La regione di formazione stellare NGC 6357, nota anche come Nebulosa Aragosta, è stata osservata in dettaglio grazie al telescopio infrarosso VISTA dell’ESO, nell’ambito della survey VVV sulla Via Lattea. Situata a circa 8.000 anni luce nella Costellazione dello Scorpione, la nebulosa appare radicalmente diversa nell’infrarosso, che permette di oltrepassare le dense nubi di polvere e rivelare stelle nascoste. NGC 6357 ospita tre giovani ammassi stellari, tra cui Pismis 24, con alcune delle stelle più massicce conosciute, come Pismis 24-1 e la stella Wolf-Rayet WR 93. Le interazioni tra queste giganti stellari e l’ambiente circostante plasmano la nebulosa, generando cavità di gas, bolle calde e processi che possono sia ostacolare sia stimolare la formazione stellare. Le osservazioni condotte nell’arco di oltre 13 anni hanno permesso la mappatura infrarossa di oltre 1,5 miliardi di oggetti celesti, contribuendo a comprendere l’evoluzione strutturale della nostra galassia.
Nebulosa Aragosta o NGC 6357 Regione di Formazione stellare
Vaste nubi di gas e polveri che circondano stelle giovani e calde creano questo fiabesco arazzo cosmico, punteggiato di lucine brillanti. La ripresa nell’infrarosso si basa sui dati del telescopio VISTA (Visible and Infrared Survey Telescope for Astronomy) all’Osservatorio del Paranal dell’European Southern Observatory (ESO), in Cile. Inquadra la ricca regione di formazione stellare NGC 6357, situata a circa 8.000 anni luce di distanza da noi, nella Costellazione dello Scorpione.
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Questa ripresa fenomenale del telescopio James Webb evidenzia in dettaglio i deflussi intricati e tortuosi dell’Oggetto di Herbig-Haro 49/50, la cui struttura deriva dall’impatto di getti di plasma ad alta velocità lanciati da una stella in formazione. Caso vuole che il deflusso protostellare punti direttamente verso una galassia a spirale più distante, posizionata perfettamente per l’occasione. L’immagine composita combina dati acquisiti dalla NIRCam (Near-Infrared Camera) e dal MIRI (Mid-Infrared Instrument) a bordo del telescopio. Grazie alla relativa vicinanza a noi della giovane stella e alla risoluzione senza precedenti del JWST, la visione nell’infrarosso rivela strutture mai apprezzate prima a questo livello di finezza. I deflussi stellari da cui originano strutture come questa si estendono per vari anni luce e impattano ad alta velocità sul materiale nebulare circostante, riscaldandolo ad alte temperature e producendo onde d’urto. In seguito il materiale si raffredda ed emette luce a lunghezze d’onda visibile e infrarossa. L’oggetto era già stato osservato dal telescopio spaziale Spitzer e in quell’occasione gli scienziati lo avevano soprannominato “Tornado Cosmico” per la sua particolare forma ad elica.
La ripresa del telescopio Webb inquadra l’Oggetto di Herbig-Haro 49/50, un’intricata nube di forma conica originata dal getto di una giovane stella. Il bordo superiore del deflusso color arancio termina sovrapponendosi a una galassia a spirale di fondo, il cui bulge bluastro è attorniato da bracci a spirale rossastri. Lo sfondo oscuro è punteggiato da alcune stelle biancastre della Via Lattea e da numerose galassie più fioche e distanti. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI
HH 49/50 si trova a circa 630 anni luce dalla Terra, nella Costellazione del Camaleonte. Più in particolare, si annida all’interno della Nube del Camaleonte, uno dei complessi di nebulose oscure più vicini alla Terra, sul bordo interno del Braccio di Orione. La Nube del Camaleonte si divide in 3 strutture nebulari principali, fra le quali Chamaeleon I (Cha I ) è la più attiva nella formazione stellare e contiene una massa pari a un migliaio di Soli. La giovanissima protostella sorgente dei getti che danno origine a Herbig-Haro 49/50 appartiene proprio alla Nube Cha I. In questa nebulosa oscura sono stati identificati una ventina di oggetti HH, decine di giovani stelle T-Tauri, centinaia di sorgenti infrarosse, riconducibili a protostelle ancora circondate da spessi dischi circumstellari o involucri di gas e polveri, e numerose nane brune. L’ambiente ricco della regione e la sua vicinanza alla Terra consentono agli astronomi uno studio approfondito delle dinamiche che regolano la formazione di stelle medio-piccole e di giovani ammassi. Uno studio di particolare importanza, in quanto si tratta di un ambiente simile a quello in cui si è formato il nostro Sole. Le osservazioni di HH 49/50 tracciano la posizione di molecole di idrogeno brillante, molecole di monossido di carbonio e grani di polvere (in arancio e rosso) energizzati dall’impatto del getto. I dati acquisiti rivelano inoltre che il deflusso stellare si allontana da noi a velocità pari a 100-300 chilometri al secondo e fa parte di un deflusso più vasto. Secondo gli astronomi, la sorgente del getto è Cederblad 110 IRS4 (CED 110 IRS4), una protostella di Classe I localizzata a circa 1,5 anni luce da HH 49/50 (al di fuori dell’angolo in basso a destra nella ripresa di Webb). Simili stelle hanno un’età compresa tra poche decine di migliaia e un milione di anni, si trovano nelle fasi iniziali di acquisizione di massa e solitamente sono circondate da un disco distinguibile di materiale ancora in fase di ricaduta sulla protostella. Dall’immagine si può osservare come non tutte le strutture arcuate che compongono HH 49/50 puntino nella stessa direzione. In alto a destra rispetto al deflusso principale, è visibile una formazione allungata che potrebbe derivare dalla sovrapposizione casuale di un ulteriore deflusso, dovuto al lento moto di precessione del getto sorgente intermittente. Oppure, questa struttura potrebbe avere origine da una frammentazione del deflusso principale. La galassia visibile al termine del deflusso è una spirale molto più distante visibile di faccia. Il bulge centrale, rappresentato in blu, evidenzia la posizione delle stelle più vecchie e rivela indizi di “lobi laterali” che potrebbero suggerire la presenza di una barra. Addensamenti rossastri nei bracci rivelano la posizione di polveri calde e gruppi di stelle in formazione. L’allineamento fortuito tra galassia e getto è destinato a scomparire dalla vista: nel giro di poche migliaia di anni il bordo esterno del deflusso stellare procederà oltre e alla fine coprirà del tutto la lontana galassia.
Collaborazione Internazionale
Il JWST, il più grande telescopio spaziale mai lanciato, è una partnership tra NASA, ESA e CSA. Grazie a strumenti avanzati come NIRSpec e MIRI, e al supporto europeo, il Webb continua a rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo primordiale.
Nel maggio 2025, l’asteroide 114772 (2002 NM5), scoperto nel 2002 dagli astronomi dell’Osservatorio di Campo Imperatore e di Torino, è stato ufficialmente intitolato “Luca Peyron” dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU). Questo riconoscimento celebra il sacerdote torinese per il suo impegno esemplare nel coniugare astronomia, fede e cultura, rendendo il cielo un luogo di riflessione spirituale e crescita educativa.
La motivazione ufficiale sottolinea come don Peyron sia stato capace di “collegare l’astronomia alla coscienza collettiva, utilizzando il cielo profondo non solo a fini scientifici, ma anche per la crescita culturale ed educativa”. Il gesto ha un forte valore simbolico: un corpo celeste che porta il suo nome testimonia la rilevanza di un percorso umano e intellettuale che ha saputo attraversare i confini tra scienza e spiritualità.
Don Luca Peyron, classe 1973, sacerdote dell’Arcidiocesi di Torino, è docente universitario, autore di saggi e promotore di un uso etico e consapevole delle tecnologie. Dopo una formazione in ambito giuridico-industriale, ha scelto il sacerdozio e si è distinto per la sua capacità di leggere il mondo digitale e scientifico alla luce del Vangelo.
Tra le sue pubblicazioni più recenti, il volume “Sconfinato. Nuove cronache di cieli sereni” (San Paolo, 2025) invita il lettore a un cammino contemplativo tra le stelle, dove l’osservazione astronomica diventa esercizio di introspezione, meditazione e interrogazione sul senso dell’umano nel cosmo.
Ha inoltre avuto un ruolo centrale nella missione “Spei Satelles”, che nel 2023 ha portato in orbita il primo satellite della Santa Sede: un progetto carico di simbolismo, pensato per trasmettere un messaggio di speranza attraverso le tecnologie spaziali.
Ma don Peyron è anche autore per la rivista Coelum Astronomia, punto di riferimento per gli appassionati del cielo, diversi i suoi contributi sia per Spei Satellite (vedi Coelum 266) che in occasione della ricorrenza dei 100 anni della legge di Hubble (vedi Coelum 270). Sul numero 274 della rivista, don Luca Peyron ha firmato l’editoriale dedicato a Papa Francesco.
Primo spettro della SN1961H in NGC4564 ripreso l’11 maggio 1961 da Francesco Bertola con il telescopio Galileo da 122cm dell’Osservatorio di Asiago, posa di 90 minuti su pellicola Kodak 103 a-F.
Giuliano Romano nell’aprile del 2011.
Dalla SN1954A in NGC4214 analizzata nel precedente numero, ci spostiamo in avanti di sette anni ed approdiamo al 9 maggio 1961 con la SN1961H nella galassia NGC4564, che rappresenta la supernova più luminosa scoperta da un italiano. Stiamo parlando del prof. Giuliano Romano, un grande astrofilo che ha lasciato un segno indelebile nella ricerca amatoriale in generale e in modo particolare nella ricerca amatoriale di supernovae. Oltre a detenere il primato italiano della supernova più luminosa grazie appunto alla SN1961H che sfiorò al massimo di luminosità la mag. +11, è stato il primo italiano in assoluto a scoprire una supernova ed il primo astrofilo al mondo, individuando quattro anni prima, sempre nel mese di maggio, la SN1957B nella galassia M84.
Giuliano Romano nacque a Treviso il 16 novembre 1923. Rimase nel capoluogo veneto per tutta la sua vita, dove morì il 10 giugno 2013. Fin da bambino abitò nella villa conosciuta come Il Castello Romano disegnata dal nonno Fortunato e costruita dal padre Antonio. Aveva l’aspetto di un castello con due torri ed arredata con affreschi e statue. Dedicò tutta la sua vita alla ricerca astronomica. Pur essendo un professore laureato in matematica all’Università di Padova e docente di astrofisica, cosmologia, storia dell’astronomia, fisica e matematica, non era di fatto un astronomo professionista, ma un semplice astrofilo. Un astrofilo però di alta qualità, basti pensare alla scoperta di quasi trecento variabili e alle due supernovae menzionate prima, a cui ne seguì una terza: la SN1970O nella galassia IC3341. Ebbe rapporti professionali con astronomi professionisti del calibro di Leonida Rosino e Fritz Zwicky. Quest’ultimo lo contattò direttamente per proporgli di andare in America a lavorare per lui.
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L’esplosione di una supernova nella nostra Galassia rappresenterebbe un evento astronomico di importanza capitale, offrendo agli scienziati un’opportunità unica per studiare da vicino le fasi finali della vita di una stella massiccia e le conseguenze della sua spettacolare morte. Il progetto GalRSG (Galactic Red Supergiants) si pone l’ambizioso obiettivo di monitorare un vasto campione di Supergiganti Rosse (RSG) galattiche alla ricerca di segni premonitori di un’imminente esplosione di supernova, sfruttando in modo cruciale le capacità del VLT Survey Telescope (VST).
Svelando i segreti degli ultimi istanti di vita delle stelle massicce
Negli ultimi anni, la comunità scientifica ha rivolto crescente attenzione ai fenomeni che precedono l’esplosione di una supernova. Studi sulle curve di luce di supernovae extragalattiche hanno rivelato che molte di esse sono avvolte da un denso mezzo circumstellare (CSM), formatosi probabilmente a causa di episodi di intensa perdita di massa nelle fasi finali della vita della stella progenitrice. Comprendere i meccanismi alla base di questa perdita di massa è fondamentale per delineare un quadro completo dell’evoluzione delle stelle massicce e della loro transizione verso lo stadio di supernova. Le teorie più recenti suggeriscono che l’intensa convezione durante le ultime fasi di combustione nucleare nel nucleo di una RSG potrebbe generare onde di energia che si propagano verso l’inviluppo stellare e la sua superficie (la “fotosfera”), causando episodi di espulsione di massa. Questi “outburst” pre-supernova potrebbero manifestarsi come variazioni nella luminosità e nel colore della stella, offrendo potenzialmente un modo per prevedere, almeno in linea di principio, il collasso del nucleo e la conseguente esplosione di supernova. Tuttavia, lo studio di questi fenomeni attraverso l’analisi di dati d’archivio di precursori di supernovae extragalattiche, che sono quelle che si osservano continuamente grazie alle survey di tutto il cielo appositamente progettate per scoprirle come “transienti”, presenta delle limitazioni. Innanzitutto, vi è un bias osservativo verso i precursori più luminosi, tipicamente corrispondenti a stelle di grande massa, maggiore di 20-30 masse solari. Invece, i precursori della supernove di tipo IIP/L, corrispondenti a stelle RSG di massa tra 8 e 15 masse solari, una popolazione intrinsecamente molto più numerosa dei precursori associati a stelle massicce, sono troppo deboli per essere visti a distanze extragalattiche e non possono essere studiati in grande dettaglio con i metodi tradizionali. In secondo luogo, i dati pre-supernova disponibili per le esplosioni extragalattiche, tipicamente il risultato di osservazioni di archivio di HST talvolta prese per tutt’altra ragione, sono spesso frammentari e non omogenei, provenienti da diversi strumenti e/o diversi filtri e con cadenze temporali irregolari e tipicamente molto più lunghe dei tempi scala dei fenomeni di “outburst” che ci aspettiamo da una stella morente.
Fig. 1 – Immagine a colori della regione N12-A del programma GalRSG dei dintorni degli ammassi aperti massicci XX e 3 nella regione dello Scudo. L’immagine è stata ottenuta combinando le osservazioni nel filtro Sloan-i e Sloan-z, e sommando, per ogni filtro, tutte le immagini ottenute per realizzare le serie temporali. Questa regione del piano è caratterizzata dalla presenza di grandi nubi molecolari che si stagliano nette di fronte al tappeto di stelle del piano galattico. Inoltre, questa regione si caratterizza anche dall’alto numero di stelle massicce di tipo Giganti Asintotiche e Supergiganti Rosse, che in questa immagine spiccano per il loro colore rossastro rispetto al bianco/blu delle altre stelle.
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La collaborazione internazionale dell’Event Horizon Telescope (EHT), composta da oltre 400 scienziati, ha recentemente pubblicato una nuova serie di risultati che spingono ancora più in là i confini della nostra comprensione. Tra immagini rivoluzionarie, nuove tecniche di analisi e progetti futuri ambiziosi, il biennio 2024-2025 si sta rivelando un periodo straordinariamente fertile per l’astrofisica dei buchi neri.
Sagittarius A*
Nel marzo 2024, l’EHT ha pubblicato un’immagine polarizzata di Sagittarius A* (Sgr A*), il buco nero al centro della nostra galassia. Per la prima volta, è stato possibile osservare la struttura del campo magnetico nelle regioni immediatamente circostanti l’orizzonte degli eventi. I dati rivelano la presenza di campi magnetici forti e ordinati, disposti in una configurazione a spirale. Questo suggerisce che, come nel caso di M87*, anche Sgr A* possa essere in grado di generare getti di plasma, sebbene non visibili con gli attuali strumenti. La luce polarizzata, che è sensibile all’orientamento del campo magnetico, è stata fondamentale per questo risultato. I modelli numerici suggeriscono che la presenza di un campo toroidale può influenzare significativamente l’efficienza dell’accrescimento, modulando l’energia dissipata e la formazione di strutture turbolente. Inoltre, il confronto tra i dati osservativi e le simulazioni magnetoidrodinamiche relativistiche (GRMHD) ha rafforzato l’ipotesi che Sgr A* operi in un regime di accrescimento radiativamente inefficiente (RIAF), un modello in cui gran parte dell’energia liberata dall’accrescimento viene trasportata via da venti e non emessa come radiazione.
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Dettagli delle coltivazioni di lattuga, cavolo nero e bietola all’interno della Plant Characterization Unit (PCU) situata presso il "Laboratory of CropResearch for Space" del Dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II.
IL LUNGO VIAGGIO DELL’AGRICOLTURA SPAZIALE
di Stefania De Pascale
Quando si immagina la vita nello spazio, si pensa a tecnologie avanzate e missioni epiche, ma raramente si riflette su ciò che è davvero essenziale: respirare, bere e mangiare. Eppure, questi aspetti sono tra i più complessi da garantire fuori dalla Terra. Sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), in microgravità, anche bere un sorso d’acqua o consumare un pasto richiede soluzioni ingegnose. I liquidi fluttuano in bolle sospese, e i cibi – precotti, disidratati o termostabilizzati – sono conservati in confezioni appositamente progettate per consentirne il consumo in condizioni di microgravità. Le condizioni ambientali e fisiologiche alterano anche la percezione dei sapori, rendendo i cibi meno appetibili. Per ovviare a questo, si ricorre a condimenti intensi e menù personalizzati, ma il problema rimane.
Con l’arrivo delle missioni lunari e marziane, destinate a durare mesi o anni, sarà impossibile affidarsi solo ai rifornimenti da Terra. Per una missione su Marte, si stimano fino a 7,5 tonnellate di risorse (ossigeno, acqua e cibo)per astronauta: serve un nuovo modello di autosufficienza. Ed è qui che entra in gioco l’agricoltura spaziale. Le piante, nello spazio, non solo producono cibo, ma rigenerano aria, purificano l’acqua, riciclano rifiuti organici e migliorano il benessere psicologico degli equipaggi. I primi esperimenti di coltivazione sulla ISS hanno già dato risultati positivi: nel 2015, per la prima volta, gli astronauti hanno consumato ufficialmente lattuga coltivata nello spazio. Ma il futuro richiederà colture più complesse e nutrienti sulla ISS. In Europa, l’ESA e l’ASI finanziano progetti per coltivare specie come patate, legumi, cereali e micro-ortaggi, capaci di garantire un apporto nutrizionale completo. Sistemi avanzati di coltivazione fuori suolo (idroponica e aeroponica), serre modulari e ambienti controllati saranno fondamentali. L’intelligenza artificiale monitorerà i parametri ambientali – luce, temperatura, umidità, ossigeno – per adattare in tempo reale le condizioni di crescita. Luna e Marte, però, presentano ambienti estremamente ostili. La Luna ha un’atmosfera quasi inesistente, escursioni termiche di oltre 300 gradi e radiazioni cosmiche intense. Marte, con la sua atmosfera rarefatta e le frequenti tempeste di polvere, impone la costruzione di habitat schermati e coltivazioni in ambienti chiusi, probabilmente sotterranei. Tuttavia, su Marte sarà possibile utilizzare risorse locali: ghiaccio per ottenere acqua, CO₂ atmosferica per la fotosintesi, e persino regolite trattata come substrato di coltivazione. Le colture spaziali non saranno molto diverse da quelle terrestri: cereali (grano, riso), legumi (fagioli, soia), tuberi (patate) e ortaggi freschi a ciclo breve. Queste piante potranno essere adattate a condizioni estreme e contribuiranno a costruire ecosistemi autonomi: i Bioregenerative Life Support Systems (BLSS). Un esempio pionieristico è il programma MELiSSA dell’ESA, che dal 1987 studia sistemi chiusi basati sulle piante per riciclare aria, acqua e nutrienti. Questa nuova agricoltura non servirà solo a sostenere la vita nello spazio, ma potrebbe avere importanti ricadute anche sulla Terra. Le tecnologie sviluppate per ambienti ostili potranno essere utilizzate in regioni aride, zone polari, contesti urbani o aree colpite da crisi umanitarie, contribuendo a un’agricoltura più resiliente e sostenibile e sarà proprio da questa consapevolezza – che la coltivazione rappresenta una condizione necessaria, non accessoria – che parte il lavoro della professoressa Stefania De Pascale, pioniera della ricerca agronomica spaziale in Italia, che attraverso l’intervista a seguire ci accompagnerà in un viaggio ancora più dettagliato all’interno delle sfide e delle prospettive dell’agricoltura extraterrestre.
