In attesa della probabile esplosione di T Coronae Borealis continuiamo gli approfondimenti sulla tipologia di oggetto che potremo osservare e le tecniche investigative messe in atto anche dalla ricerca.
Introduzione
Da più di mezzo secolo l’astronomia osservativa si serve dei risultati ottenuti con metodi di spettroscopia nucleare, inviati da telescopi alloggiati in satelliti o dalla stazione spaziale internazionale. La radiazione cosmica o quella proveniente da corpi celesti viene studiata attraverso metodologie di analisi caratteristiche della fisica nucleare la quali consentono di monitorare lo stato attuale dell’universo, vicino o profondo, migliorarne le informazioni già in possesso, esplorare il passato e l’evoluzione futura dello spazio. In questo campo una sfida di nicchia estremamente curiosa coinvolge alcuni centri di ricerca, principalmente europei, ed è relativa alle novæ. Queste infatti vengono studiate attraverso l’analisi di spettri di emissione gamma di prodotti di reazioni nucleari e permettono di caratterizzare singole novæ e di confermare le teorie che ne spiegano la natura.
Con il termine nova si intende l’insieme dei fenomeni di fusione nucleare e di conseguenti emissioni di energia da parte di una nana bianca di un sistema binario.
Scoperte alla fine del XVIII secolo, le nane, dette bianche per il loro spettro [1], sono state osservate nel corso dell’‘800 [2, 3] e poi studiate sistematicamente. Sulla base delle considerazioni relative alle prime tre osservate, Sirio A, Sirio B e il Cucciolo, si poté presto affermare che queste stelle possiedono un’elevata temperatura superficiale attorno ai 9000 K [4], una massa ridotta e un’elevata densità. Una volta appurata l’esistenza delle nane bianche, Sir Arthur Stanley Eddington, astrofisico inglese vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, concepì per primo un’ipotesi relativa alla loro struttura. Eddington immaginò che, data la loro massa elevata e la loro dimensione modesta, le nane dovessero essere costituite da materia fortemente addensata, ossia non da atomi o molecole, ma da uno stato di plasma, dove protoni e neutroni potevano addensarsi e muoversi liberamente [5]. Fu da subito evidente che le pressioni a cui le cariche sono sottoposte possono confinare masse relativamente ridotte, cosa che determinò una corsa alla valutazione della massa limite per una nana bianca. Successivamente ai lavori di Anderson e Stoner della fine degli anni ’20, fu il fisico indiano Subrahmanyan Chandrasekhar a formalizzare l’idea di un valore limite per la massa di una nana bianca non rotante, fissato in 1,44 masse solari e detto limite di Chandrasekhar.
Lo stato di nana bianca è spesso quello finale di una stella. Il destino di una stella dipende infatti dal valore della sua massa m e dà questi esiti:
– nane bianche piccole (per stelle di massa m, m<0,5 M 1): dette nane all’elio, sono lo stato finale di stelle di massa m<0,5 M in cui i processi di fusione degli elementi successivi all’elio sono resi impossibili dalla temperatura che raggiunge la stella al termine della sintesi dell’elio; – nane bianche medie (per stelle di massa m, 0,5M <m<8 M ): tra le più diffuse, sono lo stato finale di stelle di massa intermedia; sono dette nane al carbonio-ossigeno e la massa della stella è sufficientemente elevata per proseguire la sintesi degli elementi leggeri, fino all’ossigeno2; – oltre le nane medie (per stelle di massa m, m>8 M ): per queste stelle non è prevista un’evoluzione in nana bianca e la loro massa è sufficientemente elevata per permettere reazioni di fusione nucleare che consentono la formazione di elementi pesanti fino al ferro. Queste stelle terminano il loro corso in una supernova che darà vita principalmente a una stella di neutroni o a un buco nero. Le supernove, che esplodono per fusioni che avvengono all’interno della stella, non vanno però confuse con le novæ.
Il contributo della fisica nucleare allo studio delle novæ in anni recentissimi ha suscitato interesse e dato vita a aspettative che potranno essere confermate solo nei prossimi anni.
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Figura 1: Fornax dSph, foto di archivio ESA/Hubble
Come le galassie sferoidali nane (dSph, dwarf Spheroidal), satelliti della Via Lattea possono aiutarci nella comprensione dei meccanismi evolutivi delle Galassie.
Fornax dSph per la Fornax (o Near-Field Cosmology)
Nel modello cosmologico standard, noto come Λ-CDM (la lettera Λ Lambda, indica la costante riferita al contributo della Energia Oscura, mentre CDM sta per Cold Dark Matter, Materia Oscura Fredda), le galassie si formano per accrescimento e fusione di proto-frammenti, in un processo iniziato poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, e che osserviamo ancora oggi, sotto i nostri occhi. Certo, si può discutere se il modello Λ-CDM sia “vero” ma, allo stato attuale delle nostre conoscenze, è certamente quello che mette d’accordo più osservabili possibili, nei contesti astrofisici più diversi e in maniera sufficientemente coerente. Le predizioni della Λ-CDM, in realtà erano già state in qualche modo anticipate da un lavoro pioneristico del 1978, a cura di Leonard Searle & Robert Zinn, in maniera del tutto indipendente rispetto al modello Λ-CDM, al tempo non ancora nato. Nella ricerca i due astronomi, dalla attenta analisi degli spettri di 177 stelle giganti appartenenti a 19 ammassi globulari Galattici, dedussero che l’alone della Via Lattea non poteva essersi formato in un unico episodio, ma era piuttosto il risultato dell’accrescimento successivo di vari frammenti proto-galattici.
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Questa rappresentazione artistica mostra l'oggetto interstellare 1I/2017 U1 ('Oumuamua) dopo la sua scoperta nel 2017. Pur non essendo una cometa oscura, il suo movimento attraverso il sistema solare ha contribuito a far luce sulla natura delle 14 comete oscure identificate finora. Crediti: European Southern Observatory / M. Kornmesser.
Gli oggetti celesti noti come comete oscure sembrano asteroidi ma si comportano come comete, e ora si suddividono in due tipologie distinte.
La prima cometa oscura è stata identificata meno di due anni fa. Da allora, il numero di questi oggetti è cresciuto rapidamente: prima sei nuove scoperte e, di recente, altre sette, portando il totale a 14. Uno studio pubblicato il 9 dicembre sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences descrive queste nuove comete oscure, identificando due popolazioni principali: una composta da oggetti più grandi situati nel sistema solare esterno e un’altra formata da oggetti più piccoli, confinati nel sistema solare interno. Queste due categorie si distinguono anche per caratteristiche orbitali e di riflettività.
La nascita del mistero
Il primo indizio dell’esistenza delle comete oscure risale al 2016, quando gli astronomi notarono che l’asteroide 2003 RM aveva deviato leggermente dalla sua orbita prevista. La deviazione non era spiegabile dai fenomeni noti, come l’effetto Yarkovsky, e suggeriva una spinta dovuta a emissioni di materiale volatile, tipica delle comete. Tuttavia, l’oggetto non mostrava alcuna coda, apparendo indistinguibile da un comune asteroide.
“È stato un mistero intrigante”, ha dichiarato Davide Farnocchia del Jet Propulsion Laboratory (NASA). “Non avevamo mai visto un comportamento simile senza segni visibili di attività cometaria”.
Oumuamua e le comete oscure
Un altro tassello del puzzle è arrivato nel 2017 con la scoperta di 1I/2017 U1, meglio noto come ‘Oumuamua, il primo oggetto interstellare mai osservato. Anche ‘Oumuamua mostrava caratteristiche simili a quelle di 2003 RM: un comportamento tipico delle comete, ma senza alcuna evidenza visibile di degassamento. Questo ha reso il caso di 2003 RM ancora più affascinante, spingendo i ricercatori a indagare ulteriormente.
Una nuova classe di oggetti celesti
Entro il 2023, gli scienziati avevano catalogato sette oggetti con caratteristiche simili, abbastanza da definire una nuova categoria: le comete oscure. Con la recente scoperta di altri sette esempi, i ricercatori hanno potuto individuare due tipi distinti di comete oscure:
Comete oscure esterne: situate nel sistema solare esterno, hanno orbite altamente ellittiche e dimensioni significative, spesso superiori ai 100 metri.
Comete oscure interne: più piccole, con diametri inferiori ai 50 metri, si trovano nel sistema solare interno e seguono orbite quasi circolari.
Nuove domande, nuovi orizzonti
Queste scoperte aprono la strada a ulteriori indagini: da dove provengono le comete oscure? Qual è l’origine della loro accelerazione anomala? Potrebbero contenere ghiaccio o materiali volatili?
“Le comete oscure potrebbero rappresentare una fonte cruciale per lo studio dell’origine della vita sulla Terra”, ha commentato Darryl Seligman della Michigan State University, primo autore dello studio. “Comprendere il loro comportamento potrebbe rivelare nuovi indizi sul ruolo che questi oggetti hanno avuto nella formazione del nostro pianeta e nella consegna dei materiali necessari per lo sviluppo della vita”.
La ricerca, come spesso accade in astronomia, non fornisce solo risposte, ma solleva nuove e affascinanti domande.
This is a montage of NASA/ESA Hubble Space Telescope views of our solar system's four giant outer planets: Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune, each shown in enhanced color. The images were taken over nearly 10 years, from 2014 to 2024. This long baseline allows astronomers to track seasonal changes in each planet's turbulent atmosphere, with the sharpness of the NASA planetary flyby probes of the 1980s. These images were taken under a program called OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy). From upper-left toward center, the hazy white polar cap on the three teal-colored Uranus images appears more face-on as the planet approaches northern summer. From center-right to far-center right, three images of the blue planet Neptune show the coming and going of clouds as the Sun's radiation level changes. Several of Neptune's mysterious dark spots have come and gone sequentially over OPAL's decade of observations. Seven views of yellow-brown Saturn stretch across the center of the mosaic in a triangle—one for each year of OPAL observations—showing the tilt of the angle of the ring plane relative to the view from Earth. Approximately every 15 years the relatively paper-thin rings (about one mile thick) can be seen edge-on. In 2018 they were near their maximum tilt toward Earth. Colorful changes in Saturn's bands of clouds can be followed as the weather changes. At bottom center, three images of Jupiter spanning nearly a decade, form a triangle. There are notable changes in Jupiter's banded cloud structure of zones and belts. OPAL measured shrinking of the legendary Great Red Spot, while its rotation period speeds up. [Image description: A montage of Hubble Space Telescope images of our solar system’s four giant outer planets: Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune, taken under the OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy) program over a duration of 10 years, from 2014 to 2024.]
