altezza dei desideri che ti abitano?”. Una domanda seria che possiamo legare più di altre proprio al cielo. Hubble ci mostra come la vita non sia prima di tutto una serie di scelte, ma una risposta a qualcosa di misterioso e profondo che ci abita sin dall’infanzia. Benché l’astronomo abbia afferrato in gioventù il suo desiderio, non è mai tardi per chiunque per investigare il cuore alla ricerca di quella radice, o di una domanda che è così strutturale da poter essere fatta fiorire in modi diversi a qualunque età.  Per chi è appassionato di cielo e spazio questo piccolo passo, ma che segna la propria storia, potrebbe essere anche più semplice. Il detto popolare secondo cui è possibile esprimere un desiderio al vedere una stella cadente, non è così sbagliato se le “stelle cadenti” ci aiutano non tanto a realizzare, ma a focalizzare i nostri desideri più significativi.

l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

ShaRA#9 – Le Galassie Antenne

Dettagli del sistema Galassie Antenne. Crediti @ShaRA Team
Dettagli del sistema Galassie Antenne. Crediti @ShaRA Team

Indice dei contenuti

ABSTRACT

Nel corso degli ultimi progetti del team ShaRA, ci siamo immersi nell’esplorazione di alcuni tra i più affascinanti oggetti del cielo profondo. Dopo aver catturato l’interazione gravitazionale tra le galassie NGC 3169 e NGC 3166, abbiamo deciso di posare il nostro sguardo su un oggetto tra i più iconici del cielo notturno. ShaRA#9 ci ha così trasportato in un angolo di universo oltre il nostro gruppo locale, dove due remote galassie stanno danzando una complessa coreografia di collisione e fusione, tra le più studiate in letteratura: le Galassie delle Antenne (NGC 4038 e NGC 4039).

di Alessandro Ravagnin e ShaRA Team

Il Target

Le Galassie delle Antenne (NGC 4038 e NGC 4039) nel campo inquadrato, sono visibili moltissime galassie di sfondo, tra le quali anche una coppia di galassie interagenti non classificate in letteratura.
Le Galassie delle Antenne (NGC 4038 e NGC 4039) nel campo inquadrato, sono visibili moltissime galassie di sfondo, tra le quali anche una coppia di galassie interagenti non classificate in letteratura.

l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA


L’Anello Prezioso Creato da un Quasar

Una piccola immagine di una galassia distorta dalla lente gravitazionale in un anello fioco. Nella parte superiore dell'anello ci sono tre punti molto luminosi con punte di diffrazione che fuoriescono da essi, uno accanto all'altro: in realtà si tratta di copie di un singolo quasar nella galassia, duplicate dalla lente gravitazionale. Al centro dell'anello, la galassia ellittica che esegue la lente appare come un piccolo punto blu.
Una piccola immagine di una galassia distorta dalla lente gravitazionale in un anello fioco. Nella parte superiore dell'anello ci sono tre punti molto luminosi con punte di diffrazione che fuoriescono da essi, uno accanto all'altro: in realtà si tratta di copie di un singolo quasar nella galassia, duplicate dalla lente gravitazionale. Al centro dell'anello, la galassia ellittica che esegue la lente appare come un piccolo punto blu. Credit: ESA/Webb, NASA & CSA, A. Nierenberg

L’insolito oggetto immortalato in questa sorprendente ripresa del telescopio JWST sembra quasi un prezioso anello tempestato di rubini brillanti, appoggiato su uno sfondo di velluto nero profondo. Si tratta in realtà di un quasar distante oltre 6 miliardi di anni luce da noi nella Costellazione del Cratere, un oggetto estremamente brillante, la cui immagine risulta duplicata e deformata per effetto di un fenomeno noto come lente gravitazionale.

I quasar sono sorgenti estremamente luminose localizzate nel cuore di remote galassie attive: la luminosità eccezionale e la prodigiosa quantità di energia emesse da un quasar sono dovute al processo di accrescimento del buco nero supermassiccio centrale, circondato da un disco da cui divora avidamente materia. Il materiale in caduta nel vorace buco nero accresce la sua massa ed è anche responsabile della luminosità di un quasar. 

Nel caso del quasar RX J1131-1231, accade che lungo la nostra linea di vista si interponga nello spazio una massiccia galassia ellittica, situata circa a metà strada tra noi e il quasar, a 3,5 miliardi di anni luce di distanza dalla Terra. A causa della presenza ingombrante di una grande quantità di massa, come previsto dalla Relatività Generale di Einstein, la deformazione del tessuto spaziotemporale fa sì che la luce emessa dal quasar venga forzata a viaggiare lungo percorsi differenti per arrivare fino a noi, cosicchè la sua immagine risulta deformata e riprodotta più volte. Inoltre, la galassia in primo piano agisce come una sorta di lente, un telescopio naturale che ci permette di osservare chiaramente il quasar remoto, la cui radiazione luminosa viene amplificata.

Una piccola immagine di una galassia distorta dalla lente gravitazionale in un anello fioco.
Una piccola immagine di una galassia distorta dalla lente gravitazionale in un anello fioco. Nella parte superiore dell’anello ci sono tre punti molto luminosi con punte di diffrazione che fuoriescono da essi, uno accanto all’altro: in realtà si tratta di copie di un singolo quasar nella galassia, duplicate dalla lente gravitazionale. Al centro dell’anello, la galassia ellittica che esegue la lente appare come un piccolo punto blu. Credit: ESA/Webb, NASA & CSA, A. Nierenberg

I tre punti brillanti affiancati e il puntino luminoso dalla parte opposta dell’anello sono in realtà quattro immagini distinte di questo singolo quasar, la cui luce lungo il percorso si è “piegata” creando l’illusione che la galassia ellittica in primo piano, visibile come piccolo puntino blu al centro dell’anello, sia circondata da quattro oggetti luminosi distinti, mentre la galassia in cui si trova il quasar ha assunto una forma simile ad un anello. Il numero e la forma delle immagini di un quasar lensato in questa sorta di miraggi cosmici dipende dalla posizione relativa del quasar, della galassia lente e del telescopio.