Molisella Lattanzi: Professoressa De Pascale, nel suo lavoro lei evidenzia l’importanza dell’agricoltura per la sopravvivenza umana nello spazio. Quali sono oggi le principali tematiche di ricerca nel campo dell’agricoltura spaziale, e in quali progetti siete attualmente coinvolti? Stefania De Pascale: Attualmente i principali ambiti di ricerca nell’agricoltura spaziale sono tre. Il primo riguarda la coltivazione di ortaggi freschi in microgravità per integrare la dieta degli astronauti su piattaforme orbitanti come la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) e, in futuro, il Lunar Gateway, la stazione spaziale cislunare pianificata dalla NASA. Il secondo si concentra sulla coltivazione di specie più caloriche e nutrienti come cereali, leguminose e patate, essenziali per missioni spaziali di lunga durata a bordo di veicoli interplanetari (es. il Mars Transit Vehicle). Il terzo ambito riguarda l’integrazione delle piante in un Bioregenerative Life Support System (BLSS), per rigenerare risorse vitali come aria e acqua e produrre cibo nelle future basi lunari e marziane. Ma andiamo con ordine.
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Torna il Festival di Astronomia, un appuntamento imperdibile per gli appassionati di scienza e per i curiosi del cielo, ma anche per chi ci si avvicina per la prima volta.
Dal 6 all’8 giugno, la Fortezza Nuova di Livorno ospiterà tre giorni di eventi gratuiti tra mostre, osservazioni astronomiche, laboratori, realtà virtuale e conferenze, all’insegna del tema “Il Suono dell’Universo”.
La prima serata inizia con due appuntamenti d’eccezione i per gli amanti del cielo. Dalle 19:00 potrete immergervi nella splendida Mostra di Astrofotografia dei soci ALSA e assistere alle affascinanti videoproiezioni astronomiche e stampe 3D. Il vero clou della serata sarà alle 21:30 con “La più folle delle imprese”, un evento speciale a cura dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo (EGO), che ospita il rivelatore di onde gravitazionali Virgo nella campagna vicino Pisa, per celebrare i 10 anni dalla rivoluzionaria scoperta delle onde gravitazionali. Sul palco Barbara Patricelli (INFN Pisa) e Fiodor Sorrentino (INFN Genova), protagonisti di questa avventura scientifica, che sono pronti a guidarci attraverso i dieci anni di questa straordinaria scoperta. Con loro, le suggestive letture teatralizzate di Giulia Perelli tratte da “La musica nascosta dell’universo” e gli intermezzi musicali del sassofonista Dimitri Grechi Espinoza, che trasformerà in note l’emozione della scoperta. A controllare la rotta, Vincenzo Napolano di EGO per un viaggio tra scienza e arte che ci lascerà senza fiato. Prima di tornare a casa, non perdete l’occasione di osservare le stelle attraverso i telescopi dell’ALSA, disponibili fino alle 23:00.
Non mancherà lo spazio per le nuove generazioni: sabato e domenica, Michele Scardigli presenta “Mini Talk, Maxi Curiosità”, un intervento giovane e appassionato tra una conferenza e l’altra. Sabato tantissime attività per tutti i gusti. Dalle 10:00 aprirà la visita alla mostra fotografica e sarà possibile sperimentare la realtà virtuale con Cultura Immersiva e assistere alle proiezioni curate da Damiano Esposito (ALSA). Del pomeriggio, spazio alla scienza con l’osservazione del Sole (15:00-18:00) e un curioso incontro su “La fisica del sax” con l’Università di Pavia. Laboratorio astronomico per bambini (17:00-19:00)
con Manifattura Lizard (prenotazioni: manifatturalizard@gmail.com).Un’occasione unica da non perdere, adatta a grandi e piccini è nella serata, dalle 18.00 alle 23.00: salite a bordo della “Big Bang Machine”, un’installazione immersiva che vi farà viaggiare indietro nel tempo fino agli eventi più catastrofici dell’universo. Grazie a EGO (e al supporto di IVECO Italia e Fondazione Pisa), vivrete in prima persona le fusioni di buchi neri, le esplosioni di stelle di neutroni e persino i primi istanti dopo il Big Bang. La serata non è ancora finita e prosegue con le osservazioni astronomiche e alle 21:30 con “Polvere di Stelle”, dove il fotografo e divulgatore Luca Fornaciari svelerà i segreti dell’astrofotografia. L’ultima giornata del festival è dedicata all’ascolto dell’universo. Saranno ancora a disposizione le mostre e i telescopi di ALSA, inoltre i più piccoli potranno diventare ricercatori per un giorno con “A caccia di suoni cosmici” (17:30-18:30), un laboratorio per imparare a riconoscere le onde gravitazionali tra i rumori terrestri (prenotazioni: info@alsaweb.it).Alle 18:00 l’astronomo Gianni Comoretto (INAF e ALSA) ci parlerà del nostro satellite con l’affascinante “La Luna Storta”. A seguire un gran finale con lo spettacolo “Cosa significa ascoltare il cosmo?” (21:30-22:30). Un dialogo suggestivo tra scienza e musica, con brani originali di Mario Salvucci, che ci farà scoprire come “suona” l’universo attraverso invisibili segnali cosmici. Questo il programma nel dettaglio:
Venerdì 6 Giugno 19:00-24:00
Mostra di Astrofotografia (ALSA) Videoproiezioni (ALSA) 21:00-23:00Osservazioni al telescopio (ALSA) 21:30-22:30″La più folle delle imprese” – Conferenza a cura di EGO-VIRGO
Sabato 7 Giugno
10:00-24:00 Mostra di Astrofotografia (ALSA) Videoproiezioni (ALSA) Realtà virtuale (Cultura Immersiva) 15:00-18:00 Osservazione del Sole (ALSA)16:00-17:00 “La fisica del sax” – Università di Pavia 17:00-19:00 Laboratorio astronomico per bambini (Manifattura Lizard) 18:00-23.00 “Big Bang Machine” – EGO-VIRGO 21:00-23:00 Osservazioni al telescopio (ALSA) 21:30-22:30″Polvere di Stelle, l’arte dell’astrofotografia” – Con Luca Fornaciari
Domenica 8 Giugno
10:00-24:00 Mostra di Astrofotografia (ALSA)Videoproiezioni (ALSA)Realtà virtuale (Cultura Immersiva) 15:00-18:00 Osservazione del Sole (ALSA) 17:30-18:30 “A caccia di suoni cosmici” – Laboratorio per bambini (EGO-VIRGO) 18:00-19:00 “La Luna Storta” – Con Gianni Comoretto (INAF e ALSA) 21:00-23:00 Osservazioni al telescopio (ALSA) 21:30-22:30 “Cosa significa ascoltare il cosmo?” – EGO-VIRGO
Voluta dai Medici alla fine del ‘500, Fortezza Nuova è il polmone verde del centro storico livornese. Icona del quartiere Venezia, spicca come un’isola fortificata, circondata dal Fosso Reale. 44 mila metri quadrati di parco pubblico, disseminato di locali completamente restaurati, ospitano tutto l’anno eventi artistici, didattici, scientifici. La città si riappropria di uno spazio nevralgico grazie a un progetto di riqualificazione, destinato a restituire un gioiello dal valore straordinario.
Progettare le ali per Marte: come ottimizzare i droni a lunga autonomia per volare sul Pianeta Rosso
Negli ultimi venticinque anni, l’esplorazione del Pianeta Rosso ha fatto affidamento quasi esclusivamente su orbiter e rover. Tuttavia, con l’evoluzione delle tecnologie aerospaziali, sta emergendo una nuova generazione di veicoli: i droni, o più precisamente, i velivoli a pilotaggio remoto (UAV). Un esempio pionieristico è l’elicottero Ingenuity della NASA, che dal 2021 ha dimostrato la fattibilità del volo in un’atmosfera estremamente rarefatta come quella marziana. Ma la sua autonomia ridotta limita fortemente le capacità esplorative.
Per superare questo limite, l’attenzione si sta spostando sui droni ad ala fissa, potenzialmente in grado di offrire maggiore autonomia e copertura del suolo. Il problema? Progettare velivoli capaci di volare in condizioni aerodinamiche radicalmente diverse da quelle terrestri.
Le sfide del volo in atmosfera marziana
L’atmosfera di Marte ha una densità circa 100 volte inferiore a quella terrestre. In questo contesto, un drone di piccole dimensioni opera a numeri di Reynolds estremamente bassi, condizione in cui la viscosità domina sull’inerzia. Questo porta a fenomeni di separazione del flusso laminare e alla formazione di Laminar Separation Bubble (LSB), che compromettono l’efficienza del volo.
Inoltre, a causa della bassa velocità del suono su Marte, i flussi diventano compressibili anche a velocità moderate, con effetti negativi sull’aerodinamica. L’ottimizzazione della forma dell’ala e della sua geometria generale diventa quindi una questione cruciale.
L’ottimizzazione secondo il Politecnico di Milano
Sede del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali del Politecnico di Milano
Gli autori propongono un processo di ottimizzazione aerodinamica avanzata per un drone marziano ad ala fissa, concepito per il volo livellato a bassa quota. Il metodo impiega:
Free-Form Deformation (FFD) per modellare con precisione i profili alari.
Un modello parametrico della geometria del piano alare.
Algoritmi genetici, supportati da tecniche di Design of Experiments (DoE) e response surface modeling, per identificare le soluzioni ottimali.
Il software XFoil per calcolare la resistenza da attrito e AVL per la resistenza indotta.
Una rete neurale addestrata con i dati aerodinamici per accelerare le valutazioni preliminari.
Le configurazioni ottenute sono state infine validate tramite OpenVSP, uno strumento open-source di modellazione parametrica aerodinamica, calibrato con simulazioni CFD ad alta fedeltà.
Risultati e prospettive
L’ottimizzazione ha portato all’identificazione di due ali ottimali, entrambe in grado di massimizzare l’efficienza aerodinamica entro i limiti di massa, Mach critico e stabilità longitudinale. Le soluzioni evidenziano la necessità di:
Profili a bordo d’attacco affilato,
Bassa curvatura (camber),
Spessore ridotto per minimizzare la separazione del flusso in regime a basso Reynolds.
L’efficacia delle soluzioni proposte conferma quanto sia fondamentale adottare strategie progettuali specifiche per il volo marziano, distanti dalle configurazioni impiegate per i droni terrestri.
Un panorama di ricerca internazionale
Lo studio si inserisce in un ampio contesto internazionale che vede coinvolti istituti di primo piano come:
Celebre dipinto Gassed (1919) di John Singer Sargent, un’opera emblematica della Prima Guerra Mondiale. Vista laterale di una fila di soldati guidati lungo una passerella da un infermiere militare. Hanno tutti gli occhi bendati, a causa dell’esposizione ai gas. Di John Singer Sargent - Collezione del Museo Imperiale della Guerra.
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Un Faro di Pace Durante il Primo Conflitto Mondiale (1914-1918)
Il fragore assordante dei cannoni, il cupo presagio delle trincee che si estendevano come cicatrici sulla terra d’Europa, l’ombra opprimente della Grande Guerra (28 luglio 1914 – 11 novembre 1918): questi furono gli anni che sconvolsero il mondo, seminando divisione e dolore tra le nazioni. Eppure, in questo scenario di conflitto globale, dove l’umanità sembrava essersi smarrita nell’odio reciproco, un’altra storia, silenziosa e tenace, continuava a dispiegarsi. Lontano dai campi di battaglia, un “esercito” di scienziati, animati da una curiosità insaziabile e da una fede incrollabile nel potere della conoscenza, manteneva lo sguardo rivolto verso l’alto. Mentre le potenze terrestri si scontravano con una ferocia inaudita, gli astronomi, custodi della notte e interpreti del linguaggio delle stelle, proseguivano la loro esplorazione del cosmo. Armati della tecnologia ottica pionieristica dell’epoca, con la pazienza certosina che contraddistingue la loro disciplina, scrutavano l’immensità del cielo notturno, portando alla luce nuovi, silenziosi viaggiatori del nostro sistema solare. In quegli anni bui la comunità Astronomica catalogò ben 110 asteroidi. Queste scoperte testimoniano la capacità intrinseca dell’astronomia di unire gli animi e il cielo stellato divenne un inatteso faro di pace al di là delle contese terrene.
La cronologia di queste scoperte, meticolosamente registrate dagli osservatori di diverse nazioni, ci offre uno sguardo singolare sulla persistenza della ricerca astronomica durante gli anni del Primo Conflitto Mondiale. Ogni data segna un piccolo trionfo della scienza, una luce accesa nell’oscurità del conflitto, con astronomi che, nonostante le avversità, continuavano a scrutare il cielo, rivelando nuovi corpi celesti (vedi tabella).
Numero
Nome
Data Scoperta
Scopritore
Nazione
794
Irenaea
27-ago-14
Johann Palisa
Austria
795
Fini
26-set-14
Johann Palisa
Austria
796
Sarita
15-ott-14
Karl Wilhelm Reinmuth
Germania
797
Montana
17-nov-14
Holger Thiele
Germania
799
Gudula
09-mar-15
Karl Wilhelm Reinmuth
Germania
800
Kressmannia
20-mar-15
Max Wolf
Germania
801
Helwerthia
20-mar-15
Max Wolf
Germania
802
Epyaxa
20-mar-15
Max Wolf
Germania
803
Picka
21-mar-15
Johann Palisa
Austria
804
Hispania
20-mar-15
Josep Comas i Solà
Spagna
805
Hormuthia
17-apr-15
max wolf
Germania
806
Gyldénia
18-apr-15
Max wolf
Germania
807
Ceraskia
18-apr-15
max wolf
Germania
916
America
07-ago-15
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
809
Lundia
11-ago-15
Max Wolf
Germania
847
Agnia
02-set-15
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
848
Inna
05-set-15
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
917
Lyka
05-set-15
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
810
Atossa
08-set-15
Max Wolf
Germania
811
Nauheima
08-set-15
Max Wolf
Germania
812
Adele
08-set-15
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
877
Walküre
13-set-15
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
1847
Stobbe
01-feb-16
Holger Thiele
Germania
814
Tauris
02-gen-16
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
815
Coppelia
02-feb-16
Max Wolf
Germania
816
Juliana
08-feb-16
Max Wolf
Germania
817
Annika
06-feb-16
Max Wolf
Germania
818
Kapteynia
21-feb-16
Max Wolf
Germania
867
Kovacia
25-feb-17
Johann Palisa
Austria
819
Barnardiana
03-mar-16
Max Wolf
Germania
824
Anastasia
25-mar-16
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
850
Altona
27-mar-16
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
820
Adriana
30-mar-16
Max Wolf
Germania
821
Fanny
31-mar-16
Max Wolf
Germania
822
Lalage
31-mar-16
Max Wolf
Germania
823
Sisigambis
31-mar-16
Max Wolf
Germania
851
Zeissia
02-apr-16
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
852
Wladilena
02-apr-16
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
853
Nansenia
02-apr-16
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
854
Frostia
03-apr-16
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
855
Newcombia
03-apr-16
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
856
Backlunda
03-apr-16
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
857
Glasenappia
06-apr-16
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
826
Henrika
28-apr-16
Max Wolf
Germania
858
El Djezaïr
26-mag-16
Frédéric Sy
Francia
876
Scott
20-giu-17
Johann Palisa
Austria
951
Gaspra
30-lug-16
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
3229
Solnhofen
09-ago-16
Holger Thiele
Germania
829
Academia
25-ago-16
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
830
Petropolitana
25-ago-16
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
827
Wolfiana
29-ago-16
Johann Palisa
Austria
828
Lindemannia
29-ago-16
Johann Palisa
Austria
847
Agnia
02-set-15
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
848
Inna
05-set-15
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
810
Atossa
08-set-15
Max Wolf
Germania
811
Nauheima
08-set-15
Max Wolf
Germania
812
Adele
08-set-15
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
877
Walküre
13-set-15
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
831
Stateira
20-set-16
Max Wolf
Germania
832
Karin
20-set-16
Max Wolf
Germania
833
Monica
20-set-16
Max Wolf
Germania
834
Burnhamia
20-set-16
Max Wolf
Germania
835
Olivia
23-set-16
Max Wolf
Germania
836
Jole
23-set-16
Max Wolf
Germania
837
Schwarzschilda
23-set-16
Max Wolf
Germania
838
Seraphina
24-set-16
Max Wolf
Germania
839
Valborg
24-set-16
Max Wolf
Germania
840
Zenobia
25-set-16
Max Wolf
Germania
843
Nicolaia
30-set-16
Holger Thiele
Germania
841
Arabella
01-ott-16
Max Wolf
Germania
842
Kerstin
01-ott-16
Max Wolf
Germania
859
Bouzaréah
02-ott-16
Frédéric Sy
Francia
952
Caia
27-ott-16
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
845
Naëma
16-nov-16
Max Wolf
Germania
846
Lipperta
26-nov-16
Knut Anton Walter Gyllenberg
Germania
860
Ursina
22-gen-17
Max Wolf
Germania
861
Aïda
22-gen-17
Max Wolf
Germania
862
Franzia
28-gen-17
Max Wolf
Germania
863
Benkoela
09-feb-17
Max Wolf
Germania
865
Zubaida
15-feb-17
Max Wolf
Germania
866
Fatme
25-feb-17
Max Wolf
Germania
867
Kovacia
25-feb-17
Johann Palisa
Austria
868
Lova
26-apr-17
Max Wolf
Germania
870
Manto
12-mag-17
Max Wolf
Germania
871
Amneris
14-mag-17
Max Wolf
Germania
872
Holda
21-mag-17
Max Wolf
Germania
873
Mechthild
21-mag-17
Max Wolf
Germania
874
Rotraut
25-mag-17
Max Wolf
Germania
875
Nymphe
19-mag-17
Max Wolf
Germania
876
Scott
20-giu-17
Johann Palisa
Austria
879
Ricarda
22-lug-17
Max Wolf
Germania
880
Herba
22-lug-17
Max Wolf
Germania
881
Athene
22-lug-17
Max Wolf
Germania
882
Swetlana
15-ago-17
Grigorij Nikolaevič Neujmin
Russia
883
Matterania
14-set-17
Max Wolf
Germania
884
Priamus
22-set-17
Max Wolf
Germania
885
Ulrike
23-set-17
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
981
Martina
23-set-17
Sergej Ivanovič Beljavskij
Russia
887
Alinda
03-gen-18
Max Wolf
Germania
888
Parysatis
02-feb-18
Max Wolf
Germania
889
Erynia
05-mar-18
max wolf
Germania
890
Waltraut
11-mar-18
Max wolf
Germania
891
Gunhild
17-mag-18
max wolf
Germania
892
Seeligeria
31-mag-18
Max Wolf
Germania
893
Leopoldina
31-mag-18
Max Wolf
Germania
894
Erda
04-giu-18
Max Wolf
Germania
895
Helio
11-lug-18
Max Wolf
Germania
896
Sphinx
01-ago-16
Max Wolf
Germania
897
Lysistrata
03-ago-18
Max Wolf
Germania
898
Hildegard
03-ago-18
Max Wolf
Germania
899
Jokaste
03-ago-18
Max Wolf
Germania
900
Rosalinde
10-ago-18
Max Wolf
Germania
901
Brunsia
30-ago-18
Max Wolf
Germania
902
Probitas
03-set-18
Johann Palisa
Austria
903
Nealley
13-set-18
Johann Palisa
Austria
904
Rockefellia
29-ott-18
Max Wolf
Germania
Elenco degli asteroidi scoperti durante la prima guerra mondiale ordinati per data di individuazione, con l’indicazione del nome, dello scopritore e della nazione dove avvenne la scoperta.
Potrebbe apparire controintuitivo che l’ordine in cui gli asteroidi vengono scoperti non corrisponda alla sequenza numerica con cui sono ufficialmente catalogati. Questa apparente anomalia affonda le radici nel rigoroso processo di determinazione orbitale definitiva. Quando un astronomo individua un nuovo asteroide, la sua scoperta è contrassegnata da una designazione provvisoria. Questa sorta di nome in codice è composto dall’anno della scoperta e da una combinazione di lettere che ne indicano l’ordine di ritrovamento all’interno di quell’anno. Pensate a “1916 AA”, dove “AA” segnala che è stato il primo asteroide scoperto nel 1916, “1916 AB” il secondo, e così via. Tuttavia, per elevare un asteroide al rango di membro numerato del sistema solare, è necessario un lavoro di precisione molto più complesso. Gli astronomi di tutto il mondo devono dedicare tempo e risorse per effettuare osservazioni di follow-up dell’oggetto nel corso di diverse notti, settimane, mesi, o persino anni fornendo i dati necessari per calcolare con accuratezza della sua orbita. Solo quando questa orbita è ritenuta sufficientemente precisa e stabile – ovvero, quando gli scienziati sono in grado di prevedere con un buon grado di certezza il percorso futuro dell’asteroide – l’Unione Astronomica Internazionale (IAU) interviene per assegnare un numero definitivo. Si tratta di un numero progressivo che riflette l’ordine in cui le orbite degli asteroidi vengono determinate e ufficialmente riconosciute dalla comunità scientifica internazionale. Di conseguenza, un asteroide scoperto in un dato momento potrebbe avere un’orbita particolarmente complessa da definire, oppure potrebbe essere stato osservato meno frequentemente a causa della sua debole luminosità o di condizioni osservative sfavorevoli. In questi casi, potrebbe dover attendere ulteriori osservazioni per consentire un calcolo orbitale affidabile, ricevendo il suo numero definitivo solo dopo asteroidi scoperti successivamente.