Dal 2014 al 2024, il telescopio spaziale Hubble della NASA/ESA ha condotto uno studio approfondito dei pianeti esterni del nostro Sistema Solare attraverso il programma OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy). L’obiettivo principale del programma è stato quello di ottenere osservazioni di lungo termine su Giove, Saturno, Urano e Nettuno, per comprendere le dinamiche e l’evoluzione atmosferica di questi giganti gassosi. Hubble si distingue come unico strumento in grado di fornire immagini con elevata risoluzione spaziale e stabilità, permettendo di monitorare su base regolare e coerente fenomeni atmosferici come il colore delle nubi, l’attività meteorologica e i movimenti atmosferici.
Caratteristiche comuni dei giganti gassosi
Tutti e quattro i pianeti esterni sono caratterizzati da atmosfere profonde e prive di una superficie solida. I loro sistemi meteorologici sono unici, con tempeste giganti, fasce di nubi multicolori e fenomeni atmosferici di lunga durata. Le stagioni su questi pianeti durano molti anni, data la loro distanza dal Sole e le caratteristiche delle loro orbite. Studiare i loro climi è cruciale non solo per comprendere il meteo dinamico della Terra ma anche per fornire un modello per pianeti extrasolari simili.
Metodologia del programma OPAL
OPAL ha garantito osservazioni annuali di ciascun pianeta quando erano più vicini alla Terra, durante l’opposizione. Questa metodologia ha prodotto un vasto archivio di dati utili agli astronomi di tutto il mondo e ha permesso scoperte straordinarie. Di seguito, una sintesi delle principali scoperte per ciascun pianeta.
This is a montage of NASA/ESA Hubble Space Telescope views of our solar system’s four giant outer planets: Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune, each shown in enhanced color. The images were taken over nearly 10 years, from 2014 to 2024. This long baseline allows astronomers to track seasonal changes in each planet’s turbulent atmosphere, with the sharpness of the NASA planetary flyby probes of the 1980s. These images were taken under a program called OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy). From upper-left toward center, the hazy white polar cap on the three teal-colored Uranus images appears more face-on as the planet approaches northern summer. From center-right to far-center right, three images of the blue planet Neptune show the coming and going of clouds as the Sun’s radiation level changes. Several of Neptune’s mysterious dark spots have come and gone sequentially over OPAL’s decade of observations. Seven views of yellow-brown Saturn stretch across the center of the mosaic in a triangle—one for each year of OPAL observations—showing the tilt of the angle of the ring plane relative to the view from Earth. Approximately every 15 years the relatively paper-thin rings (about one mile thick) can be seen edge-on. In 2018 they were near their maximum tilt toward Earth. Colorful changes in Saturn’s bands of clouds can be followed as the weather changes. At bottom center, three images of Jupiter spanning nearly a decade, form a triangle. There are notable changes in Jupiter’s banded cloud structure of zones and belts. OPAL measured shrinking of the legendary Great Red Spot, while its rotation period speeds up. [Image description: A montage of Hubble Space Telescope images of our solar system’s four giant outer planets: Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune, taken under the OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy) program over a duration of 10 years, from 2014 to 2024.]
Giove
Le osservazioni di Hubble hanno documentato i continui cambiamenti nelle fasce di nubi di Giove, caratterizzate da colori vivaci e un meteo estremamente attivo. La Grande Macchia Rossa (GRS), la più grande tempesta del Sistema Solare, è stata monitorata con precisione, rivelando una riduzione progressiva delle sue dimensioni, pur rimanendo abbastanza grande da inglobare la Terra. Hubble ha inoltre individuato misteriosi ovali scuri nelle cappe polari visibili solo in ultravioletto.
Grazie alle capacità di osservazione continuativa di Hubble, impossibili per telescopi terrestri, il programma ha anche registrato variazioni stagionali legate alla distanza di Giove dal Sole lungo la sua orbita di 12 anni. Inoltre, le osservazioni di OPAL potrebbero supportare future missioni come il Jupiter Icy Moons Explorer (Juice) dell’ESA, lanciato nel 2023, che esplorerà le lune di Giove come possibili habitat.
Saturno
Saturno, con un periodo orbitale di oltre 29 anni, presenta stagioni lunghe sette anni, influenzate dalla sua inclinazione di 26,7 gradi. OPAL ha ripreso i cambiamenti nei colori delle sue nubi e l’apparizione di raggi scuri transitori nei suoi anelli, fenomeni stagionali documentati dal programma a partire dal 2021.
Hubble ha osservato anche variazioni annuali sottili nei colori atmosferici, probabilmente legate a cambiamenti nei venti e all’altezza delle nubi. Questi cambiamenti sono più evidenti con il passaggio da una stagione all’altra, rendendo le osservazioni a lungo termine di OPAL fondamentali per comprendere il clima del pianeta.
Una serie di immagini di Saturno mostra dati reali raccolti attraverso diversi filtri, mappati sui colori RGB percepibili dall’occhio umano. Ogni combinazione di filtri evidenzia differenze sottili nell’altitudine o nella composizione delle nubi. Gli spettri a infrarossi della missione Cassini hanno suggerito che le particelle di aerosol di Saturno possano avere una diversità chimica ancora più complessa rispetto a Giove. Il programma OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy) continua l’eredità di Cassini monitorando le variazioni nel tempo dei pattern nelle nubi di Saturno. Credit: NASA, ESA, A. Simon (NASA/GSFC), M. Wong (UC Berkeley), J. DePasquale (STScI)
Urano
Urano è particolarmente interessante per la sua estrema inclinazione assiale di quasi 98 gradi, che causa stagioni drammatiche lungo la sua orbita di 84 anni. Durante il decennio di osservazioni OPAL, Hubble ha seguito il polo nord di Urano inclinato verso il Sole, documentando un’intensificazione della foschia polare e la comparsa di tempeste di cristalli di metano nelle latitudini medio-settentrionali.
Con l’avvicinarsi del solstizio estivo nel 2028, si prevede che la calotta polare settentrionale di Urano diventerà ancora più luminosa, offrendo un’opportunità unica per osservare il pianeta e il suo sistema di anelli.
Nettuno
Le osservazioni di Nettuno hanno permesso di seguire il ciclo di vita di grandi macchie scure, tempeste transitorie che appaiono e scompaiono nel giro di due-sei anni. Hubble ha documentato il declino di una di queste macchie e l’intero ciclo vitale di un’altra, dimostrando la dinamicità atmosferica del pianeta.
Sorprendentemente, i dati OPAL hanno evidenziato una correlazione tra l’abbondanza di nubi di Nettuno e il ciclo solare di 11 anni, suggerendo che l’attività solare potrebbe influenzare il meteo del pianeta, nonostante Nettuno riceva solo lo 0,1% della luce solare percepita dalla Terra.
Conclusioni
Il programma OPAL rappresenta una pietra miliare per l’astronomia planetaria, fornendo una base di dati essenziale per comprendere i giganti gassosi del Sistema Solare e, per estensione, i pianeti extrasolari. Con il progredire delle osservazioni, le scoperte continuano a offrire nuove prospettive sul meteo, il clima e le dinamiche atmosferiche, alimentando il nostro desiderio di esplorare l’universo.
Una delle esperienze che si affrontano da astrofili itineranti scegliendo un posto nuovo, magari remoto e in aperta campagna, è arrivare a metà sessione fotografica o osservativa e non vedere più nulla, al massimo una nebbiolina sfocata che rende tutto opaco: è la rugiada. In realtà è semplice umidità che si liquefà su tutti gli oggetti presenti, prato, sedie, computer e ottiche, con un determinato rapporto di saturazione dell’aria e della temperatura ambientale.
Se si verificano le condizioni giuste tutto diventa bagnato e le nostre ottiche si appannano. L’importante è capire che asciugare le lenti o gli specchi non risolve il problema perché la rugiada ricompare in pochi secondi. Per comprendere il fenomeno alcuni studiosi compilarono delle tabelle annotando i dati di temperatura e umidità relativa in cui gli oggetti si appannavano. Dal successivo studio ne emerse una relazione matematica chiamata punto di rugiada o Dew-Point in inglese. Con tale espressione è possibile prevedere la presenza delle condizioni perché si formi la “condensa”. Scendendo nella pratica per evitare il fastidioso inconveniente sarebbe sufficiente mantenere la temperatura della strumentazione leggermente sopra al valore previsto, grazie all’uso della relazione di rugiada. Si tratta perciò di scaldare in qualche maniera i nostri telescopi, le ottiche e le astrocamere. Per assolvere a una simile funzione sono state inventate ad esempio delle fasce, di lunghezza variabile e alimentate con i classici 12 volt delle batterie, che si scaldano fino a 35°C. e che vanno avvolte sul tubo in maniera da riscaldare l’ottica quel tanto da superare la soglia di formazione della condensa, ma la soluzione non è ottimale. Se è vero infatti che da un lato la condensa non si formerà più, dall’altro si manifesteranno complicazioni come il consumo di energia e le stesse temperature eccessive delle ottiche. Se facciamo uscite lunghe, anche di 3 o 4 ore, il consumo extra finirà per esaurire presto la nostra batteria, preziosa alla vera attività astronomica, mentre se le ottiche restano per molte ore riscaldate, oltre a varie dilatazioni che possono compromettere la resa degli strumenti, anche l’aria che sta attorno si riscalderà causando turbolenze sempre fastidiose. È noto a tutti gli astrofili osservatori e astrofotografi che il tubo deve acclimatarsi quanto più possibile proprio per evitare che eventuali turbolenze generino fenomeni ottici apparenti, causarlo di proposito sarebbe assolutamente controproducente. Oggi le fasce sono vendute con un piccolo accessorio che ne consente la regolazione della potenza tuttavia esse restano difficili da gestire in maniera intuitiva. Si rende necessario un supporto automatizzato in grado di analizzare l’ambiente e decidere se attivare o meno il riscaldamento del telescopio.