Il processo di accrescimento di materiale e l’ambiente estremamente energetico provocano un surriscaldamento del disco circostante il buco nero supermassiccio, con conseguente emissione di luce in varie lunghezze d’onda. Al di sopra del bordo interno del disco si trova la corona, una regione ricca di particelle altamente energetiche, accelerate dal campo magnetico del buco nero, che brillano in banda X. Grazie al fenomeno della lente gravitazionale e a osservazioni del telescopio spaziale Chandra, gli astronomi hanno ottenuto informazioni dettagliate sulla quantità di radiazione X a differenti energie emessa dal quasar. Questo ha permesso di misurare il tasso di rotazione del buco nero supermassiccio attivo responsabile della luminosità del quasar. Sembra che il buco nero volteggi a un tasso prodigioso, pari a circa metà della velocità della luce.

Misurare la rotazione dei buchi neri supermassicci nel giovane Universo può aiutare i ricercatori a capire se questi mostruosi oggetti crescano essenzialmente attraverso collisioni o grandi fusioni tra galassie, nel qual caso avrebbero a disposizione una fornitura costante di materiale proveniente da una direzione principale, formando un disco di accrescimento stabile, in grado di ruotare rapidamente. Oppure se acquisiscano massa attraverso molti episodi minori di accrescimento, da una serie di direzioni casuali variabili, nel qual caso il tasso di rotazione risulterebbe inferiore. I dati ottenuti dai ricercatori supportano la prima ipotesi, data l’eccezionale rapidità di rotazione calcolata in RX J1131.

L’immagine è stata ripresa dallo strumento MIRI (Mid-Infrared Instrument) a bordo del telescopio Webb, come parte di un programma osservativo volto a studiare la materia oscura. Queste osservazioni di quasar distanti permetteranno agli astronomi di sondare la natura della materia oscura su scale molto piccole, grazie al fenomeno della lente gravitazionale.

L’articolo è pubblicato in Coelum Astronomia 270

Fonte: https://esawebb.org/news/weic2324/

Modelli 3D per le Supernovae

Rappresentazione artistica delle fasi che portano all’esplosione di una supernova
Figura 1. Rappresentazione artistica delle fasi che portano all’esplosione di una supernova a collasso del nucleo:la stella progenitrice espelle parte degli strati più esterni nei decenni che precedono l’esplosione (a sinistra); un numero cospicuo di neutrini viene emesso negli istanti successivi al collasso del nucleo (al centro); l’onda d’urto generata dal collasso raggiunge la superficie della stella determinandone la distruzione (a destra). Crediti: S. Orlando/INAF Palermo.

Come i Modelli Scientifici Stanno Rivoluzionando lo Studio delle Supernove

INTRODUZIONE

Nell’articolo l’autore esplora come i modelli scientifici tridimensionali (3D) stiano rivoluzionando lo studio delle supernove, con particolare enfasi sulle supernove a collasso del nucleo (cc-SNe). Queste esplosioni stellari, tra gli eventi più energetici dell’universo, giocano un ruolo cruciale nell’evoluzione delle galassie, contribuendo alla distribuzione degli elementi chimici necessari alla formazione di nuove stelle e pianeti. Tuttavia, la comprensione dei processi fisici che guidano queste esplosioni è estremamente complessa a causa della loro imprevedibilità e della difficoltà di osservare direttamente le fasi che precedono e seguono immediatamente il collasso del nucleo.

Gli scienziati affrontano queste sfide utilizzando modelli 3D avanzati che, grazie alla potenza dei supercomputer, permettono di simulare dettagliatamente l’evoluzione delle supernove dal collasso del nucleo fino alla propagazione dell’onda d’urto attraverso l’ambiente circostante. Questi modelli non solo riproducono le condizioni fisiche e chimiche delle stelle progenitrici, ma consentono anche di collegare le strutture osservate nei resti di supernova ai processi fisici che le hanno generate.

Un caso di studio significativo è rappresentato dalla supernova SN 1987A, la cui esplosione è stata modellata in 3D, rivelando dettagli cruciali sulla sua asimmetria e sulla stella progenitrice.

Le Sfide per la Comprensione delle Supernove

Nonostante il ruolo cruciale che le supernove rivestono in numerosi campi dell’astrofisica, comprenderne i processi fisici è una sfida estremamente complessa. Gli eventi catastrofici, caratterizzati da esplosioni violente, sono infatti difficilmente prevedibili: non possiamo mai sapere con esattezza quando e dove si verificheranno e l’incertezza ci impedisce di catturare con precisione

Figura 2. La supernova extragalattica SN 2014C osservata in banda ottica e nei raggi X. L’immagine principale ottenuta con lo Sloan Digital Sky Survey (SDSS) mostra la galassia a spirale NGC 7331. Gli inserti mostrano le osservazioni del Chandra X-ray Observatory dell'insolita supernova SN 2014C.Crediti: immagini a raggi X: NASA, CXC, CIERA, R.Margutti et al.;immagine ottica: SDSS.
Figura 2. La supernova extragalattica SN 2014C osservata in banda ottica e nei raggi X. L’immagine principale ottenuta con lo Sloan Digital Sky Survey (SDSS) mostra la galassia a spirale NGC 7331. Gli inserti mostrano le osservazioni del Chandra X-ray Observatory dell’insolita supernova SN 2014C.Crediti: immagini a raggi X: NASA, CXC, CIERA, R.Margutti et al.;immagine ottica: SDSS.

i momenti più cruciali, sia immediatamente prima che subito dopo l’esplosione.
Inoltre, i processi che avvengono all’interno di una supernova sono nascosti dagli strati esterni della stella, rendendo impossibile osservare direttamente le fasi che portano al collasso del nucleo e allo sviluppo dell’esplosione. Un limite che condiziona fortemente la nostra capacità di cogliere quei dettagli fondamentali che potrebbero svelarci i segreti più profondi di questi straordinari fenomeni.
Come se non bastasse, le supernove sono anche eventi rari nella nostra galassia e, negli ultimi quattro secoli, non ne abbiamo osservate direttamente. Per studiarle, dobbiamo quindi rivolgere lo sguardo a galassie lontane, dove queste esplosioni appaiono come minuscoli punti di luce distanti, impossibili da risolvere nei dettagli (Figura 2). Siamo perciò costretti ad estrarre informazioni cruciali da ciò che possiamo osservare, come le curve di luce che descrivono l’evoluzione della luminosità o gli spettri elettromagnetici che forniscono indizi sulle proprietà fisiche e chimiche del materiale che emette la radiazione. Tuttavia, interpretare questi dati è un compito complesso, e non sempre porta a risultati definitivi.
Insomma non mancano difficoltà ci privano quindi di informazioni essenziali per comprendere i meccanismi dell’esplosione e la natura della stella progenitrice. Infatti i giorni e le settimane immediatamente successivi a una supernova sono un periodo di straordinaria importanza: in quel momento, i suoi detriti conservano ancora in modo nitido le tracce della stella che è esplosa e dei processi che ne hanno guidato l’esplosione, offrendo una rara opportunità per studiarne la natura in profondità.