La Distribuzione Geografica delle Scoperte
La provenienza degli astronomi coinvolti nelle nuove scoperte, e i luoghi dove operavano – i loro osservatori – sono testimoni di una ricerca continua, alimentata dalla dedizione di individui provenienti da nazioni in conflitto e neutrali.
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Corfinio l’11 giugno 2025, alle ore 21,00 presso i “Morroni”
A intervalli di circa 18.6 anni, la Luna compie un movimento orbitale straordinario: il lunistizio meridionale maggiore, un raro evento astronomico durante il quale il nostro satellite, visto dall’emisfero boreale fino a certe latitudini, sorge da una delle posizioni più meridionali possibili rispetto all’orizzonte montuoso, apparendo insolitamente basso nel cielo.
Nella serata dell’11 giugno, uno dei lunistizi meridionali del 2025, coinciderà con la fase del plenilunio: il disco lunare si mostrerà luminoso e visibile dai luoghi simbolici dell’antica Corfinium. Nei pressi dei Morroni, nuclei di imponenti mausolei funerari a torre risalenti al I–II secolo d.C., sarà possibile osservare la Luna levarsi dalla vetta del Monte Pizzalto in asse con questi monumenti, intorno alle ore 22,00.
Dopo l’osservazione della levata della Luna, seguirà una visita guidata al museo Lapidarium, dove è conservata un’interessante collezione di epigrafi dell’antica Corfinium.
La serata, ideata dal prof. Salvatore Marinucci, offrirà un’occasione speciale per coniugare narrazione e osservazione astronomica, alla riscoperta delle antiche connessioni tra cultura, paesaggio e cicli celesti.
Narratori: Dott. Francesco Di Nisio; Prof. Enzo Presutti e Prof. Salvatore Marinucci.
Istruzioni, ad usum Delphini, sul concetto di multiverso, le sue diverse versioni e le sue implicazioni riguardo all’interpretazione della vita nella nostra regione di universo.
Nel corso della storia, la nostra concezione dell’universo si è progressivamente modificata e perfezionata, passando da un oggetto finito, di volume fisso e abbastanza ordinato, apparso in un momento ben preciso – il fatidico big bang – a una profusione disordinata ed eterna, l’idea di un universo uniforme che si espande e si evolve e che, agli albori, avrebbe subìto per breve tempo un’espansione rapida e accelerata, chiamata inflazione, in grado di generare regioni “pulite”, a bassa entropia, di favorire la comparsa di strutture come galassie, stelle, rocce. La teoria dell’inflazione, originariamente introdotta da Alan Guth nel 1980 e successivamente sviluppata in uno schema fecondo da Andrei Linde, ha mostrato che l’universo può essere visto come un sistema che si autoriproduce, caratterizzato non da un unico big bang ma da un insieme di big bang multipli. Una proprietà cruciale dell’inflazione sta nel fatto che il campo che la genera deve evolvere in modo che a un certo punto la sua densità di energia del vuoto possa sparire, o trasformarsi in un altro tipo di energia. Come conseguenza di questo, risulta molto improbabile che l’inflazione si fermi dappertutto nello stesso istante ed è possibile, per esempio, che nel tempo necessario a raddoppiare il volume, se il processo in grado di fermare l’inflazione agisce solo in metà di spazio, globalmente l’inflazione può non finire mai. A questo proposito, molti cosmologi invocano l’idea di bolle di non-inflazione, ovvero di strutture che possono formarsi spontaneamente per via quantistica e che poi crescerebbero a spese del volume esterno che subisce l’inflazione ma che, pur espandendosi, consumano solo una frazione fissa dello spazio che subisce l’inflazione. In questo quadro, ne deriva così che, col passare del tempo, le regioni soggette o meno all’inflazione danno luogo a una distribuzione complessa di tipo frattale di stati diversi dello spazio-tempo e l’inflazione non esaurisce mai lo spazio da espandere in quanto genera di volta in volta il proprio spazio. Questo processo, denominato originariamente da Linde inflazione eterna, comporta che abbiamo a che fare con la formazione di infinite chiazze post-inflazionarie simili a palle di fuoco, generate da regioni che subiscono l’inflazione eterna, ciascuna delle quali è più grande del nostro universo osservabile. In virtù di questo processo infinito di creazione e autoriproduzione di chiazze post-inflazionarie, per usare delle parole di Linde, si può dire che “nella Sua saggezza Dio ha creato un universo che non ha mai smesso di generare universi di tutti i tipi possibili”1 . L’idea dell’inflazione eterna implica cioè che l’intero universo sia enormemente più grande e complesso – non solo per dimensioni ma anche per diversità di caratteristiche – rispetto all’universo che siamo in grado di osservare con i nostri strumenti.
Le due prospettive generali e il principio antropico
Basandosi su un pugno di teorie fondamentali, vale a dire meccanica quantistica, relatività generale e inflazione, la fisica arriva all’esistenza di un “multiverso” che si estende all’infinito nel futuro (e magari nel passato), non ha confini nello spazio e magari, se è valida una teoria simile a quella delle stringhe (la quale invoca sei-sette dimensioni addizionali dello spazio, piccole, arrotolate, nascoste, la cui geometria è definita da centinaia di parametri che possono variare con continuità da un punto a un altro e da cui derivano le varie costanti della natura che figurano nel Modello Standard della fisica delle particelle) esibisce proprietà sorprendentemente variegate nel senso che avremmo tanti universi paralleli, caratterizzati da diversi valori delle costanti fondamentali e da un diverso contenuto di campi e particelle. In questo quadro, sembra del tutto ragionevole ipotizzare che solo qualche universo generato dall’inflazione eterna contenga esseri senzienti e forme di vita basate sulle interazioni chimiche tra molecole tenute insieme dalle forze elettromagnetiche. Ma l’esistenza del multiverso può anche essere vista da un prospettiva diversa. Si può supporre che l’inflazione non sia eterna, che dopo l’origine dell’universo l’inflazione agisca per un po’ e poi si interrompa. Allora, sotto queste ipotesi, lo stato iniziale dell’universo evolverà in una sovrapposizione di numerose possibilità e questi universi sovrapposti avrebbero proprietà classiche abbastanza diverse. Si avrebbe cioè un multiverso quantistico in cui la fisica può ammettere diversi valori di proprietà come le costanti fondamentali, ecc…
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Superato ormai il Novilunio del 27 Maggio, il Sole illumina porzioni sempre più ampie del suolo lunare col nostro satellite che in fase crescente di 4,8 giorni la prima notte del mese scenderà sotto l’orizzonte alle ore 01:00 circa dell’1 Giugno, ben visibile fin dalla sera precedente. Saranno pertanto già possibili interessanti osservazioni sulle imponenti e spettacolari strutture situate in prossimità del bordo lunare orientale, dal settore nordest fino al mare Crisium con gli adiacenti mari Marginis, Undarum, Spumans e Smythii, per proseguire poi lungo il lato est del mare Fecunditatis con i quattro vasti crateri Langrenus, Vendelinus, Petavius, Furnerius inoltrandoci poi nel settore sudest del nostro satellite. Per l’occasione la massima librazione coinciderà con l’area ad est del cratere Humboldt, diametro di 207 km e con pareti alte circa 5000mt.
cratere LANGRENUS lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio 01 giugno
PANORAMICA crateri lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio e 01 giugno
cratere PETAVIUS lato est mare Fecunditatis – NOTTE fra 31 maggio e 01 giugno
Alle ore 05:41 del 03 Giugno 2025 la Luna sarà in Primo Quarto ma a -36° sotto l’orizzonte in attesa di sorgere alle ore 13:10. Per effettuare osservazioni col telescopio, considerando la stagione estiva, basterà attendere almeno intorno alle ore 21:30 quando il disco lunare illuminato a metà si troverà ancora ad un’altezza di +44°, più che sufficiente per una piacevole serata osservativa che potrà essere estesa fin verso le prime ore della notte successiva. La fase crescente proseguirà fino alle ore 09:44 dell’11 Giugno 2025 con la Luna in Plenilunio a ben -47° sotto l’orizzonte, in fase di 15 giorni, alla distanza di 403805 km dalla Terra e con diametro apparente di 29,59’. Anche in questo caso basterà attendere che sorga (alle ore 21:33) per dedicarsi alle osservazioni di un’immensa quantità di strutture geologiche che, nonostante il Sole alto sull’orizzonte del nostro satellite e i tanti (forse troppi….) luoghi comuni che dipingono erroneamente la “Luna Piena” come un gran pallone abbagliante su cui non si vede nulla di interessante, farà bella mostra di sé in cielo per tutta la notte fin verso l’alba quando scenderà sotto l’orizzonte contestualmente al sorgere del Sole. Da qui inizierà la fase calante col nostro satellite che vedrà progressivamente ridursi di sera in sera la porzione illuminata dal Sole spostando sempre più la propria osservabilità verso orari tardo serali e poi notturni. Infatti alle ore 21:19 del 18 Giugno 2025 sarà in fase di Ultimo Quarto, ma anche in questo caso a ben -40° sotto l’orizzonte. Chi intendesse ammirare panoramiche o dettagli di questa particolare fase lunare dovrà attendere circa 4 ore o poco più, quando alle ore 01:21 della notte seguente (il 19 Giugno) la Luna sorgerà in fase di 22,8 giorni. Ormai non è più una novità che in Ultimo Quarto il principale target sia costituito dall’enorme estensione dell’oceanus Procellarum (circa 2 milioni 102.000 kmq di superficie), immediatamente individuabile dalle scure rocce basaltiche che ne ricoprono il fondo, in netto contrasto con la più elevata albedo degli altipiani in cui prevalgono le chiare rocce anortositiche. Si rendono visibili inoltre il mare Humorum e vaste porzioni dei mari Nubium e Imbrium. Al termine della fase calante, alle ore 12:31 del 25 Giugno 2025 la Luna sarà in Novilunio, completamente invisibile con l’altrettanto contestuale completa illuminazione dell’opposto emisfero. Da qui avrà inizio un ulteriore ciclo lunare che, come ormai avviene da oltre 4,5 miliardi di anni, riporterà gradualmente il nostro satellite verso le migliori condizioni osservative, andando pertanto a chiudere questo mese nella serata del 30 Giugno perfettamente osservabile fino a pochi minuti dopo la mezzanotte. Nell’occasione la massima librazione sarà in corrispondenza del mare Smythii, una zona relativamente pianeggiante di 370 km di larghezza sul confine fra i due emisferi della Luna.
Congiunzioni e Occultazioni Notevoli
La seconda parte dell’articolo di Francesco Badalotti, dedicato alla Luna di Giugno, con la descrizione delle Congiunzioni e Occultazioni notevoli, le Falci Lunari, e la tabella delle effemeridi è disponibile per i lettori abbonati alla versione digitale o al cartaceo.
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La Luna del Mese di Giugno è pubblicata in Coelum 274
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Uno degli obiettivi più ambiziosi dell’ingegneria spaziale moderna è realizzare infrastrutture che permettano di superare i limiti imposti dalla propulsione a razzo. Tra queste, l’idea di un ascensore spaziale affascina da oltre un secolo. Il progetto studiato recentemente da un gruppo di ricercatori si concentra su una versione “ridotta”, ma sorprendentemente realistica: un ascensore spaziale ancorato a Phobos, la più interna delle due lune di Marte, che si estende verso il pianeta rosso.
Il fine del progetto è dimostrare che, grazie alle condizioni gravitazionali favorevoli del sistema Marte–Phobos, è possibile costruire un’infrastruttura capace di collegare la luna alla superficie marziana. Per fare ciò, gli scienziati hanno sviluppato un modello fisico-matematico sofisticato che simula il comportamento dinamico di un sistema formato da una stazione spaziale, un cavo e un veicolo mobile detto “climber”.
Il modello considera la dinamica del sistema nel contesto del cosiddetto problema ellittico dei tre corpi, una rappresentazione matematica che tiene conto delle forze gravitazionali di Marte e Phobos. L’ascensore viene trattato come un doppio pendolo: un primo braccio collega la superficie di Phobos a una stazione posizionata oltre il punto di equilibrio gravitazionale tra i due corpi celesti (il punto L1), mentre il secondo può estendersi dalla stazione verso Marte.
Due sono le configurazioni principali analizzate. Nella prima, più tradizionale, il climber si muove lungo un cavo teso tra la superficie di Phobos e la stazione sospesa nello spazio. Questa struttura potrebbe servire come mezzo per trasportare strumenti scientifici o materiali da e verso Phobos, senza la necessità di lanciare razzi. La seconda configurazione è più audace: il cavo si estende dalla stazione verso Marte, permettendo al climber di muoversi in direzione del pianeta. Una volta raggiunta l’estremità, il veicolo può sganciarsi dal cavo e, sfruttando la gravità marziana, scendere direttamente verso la superficie.
Le simulazioni numeriche hanno confermato che il sistema può rimanere stabile, purché il baricentro dell’ascensore sia mantenuto oltre il punto L1. Inoltre, è possibile evitare che il cavo si rilassi o diventi instabile durante le operazioni, progettando con attenzione le fasi di accelerazione e decelerazione del climber.
Ciò che rende questo progetto particolarmente interessante è la concreta fattibilità tecnica. A differenza della Terra, dove un ascensore spaziale richiederebbe un cavo lungo circa 100.000 chilometri, la distanza tra Phobos e la superficie di Marte è di soli 6.000 chilometri. Inoltre, Phobos ha una gravità estremamente debole e un’orbita sincrona che la tiene sempre rivolta verso Marte, fattori che semplificano notevolmente la costruzione e la stabilità dell’infrastruttura.
Un ascensore spaziale tra Phobos e Marte avrebbe implicazioni enormi per l’esplorazione del pianeta rosso. Potrebbe abbattere drasticamente i costi delle missioni, permettere il trasporto continuo di materiali e strumenti scientifici, fungere da piattaforma per esperimenti in orbita stabile e persino rendere possibile il lancio di sonde verso altre destinazioni nel Sistema Solare.
In definitiva, il sogno dell’ascensore spaziale potrebbe non essere poi così lontano. Non sulla Terra, ma su una piccola luna che orbita silenziosamente attorno a Marte, dove la scienza e l’immaginazione si incontrano per tracciare una nuova via verso il futuro dell’esplorazione spaziale.
Nell’immaginario collettivo, lo spazio appare come un ambiente sconfinato e deserto. Tuttavia, la realtà dell’orbita terrestre è ben diversa: sempre più affollata, trafficata e caotica. Con quasi 40.000 oggetti spaziali catalogati secondo l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), il rischio di collisioni tra satelliti è in continuo aumento, specialmente a causa del lancio di megacostellazioni come Starlink e della miniaturizzazione dei satelliti.
Per garantire la sicurezza delle missioni spaziali e l’integrità dei satelliti in orbita, è fondamentale poter eseguire manovre di evitamento delle collisioni, note come CAM (Collision Avoidance Manoeuvres). Ma progettare queste manovre in modo rapido, preciso e con il minimo consumo di carburante è una sfida tecnica complessa.
Il problema delle collisioni orbitali
Quando due oggetti nello spazio si avvicinano troppo, gli operatori ricevono un messaggio di allerta chiamato CDM (Conjunction Data Message), che indica l’istante previsto di massimo avvicinamento (TCA) e la probabilità di collisione (PoC). Se questa probabilità supera una certa soglia (spesso fissata a 1 su 10.000), è necessario intervenire.
Le manovre correttive devono non solo ridurre il rischio di impatto, ma anche preservare carburante e mantenere il satellite sulla sua traiettoria prevista. Inoltre, l’incremento del numero di congiunzioni simultanee e ravvicinate richiede strumenti sempre più sofisticati e automatizzati per gestire le emergenze in tempo reale.
Un nuovo approccio matematico: le manovre sotto vincoli polinomiali
Nel lavoro pubblicato su Acta Astronautica, i ricercatori propongono un nuovo metodo per la progettazione automatizzata di CAM che combina efficienza computazionale e precisione. L’idea centrale è rappresentare tutti i vincoli della manovra (come la probabilità di collisione, la distanza minima di passaggio, e il ritorno all’orbita nominale) mediante polinomi di ordine arbitrario.
Questo approccio si basa su una branca avanzata della matematica chiamata algebra differenziale, che permette di approssimare le variabili coinvolte in modo estremamente accurato. I vincoli polinomiali vengono poi “linearizzati” iterativamente, creando una sequenza di programmi quadratici (cioè problemi di ottimizzazione con funzione obiettivo quadratica e vincoli lineari) sempre più precisi. In questo modo si riesce a trovare una soluzione ottima in tempi rapidissimi (spesso inferiori a mezzo secondo).
Efficienza e versatilità: manovre impulsive e a bassa spinta
Il metodo è flessibile e può gestire sia manovre impulsive (che simulano “colpi” di propulsione istantanei), sia a bassa spinta (tipiche dei satelliti con propulsione elettrica). Inoltre, consente di includere più congiunzioni consecutive, considerando i vincoli di mantenimento della posizione orbitale (station keeping).
Uno degli aspetti più innovativi è la possibilità di gestire più vincoli contemporaneamente, ad esempio:
Ridurre la probabilità di collisione con diversi oggetti.
Garantire che la traiettoria finale del satellite rispetti i parametri previsti, come semiasse maggiore ed eccentricità.
Minimizzare il consumo totale di carburante (espresso come somma dei Δv richiesti).
Risultati sperimentali: accuratezza e rapidità
Per testare il metodo, i ricercatori hanno utilizzato database reali di potenziali collisioni in orbita bassa terrestre (LEO), eseguendo oltre 2000 simulazioni. In tutti i casi, le manovre generate rispettavano i vincoli imposti con precisione sub-millimetrica e consumi di carburante ridotti (nella maggior parte dei casi inferiori a 50 mm/s di Δv totale).
I tempi di calcolo sono stati anch’essi impressionanti: il 95% delle soluzioni è stato calcolato in meno di 0,15 secondi. Inoltre, il metodo proposto è risultato in media il 30–40% più veloce rispetto a solutori commerciali come l’interior-point solver di MATLAB.
Un futuro sempre più automatico e autonomo
Il metodo presentato ha un enorme potenziale per l’adozione in sistemi autonomi a bordo dei satelliti, consentendo loro di valutare situazioni di rischio e prendere decisioni indipendenti in pochi istanti. Questo è particolarmente rilevante in un contesto operativo in cui i tempi di reazione sono cruciali, e l’intervento umano potrebbe non essere sufficientemente tempestivo.
Conclusione
Il futuro della gestione del traffico spaziale dipenderà sempre più da algoritmi intelligenti e ottimizzati. Il lavoro di Zeno Pavanello, Laura Pirovano e Roberto Armellin rappresenta un importante passo avanti verso manovre di evitamento delle collisioni sempre più affidabili, automatiche ed efficienti. In un cielo sempre più affollato, la matematica diventa lo strumento fondamentale per evitare che le nostre tecnologie si scontrino nello spazio, garantendo sicurezza, efficienza e sostenibilità alle attività spaziali.
Crediti:
ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Balashev e P. Noterdaeme et al.
Un gruppo internazionale di astronomi ha osservato, per la prima volta, l’effetto diretto delle radiazioni di un quasar sull’ambiente gassoso di una galassia vicina in fase di fusione. La scoperta, pubblicata da Sergei Balashev e Pasquier Noterdaeme insieme a ricercatori provenienti da diversi istituti di ricerca, getta nuova luce su come i quasar — tra gli oggetti più luminosi dell’Universo — possano interrompere la formazione stellare all’interno di galassie interagenti.
Una fusione galattica a redshift z ≈ 2.66
Le osservazioni, effettuate con i telescopi VLT (Very Large Telescope) e ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), hanno analizzato un quasar chiamato J012555.11−012925.00 e una galassia compagna in via di fusione. Le due galassie, separate da una distanza proiettata di appena 5 kpc (circa 16.000 anni luce), stanno convergendo con una velocità relativa di circa 550 km/s.
Entrambe le galassie sono molto massicce, con masse stellari intorno a 10¹¹ masse solari. Il buco nero supermassiccio al centro del quasar ha una massa stimata in 10⁸,3 masse solari e sta accrescendo materiale a un ritmo vicino al limite di Eddington, sprigionando una potenza di (5–10) × 10⁴⁶ erg/s.