In commercio oggi si trovano molti controller per fasce anticondensa o Dewpoint controller di marchi noti come la stessa Celestron che ha sviluppato un modello che per esigenze particolari può essere un ottimo prodotto con innumerevoli features, le quali però spesso risultano eccessive o costose per chi dell’astronomia fa un hobby o effettua singole sessioni portandosi dietro un singolo tubo. La soluzione tecnica che segue è dedicata proprio a coloro che si identificano in tali modalità di approccio alla passione.
Passiamo quindi a descrivere i passaggi per realizzare fai-da-te un controller per fasce anticondensa. Il progetto è basato su Arduino, microcontroller ben voluto dagli astrofili sia per il basso costo che per la semplicità di programmazione. I sensori associabili inoltre sono facilmente reperibili in formato a modulo già saldati e con le connessioni disponibili anche per il montaggio rapido e per fare qualche test a banco.
Il progetto si presenta abbastanza completo e funzionale, esso è composto da un microprocessore che analizza e governa due sensori di temperatura e uno di umidità, calcola il dew-point e regola il segnale PWM in uscita sulla fascia. L’alimentazione è a 12 volt. Può essere collegato ad un pc (opzionale) e ricevere i dati direttamente via seriale. L’aggiunta di uno schermo Oled a 4 righe consente di seguire le operazioni.
COMPOSIZIONE DEL CORE
Il core è composto da: • ATmega32u4 (Arduino Leonardo) • Step-down 12v->5V • Sensore 18b20 • Sensore HTU21 • Modulo optoisolato Mosfet D4184 • Oled 0,91” 128×32 pixel SSD1306
Le scelte sono ricadute sulle schede in elenco perché sono semplici da controllare ma soprattutto offrono dimensioni minime indispensabili allo scopo.
Come accessori extra potremo optare per: • Connettore jack RCA per la fascia • Connettore alimentazione Femmina 5,5 mm x 2,1 mm ingresso 12V • Cavi e piattine a necessità • 1 scatolina 80x40x15 mm (minimo) • Nastro Kapton • Guaina termo-restringente I COMPONENTI IN DETTAGLIO
fig1-arduino ATMEGA32u4
Il microprocessore è un Arduino Leonardo nella declinazione ATMEGA32u4, ce ne sono davvero molte anche Mini o Micro e in generale vanno tutte bene essendo il programma universale, tuttavia la versione ATMEGA32u4 offre le dimensioni minime di soli 2x2cm (fig.1).
Il sensore ibrido di temperatura e umidità relativa HTU21, che lavora in I2C, richiede solo 2 fili per lo scambio dati mentre possiede un intervallo notevole di funzionamento: da -40°C a +125°C e 0-100% RH Relative Humidity (fig. 2).
fig2-sensore di Temperatura e Umidità relativa HTU21
Il secondo sensore è di sola temperatura, il 18b20, ma è digitale e di precisione. È usato praticamente ovunque, anche nei termostati casalinghi, e dialoga con un solo filo (fig.3).
Fig3-sensore di temperatura Dallas 18b20fig4-display OLEDFig5-convertitore step-downFig6-modulo mosfet PWMFig7-connettori RCA ed alimentazione
Il display è di tipo oled in bianco e nero, il più usato ed economico sul mercato, consente di creare contemporaneamente 4 righe di testo comandandolo con soli 2 fili sempre in I2C (fig.4). Resta il problema di fornire la corretta alimentazione ad Arduino e ai sensori dato che tutti lavorano a 5 volt come standard. Per trasformare l’alimentazione astronomica standard di 12 volt in 5 volt abbiamo introdotto la piccola scheda step-down di 2x1cm, tra le più piccole sul mercato (fig.5). Infine, per il corpo centrale non ci resta altro che aggiungere un componente per controllare la potenza della nostra fascia con una piccola scheda a Mosfet obbligatoria se si vuole comandare un carico con il segnale PWM (fig.6). Sono inoltre necessari due connettori adatti a ricevere la tensione 12 volt in ingresso ed a cederla alla fascia in uscita (fig.7).
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Arduino viene programmato attraverso un ambiente di sviluppo IDE, sul sito web all’indirizzo https://www.arduino.cc/en/software troverete la versione per il vostro sistema operativo, io uso windows ed ho scaricato la versione Legacy IDE 1.8.19 (Fig.14)
Fig.14
Il listato “DewPoint_controller_2024.ino” è scritto in C e contiene tutti i riferimenti necessari al funzionamento immediato; tuttavia, se non avete mai avuto a che fare con Arduino, il vostro IDE risulterà vuoto e con le sole informazioni sulle schede Arduino esistenti in commercio. Non saprà dell’esistenza di ulteriori aggiunte come i sensori e il display.
Per risolvere il problema è presente un apposito menù con cui aggiungere ciò che manca. Le librerie necessarie sono disponibili nella Gestione librerie dell’IDE come in Fig.15 o con la scorciatoia da tastiera Ctrl+Maiusc+I.
Fig15-librerie
Si presenterà una finestra dove scrivere la libreria che occorre installare(Fig.16a)
In particolare dovrete aggiungere le seguenti librerie (Fig.16b e 16c)
Fig16a-librerieFig16bFig16c
Qui analizziamo solo delle parti esplicative non essendo un trattato di informatica per Arduino
Listato inizializzazione
Questa parte prevede di richiamare le librerie specifiche per far funzionare i sensori.
Listato: variabili
Occorrono poche variabili.
Listato: setup
Nel Setup vanno inizializzati tutti i servizi cosìsarà possibile ricevere e leggere i dati dai sensori e scrivere sul display.
Listato: Loop
La parte “LOOP” è una parte del programma che viene ripetuta continuamente e come impostato nelle variabili effettua questo ciclo ogni 5 secondi (Tsec).
Verranno richiamate in sequenza delle Routine per leggere i sensori, calcolare il valore di Dew-point e calcolare la potenza della fascia riscaldata.
Listato: scrive sul display
La direttiva “.print” invia il testo al display
Listato: calcola PWM
Il calcolo del PWM prevede, dopo molte prove, di mettere un range di funzionamento di 7°C tra minima e massima potenza della fascia.
Questo consente di partire in anticipo rispetto al punto di rugiada che, per vento e tempi di adeguamento del tubo alla temperatura, formerebbe la condensa prima dell’intervento reale della fascia. analogWrite attiva il segnale PWM: altro non è che una percentuale da 0 a 100 della potenza della fascia.
Listato: calcola il Dew-point
Qui viene attivato il calcolo vero e proprio del punto di rugiada che richiede l’uso della formula approssimativa di Magnus-Tetens, essa prevede la relazione dell’andamento temperature/umidità che potete approfondire su molti siti web. Nel link seguente è disponibile anche un calcolatore on line http://glossariometeo.altervista.org/Punto_di_rugiada.php. Programmare Arduino è un attimo, basta collegare ad usb la scheda e viene riconosciuta dal pc (i drivers sono installati insieme con l’IDE). Unica accortezza è dire all’IDE quale scheda Arduino dobbiamo programmare visto che lui ne conosce moltissime e quale porta usare di quelle disponibili sul vostro computer. (fig.17a e 17b)
Fig17aFig17b
La buona notizia è che lo potete programmare anche prima di saldare tutti i fili.
Io non userò la presa usb per leggere i dati ma voi potete provare ed otterrete le stesse informazioni presenti sul display.
Si rimanda al link genrato dal QR Code per le istruzioni necessarie alla programmazione di Arduino.
Alla fine degli anni quaranta del secolo scorso una nota campagna pubblicitaria coniò lo slogan molto accattivante “Un diamante è per sempre” che entrò nel linguaggio comune connotando tale minerale come un oggetto che sancisce un legame eterno e indistruttibile. Lo slogan si basava sul fatto che il diamante è il minerale più resistente al mondo (nessun altro materiale può scalfirlo), ma noi oggi sappiamo che in realtà quel famoso slogan involontariamente sottolineava anche un’altra caratteristica eccezionale del cristallo: l’età, che in alcuni casi può raggiungere persino i 3,5 miliardi di anni.
Indice dei contenuti
Diamanti e carbonio: esplorando le tracce extraterrestri che raccontano l’origine della vita e la formazione del Sistema Solare.
a cura di Carli Cristian, Nestola Fabrizio, Alvaro Matteo
Volendo poi, partendo dal famoso slogan, potremmo forgiarne addirittura un secondo non meno impattante: “Un diamante è per la vita”. I diamanti infatti sono minerali composti da carbonio puro e, da studi isotopici di tale carbonio, risulta evidente come molti diamanti si siano formati a partire da carbonio generato da sostanza organica. Una combinazione, quella fra carbonio e sostanze organiche che, in ambito delle scienze planetarie, induce a pensare alla presenza di segni di vita anche su altri pianeti. Un diamante, perciò può formarsi solo sul nostro pianeta o esistono diamanti extraterrestri? E possono i diamanti fornirci informazioni sulla vita nel Sistema Solare? Un recente lavoro ad esempio ha evidenziato la possibilità di trovare diamanti su Mercurio ma per rendere la ricerca sistematica e individuare altri campioni di diamanti extraterrestri è fondamentale definire quali sono i fattori che ne possono rivelare la presenza. Proviamo in questo articolo a presentare le modalità attraverso cui la ricerca prova a rispondere alle precedenti domande partendo da ciò che si è scoperto sino ad oggi sul carbonio extraterrestre.