Le Informazioni Codificate nei Resti delle Supernove

L’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

VST-SMASH in un Colpo Solo: Galassie Vicine e Profondità

Immagini a tre colori di NGC 5236 (sinistra), IC 5332 (destra) e NGC 5253 (riquadro con bordo bianco). Credit: C. Tortora/VST-SMASH.
Immagini a tre colori di NGC 5236 (sinistra), IC 5332 (destra) e NGC 5253 (riquadro con bordo bianco). Credit: C. Tortora/VST-SMASH.

ABSTRACT

Volete vedere un’immagine in cui galassie vicine ma con estrema profondità? Grazie al programma VST-SMASH, questo è finalmente possibile. Con un solo colpo d’occhio, possiamo osservare dettagli delle galassie più vicine e scoprire nuove strutture in quelle più lontane, grazie alla combinazione di ampie osservazioni del cielo e una risoluzione senza precedenti. Il VST (VLT Survey Telescope) ci regala immagini mozzafiato di galassie iconiche come NGC 5236, la “Galassia Girandola del Sud”, ma anche scorci di mondi lontanissimi, come la galassia spirale ESO 499-37, situata a 45 milioni di anni luce. Immergetevi in un viaggio attraverso l’Universo, dove l’antico e il remoto si intrecciano in una danza di luce che rivela i segreti dell’evoluzione galattica.

Immagini profonde di galassie vicine e grandi, lo facciamo col VST in un sol colpo

l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA


Cosmologia: Ammassi Globulari e Generazioni Multiple

ABSTRACT

Gli ammassi globulari, tra i più antichi oggetti dell’universo, hanno recentemente svelato una complessità inattesa con la scoperta delle popolazioni stellari multiple, sfidando le idee tradizionali sulla loro composizione. L’avvento dei telescopi spaziali Hubble e James Webb ha dato infatti avvio ad uno studio con dettagli senza precedenti di tali strutture, mettendo in luce variazioni significative nelle abbondanze chimiche delle loro stelle. Queste ricerche stanno contribuendo fortemente alla ricostruzione dell’attuale comprensione del cosmo tramite l’esplorazione di nuove prospettive sulla sua storia evolutiva. Ne discute per Coelum l’esperto astrofisico Antonino Milone, soffermandosi sui principali scenari di formazione delle differenti popolazioni e sulle loro implicazioni cosmologiche in virtù dei risultati emersi per le galassie sia dell’universo locale sia ad alto redshift.

Stelle di due mondi: la genesi delle popolazioni stellari multiple

Gli ammassi globulari, tipicamente situati negli aloni delle galassie e orbitanti a diverse distanze dai rispettivi nuclei, sono tra gli oggetti più antichi ed enigmatici dell’universo. Si tratta di aggregati di  stelle caratterizzati da una grande estensione spaziale, con un diametro fino a 300 anni luce, e da una notevole concentrazione centrale. L’enorme densità stellare associata (che può arrivare a migliaia di stelle per unità di volume) rende generalmente impossibile l’identificazione delle singole stelle mediante l’uso di telescopi terrestri: solo i moderni telescopi spaziali come Hubble (HST) e James Webb (JWST) hanno permesso di esplorare tali regioni in grande dettaglio, ottenendo risultati a dir poco sorprendenti addirittura per le stelle di piccola massa meno luminose. Dalle prime osservazioni astronomiche di John Herschel ed Edwin Hubble nell’800 e nella prima metà del ‘900, molta strada è stata fatta nello studio degli ammassi globulari dell’universo locale. In particolare, l’idea tradizionale che essi fossero composti da stelle coeve e chimicamente omogenee, originatesi in un unico episodio di formazione stellare, è stata messa in crisi dalla scoperta delle cosiddette popolazioni stellari multiple.

l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati alla versione digitale. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA


Modelli 3D Lunari

Creazione di modelli 3D lunari con immagini della superficie e i dati DEM del Lunar Reconaissance Orbiter

ABSTRACT

Nell’articolo a seguire trattiamo la creazione di modelli 3D della superficie lunare utilizzando immagini e dati altimetrici (DEM) forniti dal Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) della NASA e dalla missione SELENE Kaguya della JAXA. L’autore, Marco Campaniello, racconta come si sia avvicinato all’astrofotografia e come abbia iniziato a lavorare su questi modelli, utilizzando tecniche di rilievo già sperimentate per monitorare frane e alluvioni tramite droni.

Campaniello descrive il processo di modellazione, che consiste nel georeferenziare punti sulle immagini della Luna utilizzando il software QGIS, e nell’adattare tali immagini ai dati DEM. Le immagini ottenute grazie al telescopio e alla LRO vengono utilizzate per creare modelli precisi in 3D. L’autore sottolinea l’importanza di immagini ad alta definizione e di una corretta perpendicolarità rispetto alla superficie lunare per ottenere risultati accurati. Inoltre, viene spiegato come sia possibile effettuare misurazioni tecniche sui modelli 3D, come diametri e profondità dei crateri.

Campaniello illustra anche possibili applicazioni, tra cui la stampa 3D dei modelli per scopi didattici o per favorire l’accessibilità alle persone con disabilità. Infine, fornisce riferimenti a un canale YouTube e a un sito web dove sono raccolti e pubblicati i modelli 3D della superficie lunare.