L’effetto distruttivo della radiazione del quasar
Un aspetto chiave dello studio è l’osservazione, unica nel suo genere, di gas molecolare altamente eccitato e densissimo (fino a 10⁶ cm⁻³) nella galassia compagna. Questo gas, esposto alla potente radiazione UV del quasar, è stato trasformato in piccole “goccioline” di dimensioni inferiori a 0,02 parsec (circa 1200 volte la distanza Terra-Sole), troppo compatte per formare nuove stelle.
Questo fenomeno rappresenta un esempio di “feedback negativo” locale: la radiazione del quasar distrugge le nubi molecolari diffuse e impedisce la nascita stellare nei pressi del suo campo d’influenza, mentre il resto della galassia continua a formare stelle a un ritmo elevato, stimato in circa 250 masse solari all’anno.
Questa immagine, ottenuta con il radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), mostra il contenuto di gas molecolare di due galassie coinvolte in una collisione cosmica. La galassia a destra ospita un quasar — un buco nero supermassiccio che, mentre inghiotte materia, emette una radiazione intensa diretta verso l’altra galassia. Gli astronomi, utilizzando lo spettrografo X-shooter al Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, hanno analizzato la luce del quasar mentre attraversava un alone invisibile di gas attorno alla galassia a sinistra. Questo ha permesso loro di osservare gli effetti devastanti della radiazione: le nubi di gas della galassia colpita vengono disturbate, ostacolando la formazione di nuove stelle. Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO) / S. Balashev e P. Noterdaeme et al.
Dati straordinari e tecniche avanzate
Colonna di idrogeno neutro: N(H I) ≈ 10²¹.8 cm⁻² Colonna di H₂: N(H₂) ≈ 10²¹.2 cm⁻², tra le più alte mai rilevate nei quasar Densità del gas molecolare: n_H ≈ 10⁵–10⁶ cm⁻³ Temperatura di eccitazione: oltre 4000 cm⁻¹, mai vista in osservazioni a redshift così elevato
Grazie all’uso di tecniche spettroscopiche avanzate e all’elaborazione di immagini ottiche e radio millimetriche, gli scienziati hanno potuto rivelare dettagli finissimi — 100.000 volte più piccoli rispetto a quanto normalmente risolvibile nei sistemi galattici lontani.
Implicazioni
La scoperta rappresenta una prova osservativa che le fusioni galattiche possono non solo innescare l’accensione dei quasar, ma anche alterare profondamente la struttura interna del gas galattico, con conseguenze drammatiche per la formazione stellare. Questo supporta l’idea che i quasar possano giocare un ruolo attivo nel plasmare l’evoluzione delle galassie.
Il progetto “Lunar In-Situ Aluminum Production through Molten Salt Electrolysis” (LISAP-MSE), sviluppato dalla Missouri University of Science and Technology, propone un metodo all’avanguardia per la produzione di alluminio direttamente sulla superficie lunare. Utilizzando l’anortite, un minerale ricco di alluminio abbondante negli altopiani lunari, il processo ha recentemente dimostrato la sua efficacia producendo sferoidi metallici con una purezza dell’85% di alluminio in massa, un risultato sperimentale significativo che conferma la validità concettuale e tecnica dell’approccio.
Contesto e Obiettivi
Con il programma Artemis della NASA volto a stabilire una presenza umana permanente sulla Luna, è essenziale sviluppare tecnologie per sfruttare le risorse locali (ISRU – In-Situ Resource Utilization). LISAP-MSE risponde a questa esigenza permettendo la produzione di materiali critici come l’alluminio e l’ossigeno direttamente dal suolo lunare.
Il Processo LISAP-MSE
Il cuore del processo è l’elettrolisi dell’ossido di alluminio (Al2O3) in un bagno di sale fuso di cloruro di calcio (CaCl2) a circa 900°C, secondo il metodo FFC Cambridge. Questo permette di ottenere alluminio metallico e ossigeno gassoso. La reazione avviene con un potenziale elettrico di circa 3 volt.
L’anortite viene inizialmente trattata con acido cloridrico (HCl), generando cloruro di alluminio esaidrato (AlCl3·6H2O), cloruro di calcio e silice. I composti di alluminio vengono trasformati in ossido di alluminio tramite riscaldamento progressivo fino a 400°C. Successivamente, l’ossido di alluminio viene ridotto elettrochimicamente.
Risultati Sperimentali Recenti
Le prove condotte con una cella elettrolitica sviluppata internamente hanno prodotto sferoidi metallici con l’85% di alluminio in massa, un traguardo importante che dimostra l’efficacia del processo end-to-end. Questi risultati indicano che LISAP-MSE è in grado di produrre alluminio di elevata purezza utilizzabile per la costruzione di infrastrutture lunari.
Risorse Derivate
Oltre all’alluminio, il processo produce anche:
Ossigeno, utile per la respirazione e la propulsione;
Acqua, essenziale per il supporto vitale;
Silice, con potenziale uso edilizio;
Cloruro di calcio, che può essere riciclato nel processo.
Importanza Strategica
Il LISAP-MSE è progettato per essere scalabile e sostenibile. Dopo un’iniziale fornitura di acqua e HCl, il sistema è in grado di auto-rigenerarsi, riducendo la necessità di rifornimenti terrestri. Questo rende il processo altamente adatto per missioni a lungo termine.
Prospettive Future
Attualmente il progetto sta finalizzando la raccolta fondi e l’acquisizione dei materiali. Sono previste ulteriori prove in laboratorio atmosferico e in camere a vuoto presso il campus della Missouri S&T, che mirano a confermare la stabilità e l’efficienza del sistema in condizioni analoghe a quelle lunari.
Distribuzione della produzione di Alluminio nel mondo. Fonte MineraliRari.com
Durante la cerimonia del Tijerales, il Governatore Ricardo Díaz, in rappresentanza della Regione di Antofagasta, posa insieme al personale dell’ESO davanti all’ELT. Da sinistra a destra: Guido Vecchia (Responsabile del sito ELT), Ricardo Díaz (Governatore di Antofagasta), Bárbara Núñez (Responsabile delle relazioni regionali ESO) e Steffen Mieske (Responsabile delle operazioni scientifiche di Paranal).
Crediti foto: I. Adell/CHEPOX/ESO
Il Extremely Large Telescope dell’ESO (ELT), destinato a diventare il più potente al mondo, ha recentemente raggiunto un traguardo simbolico nella sua costruzione: il punto più alto della sua imponente cupola. Con l’installazione completa della struttura di una delle gigantesche porte scorrevoli e gran parte dell’altra già montata, l’ELT ha ora raggiunto un’altezza vertiginosa di 80 metri.
Per celebrare questo momento chiave, conosciuto come “Topping Out” — o “Tijerales” in Cile — l’ESO ha organizzato una cerimonia sia nella sua sede centrale di Garching, in Germania, sia direttamente sul sito di costruzione, sul Cerro Armazones nel deserto cileno di Atacama. In entrambe le sedi, la giornata è stata dedicata al riconoscimento del lavoro straordinario di tutti coloro che stanno rendendo possibile questo ambizioso progetto.
Sul sito cileno, la cerimonia ha incluso il tradizionale innalzamento delle bandiere cilena e dell’ESO sulla sommità della cupola e un barbecue per il personale in loco. Tra i partecipanti c’era anche il Governatore Ricardo Díaz, rappresentante della Regione di Antofagasta, dove si trova l’ELT. A Garching, l’evento ha riunito rappresentanti di industrie, partner istituzionali e numerosi collaboratori, offrendo presentazioni, momenti di networking e un pranzo a buffet. Le due celebrazioni sono state unite da un collegamento in diretta, che ha permesso a tutti di condividere il successo raggiunto.
Il progetto dell’ELT, ormai oltre il 60% del completamento, rappresenta una straordinaria impresa ingegneristica e scientifica resa possibile grazie al contributo costante degli Stati Membri e Partner dell’ESO, delle industrie coinvolte nella progettazione e costruzione dei componenti, e del personale dell’ESO impegnato nel progetto.
Il rito del Topping Out ha origini antichissime, risalenti alla Scandinavia, e viene celebrato in tutto il mondo. Mentre in Cile si issa una bandiera sul punto più alto della struttura, in Germania — dove l’evento è noto come Richtfest — si utilizzano corone, rami d’albero o ghirlande sempreverdi. Un elemento comune? Un pasto meritato per i lavoratori che hanno contribuito alla costruzione.
Il cammino verso il primo sguardo dell’ELT sull’Universo prosegue, e ogni traguardo è un passo in più verso una nuova era dell’astronomia. Grazie alla sua straordinaria tecnologia e ai cieli bui del Cerro Armazones, l’ELT rivoluzionerà la nostra comprensione del cosmo, diventando davvero il più grande occhio del mondo rivolto al cielo.
Il 21 maggio 2025, un asteroide delle dimensioni di una casa, denominato 2025 KF, effettuerà un passaggio ravvicinato alla Terra, transitando tra il nostro pianeta e la Luna. Secondo la NASA, l’asteroide passerà a circa 115.000 chilometri dalla Terra, ovvero meno di un terzo della distanza media tra la Terra e la Luna
Caratteristiche dell’asteroide 2025 KF
Dimensioni: tra 10 e 23 metri di diametro, paragonabili a quelle di una casa
Velocità: circa 41.650 km/h
Distanza minima dalla Terra: 115.000 km
Distanza minima dalla Luna: circa 226.666 km
Data e ora del passaggio: 21 maggio 2025 alle 19:30 ora italiana (17:30 GMT)
Scoperta: 19 maggio 2025 dagli astronomi del progetto MAP nel deserto di Atacama, Cile
Nonostante la sua vicinanza, 2025 KF non rappresenta una minaccia per la Terra o la Luna. Anche in caso di impatto, la sua piccola dimensione lo farebbe disintegrare nell’atmosfera terrestre, senza causare danni al suolo
Osservazione dell’evento
Sebbene l’asteroide sia troppo piccolo e veloce per essere visibile a occhio nudo, gli appassionati di astronomia possono tentare di osservarlo con telescopi adeguati. Per chi desidera approfondire l’osservazione del cielo, esistono diverse opzioni di telescopi disponibili sul mercato.
Importanza del monitoraggio degli asteroidi
Eventi come il passaggio di 2025 KF evidenziano l’importanza del monitoraggio continuo degli oggetti vicini alla Terra (NEO). La scoperta dell’asteroide solo due giorni prima del suo passaggio sottolinea la necessità di migliorare le capacità di rilevamento e tracciamento di questi corpi celesti. Attualmente, la NASA e altre agenzie spaziali monitorano migliaia di NEO per valutare potenziali rischi e sviluppare strategie di difesa planetaria.
I componenti della squadra italiana che parteciperà alle IV IOAA JUNIOR (𝐼𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑂𝑙𝑦𝑚𝑝𝑖𝑎𝑑 𝑜𝑛 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑛𝑜𝑚𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑝ℎ𝑦𝑠𝑖𝑐𝑠) a Piatra Neamt, (Romania) dal 18 al 25 ottobre, sono: Palumbo Gaia, Costantini Ettore, Fabi Alessandro, Rucco Luca, Barberi Davide. I componenti della squadra italiana che parteciperà alle XVIII IOAA (𝐼𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑂𝑙𝑦𝑚𝑝𝑖𝑎𝑑 𝑜𝑛 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑛𝑜𝑚𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑝ℎ𝑦𝑠𝑖𝑐𝑠) a Mumbai (india) dal 11 al 21 agosto, sono: Lambertini Gabriele, Leccese Francesco, Trunfio Ilenia, Brunetta Riccardo, Cusimano Andrea. Crediti INAF
Diciotto giovani studenti e studentesse premiati con la Medaglia Margherita Hack dopo la Finale che si è svolta in Abruzzo dal 6 all’8 maggio. Dieci di loro sono stati convocati a rappresentare l’Italia alle due competizioni delle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica 2025, in India e Romania.
TERAMO, 09 maggio 2025 – Si è chiusa, con la cerimonia di premiazione a Giulianova (TE), la Finale della XXIII edizione dei Campionati Italiani di Astronomia, che dal 6 all’8 maggio ha coinvolto in Abruzzo 90 finalisti selezionati da un totale di 9754 studenti provenienti da 326 scuole (comprese cinque scuole italiane all’estero). Dopo intense prove pratiche e teoriche, sono stati proclamati i diciotto vincitori nazionali e selezionati poi i dieci membri delle due rappresentanze azzurre (divise per età) che parteciperanno alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica 2025, appuntamento prestigioso che riunisce i migliori giovani studenti del mondo: la competizione si terrà a Mumbai, in India, dall’11 al 21 agosto, mentre per la categoria Junior l’evento è in programma dal 18 al 25 ottobre a Piatra Neamț, in Romania.
Promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, la competizione è organizzata dalla Società Astronomica Italiana (SAIt) e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). La fase di preselezione si è svolta il 18 dicembre 2024, la gara interregionale il 26 e 27 febbraio 2025. A seguito dei risultati della gara interregionale sono stati selezionati i finalisti (22 nella categoria Junior 1, 22 nella categoria Junior 2, 32 nella categoria Senior e 14 nella categoria Master). Le prove si sono svolte il 7 maggio presso il Liceo Statale “A. Einstein” di Teramo in Abruzzo e hanno previsto una sessione teorica e una pratica, con quesiti su astronomia, astrofisica, cosmologia, fisica moderna e analisi dati. Tutti problemi di difficoltà e contenuti diversi a seconda della categoria.
I 90 finalisti durante la prova teorica della Finale Nazionale dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia, che si è svolta lo scorso 7 maggio presso il Liceo Scientifico Statale “A. Crediti: INAF
Patrizia Caraveo, presidente della Società Astronomica Italiana, afferma: “Questa edizione ha confermato l’entusiasmo con cui i giovani si avvicinano all’astronomia, affrontando con passione e competenza prove complesse e multidisciplinari. È la dimostrazione che la scienza, quando proposta in modo coinvolgente, sa accendere curiosità autentica. I Campionati Italiani di Astronomia continuano a essere un’occasione preziosa per far emergere talenti e stimolare il pensiero critico. Noto con piacere che sono numerosi i partecipanti che ‘ritornano’ a cimentarsi nei campionati in categorie superiori, segno che l’esperienza nelle passate edizioni ha acceso il loro interesse nonostante l’astronomia non sia parte del curriculum scolastico. Il successo della manifestazione conferma il potenziale formativo e culturale dell’astronomia, una scienza antichissima ma estremamente attuale che è in grado di connettere il cielo alle sfide del futuro”.
Al termine della Finale sono stati premiati cinque studenti e studentesse per ciascuna delle categorie Junior 1, Junior 2 e Senior, e tre per la categoria Master. A tutti è stata conferita la “Medaglia Margherita Hack” per l’edizione 2025 e i loro nomi saranno inseriti nell’Albo Nazionale delle Eccellenze. Inoltre, ai diciotto studenti che si sono classificati immediatamente dopo i vincitori è stato assegnato un diploma di merito, in riconoscimento dei risultati di rilievo conseguiti durante la competizione. La giuria ha infine assegnato due menzioni speciali.
Le valutazioni sono state affidate a una giuria composta da esperti INAF e SAIt: Gaetano Valentini (Presidente), INAF – Osservatorio Astronomico d’Abruzzo, Giuseppe Cutispoto (Segretario), INAF – Osservatorio Astrofisico di Catania, Silvia Galleti, INAF – Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna, Giulia Iafrate, INAF – Osservatorio Astronomico di Trieste, Marco Lucente, INAF – Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali di Roma, Angela Misiano, SAIt – Planetario di Reggio Calabria, Agatino Rifatto, INAF – Osservatorio Astronomico di Capodimonte di Napoli, Daniele Spiga, INAF – Osservatorio Astronomico di Brera – Milano
Questa XXIII edizione si conferma tra le più partecipate degli ultimi anni, e Teramo – con il suo storico Osservatorio Astronomico D’Abruzzo e le sue scuole – ha saputo accogliere con entusiasmo e competenza questa grande sfida scientifica e formativa.
Vincitori dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia – medaglia M. Hack
I diciotto vincitori della Finale Nazionale dei XXIII Campionati Italiani di Astronomia, che si sono svolti dal 6 all’8 maggio 2025 a Teramo-Giulianova (Abruzzo). Da sinistra in piedi: Palumbo Gaia, Trunfio Ilenia, Bortoluzzi Nicola, Lambertini Gabriele, Leccese Francesco, Di Maria Luca, Dandrea Giulio, Costantini Ettore, Fabi Alessandro, Barberi Davide. Da sinistra davanti: Cerrano Matteo, Matarazzi Rachele Pia, Di Egidio Irene, Di Silvestro Andrea, De Paoli Chiara. Nella foto sono assenti Rucco Luca, Brunetta Riccardo, Cusimano Andrea. Crediti: INAF
Firenze, 13 maggio 2025 – Nel quadro del progetto PNRR ETIC è stato inaugurato, martedì 13 maggio, il laboratorio di ottica adattiva ADONI-ET all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali di Simone Esposito, direttore dell’INAF di Arcetri, e Giovanni Passaleva, direttore della sezione di Firenze dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). A seguire, prima del tradizionale taglio del nastro, Michele Punturo, coordinatore scientifico del progetto ETIC e responsabile internazionale di Einstein Telescope, e Armando Riccardi, responsabile di ADONI-ET, hanno illustrato rispettivamente le sfide del progetto ET e del nuovo laboratorio di ottica adattiva.
Crediti: INAF / INFN / ET Italy
La realizzazione del laboratorio ADONI-ET rientra nel progetto Einstein Telescope Infrastructure Consortium (ETIC), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR), nell’ambito della Missione 4 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), di cui l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è capofila.
INAF partecipa al progetto PNRR ETIC attraverso il laboratorio nazionale per ottiche adattive ADONI, che ha nella propria missione il trasferimento delle tecnologie adattive sviluppate per i telescopi ottici in altri campi scientifici.
Nel campo degli interferometri gravitazionali come l’Einstein Telescope, l’obiettivo del laboratorio ADONI-ET è studiare un concetto innovativo per la correzione degli specchi di ET, che utilizza fasci infrarossi per controllare la forma di un elemento correttore mediante il riscaldamento locale. È previsto che il sistema funzioni in ciclo chiuso, regolando il riscaldamento locale utilizzando le informazioni di un canale di misura che verifica la forma effettiva degli specchi da controllare.
Crediti: INAF / INFN / ET Italy
«Il laboratorio, progettato e realizzato grazie ai fondi del PNRR-ETIC, nasce dall’esperienza consolidata dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e del suo laboratorio ADONI, punto di riferimento a livello nazionale e internazionale nel campo dell’ottica adattiva per applicazioni astronomiche», sottolinea il direttore di INAF Arcetri Simone Esposito. «Le tecniche sviluppate in questo ambito trovano nuova applicazione nel controllo dei fasci ottici degli interferometri gravitazionali. Il programma PNRR-ETIC ha quindi offerto un impulso molto importante allo sviluppo multidisciplinare dell’ottica adattiva, estendendone l’uso a strumenti scientifici d’avanguardia come gli interferometri gravitazionali».
«Come direttore della Sezione INFN di Firenze, sono particolarmente felice e orgoglioso dell’inizio delle attività del laboratorio ETIC-ADONI, presso l’Osservatorio di Arcetri. ETIC-ADONI è stato finanziato nell’ambito del progetto PNRR ETIC, con capofila l’INFN, che si occupa dello studio di fattibilità e della caratterizzazione del sito italiano candidato a ospitare Einstein Telescope e della creazione di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale, coinvolgendo molte università ed enti di ricerca italiani, tra cui l’INAF», aggiunge il direttore di INFN Firenze Giovanni Passaleva. «L’INAF è un partner fondamentale per ETIC e con il laboratorio ETIC-ADONI giocherà un ruolo chiave, trasferendo le proprie competenze di eccellenza nell’ottica adattiva nell’ambito della ricerca sulle onde gravitazionali. Si aggiunge così un altro tassello all’eccellenza della ricerca fiorentina, che vede INFN e INAF collaborare insieme a uno dei progetti scientifici più importanti e rivoluzionari dei prossimi decenni, sulla storica collina di Arcetri che ospitò giganti della scienza come Galileo, Fermi, Occhialini, Hack e Pacini».