Carbonio extraterrestre
Lo studio del carbonio è di fondamentale importanza in quanto ci fornisce informazioni cruciali sull’origine della vita e sui processi che hanno avuto luogo miliardi di anni fa nel Sistema Solare, risalendo poi a ritroso sino all’origine del “tutto” al momento del Big Bang. Sempre più studiosi negli ultimi decenni hanno cercato di approfondire la conoscenza di questo elemento chimico, e sui minerali che può contribuire a formare, operando sia in modo diretto, investigando ad esempio i campioni di roccia nei quali può essere rinvenuto, sia in maniera indiretta, dall’analisi di dati acquisiti da remoto o tramite modelli ed esperimenti. Ma dove possiamo trovare il carbonio non proveniente dalla Terra? La risposta è nelle circa 60 tonnellate di particelle di polvere cosmica/interplanetaria (IDP) di dimensioni comprese tra 1 e 50 µm che cadono sulla superficie terrestre ogni anno, a cui aggiungiamo sia le circa 17.600 meteoriti con una massa superiore a 50 grammi sia le micrometeoriti di dimensioni inferiori al millimetro. A tali quantità possiamo sommare i campioni extraterrestri raccolti direttamente in situ, come avvenuto grazie alle missioni Apollo della Nasa e le missioni LUNA promosse dall’Unione Sovietica o, più recentemente, a missioni con target come comete (Stardust, NASA) o asteroidi (Hayabusa e Hayabusa2, JAXA o OSIRIS-Rex , NASA). C’è da dire che i campioni raccolti nelle missioni hanno di sicuro il vantaggio di essere ben localizzati ma giocano a sfavore sia le quantità esigue e spesso proprio il limite di essere riferite a pochi siti di campionamento (figura 1).
dall’alto Corpo: Bennu & 81P/Wild2 Missione: Osiris Rex 2023 &Stardust 2008 Corpo: Luna Missione: Apollo (11,12,14, 17) NASA 1970s – Luna (15,20,25) Roscosmos 1970s – Change’e5 CNSA 2020 Corpo: Itokawa & Ryugu Missione: Hayabusa 2010 & Hayabusa2 2020 Meteoriti Polvere Cosmica
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Il progetto di ricerca GASP ha come scopo principale quello di comprendere come le galassie vicine a noi possano evolvere a seconda dell’ambiente in cui vivono e, in particolare, quali siano i meccanismi fisici che riescono a strappare il gas delle galassie, influenzando la loro forma.
Indice dei contenuti
Dal Gas Strappato alle Galassie Medusa: Come l’Ambiente Modella l’Evoluzione Galattica
di Benedetta Vulcani, Bianca Maria Poggianti, Alessia Moretti, Marco Gullieuszik
Introduzione
Lo studio dell’evoluzione delle galassie è uno dei settori più attivi dell’astrofisica moderna. Studiare l’evoluzione delle galassie è fondamentale per comprendere l’universo e il nostro posto al suo interno. Le galassie sono i mattoni dell’universo; analizzare come si formano, evolvono e interagiscono ci aiuta a svelare i processi che hanno portato alla formazione delle strutture cosmiche su larga scala ovvero dell’Universo stesso. Inoltre, capire l’evoluzione delle galassie può offrire indizi sull’origine e sulla distribuzione della materia oscura, sull’espansione dell’universo e sulle condizioni che hanno permesso la formazione di stelle, pianeti e, in ultima istanza, la vita. Le principali domande che gli astronomi si pongono sulle galassie riguardano la loro formazione, evoluzione e composizione. Ad esempio, ancora non sappiamo quali siano i processi che hanno portato alla nascita delle prime galassie nell’universo primordiale, quali fattori influenzino la loro evoluzione (come ad esempio le interazioni tra galassie o le attività del buco nero supermassiccio centrale), quali siano i meccanismi che regolano la formazione di nuove stelle al loro interno, cosa determini la loro forma e struttura e quale sia il loro destino finale. Queste domande guidano molte delle ricerche attuali in cosmologia e astrofisica, e la loro comprensione può offrire una visione più completa.
Fig. 1 – Osservatorio di Padova
Il progetto di ricerca GASP ha come scopo principale quello di comprendere come le galassie vicine a noi possano evolvere a seconda dell’ambiente in cui vivono e, in particolare, quali siano i meccanismi fisici che riescono a strappare il gas delle galassie, influenzando la loro forma. GASP è l’acronimo di “Gas Stripping Phenomena in Galaxies”, che vuol letteralmente dire “fenomeni fisici che riescono a strappare il gas alle galassie”. Il progetto è guidato dalla dott.ssa Bianca Maria Poggianti, direttrice dell’Osservatorio astronomico di Padova (Fig.1), una delle sedici sedi in Italia dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ente di ricerca nazionale dedicato all’astrofisica. Il progetto GASP è stato finanziato dal Consiglio per la ricerca europeo con un ERC Advanced Grant di 2 milioni e mezzo di euro per cinque anni. L’importo è stato sfruttato principalmente per finanziare giovani ricercatrici e ricercatori a collaborare a questo progetto e a disseminare i risultati in conferenze di carattere nazionale e internazionale. Negli ultimi anni, all’Osservatorio di Padova una quindicina di persone tra personale a tempo indeterminato, PostDoc e dottorande/i, ha afferito al gruppo GASP. Al corposo gruppo si sono aggiunti circa venti altri ricercatori di istanza in altri istituti, sia sul suolo italiano che internazionale. La complessità degli studi affrontati infatti ha richiesto la collaborazione di scienziati con esperienze professionali complementari.
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The jellyfish galaxy JW39 hangs serenely in this image from the NASA/ESA Hubble Space Telescope. This galaxy lies over 900 million light-years away in the constellation Coma Berenices, and is one of several jellyfish galaxies that Hubble has been studying over the past two years. Despite this jellyfish galaxy’s serene appearance, it is adrift in a ferociously hostile environment; a galaxy cluster. Compared to their more isolated counterparts, the galaxies in galaxy clusters are often distorted by the gravitational pull of larger neighbours, which can twist galaxies into a variety of weird and wonderful shapes. If that was not enough, the space between galaxies in a cluster is also pervaded with a searingly hot plasma known as the intracluster medium. While this plasma is extremely tenuous, galaxies moving through it experience it almost like swimmers fighting against a current, and this interaction can strip galaxies of their star-forming gas. This interaction between the intracluster medium and the galaxies is called ram-pressure stripping, and is the process responsible for the trailing tendrils of this jellyfish galaxy. As JW39 has moved through the cluster the pressure of the intracluster medium has stripped away gas and dust into long trailing ribbons of star formation that now stretch away from the disc of the galaxy. Astronomers using Hubble’s Wide Field Camera 3 studied these trailing tendrils in detail, as they are a particularly extreme environment for star formation. Surprisingly, they found that star formation in the ‘tentacles’ of jellyfish galaxies was not noticeably different from star formation in the galaxy disc. [Image Description: A spiral galaxy. It is large in the centre with a lot of detail visible. The core glows brightly and is surrounded by concentric rings of dark and light dust. The spiral arms are thick and puffy with grey dust and glowing blue areas of star formation. They wrap around the galaxy to form a ring. Part of the arm isThe galaxy JW100 features prominently in this image from the NASA/ESA Hubble Space Telescope, with streams of star-forming gas dripping from the disc of the galaxy like streaks of fresh paint. These tendrils of bright gas are formed by a process called ram pressure stripping, and their resemblance to dangling tentacles has led astronomers to refer to JW100 as a ‘jellyfish’ galaxy. It is located in the constellation Pegasus, over 800 million light-years away. Ram pressure stripping occurs when galaxies encounter the diffuse gas that pervades galaxy clusters. As galaxies plough through this tenuous gas it acts like a headwind, stripping gas and dust from the galaxy and creating the trailing streamers that prominently adorn JW100. The bright elliptical patches in the image are other galaxies in the cluster that hosts JW100. As well as JW100’s bright tendrils, this image also contains a remarkably bright area of diffuse light towards the top of this image which contains two bright blotches at its core. This is the core of IC 5338, the brightest galaxy in the galaxy cluster, known as a cD galaxy. It’s not unusual for cD galaxies to exhibit multiple nuclei, as they are thought to grow by consuming smaller galaxies, the nuclei of which can take a long time to be absorbed. The bright points of light studding its outer fringes are a rich population of globular clusters. This observation took advantage of the capabilities of Hubble’s Wide Field Camera 3, and is part of a sequence of observations designed to explore star formation in the tendrils of jellyfish galaxies. These tendrils represent star formation under extreme conditions, and could help astronomers understand the process of star formation elsewhere in the universe. [Image Description: A thin spiral galaxy is seen edge-on in the lower right. Its bulge and arms are very bright, mixing reddish and bluish light. Patchy blue trails extend below it, resembling tentacles, made from star-forming regions. Six smA jellyfish galaxy with trailing tentacles of stars hangs in inky blackness in this image from the NASA/ESA Hubble Space Telescope. As Jellyfish galaxies move through intergalactic space they are slowly stripped of gas, which trails behind the galaxy in tendrils illuminated by clumps of star formation. These blue tendrils are visible drifting below the core of this galaxy, and give it its jellyfish-like appearance. This particular jellyfish galaxy — known as JO201 — lies in the constellation Cetus, which is named after a sea monster from ancient Greek mythology. This sea-monster-themed constellation adds to the nautical theme of this image. The tendrils of jellyfish galaxies extend beyond the bright disc of the galaxy core. This particular observation comes from an investigation into the sizes, masses and ages of the clumps of star formation in the tendrils of jellyfish galaxies. Astronomers hope that this will provide a breakthrough in understanding the connection between ram-pressure stripping — the process that creates the tendrils of jellyfish galaxies — and star formation. This galactic seascape was captured by Wide Field Camera 3 (WFC3), a versatile