Introduzione

Mi chiamo Marco Campaniello, ho 47 anni e vivo a Piazzola sul Brenta, in provincia di Padova. Diplomato come perito grafico, mi sono avvicinato all’astrofotografia da circa tre anni, concentrandomi sulle riprese planetarie con la mia strumentazione, un Maksutov MC 127/1500 e telecamere dedicate per la ripresa astronomica. Fin da bambino sono sempre stato attratto dallo studio del sistema solare, dalle dinamiche avvenute miliardi di anni fa che hanno dato origine al nostro sistema solare, al nostro pianeta e al suo satellite, la luna. Su quest’ultima ho sempre fantasticato su come sarebbe lassù, sorvolare i sui immensi crateri, Valli, Rime. Immaginare cosa si presentava agli occhi dei primi astronauti che hanno calpestato quel suolo alla fine degli anni 60 con le missioni Apollo…

Come e quando è iniziato questo progetto?

Da quasi un anno sto portando avanti questo progetto di modellazione 3d della superficie lunare, utilizzando sia foto riprese da terra, sia foto scattate dalla LRO, un orbiter destinato allo studio della luna il cui lancio è avvenuto dalla Air Force Station a Cape Canaveral, in Florida il 18 giugno 2009.
Tutto però è nato nel 2013, con alcune attività svolte con la protezione civile di cui facevo parte. Vi fu l’esigenza di effettuare dei rilievi fotografici su delle zone colpite da una alluvione, con diverse frane in atto. Installata una telecamera su un drone (non esisteva molto in commercio e ci si arrangiava con accrocchi vari), vennero effettuate una serie di foto e video per costruire un modello 3d, studiando poi gli interventi per la messa in sicurezza del territorio.
Da tutto questo lavoro è partita l’idea di adattare le stesse tecniche di modellazione terrestre per la superficie lunare. Un problema…, nel 2013 le strumentazioni di ripresa e di registrazione digitale non erano alla portata di tutti, dovuto sia ai costi elevati sia alla mancanza in commercio di telecamere dedicate. Con l’arrivo delle camere astronomiche è iniziato un processo digitale che oggi permette di ottenere immagini in alta risoluzione editabili a pc e adatte per questi scopi. Inoltre la possibilità di scaricare online immagini della LRO (Lunar Reconnaissance Orbiter), danno modo di ottenere immagini con una risoluzione prossima a 1 metro/pixel, e di conseguenza modelli 3d molto precisi. Con queste possibilità la strada si è aperta e i social hanno permesso più velocemente uno scambio di collaborazione tra astrofili di tutto il mondo, che con i loro mezzi mi mettono a disposizione immagini in alta risoluzione.

l’ARTICOLO COMPLETO è riservato agli abbonati. Per sottoscrivere l’abbonamento Clicca qui. Se sei già abbonato accedi al tuo account dall’Area Riservata

Questo contenuto non è accessibile al tuo livello di iscrizione.

Il desiderio di conoscenza e l’eredità scientifica di Bepi Colombo Franco Malerba e Umberto Guidoni a Science 4 All

L'installazione "Officina spaziale" a Palazzo del Bo
L'installazione "Officina spaziale" a Palazzo del Bo

Una lunga fila di accademici, studenti e appassionati si snoda nel Cortile Antico del Palazzo del Bo. Uno strano rumore di fondo riecheggia sotto il porticato: il suono sordo e vibrato dell’universo, trasmesso dagli altoparlanti. Il centro del cortile è occupato da un’ampia sfera di metallo, che nell’imbrunire si copre di freddi riflessi violacei. È un tethered satellite, ovvero così viene definito nei pannelli esplicativi un satellite al guinzaglio.

Per capire a chi sia venuta la curiosa idea di portare a spasso un satellite e quali implicazioni questo progetto abbia avuto, seguiamo la coda e raggiungiamo l’Aula Magna, dove due astronauti, Franco Malerba e Umberto Guidoni, illustreranno le loro esperienze con quella rotonda struttura d’acciaio.

Il modello ingegneristico del tethered satellite di Bepi Colombo
Il modello ingegneristico del tethered satellite di Bepi Colombo

L’evento “L’eredità scientifica di Bepi Colombo” si tiene in occasione di “Science 4 All – la festa delle scienze a Padova”, ed è organizzato dall’Università. A introdurre il dibattito nella sala degli stemmi è il professor Lorenzini, che traccia a grandi linee il ritratto di Giuseppe Colombo, detto Bepi: matematico, fisico, astronomo e ingegnere padovano. Visionario e anticipatore, Bepi ha compiuto studi pionieristici, contribuendo attivamente alla storia delle esplorazioni spaziali.

Nato a Padova nel 1920 e laureatosi nella città del Santo nel 1944, lo studioso ha collaborato con l’Harvard College Observatory, lo Smithsonian Astrophysical Observatory, il Massachusetts Institute of Technology, l’Agenzia Spaziale Italiana e il Jet Propulsion Laboratory della NASA, per la quale ha realizzato alcuni importanti progetti negli anni sessanta e settanta.

Bepi Colombo – nel ritratto che ne viene fatto – era uomo dedito alla ricerca scientifica per vocazione e non soltanto per ragioni professionali, ricco di inventiva e curioso per natura, in grado di cogliere nuovi spunti e nuove sfide e capace di inventare un altrettanto nuovo modo di intendere l’universo.

“Mi devo occupare di un gasdotto..” si racconta che abbia detto in un’occasione.

“Ma stiamo parlando di sonde che vanno nello spazio..” ha obiettato il suo interlocutore.

“Ma lo spazio è molto semplice, è la terra che è complicata!” ha risposto lui.

Bepi Colombo era dunque dell’avviso che lo spazio dovesse essere interpretato senza alcuna sovrastruttura mentale: che fosse necessario, innanzi tutto, concepire l’universo con una mente libera e aperta. Questo ha consentito allo studioso di sviluppare una serie di originali innovazioni.

Tra le più note, l’dea di sfruttare la propulsione gravitazionale (assist gravitazionale o effetto fionda) del pianeta Venere per effettuare molteplici sorvoli di Mercurio. Grazie ai calcoli di meccanica orbitale di Bepi Colombo, la sonda Mariner 10 ha compiuto infatti ben tre fly-by del piccolo corpo celeste nel 1974-75. Tale intuizione è stata oggetto di un encomio da parte del New York Times e risulta tutt’oggi una manovra sfruttata ampiamente nelle missioni spaziali.