«I segnali generati dalle onde gravitazionali sono talmente deboli da richiedere strumenti perfettamente isolati e privi di distorsioni ottiche, per evitare che gli effetti di tali “imperfezioni” riducano drasticamente la sensibilità della detezione. Questo è particolarmente vero per l’Einstein Telescope, che si propone di aumentare di un ordine di grandezza la sensibilità rispetto all’attuale generazione di telescopi gravitazionali (LIGO, Virgo), richiedendo soluzioni innovative per il controllo del sistema. In particolare ogni differenza delle ottiche del fascio di misura dalla loro forma ideale, che sia un inevitabile residuo di fabbricazione o una deformazione dovuta alla variazione della loro temperatura, deve essere compensata. L’ottica adattiva ha esattamente questo scopo: agire con un elemento correttore all’interno del sistema per compensare gli effetti delle deformazioni delle ottiche in tempo reale», spiega il responsabile di ADONI-ET Armando Riccardi. «Il laboratorio ADONI-ET, presso l’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, ha lo scopo di trasferire l’esperienza acquisita in INAF con le tecniche di ottica adattiva, per la correzione degli effetti della turbolenza atmosferica sulle immagini astronomiche, a Einstein Telescope. In particolare, nel laboratorio stiamo sviluppando e verificheremo la capacità di uno specchio deformabile di modulare la luce di un laser di potenza, per variare la mappa di temperatura di un’ottica da utilizzare come elemento correttore dei fasci di misura di ET (compensation plate) e verificare che le distorsioni del fronte d’onda ottenute siano in accordo con le accuratezze richieste da questo formidabile strumento per la detezione delle onde gravitazionali».
Con questo progetto del laboratorio ADONI, INAF si candida concretamente a contribuire allo sviluppo di un sistema adattivo per ET anche attraverso la formazione di giovani ricercatrici e ricercatori.
Il consorzio ETIC è composto da quattordici università ed enti di ricerca italiani, con l’obiettivo di sostenere la candidatura italiana a ospitare il futuro osservatorio di onde gravitazionali di nuova generazione Einstein Telescope (ET), una delle più grandi e ambiziose infrastrutture di ricerca che saranno costruite in Europa nei prossimi decenni, incluso nella roadmap di ESFRI (European Strategy Forum on Research Infrastructure), l’organismo che indica su quali infrastrutture scientifiche è decisivo investire in Europa.
A fronte di un investimento totale di 50 milioni di euro, le attività di ETIC si stanno concentrando, da un lato, sulla caratterizzazione del sito candidato a ospitare ET, nell’area intorno alla miniera dismessa di Sos Enattos, nel Nuorese, in Sardegna, e dall’altro sulla realizzazione o potenziamento di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale.
Grazie al satellite XRISM e allo spettrometro ad alta risoluzione Resolve, un team internazionale di scienziati – con il contributo dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – ha osservato per la prima volta una tempesta cosmica generata da un buco nero supermassiccio, rivelando cinque distinti flussi di plasma espulsi a velocità pari al 20–30% della velocità della luce. La scoperta è stata pubblicata oggi su Nature.
Roma, 14 maggio 2025 – Immaginate una tempesta colossale che si scatena appena al di fuori di un buco nero supermassiccio: è proprio ciò che ha rivelato Resolve, il nuovo spettrometro ad altissima risoluzione nei raggi X a bordo del satellite XRISM, nel contesto di una missione spaziale guidata dall’agenzia spaziale JAXA (Giappone), con la partecipazione di NASA (Stati Uniti) ed ESA (Europa).
Grazie ai dati ad altissima precisione di XRISM, è stato possibile – per la prima volta – identificare cinque componenti distinte di questo vento nel cuore del quasar PDS 456, ognuna espulsa dal buco nero centrale a velocità relativistiche, comprese tra il 20% e il 30% della velocità della luce. Per fare un confronto, basti pensare che le tempeste più violente sulla Terra – come un uragano di categoria 5 – raggiungono al massimo 300 km/h. Questa “tempesta cosmica” è milioni di volte più veloce.
Lo studio nato da questa collaborazione internazionale (JAXA, NASA, ESA) nell’ambito della missione XRISM, a cui partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è pubblicato oggi sulla rivista internazionale Nature, con un articolo dal titolo “Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds”, che evidenzia la scoperta di cinque distinti flussi di plasma che fuoriescono dal disco di accrescimento del buco nero centrale a velocità estreme, pari al 20–30% di quella della luce.
“Il nostro gruppo ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione di questi dati, grazie a tecniche spettroscopiche avanzate nei raggi X e a modelli teorici innovativi per la fisica dei venti prodotti dai buchi neri. Questi risultati aprono una nuova finestra sullo studio dell’universo estremo, e gettano le basi per comprendere meglio come i buchi neri influenzano l’evoluzione delle galassie”. Commenta così Francesco Tombesi, professore associato di Astrofisica presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e associato INAF. In qualità di XRISM Guest Scientist selezionato dall’ESA (uno dei soli due in Italia insieme a James Reeves, associato INAF), Tombesi ha partecipato alla pianificazione e all’analisi dell’osservazione del quasar PDS 456, il più luminoso dell’universo locale, utilizzando il nuovo spettrometro ad alta risoluzione Resolve.
“Roma Tor Vergata ha avuto un ruolo di primo piano – prosegue Tombesi – anche grazie al contributo di due giovani ricercatori cresciuti all’interno del nostro Ateneo: Pierpaolo Condò, dottorando al secondo anno del PhD in Astronomy, Astrophysics and Space Science (AASS), e Alfredo Luminari, ricercatore post-doc presso INAF ed ex dottorando AASS”.
Un’energia così enorme e una struttura così complessa rivoluzionano la nostra comprensione dell’ambiente estremo intorno ai buchi neri supermassicci e mettono in seria discussione i modelli attuali di feedback tra buco nero e galassia. “Le teorie finora accettate – conclude Tombesi – non riescono a spiegare una simile combinazione di forza e frammentazione: è chiaro che serviranno nuovi modelli per descrivere questi mostri cosmici”.
“PDS456 è un laboratorio prezioso per studiare nell’universo locale i potentissimi venti prodotti dai buchi neri supermassivi. Questa nuova osservazione ci ha permesso di misurare la geometria e distribuzione in velocità del vento con un livello di dettagli impensabile prima dell’avvento di XRISM”, aggiunge Valentina Braito, ricercatrice INAF a Milano.
Un ruolo vincente all’interno della campagna osservativa di PDS456 lo ha avuto ancora una volta l’osservatorio spaziale Neil Gehrels Swift, satellite NASA con una importante partecipazione dell’INAF con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). È stato infatti grazie a un programma osservativo Swift – ottenuto da Valentina Braito – che il team è riuscito a costruire i modelli specifici per PDS456 utilizzati nell’analisi dei dati XRISM.
In questa illustrazione artistica è rappresentato l’interno caldo della Luna e l’intensa attività vulcanica che si ritiene abbia avuto luogo tra 2 e 3 miliardi di anni fa. Secondo gli studiosi, le eruzioni sul lato vicino della Luna (quello rivolto verso la Terra) avrebbero contribuito a creare un paesaggio dominato da vaste pianure basaltiche, note come maria.
Due recenti studi condotti dalla NASA offrono un’affascinante visione delle strutture interne della Luna e dell’asteroide Vesta, utilizzando una tecnica sorprendente: l’analisi dei dati gravitazionali raccolti da sonde in orbita, senza la necessità di atterrare sulla superficie dei corpi celesti.
Pubblicati su Nature e Nature Astronomy, questi lavori segnano un passo decisivo nella comprensione della formazione e dell’evoluzione dei corpi del Sistema Solare.
La Luna: Un Interno Asimmetrico e Caldo sul Lato Vicino
Nel primo studio, pubblicato il 14 maggio su Nature, i ricercatori hanno elaborato il più dettagliato modello gravitazionale della Luna mai realizzato. Questa nuova mappa è il risultato dell’analisi dei dati della missione GRAIL (Gravity Recovery and Interior Laboratory), che ha visto le due sonde gemelle Ebb e Flow orbitare il nostro satellite tra la fine del 2011 e il 2012.
Il team ha rilevato sottili variazioni nel campo gravitazionale lunare legate alla sua orbita ellittica intorno alla Terra. Queste variazioni provocano una lieve deformazione mareale del satellite, causata dall’attrazione gravitazionale terrestre, che a sua volta fornisce indizi preziosi sulla struttura interna profonda della Luna.
Una delle scoperte più sorprendenti riguarda l’asimmetria tra il lato vicino e quello lontano della Luna. Mentre il lato vicino è dominato da vasti mari di roccia solidificata, testimoni di un’intensa attività vulcanica avvenuta tra 2 e 3 miliardi di anni fa, il lato lontano appare più aspro e privo di ampie pianure.
Secondo Ryan Park, supervisore del Solar System Dynamics Group al Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA, «abbiamo scoperto che il lato vicino della Luna si flette di più rispetto al lato lontano, il che indica una differenza fondamentale nella loro struttura interna». Questo maggiore “cedimento” suggerisce la presenza di una regione mantellare più calda sul lato vicino, arricchita da elementi radioattivi capaci di generare calore.
Questa scoperta non solo fornisce la prova più solida finora della teoria secondo cui l’attività vulcanica ha modellato la faccia visibile della Luna, ma permetterà anche di migliorare i sistemi di navigazione e di determinazione del tempo per le future missioni lunari.
Vesta: Un Asteroide Diverso da Come lo Immaginavamo
Nel secondo studio, pubblicato il 23 aprile su Nature Astronomy, gli scienziati hanno applicato la stessa tecnica di analisi gravitazionale a Vesta, uno dei più grandi asteroidi della fascia principale tra Marte e Giove.
La missione Dawn della NASA ha ottenuto questa immagine del grande asteroide Vesta il 24 luglio 2011. La sonda ha trascorso 14 mesi in orbita attorno a Vesta, acquisendo oltre 30.000 immagini e realizzando la mappatura completa della sua superficie. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA
Utilizzando i dati radiometrici del Deep Space Network e le immagini raccolte dalla sonda Dawn, che ha orbitato Vesta tra il 2011 e il 2012, il team ha ottenuto risultati inaspettati: contrariamente a quanto previsto, l’interno di Vesta appare sorprendentemente uniforme, con un nucleo ferroso molto piccolo o forse addirittura assente.
Attraverso la misurazione delle oscillazioni di Vesta mentre ruota, il team ha calcolato il suo momento d’inerzia, una proprietà strettamente legata alla distribuzione interna della massa. «La nostra tecnica è estremamente sensibile ai cambiamenti del campo gravitazionale, che si manifestano sia nel tempo, come nel caso delle maree lunari, sia nello spazio, come nel moto oscillatorio di un asteroide», ha spiegato Park.
Questa analisi porta a rivedere le teorie finora accettate sull’evoluzione di Vesta e, più in generale, su come si formano e si differenziano i corpi rocciosi nel Sistema Solare.
Un Nuovo Futuro per l’Esplorazione Planetaria
Gli studi guidati da Ryan Park, frutto di oltre un decennio di lavoro e dell’impiego dei supercomputer della NASA, dimostrano come l’analisi dei dati gravitazionali possa svelare i misteri più profondi dei corpi celesti senza bisogno di costose e complesse missioni di atterraggio.
«La gravità è una proprietà fondamentale e unica che possiamo usare per esplorare l’interno di un corpo planetario», ha sottolineato Park. «Non abbiamo bisogno di dati raccolti sulla superficie: è sufficiente seguire con grande precisione il movimento delle sonde per ottenere una visione globale di ciò che si cela all’interno».
Lontana, in una regione dello spazio dove il Sole è solo una stella tra le altre e il vento solare è ormai un sussurro impercettibile, la sonda Voyager 1 continua il suo viaggio solitario. Lanciata nel 1977, è oggi l’oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra, una messaggera silenziosa che da quasi cinquant’anni attraversa l’oscurità dell’infinito. E proprio quando sembrava che il tempo avesse ormai relegato alcune delle sue funzioni all’oblio, la sonda ha compiuto un piccolo grande miracolo: ha riattivato dei propulsori considerati inutilizzabili da oltre vent’anni.
È successo nelle scorse settimane, grazie al lavoro degli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA, in California. Una manovra tanto ardita quanto rischiosa, che ha richiesto ingegno e una buona dose di coraggio. L’obiettivo? Riportare in vita quei vecchi propulsori, messi da parte nel 2004, per far fronte a un problema ben più urgente: l’invecchiamento dei sistemi di spinta ancora attivi.
Il problema dei propulsori ostruiti
Nel cuore delle Voyager, che oggi sfrecciano nello spazio interstellare a una velocità vertiginosa di circa 56.000 km/h, si trovano i piccoli motori di orientamento. Sono loro a mantenere l’antenna puntata verso la Terra, permettendo il fragile filo di comunicazione che ci unisce a queste sonde così lontane. Ogni lieve rotazione, ogni delicato aggiustamento serve a far sì che Voyager possa continuare a inviare dati preziosi e ricevere i pochi, sempre più radi comandi da casa.
Ma il tempo, come sempre, presenta il conto. I tubi del carburante dei propulsori principali stanno accumulando residui. Se questa ostruzione dovesse peggiorare, le Voyager potrebbero perdere la capacità di orientarsi e quindi di comunicare. Gli ingegneri hanno calcolato che questo rischio potrebbe diventare realtà già nell’autunno di quest’anno.
Ecco perché, nonostante le difficoltà, si è deciso di tentare l’impossibile: rianimare i propulsori di riserva. Quegli stessi motori che non venivano utilizzati da oltre due decenni e che molti davano ormai per persi.
Una corsa contro il tempo (e il silenzio)
La missione aveva anche un’altra scadenza imminente: il 4 maggio, data in cui l’antenna terrestre responsabile di inviare comandi alla Voyager 1 (e alla sua gemella, Voyager 2) è stata messa offline per importanti lavori di aggiornamento. Una volta spenta, sarebbe rimasta silenziosa per mesi. Se i propulsori di backup non fossero stati riattivati in tempo, la finestra per intervenire si sarebbe chiusa irrimediabilmente.
Con una serie di comandi complessi, inviati a una distanza di oltre 24 miliardi di chilometri, gli ingegneri hanno trasmesso le istruzioni per far ripartire i vecchi propulsori. E contro ogni previsione, la risposta è arrivata: i motori si sono accesi. Un sussurro di vita meccanica nel grande vuoto cosmico.
Un ultimo gesto di resilienza
Questo intervento rappresenta molto più di una semplice manovra tecnica. È la testimonianza della resilienza di un progetto nato in un’altra epoca, quando i computer erano grandi come stanze e le missioni spaziali si affidavano ancora a calcoli fatti a mano. È il simbolo di come, anche nell’estremo silenzio dello spazio profondo, la mano dell’uomo riesca ancora a farsi sentire.
Oggi Voyager 1 continua a viaggiare, portando con sé il Golden Record, quel disco d’oro che racchiude i suoni e le immagini della Terra, nel caso qualche civiltà aliena dovesse mai trovarla. E anche se il silenzio radio è ora inevitabile per qualche mese, sappiamo che laggiù, oltre i confini del nostro Sistema Solare, c’è ancora una piccola nave solitaria che continua a puntare la sua fragile antenna verso casa.
E finché quella flebile voce continuerà a parlarci, anche solo con un battito meccanico di propulsori ritrovati, non saremo mai davvero soli nell’Universo.
Le immagini di Titano sono state riprese dal James Webb Space Telescope l’11 luglio 2023 (in alto) e dal telescopio terrestre Keck il 14 luglio 2023 (in basso). Mostrano nuvole di metano (indicate dalle frecce bianche) a diverse altitudini nell’emisfero nord.
A sinistra, le immagini a colori mostrano l’atmosfera e la superficie. I colori rappresentano diverse lunghezze d’onda dell’infrarosso: Webb ha evidenziato luce a 1.4 µm (blu), 1.5 µm (verde) e 2.0 µm (rosso), mentre Keck ha utilizzato rispettivamente 2.13 µm, 2.12 µm e 2.06 µm.
Al centro, le immagini a 2.12 µm rivelano emissioni dalla bassa troposfera, dove si formano le nubi più basse.
A destra, le immagini a lunghezze d’onda più sensibili agli strati superiori (Webb a 1.64 µm, Keck a 2.17 µm) mostrano nubi più alte nella troposfera superiore e nella stratosfera.
Il confronto dimostra che, tra l’11 e il 14 luglio, le nubi si sono spostate verso altitudini più elevate, segno di un moto ascensionale nell’atmosfera di Titano.
Crediti immagine: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.
Un team internazionale di scienziati ha recentemente gettato nuova luce sull’affascinante atmosfera di Titano, la più grande luna di Saturno. Grazie ai dati combinati del telescopio spaziale James Webb (NASA/ESA/CSA James Webb Space Telescope) e del telescopio terrestre Keck II (W. M. Keck Observatory), gli astronomi hanno osservato per la prima volta fenomeni di convezione nuvolosa nell’emisfero nord di Titano, proprio dove si concentrano la maggior parte dei suoi laghi e mari di idrocarburi.
Un meteo alieno, ma sorprendentemente familiare
“Titano è l’unico altro luogo del Sistema Solare che presenta un clima simile a quello terrestre, nel senso che ha nuvole e precipitazioni che raggiungono la superficie,” ha spiegato Conor Nixon del Goddard Space Flight Center della NASA, autore principale dello studio.
A differenza della Terra, dove il ciclo climatico è dominato dall’acqua, su Titano l’elemento chiave è il metano (CH₄). A temperature prossime ai -180 °C, il metano evapora dalle superfici liquide, si condensa in atmosfera e cade sotto forma di una pioggia fredda e oleosa su un terreno in cui il ghiaccio d’acqua è duro come la roccia.
Le osservazioni, condotte nel novembre 2022 e nel luglio 2023, hanno mostrato formazioni nuvolose alle medie e alte latitudini settentrionali, proprio nell’estate boreale di Titano. I dati suggeriscono che le nuvole si stiano sollevando verso altitudini maggiori nel corso dei giorni, segno di attività convettiva. Questa è una scoperta cruciale, poiché i laghi e i mari del nord, ricchi di metano ed etano, rappresentano una potenziale fonte di rifornimento per l’atmosfera.
La troposfera di Titano: un mondo espanso
Mentre sulla Terra la troposfera si estende fino a circa 12 km di altitudine, su Titano, grazie alla sua bassa gravità, questa fascia atmosferica raggiunge i 45 km. Usando filtri infrarossi differenti, Webb e Keck sono riusciti a sondare vari strati dell’atmosfera e a stimare l’altitudine delle nubi osservate. Tuttavia, non sono state rilevate precipitazioni dirette durante le osservazioni.
“Le osservazioni del Webb sono state effettuate alla fine dell’estate boreale di Titano, una stagione che non abbiamo potuto studiare durante la missione Cassini-Huygens,” ha sottolineato Thomas Cornet dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), co-autore dello studio. “Insieme alle osservazioni da Terra, Webb ci sta offrendo preziose nuove informazioni sull’atmosfera di Titano, che speriamo di esplorare più da vicino con una futura missione ESA nel sistema di Saturno.”
Le immagini di Titano sono state riprese dal James Webb Space Telescope l’11 luglio 2023 (in alto) e dal telescopio terrestre Keck il 14 luglio 2023 (in basso). Mostrano nuvole di metano (indicate dalle frecce bianche) a diverse altitudini nell’emisfero nord. A sinistra, le immagini a colori mostrano l’atmosfera e la superficie. I colori rappresentano diverse lunghezze d’onda dell’infrarosso: Webb ha evidenziato luce a 1.4 µm (blu), 1.5 µm (verde) e 2.0 µm (rosso), mentre Keck ha utilizzato rispettivamente 2.13 µm, 2.12 µm e 2.06 µm. Al centro, le immagini a 2.12 µm rivelano emissioni dalla bassa troposfera, dove si formano le nubi più basse. A destra, le immagini a lunghezze d’onda più sensibili agli strati superiori (Webb a 1.64 µm, Keck a 2.17 µm) mostrano nubi più alte nella troposfera superiore e nella stratosfera. Il confronto dimostra che, tra l’11 e il 14 luglio, le nubi si sono spostate verso altitudini più elevate, segno di un moto ascensionale nell’atmosfera di Titano. Crediti immagine: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.Il James Webb Space Telescope (11 luglio 2023) e il telescopio Keck (14 luglio 2023) hanno ripreso nuvole di metano a diverse altitudini nell’emisfero nord di Titano (frecce bianche). Sinistra: immagini a colori combinati mostrano atmosfera e superficie. Centro: immagini a 2.12 µm evidenziano nubi nella bassa troposfera. Destra: emissioni a 1.64 µm (Webb) e 2.17 µm (Keck) rivelano nubi a quote più alte, salite nei tre giorni tra le osservazioni. Crediti: NASA, ESA, CSA, STScI, Keck Observatory.
I segreti chimici di Titano
Titano continua a suscitare grande interesse astrobiologico per la sua complessa chimica organica. Nonostante il gelo estremo, la sua atmosfera è un laboratorio naturale di reazioni che coinvolgono molecole contenenti carbonio, le stesse alla base della vita sulla Terra.
Il metano, in particolare, gioca un ruolo centrale: viene scomposto dalla luce solare o dagli elettroni energetici intrappolati nella magnetosfera di Saturno, producendo etano (C₂H₆) e molecole più complesse.