instrument that captures images at ultraviolet and visible wavelengths. WFC3 is the source of some of Hubble’s most spectacular images, from a view of Jupiter and Europa to a revisit to the Pillars of Creation. [Image description: A spiral galaxy lies just off-centre. It has large, faint, reddish spiral arms and a bright, reddish core. These lie over two brighter blue spiral arms. These are patchy, with blotches of star formation. Long trails of these bright blotches trail down from the lower spiral arm, resembling tendrils. The background is black, lightly scattered with small galaxies and stars, and a larger elliptical galaxy in one corner.] Links First science paper in the Astrophysical Journal Second science paper in the Astrophysical Journal Zoom: Galactic SeascapeThe jellyfish galaxy JO206 trails across this image from the NASA/ESA Hubble Space Telescope, showcasing a colourful star-forming disc surrounded by a pale, luminous cloud of dust. A handful of bright stars with criss-cross diffraction spikes stand out against an inky black backdrop at the bottom of the image. JO206 lies over 700 million light-years from Earth in the constellation Aquarius, and this image of the galaxy is the sixth and final instalment in a series of observations of jellyfish galaxies. Some of Hubble’s other observations of these peculiar galaxies — which range from grandiose to ghostly — are available here. Jellyfish galaxies are so-called because of their resemblance to their aquatic namesakes. In this image, the disc of JO206 is trailed by long tendrils of bright star formation that stretch towards the bottom right of this image, just as jellyfish trail tentacles behind them. The tendrils of jellyfish galaxies are formed by the interaction between galaxies and the intra-cluster medium, a tenuous superheated plasma that pervades galaxy clusters. As galaxies move through galaxy clusters they ram into the intracluster medium, which strips gas from the galaxies and draws it into the long tendrils of star formation. The tentacles of jellyfish galaxies give astronomers a unique opportunity to study star formation under extreme conditions, far from the influence of the main disc of the galaxy. Surprisingly, Hubble revealed that there are no striking differences between star formation in the discs of jellyfish galaxies and star formation in their tentacles, which suggests the environment of newly-formed stars has only a minor influence on their formation. [Image Description: A spiral galaxy that is tilted partially toward us. Its inner disc is bright and colourful, with bluish and reddish spots of star formation throughout the arms. An outer disc of pale, dim dust surrounds it. It has many arms, which are being pulled away from the disc, down and tThe jellyfish galaxy JO175 appears to hang suspended in this image from the NASA/ESA Hubble Space Telescope. This galaxy lies over 650 million light-years from Earth in the appropriately-named constellation Telescopium, and was captured in crystal-clear detail by Hubble’s Wide Field Camera 3. A handful of more distant galaxies are lurking throughout the scene, and a bright four-pointed star lies to the lower right side. Jellyfish galaxies get their unusual name from the tendrils of star-forming gas and dust that trail behind them, just like the tentacles of a jellyfish. These bright tendrils contain clumps of star formation and give jellyfish galaxies a particularly striking appearance. Unlike their ocean-dwelling namesakes, jellyfish galaxies make their homes in galaxy clusters, and the pressure of the tenuous superheated plasma that permeates these galaxy clusters is what draws out the jellyfish galaxies’ distinctive tendrils. Hubble recently completed a deep dive into jellyfish clusters, specifically the star-forming clumps of gas and dust that stud their tendrils. By studying the origins and fate of the stars in these clumps, astronomers hoped to better understand the processes underpinning star formation elsewhere in the Universe. Interestingly, their research suggests that star formation in the discs of galaxies is similar to star formation in the extreme conditions found in the tendrils of jellyfish galaxies. [Image Description: A spiral galaxy. Its spiral arms are studded with many pink spots, especially around the top of the galaxy. One arm is sticking out below the galaxy. From it and around the bottom of the galaxy, faint gas streams away, while little gas is visible above the galaxy. The galaxy is quite small in the centre of a dark background, where a few smaller galaxies of various shapes and sizes hang.] Links Pan: Ghostly galactic jellyfishHere we see JO204, a ‘jellyfish galaxy’ so named for the bright tendrils of gas that appear in this image to be drifting lazily below JO204’s bright central bulk. The galaxy lies almost 600 million light-years away in the constellation Sextans. This image was captured by the NASA/ESA Hubble Space Telescope, and it is the third of a series of Pictures of the Week featuring jellyfish galaxies. This series of images is possible thanks to a survey in which observations were made of six of these fascinating galaxies, including JO204. This survey was performed with the intention of better understanding star formation under extreme conditions. Given the dreamy appearance of this image, it would be understandable to wonder why jellyfish galaxies should be such a crucible for star formation. The answer is that — as is often the case with astronomy — first appearances can be deceiving. Whilst the delicate ribbons of gas beneath JO204 may look like floating jellyfish tentacles, they are in fact the outcome of an intense astronomical process known as ram pressure stripping. Ram pressure is a particular type of pressure exerted on a body when it moves relative to a fluid. An intuitive example is the sensation of pressure you experience when you are standing in an intense gust of wind — the wind is a moving fluid, and your body feels pressure from it. An extension of this analogy is that your body will remain whole and coherent, but the more loosely bound things — like your hair and your clothes — will flap in the wind. The same is true for jellyfish galaxies. They experience ram pressure because of their movement against the intergalactic medium that fills the spaces between galaxies in a galaxy cluster. The galaxies experience intense pressure from that movement, and as a result their more loosely bound gas is stripped away. This gas is mostly the colder and denser gas in the galaxy — gas which, when stirred and compressed by the ram pressure, collapses and
Fig. 9. Esempi di galassie che risentono della cosiddetta ram pressure stripping. Scie di materiale perso dalla galassia nel suo moto attraverso l’ammasso sono evidenti. GASP ha scoperto come in queste code si possano formare nuove stelle. (Credit: ESA/Hubble & NASA, M. Gullieuszik and the GASP team).
Si ritorna agli ammassi globulari con Messier 19. Per ricordare, a chi approccia la rubrica per la prima volta, gli ammassi globulari celesti sono insiemi di stelle a volte molto appariscenti che orbitano come satelliti intorno al centro di una galassia. Tali affascinanti strutture, ai confini delle galassie, riescono a mantenere al loro centro una densità di stelle molto elevata, assumendo una forma perlopiù sferica.
Storia delle osservazioni
Messier 19 è stato scoperto da Charles Messier il 5 Giugno 1764, solo due giorni dopo la scoperta di M18 (vedi Coelum Astronomia n°270). Lo descriveva così: “Nella notte tra il 5 ed il 6 Giugno, 1764, ho scoperto una nebulosa situata parallela ad Antares, tra lo Scorpione ed il piede sinistro dell’Ofiuco: la nebulosa è rotonda e non contiene alcuna stella; l’ho esaminata con un telescopio Gregoriano [un tipo di telescopio riflettore ideato dal matematico ed astronomo scozzese James Gregory, antecedente al telescopio Newtoniano, nda] calcolando il suo diametro in circa 3 minuti d’arco.”
Nel 1783, l’astronomo e fisico tedesco naturalizzato inglese William Herschel fu il primo a risolvere le componenti stellari della “nebulosa” vista da Messier, riclassificandola quindi in un ammasso, usando un telescopio da 10 piedi (circa tre metri) ed annotò: “A 250 ingrandimenti posso vedere cinque o sei stelle, mentre le altre appaiono come chiazze indistinte.”
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Foto 9: La Luna sorge sopra il Sorapis al tramonto mentre e in atto l’enrosadira.
Cristian Bigontina, fotografo paesaggista di Cortina d’Ampezzo, racconta la sua passione per la fotografia nata 13 anni fa grazie a corsi di astronomia. Specializzato in scatti notturni, unisce la bellezza del cielo stellato a quella delle Dolomiti, catturando eventi straordinari come l’aurora boreale, la cometa 12P Pons Brooks e la nebulosa di Orione. Con attrezzatura avanzata e tanta dedizione, Cristian trasforma ogni scatto in un’esperienza unica, cercando di trasmettere emozioni autentiche. Le sue opere celebrano la magia della natura, offrendo un viaggio visivo tra luci, silenzi e paesaggi mozzafiato.
Mi chiamo Cristian Bigontina, ho 38 anni, vivo a Cortina d’Ampezzo e sono appassionato di fotografie paesaggistiche. La mia passione per la fotografia è nata 13 anni fa grazie a dei corsi di astronomia che si svolgevano al planetario di Cortina. In questi corsi oltre a spiegare la volta celeste, mostravano come si potevano realizzare fotografie notturne.
Poi si sa che la fortuna ci vede benissimo e siccome mi facevano comodo ho vinto al gratta e vinci la somma necessaria per comprarmi una reflex (Canon 500d), la vita è davvero fatta di molte coincidenze! Nell’arco degli anni ho avuto la fortuna di confrontarmi con molti altri fotografi non solo di Cortina e grazie alla perseveranza nel cercare e testare differenti tecniche sono riuscito ad arrivare a quelli che considero, pur senza vanto, dei buoni risultati.
La fotografia per me non è mai stata la cattura dello scatto perfetto ma si tratta bensì di un’avventura. A partire dalla fase di studio passando per le nottate in bianco nei posti scelti, il vivere nel momento; vedere i cambiamenti di luce, l’aria che accarezza il viso, sentire il morbido prato o la dura roccia sotto ai piedi, ascoltare il rumore del silenzio appena cala la notte, cercare di creare scatti complessi, abbinare la bellezza della terra con quella del cielo. Confesso di non amare troppo la post produzione, preferisco l’impegno nel settare tutto al meglio sul campo così da ridurre al minimo ogni intervento successivo.