Bepi Colombo aveva inoltre teorizzato l’utilizzo una grande vela capace di catturare il vento solare e di utilizzarlo come sistema propulsivo. Lo straordinario aquilone a energia rinnovabile, che oggi porta il nome di Advanced Composite Solar Sail System, è stato costruito di recente e si è librato nello spazio la scorsa estate.

Alla conferenza di Parigi – racconta ancora il professor Lorenzini – Bepi Colombo ha proposto la realizzazione di una stazione spaziale i cui moduli fossero costituiti dai serbatoi esausti dello Space Shuttle. Il progetto non si è concretizzato – o per lo meno non ancora – forse proprio per la sua estrema semplicità e lo scarso interesse economico che avrebbe generato nei potenziali investitori.

Il matematico ha partecipato inoltre alle indagini per il lancio della sonda Giotto, che nel 1986 – due anni dopo la sua morte – ha raggiunto la cometa di Halley. Il nome dello strumento, suggerito dallo stesso Colombo, è un omaggio alla Cappella degli Scrovegni, in cui appare la prima raffigurazione di una cometa nell’affresco dell’Adorazione dei Magi.

Ulteriori studi hanno riguardato un’altra sonda che avrebbe dovuto raggiungere il sole per poi disintegrarsi – “Una sonda kamikaze!” dice il professor Lorenzini – e i calcoli per la missione Galileo su Giove (anche in questo caso il nome del dispositivo è un tributo alla città di Padova).

Bepi Colombo, per la sua capacità di anticipare i tempi, ha stupito addirittura gli americani. “Generava un fiume di idee che partiva dal sistema solare e finiva con un’apparecchiatura in grado di arginare l’acqua alta di Venezia” ha detto una volta di lui Irwin I. Shapiro, astrofisico dell’Università di Harward.

L’invenzione più nota di Bepi Colombo tuttavia l’abbiamo ammirata proprio nel Cortile Antico, prima di entrare in Aula Magna: il tethered satellite. Un’idea concepita inizialmente dall’agenzia spaziale russa, e mai portata a compimento, prevedeva, nel modello del ricercatore padovano, un sistema elettrodinamico (il Tethered Satellite System, o TSS) che collegava un satellite allo Shuttle con un cavo di circa 20 km. Il dispositivo era da utilizzarsi per le rilevazioni atmosferiche ed è valso a Colombo la medaglia d’oro della NASA nel 1983.

L'installazione "Officina spaziale" a Palazzo del Bo
L’installazione “Officina spaziale” a Palazzo del Bo

A parlarci delle missioni in cui questo satellite a filo è stato utilizzato sono gli astronauti Franco Malerba e Umberto Guidoni, con i quali si apre una vivace tavola rotonda. A prendere la parola è il primo tra i due, allegro e concitato nel suo desiderio di raccontare: la voce dell’uomo ha toni di fiaba e lascia l’uditorio in un meraviglioso silenzio siderale.

Malerba, primo membro dell’ASI a compiere una missione spaziale, descrive la sua esperienza con il Tethered Satellite System nel corso della missione STS-46 del 1992. L’uomo descrive il gigantesco rocchetto alla base del sistema di collegamento: una bobina su cui erano avvolti i 20 km di cavo, la cui struttura era composta da filo con conduttore CU, calza Kevlar e isolante in Nomex.

Una sorta di cannone a bordo dello Shuttle – un diodo che emetteva elettroni – e il cavo del satellite costituivano un circuito in grado di chiudersi “non si sa come, spiraleggiando” – così racconta Malerba – nello spazio. Questo avrebbe permesso di produrre onde elettromagnetiche che gli scienziati sarebbero stati in grado di captare in una stazione alle isole Canarie. Il modello aveva visto la collaborazione dello scienziato padovano con l’ingegnere aerospaziale Mario Grossi, che sperava di trovare nel circuito un modo di sopperire alle difficoltà di comunicazione dei sottomarini. Tramite l’utilizzo di un’antenna in orbita geostazionaria, l’ingegnere aveva infatti ipotizzato di poter rendere più efficaci le trasmissioni radio sott’acqua.

La missione STS-46, tuttavia, non procede come sperato. Racconta Franco Malerba che la prima fase della procedura avviene senza intoppi: il satellite è sollevato su una torre che si innalza dalla stiva dello Shuttle e nella prima fase si ha quasi un lancio nominale della grossa sfera, ma a 256 metri il filo oscilla e si blocca. La situazione è delicata. A Cape Canaveral, il Mission Control Center sta valutando, all’insaputa degli astronauti, di chiedere loro di tagliare il filo. Sullo Space Shuttle Atlantis, nel frattempo, riescono a manovrarlo, ma nonostante i tentativi non è possibile portare a termine l’esperimento. A bordo la telescrivente stampa un messaggio che giungerà amaro agli occhi degli astronauti: il piano di volo è stato rivisto e la timeline di rientro sulla terra anticipata.

“Perché si è inceppato il filo?” chiede Malerba all’uditorio, sgranando gli occhi come deve aver fatto allora. “È stato l’albero a camme che ha creato problemi al tamburo. Naturalmente il Mission Control aveva più dati di noi,” continua Malerba “ma una volta rientrati abbiamo scoperto che la responsabilità era di chi aveva costruito il deployer”. Il fatto ha rischiato di causare un incidente diplomatico, a suo dire, quando gli americani hanno dovuto ammettere che la responsabilità del guasto era loro.

Franco Malerba, primo astronauta italiano nella missione STS-46 dello Space Shuttle Atlantis e Umberto Guidoni, Payload Specialist nella missione STS-75 alla fine della conferenza.
Franco Malerba, primo astronauta italiano nella missione STS-46 dello Space Shuttle Atlantis e Umberto Guidoni, Payload Specialist nella missione STS-75 alla fine della conferenza.

La missione di Umberto Guidoni, la STS-75, sullo Shuttle Columbia, ha avuto anch’essa un esito potenzialmente pericoloso. Per la seconda volta il sistema sembra funzionare alla perfezione: il portello della stiva si apre, la torre di dodici metri – “Dodici metri” precisa Guidoni “perché deve essere più alta della coda dello Shuttle” – si alza e sgancia la sfera.