Per la prima volta, il telescopio Webb ha rilevato con certezza la presenza del radicale metile (CH₃), un elemento chiave di queste reazioni. Questo radicale, dotato di un elettrone libero, si forma proprio quando il metano si rompe.
“È come vedere la torta mentre sta ancora cuocendo nel forno, invece di limitarsi a osservare solo la farina e lo zucchero all’inizio e la torta decorata alla fine,” ha commentato Stefanie Milam del Goddard Space Flight Center, co-autrice dello studio.
Il destino atmosferico di Titano
Questa intensa attività chimica ha conseguenze importanti sul lungo termine. Una parte dell’idrogeno prodotto dalla dissociazione del metano si perde nello spazio, riducendo progressivamente la quantità di metano disponibile. Se non esistono fonti interne in grado di rifornire l’atmosfera, come emissioni dalla crosta o dall’interno del satellite, Titano è destinato a diventare un mondo secco e polveroso, non troppo dissimile da ciò che è accaduto a Marte con la perdita di gran parte della sua acqua.
“Su Titano il metano è un consumabile. È possibile che venga costantemente rifornito e risalga dalla crosta e dall’interno del satellite nel corso di miliardi di anni. Altrimenti, un giorno scomparirà del tutto e Titano diventerà un mondo per lo più privo di atmosfera, dominato da polveri e dune,” ha concluso Nixon.
Le osservazioni fanno parte del programma Guaranteed Time Observations guidato da Heidi Hammel e sono state pubblicate sulla rivista Nature Astronomy.
Galileo è la più grande costellazione satellitare europea e il sistema di navigazione satellitare più preciso al mondo, in grado di fornire una precisione di posizionamento al livello del metro a circa quattro miliardi di utenti in tutto il pianeta. Attualmente è composta da 28 satelliti distribuiti su tre piani orbitali, garantendo che almeno quattro satelliti siano sempre visibili da qualsiasi punto della Terra.
Credito immagine: ESA – F. Zonno
Ogni anno, i partner del programma Galileo valutano lo stato e l’efficacia dei satelliti più anziani, decidendo se prolungarne l’operatività di un ulteriore anno o procedere alla dismissione, trasferendoli su un’orbita più alta e sicura e spegnendoli definitivamente. Questo processo contribuisce a mantenere l’orbita pulita, in linea con l’impegno dell’ESA per la riduzione dei detriti spaziali. Credito immagine: ESA
Il 12 marzo 2013, il satellite GSAT0104, insieme ai suoi compagni della fase di Validazione in Orbita (In-Orbit Validation, IOV), segnava un momento storico: per la prima volta, una posizione terrestre veniva determinata utilizzando esclusivamente il sistema di navigazione satellitare europeo Galileo. Oggi, dopo 12 anni di onorato servizio, GSAT0104 entra nuovamente nella storia diventando il primo satellite della costellazione Galileo a essere ufficialmente dismesso.
Una costellazione in continua evoluzione
Galileo rappresenta un’infrastruttura pubblica cruciale per l’Europa e il mondo, progettata per offrire servizi di navigazione affidabili e continui per decenni. In questo contesto, il decommissioning — ovvero la dismissione controllata dei satelliti giunti a fine vita — è tanto importante quanto il lancio di nuovi veicoli spaziali.
Nel 2023, per la prima volta, l’Agenzia dell’Unione Europea per il Programma Spaziale (EUSPA), l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e la Commissione Europea hanno stabilito il ritiro di un satellite Galileo. Le operazioni per GSAT0104 sono iniziate a marzo 2024 e si sono concluse ad aprile 2025.
Attualmente, la costellazione continua a garantire prestazioni elevate con satelliti operativi in tutte le posizioni principali, supportati da tre satelliti di riserva attivi. Inoltre, sei nuovi satelliti di Prima Generazione sono pronti al lancio, mentre dodici satelliti di Seconda Generazione sono in fase di sviluppo, a testimonianza di un sistema in costante aggiornamento.
Spazio sostenibile: una priorità per l’ESA
L’ESA ha fatto della sostenibilità spaziale una delle sue missioni centrali, impegnandosi a ridurre l’inquinamento orbitale e a prevenire la formazione di nuovi detriti. Questo obiettivo si traduce in pratiche di progettazione sostenibile, rigorose politiche di mitigazione dei detriti e protocolli di fine vita per i satelliti.
Quando un satellite Galileo termina il suo servizio operativo, viene trasferito in un’orbita sicura più elevata, chiamata “orbita cimitero”, situata almeno 300 km sopra la costellazione attiva. Qui, il satellite viene “passivato”, ovvero vengono eliminate tutte le fonti di energia residue per garantire la sua stabilità a lungo termine.
Nel caso di GSAT0104, grazie alle riserve di propellente ancora disponibili, è stato possibile posizionarlo ben 700 km sopra la costellazione operativa, su un’orbita altamente stabile. Successivamente, il serbatoio è stato svuotato e le batterie completamente scaricate. Le future dismissioni seguiranno la stessa procedura, variando leggermente le altitudini per mantenere distanze di sicurezza tra i satelliti non più operativi.
Perché è importante fare “ordine” nello spazio
La gestione accurata della costellazione Galileo non è solo una questione di sostenibilità ambientale, ma anche di efficienza operativa. “Abbiamo bisogno di mantenere le orbite libere e sicure per supportare il continuo rinnovamento della flotta. Solo una costellazione sana può garantire prestazioni ottimali e servizi affidabili per miliardi di utenti in tutto il mondo”, spiega Riccardo Di Corato, responsabile dell’Unità Analisi della Costellazione Galileo.
Ogni satellite ha una vita operativa prevista: 12 anni per quelli di Prima Generazione e 15 anni per quelli di Seconda Generazione. Ogni anno, i partner del programma valutano lo stato dei satelliti più anziani, decidendo se estenderne l’operatività o procedere alla dismissione.
“È fondamentale rimuovere i satelliti prima che i sistemi critici — come il controllo dell’assetto, i propulsori e le comunicazioni — smettano di funzionare correttamente. Se siamo sicuri che la dismissione potrà avvenire in sicurezza in un secondo momento, ne estendiamo l’uso il più possibile”, aggiunge Di Corato.
L’ultimo servizio di GSAT0104
Lanciato il 12 ottobre 2012 dalla base europea di Kourou, nella Guyana Francese, GSAT0104 è stato il quarto e ultimo satellite della fase IOV. Proprio grazie a lui, è stato possibile determinare per la prima volta una posizione a terra usando esclusivamente i satelliti Galileo.
Dopo anni di servizio nella navigazione, un guasto all’antenna L-band lo ha portato a essere assegnato principalmente alle attività di Ricerca e Soccorso (Search and Rescue). Nel 2021, è stato spostato da una posizione primaria a una di riserva per fare spazio ai nuovi satelliti entrati in funzione nell’aprile 2024.
Ancora una volta, GSAT0104 ha svolto un ruolo pionieristico: la sua dismissione ha stabilito un modello di riferimento per le future operazioni di fine vita della costellazione, offrendo un prezioso bagaglio di esperienza che sarà fondamentale negli anni a venire.
Gli altri tre satelliti IOV continueranno a operare almeno fino a ottobre 2025, con due di essi già oltre la vita operativa prevista, ma ancora perfettamente funzionanti. Le prestazioni del sistema Galileo sono monitorate in modo indipendente dal Galileo Reference Centre (GRC) e consultabili tramite il GNSS Service Centre (GSC).
Galileo: il sistema di navigazione più preciso al mondo
Dal 2017, Galileo è ufficialmente in Open Service e serve oltre quattro miliardi di utenti nel mondo. Tutti gli smartphone venduti nell’Unione Europea sono compatibili con il sistema, che fornisce servizi essenziali anche nei settori del trasporto ferroviario e marittimo, nell’agricoltura di precisione, nei servizi finanziari e nelle operazioni di emergenza e soccorso.
Galileo è un programma di punta dell’Unione Europea, gestito e finanziato dalla Commissione Europea. L’ESA ne cura lo sviluppo e la progettazione, mentre EUSPA coordina la gestione operativa e la fornitura dei servizi. Con un occhio sempre rivolto al futuro, le attività di ricerca e sviluppo proseguono nell’ambito del programma Horizon Europe, per garantire che Galileo continui a rappresentare l’eccellenza europea nella navigazione satellitare.
Nuove Prospettive sulla Geologia Lunare per l’Esplorazione Umana
Nonostante decenni di esplorazioni spaziali e missioni robotiche, la Luna continua a custodire misteri geologici irrisolti. Due tra i più affascinanti sono gli Irregular Mare Patches (IMPs) e i presunti tunnel di lava sotterranei, strutture che potrebbero rivoluzionare la nostra comprensione dell’evoluzione termica del nostro satellite e aprire nuove prospettive per la futura colonizzazione umana. È con questi obiettivi che nasce il progetto LUnar Geology Orbiter (LUGO), un’iniziativa proposta nell’ambito del programma Open Space Innovation Platform (OSIP) dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) (esa.int).
IMPs: Le Enigmatiche Formazioni Vulcaniche
Gli IMPs sono tra le strutture vulcaniche più misteriose della superficie lunare, localizzate principalmente sul lato visibile del nostro satellite. Scoperte per la prima volta nel 1971 dall’astronomo E.A. Whitaker durante l’analisi delle immagini della missione Apollo 15, queste formazioni presentano depressioni di forma irregolare, caratterizzate da colline lisce e circondate da terreni accidentati e rocciosi.
Nonostante siano noti da oltre cinquant’anni, l’origine e l’età di queste strutture restano oggetto di dibattito. Alcuni studi ne collocano la formazione circa 3,5 miliardi di anni fa, mentre altri suggeriscono che siano sorprendentemente giovani, con meno di 100 milioni di anni. Se quest’ultima ipotesi fosse confermata, metterebbe seriamente in discussione le attuali teorie sull’evoluzione termica della Luna.
I Tunnel di Lava: Rifugi Naturali per la Vita Umana sulla Luna?
Un altro tema centrale del progetto LUGO è la ricerca di tunnel di lava sotterranei, strutture vuote formatesi durante antichi episodi di attività vulcanica. Queste cavità potrebbero rappresentare rifugi naturali per future basi lunari, offrendo protezione da radiazioni cosmiche, micrometeoriti e sbalzi termici estremi. Inoltre, potrebbero nascondere risorse preziose, come riserve d’acqua sotto forma di ghiaccio.
Sebbene la loro esistenza sia stata ipotizzata per decenni e alcuni crolli superficiali sembrino confermare la loro presenza, le dimensioni, la frequenza e le caratteristiche fisiche di questi tunnel restano largamente sconosciute.
Gli Strumenti di LUGO
Per affrontare queste sfide scientifiche, la missione LUGO prevede un carico strumentale altamente tecnologico, comprendente:
Radar Penetrante (GPR): Operante tra 15 e 30 MHz, permetterà di indagare la struttura stratigrafica del sottosuolo fino a diversi metri di profondità.
Telecamera a Stretta Angolazione (NAC): Con una risoluzione superiore ai 25 cm per pixel, offrirà immagini dettagliate delle superfici degli IMPs e delle aree candidate alla presenza di tunnel di lava.
Telecamera Iperspettrale (HSC): Coprendo uno spettro da 500 a 1650 nm, aiuterà a determinare la composizione mineralogica delle aree osservate.
LiDAR a Singolo Fotone: Operante a 1550 nm, sarà fondamentale per la creazione di mappe tridimensionali ad altissima precisione delle superfici osservate.
Prospettive Future
I dati ottenuti da LUGO supporteranno progetti di esplorazione più ambiziosi, come la missione DIMPLE della NASA (nasa.gov), destinata a sbarcare direttamente su un IMP per datare con precisione queste affascinanti strutture.
Un team internazionale di astronomi ha recentemente annunciato la scoperta di AT2024tvd, il primo evento di distruzione mareale (Tidal Disruption Event, TDE) off-nuclear rilevato grazie a survey ottiche di ampio campo. L’evento è stato inizialmente identificato dalla Zwicky Transient Facility (ZTF) presso il Palomar Observatory e successivamente confermato tramite osservazioni multi-banda, tra cui i telescopi spaziali Hubble Space Telescope (HST), Chandra X-ray Observatory, e il radiotelescopio Very Large Array (VLA).
Un TDE Lontano dal Nucleo Galattico
AT2024tvd è stato rilevato per la prima volta il 25 agosto 2024 con una magnitudine gZTF = 19.68 ± 0.23, nell’ambito del programma ad alta cadenza della ZTF. Ma ciò che ha destato l’interesse della comunità scientifica è stata la sua posizione: l’evento si trova a 0.914 ± 0.010 arcosecondi dal centro del bulge galattico della sua galassia ospite, una distanza proiettata di circa 0.808 ± 0.009 kiloparsec.
Questo offset è stato confermato con precisione dal Hubble Space Telescope, mentre osservazioni radio del VLA hanno identificato un’emissione radio coincidente con la posizione del TDE, consolidando l’interpretazione di un evento realmente fuori dal centro galattico.
Caratteristiche Spettrali e Osservazioni Multi-Banda
L’evento è stato successivamente classificato come TDE da S. Faris et al. (2024), grazie alla presenza di ampie linee di idrogeno e possibili tracce di elio nello spettro, oltre a una persistente emissione ultravioletta. Tuttavia, un’analisi più approfondita ha messo in dubbio la presenza chiara delle linee di elio.
Lo spettro UV ottenuto con HST presenta forti somiglianze con quello del noto TDE ASASSN-14li, con linee larghe di Lyα, N V, Si IV, C IV, He II e N III], che confermano l’origine del fenomeno.
In banda X, le osservazioni con Swift/XRT e Chandra hanno mostrato un’emissione soffice con temperature del disco comprese tra 0.1 e 0.2 keV e luminosità X intorno a 10⁴³ erg/s, tipiche dei TDE. È stata osservata anche una significativa variabilità su scale temporali di ore, simile a quella di TDE noti come AT2022lri.
Al tempo t = 105 giorni dalla scoperta, l’emissione radio misurata dal VLA a 10 GHz ha mostrato una luminosità di L₁₀GHz ≈ 3 × 10³⁸ erg/s, compatibile con TDE radio-brillanti non associati a getti, come ASASSN-15oi e AT2019dsg.
La Galassia Ospite e la Massa dei Buchi Neri Coinvolti
La galassia ospite è una galassia lenticolare di massa elevata, con una massa stellare stimata in log(M_gal/M_☉) = 10.93 ± 0.02 e una dispersione stellare σ = 192.74 ± 5.11 km/s, misurata dallo Sloan Digital Sky Survey (SDSS).
Applicando la relazione M-σ di J. E. Greene et al. (2020), la massa del buco nero centrale è stata stimata in log(M_BH/M_☉) ≈ 8.37 ± 0.08 (stat) ± 0.43 (sys), ovvero circa 2 × 10⁸ M_☉. Tuttavia, il buco nero associato a AT2024tvd è molto meno massivo. L’analisi dei dati con il modello MOSFiT suggerisce una massa compresa tra 10⁵ e 10⁷ M_☉, con un valore più probabile attorno a 10⁶ M_☉.
Origine dell’Evento: Merger Minori o Interazioni Gravitazionali?
Due sono le ipotesi principali per spiegare la posizione off-nuclear di AT2024tvd:
Residuo di un Merger Minore: Il buco nero associato a AT2024tvd potrebbe provenire dal centro di una galassia nana cannibalizzata. In questo scenario, il buco nero secondario non è ancora spiralizzato verso il centro a causa di un lungo tempo scala associato alla frizione dinamica. Simulazioni cosmologiche (Ricarte et al., 2021b) suggeriscono che nei grandi aloni galattici (con masse fino a 10¹³ M_☉) si possono trovare decine di questi buchi neri vaganti.
Slingshot Gravitazionale da un Sistema Triplo: In questo scenario, il buco nero è stato espulso da interazioni dinamiche tra tre MBH, ricevendo una “spinta” gravitazionale che lo ha collocato nella posizione osservata.
La terza ipotesi, quella di un recoil gravitazionale successivo alla fusione di due MBH, è stata esclusa per l’evidenza della presenza di un MBH ancora attivo nel nucleo galattico.
AT2024tvd: Un Caso Unico tra i TDE Off-Nuclear
Finora, solo due altri eventi TDE off-nuclear sono stati documentati: 3XMM J2150 e EP240222a, entrambi scoperti nei raggi X. A differenza di questi casi, AT2024tvd è stato identificato grazie a survey ottiche e si trova all’interno del bulge della galassia, non nei suoi esterni.
La posizione ravvicinata al centro galattico e la massa stimata del buco nero coinvolto suggeriscono che questo evento rappresenti una popolazione distinta di buchi neri erranti, meno massicci e localizzati più vicino ai centri delle galassie ospiti.
Prospettive Future
La scoperta di AT2024tvd apre nuovi orizzonti nello studio dei buchi neri erranti e nella comprensione delle dinamiche di fusione galattica. Con l’arrivo dell’Osservatorio Vera C. Rubin e la sua Legacy Survey of Space and Time (LSST), dotata di una precisione astrometrica di 10 milliarcosecondi e una profondità fino a r ≈ 24.5 mag, si prevede la scoperta di molti nuovi TDE off-nuclear.
Questi eventi forniranno importanti vincoli sui tassi di fusione dei buchi neri supermassicci e sull’efficienza dei meccanismi di frizione dinamica, contribuendo in modo significativo alla nostra comprensione dell’evoluzione delle galassie e delle loro componenti più enigmatiche.
I pianeti liberi, o free-floating planets (FFPs), rappresentano una delle popolazioni più misteriose di esopianeti nella nostra Galassia. Questi mondi vagano nello spazio interstellare senza essere legati a una stella, rendendoli difficili da osservare. Tuttavia, grazie alla prossima missione della NASA, il Nancy Grace Roman Space Telescope, questa situazione è destinata a cambiare.
Un Censimento dei Mondi Perduti
Secondo lo studio di Scott Perkins, William DeRocco e colleghi, il telescopio Roman, con il suo programma Galactic Bulge Time Domain Survey (GBTDS), potrebbe rilevare centinaia, se non migliaia, di questi oggetti durante i suoi cinque anni di missione. Roman sfrutterà la tecnica del microlensing gravitazionale, l’unica in grado di individuare pianeti che non emettono luce propria.
Le simulazioni indicano che Roman sarà in grado di migliorare le attuali stime sulla quantità di FFP di sei ordini di grandezza per masse inferiori a quella terrestre. Questo significa che i dati raccolti permetteranno per la prima volta di ricostruire la distribuzione delle masse di questi oggetti, fornendo preziose informazioni sulla loro origine.
Come Nascono i Pianeti Erranti?
Le teorie principali suggeriscono due meccanismi di formazione:
Collasso diretto delle nubi di gas, tipico degli oggetti più massicci (oltre 300 masse terrestri).
Espulsione dinamica dai sistemi planetari durante le prime fasi di formazione, un fenomeno che riguarda in particolare i pianeti con massa inferiore a 10 masse terrestri.
Misurare la distribuzione delle masse degli FFP aiuterà a capire quale di questi processi sia prevalente e in quale fase della storia della Galassia si siano verificati.
I Numeri del Censimento Roman
Lo studio, basandosi su diverse ipotesi di distribuzione delle masse, ha stimato il numero di FFP che Roman potrà rilevare:
Massa del pianeta (in masse terrestri)
N. eventi attesi (MOA)
N. eventi attesi (Coleman & DeRocco)
N. eventi attesi (Distribuzione uniforme)
< 0.1
266
1
2
1
1537
6
13
10
1497
22
58
100
526
136
214
1000
87
10
2799
Totale
4184
272
6197
Le differenze fra i modelli evidenziano quanto sia ancora incerta la nostra comprensione di questa popolazione. Il modello MOA prevede una netta predominanza di FFP di massa terrestre, mentre i modelli teorici di Coleman & DeRocco (2025) suggeriscono un picco di eventi attorno a 8 masse terrestri, legato ai meccanismi di migrazione planetaria nei sistemi binari.
Una Sfida Osservativa Senza Precedenti
La tecnica del microlensing pone notevoli difficoltà: i segnali durano poche ore e spesso mancano di informazioni sufficienti per stimare direttamente la massa dei pianeti. Tuttavia, come spiegano gli autori, “l’analisi statistica su vasta scala permetterà comunque di distinguere tra diverse ipotesi sulla distribuzione delle masse con elevata significatività statistica”.
Il team ha sviluppato un innovativo metodo di analisi basato su simulazioni avanzate e tecniche bayesiane, sfruttando anche le risorse del centro di calcolo Advanced Research Computing at Hopkins (ARCH).