Attualmente mi sono minuto di un set completo composto da: una Canon 6D Mark II, 14mm samyang f 3.1, Canon serie L 16-35mm f2.8, Canon serie L 24-105mm f4, canon 70-300mm f 5.6, astroinseguitore Skywacher Star Adventurer. Un kit con il quale punto a realizzare fotografie capaci di creare un’emozione, forte quasi tangibile, quasi che l’osservatore sia poiin grado di immaginarsi in piedi li di fianco a me, in un magico e preciso momento. Naturalmente non sottostimo un’ennesima vivendo in luoghi che oltre alle bellissime montagne possono offrire un cielo notturno in tutta la sua magnificenza grazie all’esiguo inquinamento luminoso.
Se non bastasse nell’ultimo anno il cielo ci ha donato rari e affascinanti spettacoli. Fra essi l’aurora boreale (Sar) che sono riuscito ad immortalare in due occasioni. La prima è stata il 5 Novembre 2023 (foto 1).
Foto 1: Cortina d’Ampezzo e l’Aurora il 5 Novembre 2023
Ero a cena con mia moglie a San Vito di Cadore, nell’attesa in quella abitudine oramai consolidata di scrollare i social apprendo che era in atto un’aurora visibile sin dalle Dolomiti. Cena ovviamente saltata e con la comprensione di mia moglie rimasta comunque al ristorante, in poco ero a casa a prendere tutta l’attrezzatura necessari. Non avevo avuto tempo di progettare lo scatto e scegliere il posto più adatto perciò ho optato per il paese in cui abito, il belvedere di Pocol che si trova comunque lungo la strada per andare ai passi Giau e Falzarego. La foto è stata catturata con il 16-35mm, primo piano f 8, iso 1600 tempi da 2 secondi a 1 minuto e mezzo, i frame sono stati poi uniti in hdr in post produzione. Il cielo è uno scatto singolo di 10 secondi f8 8000 iso. Per il primo piano invece ho dovuto sfruttare più scatti per gestire le luci del paese.
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APOD DEL 13 OTTOBRE 2024
Il video dell’aurora boreale realizzato dall’autore è stato riconosciuto come Astronomical Picture Of the Day del 13 ottobre 2024. Setup e tecnica: zona delle Cinque Torri, Cortina d’Ampezzo. Scatto composto da 163 fotografie F 4.5, 13 secondi, iso 8000, focale 16mm. Canon 6D Mark II, 16-35mm Canon serie L F 2.8. Montaggio a cura di Diego Zardini.
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Castel Gandolfo presso la Sede della Specola Vaticana – Albano Laziale
Il VI Simposio Nazionale degli Ottico-Meccanici Italiani rappresenta un appuntamento unico dedicato agli appassionati e professionisti del settore ottico e meccanico. Questo prestigioso evento si terrà nella suggestiva cornice della Specola Vaticana a Castel Gandolfo, un luogo iconico per l’astronomia e la scienza.
La giornata sarà ricca di attività, tra cui visite guidate al Museo degli Uffici della Specola e ai telescopi storici, come il celebre Carte du Ciel. Il programma prevede anche momenti di approfondimento scientifico con interventi di esperti, che presenteranno temi di grande rilevanza nel panorama ottico-meccanico, oltre a sessioni di osservazione astronomica serale con strumenti storici.
Un evento che celebra la tradizione e l’innovazione in un settore che guarda alle stelle, offrendo un’occasione per il confronto, la condivisione di esperienze e l’esplorazione di nuove frontiere tecnologiche.
Nel mese di agosto 2016, Gianfranco Coppola, storico ottico, e Adriano Lolli hanno dato vita a un progetto nato con l’obiettivo di riunire i vari operatori del settore. Con il prezioso contributo del compianto Paolo Campaner e di Antonello Satta, la prima edizione dell’evento si è tenuta a dicembre dello stesso anno a Musile di Piave, immortalata in un video disponibile su YouTube: Link al video.
Da quel momento, l’iniziativa è diventata un appuntamento annuale, con l’unica eccezione del periodo segnato dalla pandemia. Nel corso degli anni, l’evento è cresciuto progressivamente, come testimoniato in un video riassuntivo delle prime quattro edizioni, disponibile qui: Link al video.
La sesta edizione si terrà sabato 7 dicembre 2024 presso la prestigiosa sede della Specola Vaticana, a Castel Gandolfo – Albano Laziale. L’organizzazione di questa edizione è curata da Adriano Lolli, con il supporto di Claudio Costa e Antonello Satta.
Programma della Giornata
Programma del VI Simposio Nazionale Ottico Meccanici Italiani
Programma della giornata:
Ore 10-10:59: Arrivo e presentazioni presso la Specola Vaticana, Piazza Sabatini 5.
Ore 11: Visita al Museo degli Uffici della Specola Vaticana, con focus su storia, meteoriti, strumenti e libri antichi.
Ore 12: Visita ai Giardini Vaticani e pranzo al sacco.
Ore 15: Visita alle specole dei telescopi Carte du Ciel e Schmidt e all’attiguo Museo Astronomico.
Ore 17: Sala Conferenze Buffetti: apertura lavori con i saluti delle autorità ecclesiastiche.
Ore 20: Cena al ristorante Sor Capanna, Corso della Repubblica 12, Castel Gandolfo.
Ore 22: Osservazioni astronomiche (Luna, Saturno e Giove) con il telescopio storico Carte du Ciel del 1891.
Interventi e relatori al VI Simposio Ottico Meccanici Italiani
Relatori e tematiche principali
Adriano Lolli (Moderatore): L’ottica di Leonardo e il suo scopritore.
Richard A. D’Souza S.J.: Il telescopio Vaticano a tecnologia avanzata (VATT).
Claudio Costa: Dieci anni di restauro dei telescopi storici della Specola Vaticana.
Roberto Ciabattoni: Uso di filtri e camere multispettrali per la diagnostica su opere d’arte.
Roberto Ragazzoni: Campo grande, grandioso, grandissimo: i limiti dei telescopi.
Fabrizio Tamburini: Luce strutturata: dall’astronomia al computer ottico quantistico.
Massimo D’Apice: Compensatore di Dispersione Atmosferica basato su lamina ottica.
Antonello Satta: H-alpha solare: esperienze di autocostruzione.
Condizioni favorevoli in dicembre per il gigante gassoso. Il 6 dicembre, Giove raggiungerà il perigeo, ossia il punto della sua orbita più vicino alla Terra. Il giorno successivo, il 7 dicembre, Giove sarà in opposizione al Sole esattamente dalla parte opposta rispetto al Sole nel cielo terrestre, sorgendo al tramonto e tramontando all’alba. La configurazione sommata alla precedente contribuirà a far apparire Giove come luminoso e visibile per tutta la notte, ideale per chi desidera osservarne i dettagli, come le sue bande di nubi e i principali satelliti. Infine, il 14 dicembre, Giove avrà una suggestiva congiunzione con la Luna, che passerà a circa 5°28′ a nord del pianeta.
Schema della posizione di Giove in opposizione rispetto al Sole. Orbite e pianeti non sono in scala.
Giove nella costellazione del Toro
Durante l’opposizione, mag -2.8 e diametro apparente 47,1”, Giove si troverà nella costellazione del Toro, una posizione che rende il pianeta facilmente individuabile. Dall’Italia, sarà visibile dalle prime ore della sera fino all’alba, raggiungendo il punto più alto nel cielo meridionale intorno alle 23:53. Sarà sufficiente guardare verso est subito dopo il tramonto per ammirare Giove come un punto estremamente luminoso.
Grazie alla coincidenza con il perigeo, ovvero il punto della sua orbita più vicino alla Terra, Giove apparirà più brillante e con un disco più grande del solito. Non va dimenticato tuttavia che essendo Giove un pianeta esterno la dimensione apparente del disco non subisce particolari variazioni fra la posizione in opposizione e quella in congiunzione con il Sole. Le condizioni saranno quindi ideali per l’osservazione astronomica, sia ad occhio nudo che con l’ausilio di telescopi.
Posizione di Giove in opposizione il 07 dicembre 2024. Crediti https://theskylive.com/
Un invito all’osservazione e alla condivisione
Per osservare Giove al meglio, consigliamo di utilizzare un telescopio, che permetterà di apprezzare dettagli straordinari come le sue bande atmosferiche colorate e i quattro satelliti galileiani: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Non meno spettacolare sarà il 14 dicembre, quando la Luna quasi piena sarà in congiunzione con Giove, creando un suggestivo duetto celeste nella costellazione del Toro.
La redazione di Coelum Astronomia, attraverso la sua rubrica mensile Il cielo del mese, dedica ampio spazio a questi eventi astronomici, con consigli pratici per l’osservazione e approfondimenti sulle caratteristiche dei pianeti. Vi invitiamo a consultare la nostra guida per non perdere nessun dettaglio di questo affascinante fenomeno.
Condividete le vostre immagini su PhotoCoelum
Se avete la passione per la fotografia astronomica, approfittate di queste notti per catturare lo spettacolo di Giove in opposizione. Caricate le vostre immagini su PhotoCoelum, la nostra piattaforma dedicata alla condivisione delle più belle foto astronomiche. Le migliori immagini saranno selezionate e pubblicate nelle nostre future edizioni, contribuendo a diffondere la meraviglia del cielo notturno.
Non dimenticate di condividere con noi le vostre impressioni e osservazioni: il cielo di dicembre ci offre opportunità straordinarie per apprezzare la bellezza e la vastità dell’universo.
Le possibili applicazioni dell’anidride carbonica nello spazio e l’alga spirulina futuro cibo degli astronauti.
Dopo Infinity I pubblicato in Coelum Astronomia n°262 arrivano nuove sonde nello spazio per il Liceo Scientifico di Montegiorgio (FM): il progetto “Infinity 2”.
a cura di Antolini Ettore, Braschi Matteo, Staderini Alessandro, Vitali Chiara.