“Il satellite – dice l’astronauta – viene azionato dapprima attivando dei piccoli razzi e soltanto in seguito il cavo viene rilasciato, in un primo momento molto lentamente e poi con maggiore velocità. A un chilometro dalla fine dell’operazione il filo si incurva, ed è a questo punto che succede il disastro”.

Sullo schermo del salone del Bo appare la fotografia del satellite che galleggia nel vuoto, con il cavo flesso. Umberto Guidoni non assiste alla rottura del filo, perché in quel momento sta dormendo: sono infatti due le squadre che si alternano nell’operazione, e la sua sta rispettando il turno di riposo.

“Il tether è rotto in zona boom,” ricorda Guidoni “dice di Jeffrey A. Hoffman. La situazione è rischiosa perché il cavo può cadere addosso allo Shuttle, così rischiosa che durante le esercitazioni ci eravamo preparati a togliere l’orbiter da sotto il filo rotto”.

La causa del problema, secondo Guidoni, è stata la scarsa considerazione di alcuni aspetti fondamentali: la presenza di una carica elettrica troppo elevata – 3500 volt – vicina allo Shuttle e di gas emessi dai propulsori della navetta. I due elementi, combinati con una frattura di piccole dimensioni nella guaina isolante del cavo hanno generato una scarica elettrica che lo ha tranciato.

Dapprima l’equipaggio sembrerebbe voler recuperare il satellite e il cavo perso, ma la manovra, difficilmente realizzabile, viene accantonata. Questa avventura, che è parte di una delle missioni più lunghe dello Space Shuttle, si conclude, nelle parole di Guidoni con un messaggio della telescrivente di bordo. Cape Canaveral, molti chilometri più in basso, invita l’equipaggio deluso a sorridere prima della diretta TV. “Please, smile!” è stampato sul rotolo della telescrivente, ma gli astronauti, inutile dirlo, hanno la luna. La scienza è fatta di prove ed errori e sulla strada che porta alle stelle spesso si arriva inciampando.

Malerba e Guidoni rispondono alle domande del pubblico, che li interroga sull’adattamento del corpo umano in assenza di gravità, sullo stress durante la missione, sulle emozioni che hanno provato guardando la terra dallo spazio. Malerba descrive le violente vibrazioni dello Shuttle in fase di decollo e l’amicizia e la coesione interculturale che sono nate a bordo; Guidoni parla dell’atterraggio e racconta di aver portato con sé il libro “Ascensore per il paradiso” di Arthur Clark, che rappresenta “un ponte tra la realtà e la fantasia”.

“Mi dispiace se mie domande divagano dal tema principale,” interviene uno dei presenti “ma non ho mai parlato con qualcuno che ha visto lo spazio più vicino di quanto lo abbia visto io.” Ci si dilunga ormai, in molti chiedono il microfono e i relatori stanno perdendo l’ennesimo filo: quello del discorso. Tutti parlano di tutto e hanno mille quesiti da porre. Poco male se non si parla più di lui, a Bepi Colombo sarebbe piaciuto.

 

Mondi Alieni: Barnard b e la sua stella madre

La ricerca di sistemi planetari che orbitano attorno ad altre stelle ha una lunga storia.

Un tempo la scoperta di ogni singolo “mondo alieno” faceva notizia, oggi il pianeta deve avere qualcosa di speciale: il più abitabile, il più vicino. Le attività di ricerca si focalizzano sempre di più sulla caratterizzazione degli esopianeti, spesso con lo scopo identificare quelli con proprietà fisiche adatte alla vita.

I “mondi alieni” che orbitano attorno a stelle nane M potrebbero rappresentare obiettivi promettenti per scoprire pianeti abitabili.

Credit: Marc Dantonio

La stella Barnard una brava madre ma non troppo

La stella di Barnard (o semplicemente Barnard), studiata già dalla fine del 1800, è una stella debole e vecchia, invisibile all’occhio umano, ma con un telescopio e un’attenta osservazione è possibile vederla muoversi nel cosmo perché ha uno dei moti propri più alti di qualsiasi stella conosciuta battendo la Stella di Kapteyn, catalogata nel 1898. La bassa temperatura interna di Barnard e il conseguente debole tasso di generazione di energia le permetteranno una vita incredibilmente lunga.

Sebbene sia una stella vecchia, Barnard sperimenta ancora eventi dinamici di attività stellare che potrebbero avere implicazioni per qualsiasi pianeta orbitante nella zona abitabile della stella. Nel 1998, un team di astronomi del Goddard Space Flight Center della NASA ha osservato la stella con uno spettrografo ad alta risoluzione rilevando un intenso brillamento stellare. Di solito le vecchie nane rosse tendono a essere quiete e le esplosioni così intense sono piuttosto rare. Un altro aspetto interessante di questa stella è l’interesse che ha suscitato per i primi pionieri dei viaggi interstellari: ad esempio, la Barnard era l’obiettivo del Progetto Dedalus, uno studio del 1978 della British Interplanetari Society per raggiungere con una sonda interstellare la stella in circa 50 anni. Un concetto di astronave altamente sviluppato che potrebbe ancora rivelarsi il modello per i futuri viaggi interstellari!

Bernard b, un mondo rovente

Ora gli astronomi hanno scoperto un esopianeta che orbita attorno a Barnard. Sono state eseguite misure di velocità radiale della stella di Barnard con lo strumento ESPRESSO (Echelle SPectrograph for Rocky Exoplanet and Stable Spectroscopic Observations), il successore dello spettrografo HARPS, in grado di estrarre l’oscillazione indotta nella stella da un pianeta, e sono stati rilevati vari segnali, di cui uno con periodicità di circa 3 giorni è stato reputato essere dovuto a un pianeta con una massa minima di circa 0.4 masse terrestri.