Il Futuro della Ricerca sui Mondi Vaganti
Il telescopio Roman rappresenta una vera svolta: per la prima volta sarà possibile studiare i pianeti erranti in modo sistematico e comprendere il loro ruolo nell’evoluzione dei sistemi planetari. Come sottolinea il team, “questi dati permetteranno di aprire una nuova finestra sull’origine di questi mondi solitari e sui processi che governano la formazione planetaria nell’intera Galassia”.
Un recente studio guidato da Alexandra Plesa e colleghi, pubblicato nel 2024, ha finalmente posto nuovi vincoli sulla composizione e lo spessore massimo della crosta di Venere, uno dei pianeti più enigmatici del Sistema Solare. Il lavoro è frutto di una collaborazione tra il German Aerospace Center (DLR), l’Università di Münster, e l’ETH di Zurigo.
Un Pianeta di Fuoco e Mistero
Venere è avvolto da una densa atmosfera (circa 92 bar) che mantiene la sua superficie a temperature estreme, superiori ai 460 °C. Le sue vaste pianure vulcaniche, datate a meno di un miliardo di anni, e i segnali di attività vulcanica in corso, sollevano interrogativi cruciali sulla struttura della sua crosta e sulle dinamiche interne.
Quanto può Crescere la Crosta di Venere?
Utilizzando modelli petrologici basati su transizioni metamorfiche e condizioni di fusione parziale, il team ha stimato che lo spessore massimo della crosta di Venere è fortemente legato al gradiente termico:
Con un basso gradiente termico di 5 °C/km (tipico di un regime tettonico stagnante), la crosta può raggiungere al massimo 40 km di spessore prima che l’elevata densità inneschi un processo di delaminazione, ovvero il distacco e l’affondamento degli strati più profondi nel mantello.
Con un alto gradiente termico di 25 °C/km (associato a un regime tettonico più mobile), lo spessore massimo scende a circa 20 km a causa dell’avvio della fusione parziale che favorisce l’attività vulcanica.
Il valore massimo assoluto di spessore per una crosta basaltica si raggiunge con un gradiente intermedio di 10 °C/km, arrivando fino a 65 km.
Secondo gli autori, “la crosta basaltica venusiana non può superare uno spessore compreso tra 20 e 65 km senza innescare processi di delaminazione o fusione, con conseguente riciclo crostale o eruzioni vulcaniche”.
Un Pianeta in Equilibrio Instabile
Le simulazioni mostrano che le variazioni nella composizione della crosta e nella quantità di volatili (acqua e CO₂) giocano un ruolo marginale, poiché l’attuale litosfera venusiana è considerata prevalentemente secca. Le transizioni mineralogiche verso assemblaggi più densi (dominati da granato e pirosseni) causano un rapido aumento della densità con la profondità, limitando la possibilità di sostenere croste più spesse.
Il team ha anche confrontato le proprie stime con i dati di missioni storiche come Venera e Vega, che indicano la presenza di basalti tholeiitici e alcalini sulla superficie. Tuttavia, non sono state rilevate prove definitive di rocce più leggere e ricche di silice (simili ai graniti terrestri), che potrebbero giustificare spessori maggiori in alcune aree.
Cosa Significa per la Tectonica di Venere?
Questo studio fornisce forti indizi sul fatto che Venere non sia mai stato dominato da una tettonica a placche simile a quella terrestre, ma piuttosto da cicli intermittenti di attività geologica intensificata, con lunghi periodi di quiete. I risultati sono compatibili con un regime definito come episodic-lid, dove la litosfera passa ciclicamente da fasi stabili a eventi catastrofici di riciclo crostale.
Prospettive Future
Le missioni di prossima generazione, come NASA VERITAS e ESA EnVision, forniranno nuovi dati geofisici e spettroscopici per testare le previsioni di questo modello. Come sottolineano gli autori, “comprendere la storia termica e geodinamica di Venere è essenziale per svelare le condizioni che distinguono un pianeta vulcanicamente attivo da uno potenzialmente abitabile come la Terra”.
Nei giorni 9 – 10 – 11 maggio, sotto il cielo stellato partenopeo, gli appassionati di astronomia si riuniranno come costellazioni in un firmamento di sapere e passione per il 58º Congresso Nazionale dell’Unione Astrofili Italiani (UAI).
Questo evento di rara bellezza è un faro splendente per la comunità astronomica, un’occasione per abbracciarsi, condividere esperienze celestiali, e intrecciare nuove idee come fili d’oro nel tessuto dell’universo. Il congresso avrà luogo presso l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte a Napoli, un tempio di scienza e meraviglia sotto il manto azzurro del cielo partenopeo.
La scelta di questa cornice prestigiosa è un tributo alla grandezza dell’evento e offre l’opportunità di attingere alle fonti di sapere di una delle istituzioni scientifiche più illustri d’Italia. L’evento si arricchirà della collaborazione dell’Unione Astrofili Napoletani (UAN), una delle gemme tra le delegazioni dell’UAI. Il loro contributo sarà il vento sotto le ali di questo incontro, grazie alla loro esperienza e alla loro intima conoscenza del territorio. La collaborazione tra l’Unione Astrofili Napoletani e l’Unione Astrofili Italiani è un esempio di come le organizzazioni locali e nazionali possano lavorare insieme per raggiungere obiettivi comuni, promuovendo la cultura scientifica e l’amore per l’astronomia in tutta Italia.
Il Congresso Nazionale dell’UAI si conferma, anche in questa edizione, come un appuntamento irrinunciabile per chi sogna di contribuire all’evoluzione dell’astronomia in Italia. Non mancare a questo viaggio tra le stelle!
A due anni dal primo ritrovo fisico del Team ShaRA, la storia si ripete! Il prolifico ed attivissimo gruppo di astrofotografi remoti capitanati dall’astrofilo Alessandro Ravagnin, si ritroverà ai piedi del grande telescopio nazionale Galileo, dell’Osservatorio Astrofisico di Asiago, per il secondo meeting in presenza. Sarà un’occasione per incontrarsi dal vivo e ripercorrere tutti assieme la strada percorsa finora, confrontandosi su temi di interesse comune e parlando coi professionisti dell’astronomia.
Il programma prevede una visita guidata all’Osservatorio, un workshop dove interverranno Luca Fornaciari, Molisella Lattanzi e Stefano Ciroi (Professore Associato presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia “Galileo Galilei” dell’Università di Padova), la cena a base di prodotti locali dell’Altopiano e quindi una chiusura in bellezza sotto la cupola del Galileo per una sessione di riprese spettroscopiche.
Sarà una bellissima occasione per darsi nuovamente la mano nonché conoscere i nuovi entrati nel gruppo!
Situato a circa 186 parsec di distanza nella costellazione del Drago, il sistema planetario Kepler-10 orbita attorno a una stella vecchia di oltre 10 miliardi di anni. Grazie a un’osservazione paziente durata 11 anni e condotta principalmente con lo spettrografo HARPS-N montato sul Telescopio Nazionale Galileo, un team internazionale ha potuto ottenere nuove misure di massa e densità per i pianeti noti del sistema, e ha identificato un nuovo candidato non in transito, Kepler-10d. I risultati arricchiscono la nostra comprensione della formazione ed evoluzione dei piccoli pianeti intorno alle stelle di tipo solare.
Un pianeta roccioso e un potenziale mondo d’acqua
Kepler-10b, il pianeta più interno, completa un’orbita in meno di un giorno terrestre. Con un raggio di 1,47 raggi terrestri e una massa di 3,24 ± 0,32 masse terrestri, si conferma come una super-Terra rocciosa, simile per densità alla Terra, ma priva di un grande nucleo ferroso. Il suo ambiente è estremamente ostile: l’equilibrio termico di superficie supera i 2000 K, rendendo improbabile la presenza di atmosfera.
Kepler-10c, invece, ha attirato particolare attenzione: con un raggio di 2,35 raggi terrestri e una massa di 11,29 ± 1,24 masse terrestri, presenta una densità di 4,75 g/cm³. Questa combinazione di massa e volume non si adatta a un pianeta roccioso puro né a un gigante gassoso, ma suggerisce la presenza di una quantità significativa di acqua o ghiaccio. Kepler-10c potrebbe quindi rappresentare uno dei rari “mondi d’acqua” identificati fino a oggi, con una percentuale d’acqua stimata tra il 40% e il 70% della sua massa.
La posizione orbitale di Kepler-10c, ben al di fuori dalla “valle dei raggi” che separa i pianeti rocciosi da quelli dominati da volatili, rafforza l’ipotesi di una formazione oltre la linea del ghiaccio, con successiva migrazione verso l’interno del sistema.
Un nuovo pianeta: Kepler-10d
Oltre ai due pianeti già noti, i ricercatori hanno individuato prove convincenti della presenza di un terzo corpo, Kepler-10d, grazie a un’analisi combinata delle variazioni nei tempi di transito di Kepler-10c (Transit Timing Variations, TTVs) e delle velocità radiali. Questo nuovo pianeta avrebbe una massa minima di 12,00 ± 2,15 masse terrestri e un periodo orbitale di circa 151 giorni.
Anche se Kepler-10d non è stato osservato in transito, la sua massa suggerisce che potrebbe essere simile a Kepler-10c, forse anch’esso ricco d’acqua o dotato di un’atmosfera più densa. L’assenza di un transito è compatibile con una piccola inclinazione orbitale differente rispetto a quella degli altri pianeti, sufficiente a evitare l’allineamento con il nostro punto di osservazione.
Un sistema senza giganti
Un altro aspetto fondamentale dello studio è l’assenza di pianeti giganti nel sistema. L’analisi della sensibilità delle osservazioni ha escluso la presenza di pianeti simili a Giove entro 10 unità astronomiche dalla stella madre. Questa caratteristica è significativa: l’assenza di giganti gassosi suggerisce che i pianeti più piccoli di Kepler-10 abbiano potuto migrare verso le loro orbite attuali senza essere disturbati da masse gravitazionali maggiori, un comportamento coerente con diversi modelli di formazione planetaria.
Un risultato di alta precisione
Gli autori hanno utilizzato diverse tecniche di analisi statistica avanzata, tra cui:
Analisi delle velocità radiali con diversi modelli di rumore;
Modellizzazione con algoritmi MCMC e Nested Sampling;
Analisi combinata delle TTVs e delle RVs con il codice dinamico TRADES.
Queste metodologie hanno permesso di raggiungere una precisione del 9-10% nella determinazione delle masse planetarie, un risultato raro per pianeti di così piccole dimensioni e periodi orbitali relativamente lunghi.
Implicazioni future
Questo studio non solo migliora la nostra comprensione di Kepler-10, ma dimostra anche l’importanza delle campagne di osservazione a lungo termine per caratterizzare mondi di dimensioni terrestri attorno a stelle simili al Sole. In particolare, sistemi come Kepler-10 rappresentano obiettivi ideali per missioni future come PLATO dell’ESA, che si concentrerà sulla ricerca di pianeti abitabili intorno a stelle solari.
La presenza di un possibile mondo d’acqua nel sistema Kepler-10, a basse temperature rispetto a molti sub-Netuniani noti, fornisce un importante laboratorio naturale per lo studio della diversità planetaria e dei processi di formazione planetaria in ambienti relativamente tranquilli e stabili.
Questa immagine composita, ottenuta dai dati raccolti nel 2017 dallo strumento JIRAM a bordo della sonda Juno della NASA, mostra il ciclone centrale situato al polo nord di Giove, circondato da otto cicloni più piccoli. I dati della missione indicano che queste tempeste sono strutture persistenti.
Crediti: Dati immagine: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS – Elaborazione immagine: Jackie Branc (CC BY)
Nuovi dati raccolti dalla missione Juno della NASA offrono uno sguardo più approfondito sui venti impetuosi e sui cicloni che imperversano nelle regioni settentrionali di Giove, oltre a rivelare dettagli inediti sull’attività vulcanica della sua luna infuocata, Io.
“Tutto su Giove è estremo. Il pianeta ospita cicloni polari giganti più grandi dell’Australia, correnti a getto violente, il corpo più vulcanico del nostro sistema solare, le aurore più potenti e le cinture di radiazioni più intense,” ha dichiarato Scott Bolton, principal investigator di Juno presso il Southwest Research Institute a San Antonio. “Man mano che l’orbita di Juno ci porta in nuove regioni del complesso sistema di Giove, otteniamo una visione sempre più ravvicinata dell’immensa energia che questo gigante gassoso sprigiona.“
Il “radiatore” lunare
Sebbene il radiometro a microonde (MWR) di Juno sia stato progettato per esplorare sotto le nuvole di Giove, il team ha utilizzato anche questo strumento per osservare Io, integrando i dati con quelli del Jovian Infrared Auroral Mapper (JIRAM), fornito dall’Agenzia Spaziale Italiana.
“Il team scientifico di Juno ama combinare set di dati molto diversi tra loro e vedere cosa possiamo scoprire,” ha spiegato Shannon Brown, scienziata di Juno al Jet Propulsion Laboratory della NASA in California. “Quando abbiamo combinato i dati MWR con le immagini infrarosse di JIRAM, siamo rimasti sorpresi da ciò che abbiamo visto: prove di magma ancora caldo, non ancora solidificato, sotto la crosta raffreddata di Io. A ogni latitudine e longitudine, c’erano flussi di lava in fase di raffreddamento.“
I dati indicano che circa il 10% della superficie di Io è caratterizzato da questi residui di lava in lento raffreddamento sotto la superficie, offrendo nuovi spunti su come la luna rinnovi rapidamente la sua superficie e su come il calore si muova dal suo interno profondo verso l’esterno.
“I vulcani, i campi di lava e i flussi sotterranei di Io funzionano come un radiatore d’auto,” ha aggiunto Brown, “trasportando efficacemente il calore dall’interno alla superficie e raffreddandosi poi nello spazio.“
Inoltre, analizzando solo i dati JIRAM, il team ha stabilito che la più energetica eruzione vulcanica della storia di Io, osservata durante il sorvolo del 27 dicembre 2024, risultava ancora attiva fino al 2 marzo 2025. Si prevede che l’attività continui, con ulteriori osservazioni programmate per il 6 maggio, quando Juno sorvolerà Io a una distanza di circa 89.000 chilometri.
Questa immagine composita, ottenuta dai dati raccolti nel 2017 dallo strumento JIRAM a bordo della sonda Juno della NASA, mostra il ciclone centrale al polo nord di Giove e gli otto cicloni che lo circondano. I dati della missione indicano che queste tempeste sono strutture persistenti. Crediti: NASA/JPL-Caltech/SwRI/ASI/INAF/JIRAM
Temperature polari estreme
Durante il suo 53° orbitale (18 febbraio 2023), Juno ha avviato esperimenti di occultazione radio per analizzare la struttura termica dell’atmosfera di Giove. Utilizzando segnali radio trasmessi dalla Terra verso la sonda e viceversa, attraversando l’atmosfera gioviana, gli scienziati riescono a misurare dettagliatamente la temperatura e la densità.
Finora, Juno ha completato 26 rilevazioni di occultazione radio, rivelando per la prima volta che la calotta stratosferica del polo nord di Giove è circa 11°C più fredda rispetto alle aree circostanti, ed è circondata da venti che superano i 160 km/h.
Cicloni polari in movimento
Anni di osservazioni grazie alla fotocamera visibile JunoCam e a JIRAM hanno permesso agli scienziati di seguire i movimenti a lungo termine del gigantesco ciclone polare nord e degli otto cicloni che lo circondano. A differenza degli uragani terrestri, confinati a latitudini più basse, i cicloni di Giove restano intrappolati nelle regioni polari.
Monitorando i loro movimenti, i ricercatori hanno osservato che ogni ciclone tende a spostarsi lentamente verso il polo attraverso un processo chiamato “beta drift”, che coinvolge l’interazione tra la forza di Coriolis e il pattern circolare dei venti.
“Queste forze concorrenti fanno sì che i cicloni rimbalzino l’uno contro l’altro in un modo che ricorda le molle in un sistema meccanico,” ha spiegato Yohai Kaspi, co-investigatore della missione presso il Weizmann Institute of Science in Israele. “Questa interazione non solo stabilizza l’intera configurazione, ma causa anche oscillazioni cicliche attorno alle loro posizioni centrali, mentre lentamente derivano in senso orario attorno al polo.“
Il nuovo modello atmosferico sviluppato aiuterà non solo a comprendere meglio i cicloni di Giove, ma potenzialmente anche quelli su altri pianeti, inclusa la Terra.
“Una delle grandi qualità di Juno è che la sua orbita è sempre in evoluzione, permettendoci ogni volta un nuovo punto di vista,” ha concluso Bolton. “Nella missione estesa, significa che stiamo esplorando regioni mai raggiunte da altre sonde, attraversando anche le cinture di radiazione più intense del sistema solare. È un po’ spaventoso, ma abbiamo costruito Juno come un carro armato e impariamo di più su questo ambiente estremo a ogni passaggio.“
Un guanto spaziale progettato per le passeggiate spaziali sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) è pronto per essere testato all'interno di una camera chiamata CITADEL, presso il Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA. I test, condotti a temperature estremamente fredde simili a quelle che gli astronauti della missione Artemis III incontreranno al Polo Sud Lunare, supportano lo sviluppo delle tute spaziali di nuova generazione. Credito: NASA/JPL-Caltech.
Preparazione per le Missioni Luna e Marte
Quando gli astronauti della NASA torneranno sulla Luna sotto la campagna Artemis e si spingeranno oltre nel sistema solare, affronteranno condizioni mai sperimentate prima dagli esseri umani. Per garantire che le tute spaziali di nuova generazione proteggano adeguatamente gli astronauti, sono necessari test innovativi. Una camera unica nel suo genere, chiamata CITADEL (Cryogenic Ice Testing, Acquisition Development, and Excavation Laboratory), presso il Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA in California, è diventata un punto di riferimento per questi esperimenti.
Costruita per preparare i potenziali esploratori robotici alle condizioni di basse temperature e bassa pressione degli oceani ghiacciati di mondi come Europa, una delle lune di Giove, la CITADEL è anche utilizzata per valutare come i guanti e gli stivali delle tute spaziali resistano al freddo estremo. Il test dei guanti, promosso dal NASA Engineering and Safety Center, si è svolto dal ottobre 2023 al marzo 2024, mentre il test degli stivali, iniziato dal programma Extravehicular Activity e Human Surface Mobility del Johnson Space Center della NASA a Houston, ha avuto luogo tra ottobre 2024 e gennaio 2025.
Un altro aspetto cruciale per la missione Artemis III è l’esplorazione del Polo Sud Lunare, una regione con condizioni ben più estreme rispetto ai siti equatoriali visitati dalle missioni Apollo. Gli astronauti trascorreranno fino a due ore alla volta all’interno di crateri che potrebbero contenere depositi di ghiaccio, fondamentali per garantire una presenza umana a lungo termine sulla Luna. Queste regioni, chiamate “zone permanentemente in ombra”, sono tra i luoghi più freddi del sistema solare, con temperature che raggiungono i -248°C.
Due ingegneri esaminano un guanto spaziale bianco all’interno di una camera a vuoto etichettata “CITADEL”, in un laboratorio pieno di attrezzature, cavi e pannelli di controllo. Un ingegnere è seduto, regolando il guanto, mentre l’altro osserva da vicino.
Simulazione del Freddo Estremo
La camera CITADEL è progettata per simulare temperature estremamente basse. Utilizzando elio compresso, la camera può raggiungere temperature fino a -223°C, più basse rispetto a quelle delle strutture criogeniche tradizionali che si basano principalmente sull’azoto liquido. Con un’altezza di 1,2 metri e un diametro di 1,5 metri, la camera è abbastanza grande da permettere a una persona di entrarvi.
Uno degli aspetti innovativi della CITADEL sono le “lock chambers”, che consentono di inserire i materiali da testare nel vuoto della camera senza interrompere lo stato criogenico. Questo sistema ha permesso agli ingegneri di fare aggiustamenti rapidi durante i test degli stivali e dei guanti.
Al suo interno, sono presenti anche “Cryocoolers” che raffreddano la camera, e blocchi di alluminio che simulano gli attrezzi che gli astronauti potrebbero afferrare, o la superficie lunare fredda su cui camminerebbero. Inoltre, la camera è dotata di un braccio robotico per interagire con i materiali da testare e di diverse telecamere a luce visibile e infrarossa per monitorare le operazioni.
Uno stivale spaziale per astronauti, parte di un prototipo di tuta lunare della NASA, l’xEMU, è preparato per i test nella CITADEL del JPL. Una spessa lastra di alluminio simula la superficie gelida del Polo Sud Lunare, dove gli astronauti della missione Artemis III affronteranno condizioni più estreme di quelle che gli esseri umani hanno mai sperimentato. Credito: NASA/JPL-Caltech.