Indice dei contenuti
Introduzione
Dopo “Infinity 1” nuove sonde spaziali realizzate presso il Liceo Scientifico “E.Medi” di Montegiorgio – IISS “ C.Urbani” (FM) – e lanciate nello spazio dall’Islanda.
Un progetto straordinario quello che è stato portato avanti dagli studenti e dalle studentesse del Liceo che, divisi in due team di lavoro, gruppo “base” e gruppo di “missione”, hanno ideato e realizzato i lanci delle sonde, cariche di esperimenti scientifici, nel nord Europa dal 3 al 12 aprile 2024 insieme ai loro docenti. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha attenzionato fin da subito la rilevanza di questo Progetto presentandolo a Roma. “Infinity2” ha fatto seguito ad un primo esperimento condotto tra il 2022 ed il 2023, consistente nel lancio in Italia di una sonda con pallone aerostatico per studiare i gas serra e per fare riprese video concernenti la curvatura terrestre. Il credito acquisito da questa esperienza didattica, premiata dall’ASI a Milano durante il Contest 2023 “Verso lo spazio con Samantha” direttamente dall’astronauta Samanta Cristoforetti, ha incoraggiato i docenti del team di ricerca e sperimentazione didattica Antolini Ettore,Vallorani Andrea e Vitali Chiara nella prosecuzione dell’applicazione delle discipline STEM alla innovativa “didattica aerospaziale” . Questa volta i ragazzi dello Scientifico “E.Medi”, supportati anche dai docenti Braschi Matteo e Staderini Alessandro, hanno predisposto due nuovi esperimenti scientifici rispetto all’esperienza precedente (Infinity1): la sonda “Ísland”, che ha portato a bordo un esperimento per misurare l’incidenza dei raggi UVB e UVC su tratti genomici della spirulina, e la sonda “Helianthus”, che è stata equipaggiata con due speciali capsule contenenti CO2 per sperimentare la possibilità di trasformare l’anidride carbonica in ossigeno in seguito all’urto delle particelle, accelerate dall’energia d’impatto proveniente dai raggi cosmici. Anche il progetto “Infinity 2”, come il suo precursore “Infinity1”, è nato come attività didattica per alunni di scuola superiore: gli obiettivi pertanto sono stati calibrati in modo da favorire la buona riuscita sia dell’attività scientifico-sperimentale che dell’attività formativa e di crescita personale dei discenti, con l’ambizione di far vivere loro un sogno e l’emozione fantastica di vederlo realizzato tra le loro mani. “Infinity2” è stato condotto grazie al sostegno integrato più fondi diversi riservati alla scuola e qui di seguito elencati: – Monitor ex 440 Transizione ecologica e digitale – Pon Avviso 22550 del 12/04/2022 – FESR REAC EU – Laboratori green, sostenibili e innovativi per le scuole – PNRR Piano Scuola 4.0 – Azione 1 – Next generation class – Ambienti di apprendimento innovativi – PNRR Piano Scuola 4.0 – Azione 2 – Next generation labs – Laboratori per le professioni digitali del futuro – PNRR Riduzione dei divari territoriali – Azioni di prevenzione e contrasto alla dispersione scolastica – PNRR Formazione docenti Progetti nazionali per lo sviluppo di modelli innovativi di didattica digitale integrata La capacità innovativa gestionale con il conseguente impiego creativo delle risorse è stata attenzionata dall’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca) e condivisa nella biblioteca nazionale. Inoltre è risultata fondamentale la collaborazione di Giovanni Fuggetta e il sostegno della Leonardo s.p.a., attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, e il patrocinio dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana).
I 36 ragazzi del Liceo Scientifico “Medi” di Montegiorgio hanno lavorato nei laboratori della scuola opportunamente attrezzati con l’acquisto di strumenti e materiali specifici per la preparazione delle sonde: dieci di loro hanno raggiunto l’Islanda per i lanci mentre gli altri hanno continuato a coordinare le attività dalla sede scolastica. “Infinity 2” è stata un’esperienza sperimentale altamente formativa, che ha collocato l’Istituto Scolastico all’avanguardia nel settore nuovissimo della didattica aerospaziale, addirittura: “prima scuola superiore al mondo” secondo le parole dell’astronauta Samantha Cristoforetti pronunciate durante la restituzione dei dati degli esperimenti in ASI durante la notte dei ricercatori il 27 settembre 2024.
Infinity2 è stata una missione che ha visto impegnati alcuni studenti e i loro docenti ed ha avuto come obiettivo il lancio di palloni aerostatici in Islanda. A ciascun pallone aerostatico è stata agganciata una sonda costruita dagli stessi studenti e dai loro insegnanti, ognuna con un diverso esperimento. Uno dei lanci ha riguardato l’invio nella stratosfera di una sonda (denominata Ìsland) con agganciate due capsule contenenti alga spirulina (Arthrospira platensis). L’intento è stato quello di misurare, tramite analisi del DNA eseguita prima e dopo il lancio, l’incidenza dei raggi UVB, UVC e cosmici su tratti genomici della spirulina. Nella stessa esperienza, inoltre, si è confrontata anche la capacità di isolamento termico dell’acqua e della CO2.
Una delegazione di ragazzi del team Infinity2: Miconi Chiara, Finucci Sofia, Monini Matilde, Santucci Nicola, Romagnoli Alessio, Tiburzi Alessandro, Santoni Tommaso, Vittori Matteo, Espinosa Valentino, Nori Nicola.
Un altro lancio ha previsto invece di far salire fino alla stratosfera una sonda (denominata Helianthus) con agganciate due capsule in vetro contenenti CO2. L’esperimento mirava a verificare la possibilità di trasformare l’anidride carbonica in ossigeno molecolare a seguito dell’urto delle particelle della stessa CO2 accelerate dall’energia d’impatto proveniente dai raggi cosmici su un catalizzatore in oro.
Sonda Island
Il meccanismo d’azione ipotizzato consiste nel far sì che i raggi cosmici colpiscano la molecola di anidride carbonica. L’urto con conseguente trasferimento di energia dal raggio cosmico alla molecola di CO2 dovrebbe accelerare la molecola fino a farla urtare contro il catalizzatore in oro con un’energia tale da provocare la separazione del carbonio dall’ossigeno. Tale processo innescherebbe una reazione a catena che dovrebbe portare ad una trasformazione della CO2 in ossigeno molecolare.
Partendo dai risultati dell’esperimento degli scienziati Giapis e Yao del California Institute of Technology (Caltech) in cui sono riusciti a convertire l’anidride carbonica in ossigeno molecolare, si è pensato di utilizzare i raggi cosmici per accelerare la CO2. L’energia necessaria a far acquisire sufficiente energia cinetica da spezzare la molecola di anidride carbonica ed avere la ricombinazione molecolare dell’ossigeno a seguito dell’urto con la lamina d’oro è di almeno 80 eV. L’energia dei raggi cosmici è tra i 108 eV e 1020 eV quindi enormemente superiore.
Sonda Helianthus
Oltre ai dati in letteratura emersi, la nostra analisi statistica ha confermato la possibilità di intercettare raggi cosmici con un’energia sufficiente ad innescare la reazione di scissione con una probabilità prossima al 100% non appena al di sopra dei 15 Km di quota.
Da letteratura specializzata risulta che il numero di particelle di alta energia almeno 1 GeV che colpisce la superficie di 1 metro quadrato in un secondo è circa 1000 (tra i 15 ed i 40 km di altezza). Nel nostro caso la superficie interessata (lamina d’oro) era di circa 20 cm2.
La sonda è rimasta esposta ai raggi per circa 115 minuti (6900 s) e la probabilità considerando una distribuzione Poissoniana che venisse colpita da almeno un raggio era praticamente del 100%:
Ad essere colpite dai raggi cosmici sono state delle ampolle in vetro (sistemi di reazione) con all’interno una lamina in oro con la funzione di catalizzatore. Nelle ampolle, provviste di apposito rubinetto di carica/scarica, è stato dapprima fatto il vuoto parziale, e successivamente sono state caricate di anidride carbonica I vettori di lancio utilizzati nei due esperimenti sono stati due sonde completamente progettate e realizzate nei laboratori della scuola. Le sonde sono state abbinate ciascuna ad un vettore di trazione, un pallone aerostatico P2000 con punto di esplosione tra i 39000 e i 41000 m.
Gonfiaggio e lancio sonda
ANALISI DEI DATI
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Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)
La ricerca sulle onde gravitazionali continua a rivelare nuovi orizzonti nell’astronomia moderna. Uno dei protagonisti di questa rivoluzione è il MeerKAT Pulsar Timing Array (MPTA), un progetto che sfrutta le straordinarie capacità del radiotelescopio MeerKAT per esplorare fenomeni cosmici a frequenze nanohertz. Questo approccio unico offre una finestra su eventi che si svolgono su scale temporali e spaziali vastissime, come la fusione di buchi neri supermassicci.
La sfida di osservare l’universo con i pulsar
I pulsar millisecondari sono al centro di questo straordinario esperimento. Questi oggetti, che emettono impulsi radio con regolarità estrema, funzionano come orologi cosmici incredibilmente precisi. Misurando con accuratezza i tempi di arrivo di questi impulsi sulla Terra, gli scienziati possono individuare lievi variazioni attribuibili alla distorsione dello spazio-tempo causata dalle onde gravitazionali.
Il MPTA ha registrato osservazioni di 83 pulsar in un periodo di 4,5 anni, accumulando un’enorme quantità di dati ad alta precisione. Con un errore mediano di soli 3,1 microsecondi, questi dati rappresentano uno dei dataset più completi e dettagliati mai raccolti in questo campo. Secondo il team, questa precisione consente di esplorare il fondo stocastico di onde gravitazionali, una sorta di “rumore cosmico” generato dall’incoerente sovrapposizione di onde gravitazionali provenienti da sorgenti come binarie di buchi neri supermassicci e fenomeni esotici dell’universo primordiale.