Come ci spiega Luigi Mancini, professore di Astronomia e Astrofisica presso l’Università di Roma “Tor Vergata”:

“La tecnica usata è quella delle velocità radiali e consiste nel misurare la velocità della stella proiettata lungo la linea di vista, osservando lo spostamento delle righe spettrali per effetto Doppler. È la seconda tecnica che ha rilevato più pianeti. Questa tecnica la usava Hubble per misurare la distanza delle galassie negli anni ’20 del secolo scorso. La si usa dagli anni ’90 per la ricerca dei pianeti extrasolari grazie a spettrografi più performanti che permettevano di avere una precisione delle decine di m/s. Ora, con Espresso, siamo scesi sotto a 1 m/s.”

“Una scoperta importante che mette in rilievo come i pianeti di piccola taglia, anche sub-terrestre, possano essere scoperti avendo a disposizione telescopi di classe large e strumenti di altissima precisione come ESPRESSO.”

Rappresentazione artistica di Barnard b – Credit: ESO/M. Kornmesser

Barnard b e la vita

Purtroppo questo mondo alieno è troppo caldo per essere abitabile secondo gli standard terrestri (la temperatura media sulla superficie è di 125 gradi Celsius). Infatti, non si trova nella zona abitabile ma in un’orbita ravvicinata con la sua stella a soli 3 milioni di chilometri di distanza. Questo rende impossibile la formazione di acqua liquida in superficie e della vita così come la conosciamo. Tuttavia, il pianeta potrebbe offrire condizioni non impossibili per la vita nel sottosuolo oppure sul suo emisfero non illuminato: infatti il pianeta rivolge sempre la stessa faccia alla sua stella, come fa la Luna con la Terra. Chissà che questo mondo alieno e vicino non riservi sorprese nelle future indagini astronomiche.

Gli astronomi continueranno a cercare.

Euclid svela il primo tassello della grande mappa dell’Universo

La prima parte della mappa, un enorme mosaico da 208 gigapixel, è stata svelata oggi al Congresso Astronautico Internazionale di Milano dal Direttore Generale dell’ESA Josef Aschbacher e dalla Direttrice Scientifica Carole Mundell

 

Il mosaico contiene 260 osservazioni effettuate tra il 25 marzo e l’8 aprile 2024. In sole due settimane, Euclide ha coperto 132 gradi quadrati del cielo australe con dettagli incontaminati, più di 500 volte l’area della Luna piena.

La spiegazione del mosaico di Euclid
La spiegazione del mosaico di Euclid. Crediti ESA

Si tratta dell’1% dell’ampia indagine che Euclid svolgerà in sei anni, osservando le forme, le distanze e i movimenti di miliardi di galassie fino a 10 miliardi di anni luce di distanza. L’obiettivo e creare la più grande mappa cosmica 3D mai realizzata.

Il tassello reso pubblico oggi montato sulle rilevazioni GAIA e su mappa del Planck project
Il tassello reso pubblico oggi montato sulle rilevazioni GAIA e su mappa del Planck project. Crediti ESA

Il lembo contiene circa 100 milioni di fonti: stelle nella nostra Via Lattea ma anche molte galassie lontane. Circa 14 milioni delle quali potrebbero essere utilizzate per studiare l’influenza nascosta della materia oscura e dell’energia oscura sull’Universo.

“Questa straordinaria immagine è il primo pezzo di una mappa che in sei anni rivelerà più di un terzo del cielo. Si tratta solo dell’1% della mappa, eppure è piena di una varietà di fonti che aiuteranno gli scienziati a scoprire nuovi modi per descrivere l’Universo”, afferma Valeria Pettorino, Euclid Project Scientist presso l’ESA.

Le telecamere sensibili  del telescopio hanno catturato un numero incredibile di oggetti in grande dettaglio. Zoomando molto in profondità nel mosaico (questa immagine è ingrandita 600 volte rispetto alla vista completa), si riesce a vedere chiaramente la struttura intricata di una galassia a spirale.

Una caratteristica speciale visibile nel mosaico sono le nubi fioche tra le stelle nella nostra galassia, che appaiono in azzurro chiaro sullo sfondo nero dello spazio. Sono un mix di gas e polvere, chiamate anche “cirri galattici” perché sembrano nubi cirri . Euclid è in grado di vedere queste nubi con la sua telecamera super sensibile alla luce visibile perché esse riflettono la luce ottica della Via Lattea. Le nubi brillano anche nella luce infrarossa lontana, come a sua volta visto dalla missione Planck dell’ESA.

Il mosaico rilasciato oggi è un’anticipazione di ciò che verrà dalla missione Euclid. Da quando la missione ha iniziato le sue osservazioni scientifiche di routine a febbraio è stato completato il 12% dello scandaglio. Il rilascio del blocco corposo dei primi 53 gradi quadrati della scansione, inclusa un’anteprima delle aree di Euclid Deep Field, è previsto per marzo 2025. Il primo anno di dati cosmologici della missione sarà rilasciato alla comunità nel 2026. Restiamo quindi in strepitante attesa!

Un dettaglio dello stand ESA allo IAC. Crediti Coelum
Un dettaglio dello stand ESA allo IAC. Crediti Coelum

Fonte ESA

 

ASTROSHOW 2024 – Fiera dell’Astronomia

Il mondo dell’astronomia si prepara a un nuovo ed entusiasmante appuntamento: il 2 e 3 novembre 2024, Cesena ospiterà la seconda edizione di Astroshow, un evento pensato per tutti coloro che condividono la passione per l’universo e desiderano esplorare le meraviglie del cosmo. L’iniziativa, nata nel 2023 con l’obiettivo di creare un momento di incontro annuale per appassionati di astronomia, scuole e curiosi, si ripropone quest’anno con un programma ancora più ricco, rafforzato dal successo della prima edizione. Il fascino dell’astronomia non è mai stato così accessibile, grazie anche al contributo fondamentale degli astronomi amatoriali.

Questi appassionati svolgono un ruolo essenziale nel campo dell’astronomia moderna, apportando contributi significativi agli studi scientifici e alla comprensione di fenomeni celesti complessi. Ma la loro funzione va oltre la scoperta scientifica: sono anche attivi divulgatori, portatori di una conoscenza che affascina e coinvolge le nuove generazioni, stimolando l’interesse per il cielo e per le sue infinite possibilità.