Test degli Estremi
Un ingegnere raccoglie campioni simulati di suolo lunare mentre indossa la tuta spaziale Axiom Extravehicular Mobility Unit durante i test al NASA Johnson Space Center alla fine del 2023. I recenti test sui design esistenti delle tute spaziali NASA nella camera CITADEL del JPL supporteranno lo sviluppo delle tute di nuova generazione in costruzione da Axiom Space. Credito: Axiom Space.
I guanti testati nella CITADEL sono la sesta versione di un guanto utilizzato dalla NASA sin dagli anni ’80, parte di una tuta spaziale chiamata “Extravehicular Mobility Unit”. Ottimizzata per le passeggiate spaziali alla ISS, questa tuta è così complessa da essere considerata una sorta di “astronave personale”. I test nella CITADEL a -213°C hanno mostrato che il guanto esistente non soddisfa i requisiti termici necessari per affrontare l’ambiente più impegnativo del Polo Sud Lunare. I risultati del test sugli stivali, che utilizzavano un prototipo di tuta spaziale chiamato “Exploration Extravehicular Mobility Unit”, non sono ancora stati completamente analizzati.
Oltre a individuare le vulnerabilità nelle tute esistenti, gli esperimenti condotti nella CITADEL aiuteranno la NASA a preparare i criteri per metodi di test standardizzati, ripetibili ed economici per la tuta lunare di nuova generazione, costruita dalla Axiom Space. Questo sarà il modello che gli astronauti della NASA indosseranno durante la missione Artemis III.
Sostenibilità a Lungo Periodo
“Questo test serve per identificare quali sono i limiti: per quanto tempo un guanto o uno stivale possono resistere nell’ambiente lunare?” afferma Shane McFarland, responsabile dello sviluppo tecnologico del team Advanced Suit presso la NASA Johnson. “Vogliamo quantificare il divario nelle capacità dell’attuale hardware per fornire queste informazioni al fornitore della tuta per Artemis e, allo stesso tempo, sviluppare questa capacità unica di testare i futuri design delle tute spaziali.“
I test realizzati con l’ausilio della CITADEL, quindi, non solo forniscono dati cruciali per il miglioramento delle tute spaziali, ma permetteranno di garantire la sicurezza degli astronauti nelle missioni future, affrontando ambienti estremi come quelli che li attendono sulla Luna e, un giorno, su Marte.
Analogamente al mese appena trascorso, Maggio si apre con la fase di Primo Quarto che alle ore 15:52 del giorno 4 vedrà il ritorno del nostro satellite nelle migliori condizioni osservative rendendosi ormai visibile nelle più comode ore serali, anche se con l’avanzare della primavera il Sole ritarda sempre più il suo tramonto. Basterà attendere qualche ora e dalle ore 21:00 circa con la Luna ad un’altezza sull’orizzonte intorno ai 60° sarà possibile andare alla ricerca di una immensa varietà di dettagli con crateri di qualsiasi dimensione, scarpate, solchi e vastissimi altipiani alternati ad estese aree solo apparentemente pianeggianti dove, osservando anche ad elevati ingrandimenti, ci si renderà conto che sulla Luna il termine “pianeggiante” assume un significato estremamente relativo. Nella serata ad attirare l’attenzione saranno i monti Caucasus fra i mari Serenitatis e Imbrium unitamente alla parte più settentrionale degli Appennini, i lunghi solchi noti come Hyginus e Ariadaeus e le imponenti e spettacolari strutture crateriformi del settore S-SE dell’altopiano meridionale. Tutte queste, ma oltre a tante altre, verranno a trovarsi in prossimità della linea del terminatore con la concreta possibilità di osservazioni in alta risoluzione in caso di seeing stabile. Infine per completare la serata segnalo che la zona di massima librazione si troverà ad est del grande cratere Humboldt, alla medesima latitudine del vicino Petavius.
Monti lunari Caucasus, visibili in maggio durante il primo quarto.
Solchi Rimae Hyginus e Ariadaeus visibili durante il primo quarto nella mese di maggio.
Giunta la fase crescente al suo capolinea alle ore 18:56 del 12 Maggio col nostro satellite in Plenilunio alla distanza di 407923 km dalla Terra, diametro apparente 29,29’ ma a -16° sotto l’orizzonte, sarà sufficiente attendere le ore 20:35 della medesima serata quando sorgerà in fase di 15 giorni in tutto il suo splendore e pronto a farsi ammirare dagli appassionati con i loro binocoli e/o telescopi fino all’alba del mattino seguente quando scenderà sotto l’orizzonte contestualmente al sorgere del Sole.
Ripartita la fase calante, la Luna traslerà la propria presenza nel cielo progressivamente di sera in sera dalle comode ore tardo pomeridiane e serali fino alle più lontane ore della notte, portandosi di sera in sera prima in Ultimo Quarto alle ore 13:59 del 20 Maggio, successivamente fino al Novilunio delle ore 05:02 del 27 Maggio quando ci apparirà nuovamente in ombra. A proposito di Ultimo Quarto, alle ore 02:09 del 20 Maggio la Luna sorgerà in fase di 22 giorni. Nel caso specifico, anche se mancheranno circa 12 ore all’Ultimo Quarto, potrebbe risultare molto interessante ed anche stimolante l’osservazione al telescopio di strutture quali i crateri Eratosthenes, Copernicus, Kepler e, più a nordovest, lo spettacolare altopiano noto come Aristarchus Plateau. Ripartita dal Novilunio del 27 Maggio la fase crescente, contestualmente ad un ulteriore nuovo ciclo lunare, il mese in corso andrà a terminare con la Luna che intorno alle ore 21:30 del 31 Maggio sarà in fase di 4,7 giorni ad un’altezza di +36°, con alcune ore a disposizione prima che scenda sotto l’orizzonte poco dopo la mezzanotte.
Struttura lunare Aristarchus Plateau ben visibile nel mese di maggio durante l’ultimo quarto.
Congiunzioni e Occultazioni Notevoli
La seconda parte dell’articolo di Francesco Badalotti, dedicato alla Luna di Maggio, con la descrizione delle Congiunzioni e Occultazioni notevoli, le Falci Lunari, e la tabella delle effemeridi è disponibile per i lettori abbonati alla versione digitale o al cartaceo.
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La Luna del Mese di mAGGIO è pubblicata in Coelum 273
Alcune delle caratteristiche interessanti scoperte nell'ombra celeste conosciuta come la nube molecolare Circinus West. Questa immagine è stata catturata con la Dark Energy Camera (DECam) da 570 megapixel, realizzata dal Dipartimento dell'Energia, una delle fotocamere digitali più potenti al mondo. All'interno dei confini opachi di questa culla stellare, le stelle neonate si accendono dal gas e dalla polvere freddi e densi, mentre i getti espellono il materiale residuo nello spazio.Credito: CTIO/NOIRLab/DOE/NSF/AURA Elaborazione dell'immagine: T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/NSF NOIRLab), D. de Martin & M. Kosari (NSF NOIRLab).
La nube molecolare Circinus West, una zona oscura celeste recentemente catturata dalla potente Dark Energy Camera (DECam), rappresenta uno degli obiettivi più interessanti per gli astronomi impegnati a esplorare i misteri della formazione stellare. Situata a circa 2.500 anni luce dalla Terra, nella costellazione del Circinus (Compasso), questa culla stellare offre uno sguardo affascinante sulla nascita e l’evoluzione delle stelle, avvolte in dense nubi di gas e polveri interstellari.
Un’ombra celeste conosciuta come la nube molecolare Circinus West attraversa questa immagine, catturata con la Dark Energy Camera (DECam) da 570 megapixel, realizzata dal Dipartimento dell’Energia, una delle fotocamere digitali più potenti al mondo. All’interno di questa culla stellare, stelle neonate si accendono da gas e polvere freddi e densi, mentre i getti espellono il materiale residuo nello spazio. Credito: CTIO/NOIRLab/DOE/NSF/AURA Elaborazione dell’immagine: T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/NSF NOIRLab), D. de Martin & M. Kosari (NSF NOIRLab)
Il Ruolo delle Nebulose Oscure nella Formazione delle Stelle
Le nubi molecolari, come Circinus West, sono ambienti cruciali per la formazione delle stelle. Queste nubi, caratterizzate da temperature estremamente basse e densità elevatissime, creano un ambiente ideale per la formazione di molecole, poiché gli atomi all’interno di esse si legano per formare composti più complessi. A causa della loro densità, queste nubi sono opache alla luce, il che conferisce loro un aspetto scuro e maculato, da cui il nome nebulose oscure. Sono proprio queste aree che offrono importanti informazioni sui processi alla base della nascita delle stelle e sull’evoluzione delle nubi molecolari.
Circinus West, una parte della più grande nube molecolare Circinus, si estende su 180 anni luce e possiede una massa pari a 250.000 volte quella del nostro Sole. Nonostante la densità del gas e della polvere che oscurano gran parte della regione, gli astronomi sono riusciti a rilevare la formazione di nuove stelle al suo interno. L’immagine catturata dalla DECam, montata sul telescopio Víctor M. Blanco da 4 metri della National Science Foundation, presso l’Osservatorio Interamericano Cerro Tololo in Cile, mostra una forma scura e tortuosa, ricca di gas e polveri, con diverse stelle neonate sparse nella sua vastità.
La Nascita delle Stelle e i Loro Getti Molecolari
In Circinus West, le stelle appena formate emergono dalla nube oscura, la loro presenza segnalata da esplosioni di luce che penetrano attraverso il materiale che le circonda. Queste emissioni provengono da stelle in formazione attiva, e le cavità attorno a esse sono create da potenti getti di gas—i cosiddetti getti molecolari—che vengono espulsi dalle protostelle mentre si formano. Questi getti, oltre ad essere più facili da osservare rispetto alle stelle stesse, forniscono strumenti molto utili per lo studio dei processi di formazione stellare.
L’immagine DECam mostra numerosi segni di questi getti, inclusi punti luminosi dove le stelle stanno espellendo materiale nello spazio. Una delle aree più significative, la regione Cir-MMS, presenta una forma che ricorda una mano con lunghe dita ombrose, dove la radiazione intensa delle stelle neonate sta creando cavità all’interno della nube oscura. Questi getti molecolari forniscono informazioni fondamentali sui meccanismi che regolano la formazione delle stelle e sull’impatto che le stelle giovani esercitano sull’ambiente circostante.
Un primo piano di due oggetti Herbig-Haro (HH) trovati nella nube molecolare Circinus West: HH 76 (al centro in alto dell’immagine) e HH 77 (in basso a sinistra). Gli oggetti HH sono macchie rosse luminose di nebulosità che si trovano comunemente vicino a stelle neonate. Si formano quando il gas ad alta velocità espulso dalle stelle collide con il gas a bassa velocità presente nella nube molecolare circostante o nel mezzo interstellare. Questa immagine è stata catturata con la Dark Energy Camera (DECam) da 570 megapixel, realizzata dal Dipartimento dell’Energia, una delle fotocamere digitali più potenti al mondo, montata sul telescopio Víctor M. Blanco da 4 metri della National Science Foundation presso l’Osservatorio Interamericano Cerro Tololo in Cile, un programma del NSF NOIRLab. Credito: CTIO/NOIRLab/DOE/NSF/AURA Elaborazione dell’immagine: T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/NSF NOIRLab), D. de Martin & M. Kosari (NSF NOIRLab)Una nebulosa planetaria trovata nella nube molecolare Circinus West. Le nebulose planetarie sono gli strati esterni delle stelle giganti rosse in fase di invecchiamento, espulsi nello spazio al termine della vita di una stella. Questa immagine è stata catturata con la Dark Energy Camera (DECam) da 570 megapixel, realizzata dal Dipartimento dell’Energia, una delle fotocamere digitali più potenti al mondo, montata sul telescopio Víctor M. Blanco da 4 metri della National Science Foundation presso l’Osservatorio Interamericano Cerro Tololo in Cile, un programma del NSF NOIRLab. Credito: CTIO/NOIRLab/DOE/NSF/AURA Elaborazione dell’immagine: T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/NSF NOIRLab), D. de Martin & M. Kosari (NSF NOIRLab)
Oggetti Herbig-Haro: Un Indicatore della Nascita Stellare
Oltre ai getti, un altro segno distintivo della formazione stellare in Circinus West è la presenza di oggetti Herbig-Haro (HH). Questi oggetti appaiono come macchie rosse e luminose di gas, che si formano quando il gas ad alta velocità espulso dalle stelle collide con il gas a bassa velocità presente nella nube molecolare circostante. L’immagine DECam rivela numerosi oggetti HH sparsi per Circinus West, tra cui tre recentemente scoperti vicino alla regione Cir-MMS.
Gli oggetti HH offrono agli astronomi una comprensione più dettagliata di come le stelle interagiscano con il loro ambiente. Non solo rivelano le prime fasi della nascita stellare, ma permettono anche di studiare i meccanismi che guidano l’evoluzione delle nubi molecolari e delle galassie. Analizzando questi oggetti e i relativi getti, gli scienziati possono raccogliere informazioni vitali sui processi che regolano la formazione delle stelle e su come tali meccanismi potrebbero aver influenzato la nascita del nostro Sistema Solare.
La Cina ha inviato giovedì un nuovo equipaggio di astronauti verso la sua stazione spaziale, segnando un altro audace passo nel suo impegno incessante per diventare una potenza spaziale globale. Crediti: AFP
Il 24 aprile 2025, la Cina ha lanciato con successo la missione Shenzhou-20, un passo decisivo nel suo ambizioso programma spaziale. Il razzo è decollato dal Centro di Lancio Satellitare di Jiuquan, nel deserto del Gobi, alle 17:17 ora locale, segnando un’altra tappa fondamentale nel cammino del Paese verso il rafforzamento della sua presenza nello spazio.
La missione Shenzhou-20 è parte di una visione più ampia voluta dal presidente Xi Jinping, che ha definito l’esplorazione spaziale come una componente essenziale per il “sogno spaziale del popolo cinese“. Con investimenti che ammontano a miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, il programma spaziale cinese ha fatto enormi progressi, dal landing di rover sulla Luna e su Marte alla costruzione della propria stazione spaziale orbitante, Tiangong, che significa “Palazzo Celeste”.
La missione è guidata da Chen Dong, astronauta esperto e ex pilota di caccia, che sarà affiancato da Chen Zhongrui e Wang Jie, entrambi al loro primo volo nello spazio. I tre astronauti trascorreranno sei mesi a bordo della stazione spaziale Tiangong, impegnandosi in esperimenti scientifici e attività di manutenzione, tra cui passeggiate spaziali e l’installazione di schermature contro i detriti spaziali. Un’importante novità sarà l’introduzione dei planari, vermi acquatici noti per le loro straordinarie capacità rigenerative, nell’ambiente a microgravità.
La Cina, che ora ha la terza capacità al mondo di inviare esseri umani in orbita, dopo Stati Uniti e Russia, sta accelerando i suoi progetti spaziali. La stazione Tiangong è al centro della strategia spaziale cinese e, con la fine dell’era della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), si propone come un’alternativa autonoma e sovrana in orbita terrestre bassa.
Non solo un traguardo scientifico, la missione rappresenta anche un’occasione per la Cina di espandere la sua influenza diplomatica. A febbraio 2025, infatti, la Cina ha siglato un accordo con il Pakistan per l’inserimento di astronauti pakistani nella sua stazione spaziale.
La missione Shenzhou-20 non è un caso isolato. La Cina ha già in programma una missione lunare con equipaggio entro la fine di questo decennio, con l’obiettivo di costruire una base permanente sulla Luna, in collaborazione con la Russia, segnando un ulteriore passo nella sua ascesa come potenza spaziale globale.
Secondo Lin Xiqiang, direttore della CMSA (China Manned Space Agency), “Ogni lancio è un passo più vicino alle stelle e una testimonianza di ciò che la nostra nazione può raggiungere quando è unita in uno scopo comune.“
La missione Shenzhou-20 rappresenta non solo un obiettivo scientifico, ma anche un messaggio di determinazione e indipendenza tecnologica della Cina, che si prepara a scrivere un nuovo capitolo nell’esplorazione spaziale.
L’inaugurazione ufficiale, domenica 20 aprile, della sede dell’Agenzia Spaziale Africana (AfSA) a Il Cairo e lo svolgersi della Newspace Africa Conference (21-24 aprile 2025) offrono l’occasione per ricordare il contributo di uomini geniali che hanno saputo costruire una storica cooperazione in campo spaziale tra il nostro Paese e l’Africa. Negli anni Sessanta il Professor Luigi Broglio, considerato padre dell’astronautica italiana, ideò e realizzò il progetto San Marco, con cui l’Italia diventava la terza nazione al mondo, dopo URSS ed USA, a lanciare un satellite nello spazio. Grazie alle intuizioni del suo allievo e braccio destro professor Carlo Buongiorno, coordinatore del progetto, poi primo direttore generale dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ed al supporto lungimirante di Enrico Mattei allora Presidente dell’ENI, fu possibile realizzare la Base di lancio al largo delle coste di Malindi, in Kenya. Oggi il Broglio Space Center è una base operativa dell’ASI, simbolo di una “collaborazione basata su scienza, innovazione, diplomazia”, ricordata dal Direttore Generale dell’ASI Vincenzo Maria Salamone, presente all’inaugurazione dell’AfSA.
Ma come nacque il Broglio Space Center?
Luigi Broglio e Enrico Mattei ebbero occasione di incontrarsi all’inaugurazione della piattaforma Perro Negro il 24 agosto 1961, a Massa Marittima. Broglio chiese a Mattei la possibilità di disporre di una piattaforma petrolifera per realizzare una base di lancio per il suo progetto San Marco. Per la verità chiese proprio quella inaugurata, la Perro Negro, e Mattei tra il sorpreso e il divertito – come ricorda Giorgio Di Bernardo Nicolai nel suo libro dedicato a Broglio intitolato “Nella nebbia in attesa del sole” – gli aveva risposto che loro le piattaforme le costruivano per venderle e non per regalarle. Tuttavia nei giorni successivi diede disposizione di destinare al progetto, che godeva di limitate risorse finanziarie, la piattaforma Scarabeo, allora dislocata nel Mar Rosso, rendendo di fatto possibile la sua realizzazione. In seguito Broglio sollecitò la disponibilità della Scarabeo per avere la certezza di riuscire ad effettuare il successivo trasferimento in condizioni climatiche favorevoli.
Scatto della lettera inviata da Luigi Broglio a Enrico Mattei per la concessione dell’utilizzo della base Santa Rita.
Qui si inserisce una lettera storica che LuigiBroglio scrisse a Mattei per ottenere la disponibilità della Scarabeo, in seguito Santa Rita,patrona delle imprese impossibili, e indicando come sarebbe dovuta apparire la realizzazione di un poligono di lancio equatoriale con materiale di recupero. Fu adattata a base di lancio nei Cantieri Navali di Taranto, da dove partì il 20 dicembre 1963. Fu trasportata per oltre 8.000 Km, in condizioni di mare molto avverse, verso l’Oceano Indiano per essere poi posizionata al largo delle coste di Malindi.
La testimonianza del professor Mario Marchetti, ingegnere aerospaziale allievo di Broglio, che incontrai a Roma il 2 gennaio 2017 presso il centro di ricerca Progetto San Marco dell’Università “La Sapienza” all’aeroporto di Roma-Urbe, mi fece subito percepire la necessità di valorizzare quell’episodio, noto prevalentemente tra “gli addetti ai lavori”, cercando proprio quella lettera per presentarla nelle scuole ed eventi pubblici. Appuntamenti di valorizzazione che si sono così susseguiti fino allo IAC di Milano 2024, dove ebbi l’occasione di proporla durante un incontro che si dimostrò cruciale.
Da lì a pochi mesi, infatti, proprio in occasione della Giornata Nazionale dello Spazio, il 16 dicembre 2024, quella lettera, conservata dall’Archivio storico dell’ENI, sarebbe diventata il “Premio Broglio”. Il riconoscimento fu consegnato in una cerimonia presso la Camera dei Deputati, dall’Intergruppo parlamentare per la Space Economy, agli ingegneri e ai tecnici che giovanissimi a Malindi il 26 aprile 1967 realizzarono il lancio del satellite San Marco 2.
Ingegneri del gruppo di Broglio premiati il 16 dicembre 2024
Il nostro Paese, uscito dalla distruzione materiale e morale della guerra, dimostrava di disporre di ingegno, visione e competenze, per costruire, mettere in orbita e gestire i propri satelliti in autonomia. Per di più per la prima volta al mondo da un’orbita equatoriale. Alcuni lanci effettuati successivamente da lì hanno fatto la storia dell’astrofisica spaziale, tra questi il satellite Uhruru, il primo dedicato all’astronomia a raggi X.
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