Astroshow nasce proprio con l’intento di rispondere a queste esigenze di condivisione e aggiornamento. Oltre a essere un’opportunità per gli astronomi amatoriali di incontrarsi e scambiarsi idee ed esperienze, l’evento è anche una vetrina per le ultime novità tecnologiche in campo astronomico. Ogni anno, infatti, vengono presentate nuove soluzioni e strumenti sempre più avanzati, pensati per migliorare l’osservazione del cielo e rendere l’astronomia alla portata di tutti.

L’edizione 2024 sarà l’occasione perfetta per scoprire i prodotti più innovativi e confrontarsi con esperti e aziende del settore. Quest’anno, tra i numerosi espositori, troveremo alcune delle più importanti aziende italiane che operano nel settore astronomico. Tra queste spiccano nomi di primo piano come Auriga, Skypoint, Unitron, Tecnosky, Artesky, Astroottica e Geoptik, leader nella produzione e commercializzazione di articoli astronomici. Ogni azienda porterà una selezione delle sue migliori novità, dagli strumenti più sofisticati per l’osservazione e la fotografia del cielo fino agli accessori essenziali per chi vuole iniziare a esplorare l’universo. Saranno disponibili telescopi, montature, camere astronomiche e numerosi altri articoli che renderanno l’esperienza dell’osservazione ancora più affascinante e accurata. Ma Astroshow non è solo una fiera di prodotti astronomici.

Sarà anche un’occasione per entrare in contatto con alcune delle associazioni italiane più attive nel mondo dell’astronomia amatoriale. Tra le associazioni partecipanti, figurano Astro Amici Forlivesi, Astrofili Rheyta A.P.S. di Ravenna, Associazione Deeplab ETS di Bologna, N.A.S.A. Associazione Astrofili di Senigallia, Associazione Astrofili Bolognesi, Astrofili Saludecio di Rimini e Associazione Astrofili Forca Canapine, che animeranno l’evento con attività di divulgazione e workshop dedicati a chi desidera avvicinarsi all’osservazione del cielo. Queste associazioni rappresentano il cuore pulsante della passione astronomica in Italia, offrendo un supporto fondamentale a chiunque voglia approfondire la conoscenza dell’universo.

Un’attenzione particolare sarà riservata ai più giovani, grazie alla presenza di un planetario che sarà operativo per tutta la durata della fiera. Il planetario offrirà spettacoli immersivi dedicati all’esplorazione del sistema solare e delle galassie lontane, rendendo la scienza astronomica più accessibile e divertente. Sarà un momento magico per i bambini, che potranno vivere un’esperienza unica e interattiva, immergendosi nelle meraviglie dell’universo in un contesto educativo e allo stesso tempo coinvolgente. Parallelamente, ci saranno numerosi momenti di divulgazione e approfondimento, con conferenze e incontri che tratteranno temi di grande interesse per il pubblico, dai misteri del cosmo alle tecnologie di osservazione più avanzate. Saranno presenti esperti del settore che condivideranno le loro conoscenze e ricerche, fornendo spunti per un dibattito stimolante e approfondito.

Con onore siamo lieti di anticipare anche l’intervento del Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica Roberto Ragazzoni. Per chi è alle prime armi, questo sarà un modo per entrare in contatto con il mondo dell’astronomia, mentre per i più esperti sarà l’occasione di scoprire nuove metodologie e tecniche. L’evento avrà una risonanza significativa anche grazie alla partecipazione di importanti riviste specializzate fra cui Coelum, che offriranno copertura mediatica all’evento, raccontando i momenti più salienti e offrendo interviste esclusive con gli espositori e i protagonisti della fiera. La loro presenza contribuirà a rafforzare la visibilità dell’evento, consolidandolo come uno degli appuntamenti di riferimento nel panorama astronomico italiano.

Con un’offerta così variegata, Astroshow 2024 rappresenta una straordinaria opportunità per tutti gli appassionati di astronomia, per le famiglie e per chiunque voglia avvicinarsi al mondo dell’osservazione del cielo. Un fine settimana all’insegna della scoperta, del divertimento e della condivisione, dove sarà possibile conoscere nuove persone, scambiare opinioni e immergersi nel meraviglioso mondo dell’astronomia.

Perchè partecipare alla fiera?

Una fiera è l’occasione giusta per conoscersi di persona e scambiare due chiacchiere su temi che accomunano visitatori ed espositori. E’ un modo per riconoscersi, per creare dei legami, per abbattere i muri della comunicazione digitale aggiungendo un volto ed un sorriso alle presentazioni.

Perché passare allo stand di COELUM?

TRE buoni motivi per passare da COELUM:

  1. Presso lo stand di Coelum si potranno sottoscrivere gli abbonamenti annuali alla versione cartacea  fruttando le offerte in corso. Sarà possibile acquistare il numero in corso, il 270 di Coelum Astronomia
  2. La direttrice ed alcuni membri dello staff saranno a disposizione per i lettori.
  3. Aggiungendo un like ai canali social di COELUM o lasciando l’indirizzo email per la Newsletter in omaggio verrà consegnato un poster a tema astronomico su carta lucida 50×70 (la disponibilità è limitata ad esaurimento scorte).

INOLTRE

In collaborazione con Latitude 44.5 presso lo stand di Coelum saranno programmate delle interviste ai protagonisti del mondo amatoriale e professionale. Le interviste, trasmesse in diretta sui canali social di Coelum e Latitude 44.5, potranno essere seguite in presenza grazie all’allestimento di un piccolo spazio conferenze con sedute. A breve pubblicheremo il programma.

Omaggi e gadget gratuiti a quanti interverranno.

Orario e costo:

L’Astroshow sarà aperto in entrambi i giorni della manifestazione dalle 9.30 alle 19.30; il biglietto di ingresso costa 10,00 € (i parcheggi sono gratuiti).

Come arrivare:

La fiera di Cesena a Piazzale Vanoni E. 100 – 47522 Pievesestina di Cesena (FC) è facilmente accessibile da diverse direzioni.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER

There was an error while trying to send your request. Please try again.

Autorizzo Coelum Astronomia a contattarmi via e-mail utilizzando le informazioni che ho fornito in questo modulo sia per fini informativi (notizie e aggiornamenti) che per comunicarmi iniziative di marketing.