Prime evidenze di un fondo gravitazionale
Le osservazioni del MPTA hanno fornito indizi incoraggianti sulla presenza di un fondo gravitazionale a frequenze nanohertz. Questo segnale si manifesta come una correlazione temporale nei residui di tempo misurati tra i pulsar. Tali correlazioni, modellate attraverso la funzione Hellings-Downs, indicano che il segnale potrebbe effettivamente derivare da onde gravitazionali e non da processi casuali o da rumori strumentali.
Uno degli aspetti più affascinanti di questa ricerca è la rilevazione di un potenziale “hotspot” anisotropico nella mappa delle onde gravitazionali a 7 nHz. Sebbene sia necessario approfondire per confermare la natura astrofisica di questo segnale, questa scoperta potrebbe suggerire che alcune sorgenti di onde gravitazionali siano distribuite in modo non uniforme nel cielo.
Il video mostra una rappresentazione artistica di coppie di buchi neri supermassicci e del tessuto spazio-temporale distorto dal loro impatto. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology
Collaborazione e confronto globale
I risultati del MPTA si inseriscono in un contesto internazionale di ricerca, in cui altre collaborazioni, come il North American Nanohertz Observatory for Gravitational Waves (NANOGrav) e l’European Pulsar Timing Array (EPTA), hanno riportato evidenze simili. La loro significatività statistica varia tra 3 e 4𝜎, ma un consenso definitivo sulla scoperta di un fondo gravitazionale richiede ulteriori verifiche.
La precisione unica di MeerKAT permette però al MPTA di emergere come un contributore fondamentale. I dati mostrano un’ampiezza del segnale gravitazionale leggermente superiore rispetto a quella registrata da altre collaborazioni, un risultato che potrebbe derivare dalla maggiore sensibilità del radiotelescopio MeerKAT e dalla qualità del suo set di dati.
Una finestra su fenomeni straordinari
La ricerca del MPTA non si limita a confermare l’esistenza di onde gravitazionali, ma punta anche a caratterizzarne la distribuzione e l’origine. Se confermata, l’anisotropia del segnale potrebbe fornire indizi fondamentali sull’evoluzione dei buchi neri supermassicci e sulla loro distribuzione nell’universo. Allo stesso modo, un fondo gravitazionale isotropo potrebbe supportare teorie legate ai fenomeni dell’universo primordiale, come la formazione di stringhe cosmiche o le transizioni di fase.
Il futuro della ricerca con MeerKAT
Con un dataset che continua a crescere, il futuro della ricerca del MPTA appare promettente. Nuove osservazioni e aggiornamenti tecnologici miglioreranno ulteriormente la sensibilità, permettendo di distinguere con maggiore precisione i segnali astrofisici dai rumori di fondo. Questo lavoro non solo aiuterà a confermare l’esistenza del fondo gravitazionale, ma aprirà anche la strada a una nuova comprensione dei processi che hanno plasmato il nostro universo.
Mentre gli scienziati continuano a esplorare le onde gravitazionali con il MPTA, una cosa è certa: siamo testimoni di una nuova era dell’astronomia, in cui la comprensione dell’universo si espande ben oltre i limiti della luce visibile, raggiungendo le pieghe più sottili dello spazio-tempo stesso.
Le antenne che formano il radiotelescopio sudafricano MeerKAT. Crediti: Enrico Sacchetti / Inaf
Il MeerKAT Pulsar Timing Array è un esperimento internazionale che utilizza il sensibilissimo radiotelescopio MeerKAT (gestito dal South African Radio Astronomy Observatory) proprio per osservare, circa ogni due settimane, decine e decine di pulsar e misurare il tempo di arrivo degli impulsi radio con una precisione che può raggiungere le decine di nanosecondi. “Grazie a queste caratteristiche, MPTA costituisce il più potente rivelatore di onde gravitazionali di frequenza ultra bassa nell’intero emisfero australe”, sottolinea Federico Abbate, ricercatore dell’INAF di Cagliari e tra gli autori di tutti e tre gli articoli pubblicati oggi.
A 18 mesi di distanza dalla prima serie di pubblicazioni da parte di altri tre esperimenti internazionali (tra cui l’European Pulsar Timing Array, EPTA, in cui sono è coinvolto INAF, l’Università di Milano Bicocca e il Gran Sasso Science Institute), i risultati pubblicati oggi offrono nuove prospettive per la comprensione dei buchi neri più massicci dell’Universo, sul loro ruolo nella formazione del cosmo e sull’architettura cosmica che hanno lasciato dietro di sé.
Caterina Tiburzi, ricercatrice dell’INAF di Cagliari coinvolta nella collaborazione EPTA, spiega: “Comprendere e modellare il rumore di fondo che affligge il segnale delle pulsar, causato dagli effetti del gas ionizzato interposto tra le stelle, la Terra e il Sole, è l’elemento chiave per confermare definitivamente i risultati di MPTA, così come quelli di EPTA e degli altri esperimenti precedenti. I nuovi ricevitori a bassa frequenza di MeerKAT saranno strumenti straordinari per questo scopo”.
“Oltre all’entusiasmo per i nuovi esiti osservativi – conclude infine Andrea Possenti, dell’INAF Cagliari, e membro della collaborazione MPTA fin dalla sua fondazione nel 2018 – questo è un momento cruciale, che dimostra come la collaborazione internazionale negli esperimenti di tipo Pulsar Timing Array, nei quali INAF è coinvolto da oltre 20 anni, spalancherà infine le porte dell’astronomia delle onde gravitazionali di frequenza ultra bassa”. Interviste a cura di Media INAF.
Fig. 2 - Variazione della declinazione apparente della Luna nel biennio 2024-2025: periodo lunistiziale.
Dati: JPL’s Horizons system NASA (DE441), coordinate topocentriche, intervallo un’ora. Monte Mario, Roma (Lat. 41°55′21″N; Long. 12°27′09″E).
La Luna è protagonista di diversi movimenti apparenti, alcuni dei quali danno vita a fenomeni affascinanti e spesso rari. Un esempio significativo sono i lunistizi, che si verificano con un ciclo di circa 18,6 anni e che possono essere osservati solo poche volte nel corso della vita di una persona.
Nel 2025 avremo l’opportunità di assistere ai lunistizi maggiori e sarà possibile ammirare la Luna sorgere e tramontare nei suoi punti di declinazione massima e minima.
Il prof. Salvatore Marinucci ci guida attraverso una spiegazione dettagliata del fenomeno, offrendo utili consigli per prepararsi al meglio e non perdere questi eventi straordinari.
I lunistizi maggiori sono fenomeni astronomici complessi che offrono preziose opportunità per comprendere l’influenza delle forze gravitazionali sulla Luna. Per le antiche civiltà questi eventi probabilmente rappresentavano momenti di connessione con il cielo e forse erano inclusi nei loro calendari rituali. Oggi, grazie agli strumenti moderni e ai progressi dell’astronomia, possiamo documentare questi inconsueti fenomeni. Il 2025 offrirà interessanti occasioni per appassionati e osservatori del cielo, che potranno catturare immagini e video indimenticabili del nostro affascinante satellite naturale.
Generalità sui lunistizi
I lunistizi sono fenomeni astronomici che si verificano ciclicamente. Durante il periodo dei lunistizi maggiori, la Luna sorge e tramonta progressivamente più a nord e più a sud fino a raggiungere posizioni limite ogni 18,6 anni circa. Quando la Luna sorge al suo estremo settentrionale descrive un ampio arco nel cielo, apparendo molto alta. Invece, quando sorge al suo estremo meridionale percorre un arco più breve, apparendo molto bassa all’osservatore: questo percorso della Luna è particolarmente evidente durante il plenilunio. Si hanno i lunistizi maggiori, in generale, quando la Luna raggiunge posizioni limite, ovvero i punti più estremi a settentrione e a meridione (Fig. 1).
Fig. 1 – Le posizioni assunte dalla Luna (L) al suo sorgere sull’orizzonte durante i lunistizi minori e maggiori (periodo 18,6 anni circa). Confronto con le posizioni estreme raggiunte dal Sole (S) in un anno. A ovest, la situazione risulta essere sostanzialmente simmetrica.
Nel corso del biennio 2024-2025 si può notare che la Luna sorge e tramonta alternativamente più a nord e più a sud del solito con un periodo di circa due settimane, raggiungendo declinazioni massime e minime quasi mensilmente (Fig.2). La Luna sorge e tramonta sull’orizzonte locale in posizioni più distanti rispetto a quelle raggiunte dal Sole, che si arresta ai solstizi d’estate e d’inverno.
Fig. 2 – Variazione della declinazione apparente della Luna nel biennio 2024-2025: periodo lunistiziale. Dati: JPL’s Horizons system NASA (DE441), coordinate topocentriche, intervallo un’ora. Monte Mario, Roma (Lat. 41°55′21″N; Long. 12°27′09″E).
Le antiche popolazioni, che osservavano la Luna per scopi pratici e rituali, potrebbero aver preso in considerazione questi fenomeni, anche se accadono poco frequentemente nel corso della vita di un individuo. Diversi studi suggeriscono che numerosi siti archeologici siano allineati ai lunistizi. Sebbene non ci siano prove definitive sulla consapevolezza degli osservatori dell’epoca, è plausibile che questi eventi suggestivi abbiano avuto un qualche ruolo nelle antiche culture.
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Quest’anno, Coelum Astronomia sceglie di celebrare il Natale con un gesto concreto di solidarietà e supporto alla formazione scolastica. Dal 1° dicembre 2024 al 6 gennaio 2025, per ogni abbonamento sottoscritto o rinnovato, Coelum attiverà due abbonamenti gratuiti a favore di istituti scolastici di secondo grado.
Perché lo facciamo?
Crediamo che la divulgazione scientifica debba raggiungere anche i più giovani e che le scuole siano il terreno fertile per seminare curiosità, passione e conoscenza. Con questa iniziativa, vogliamo contribuire a portare più scienza nelle aule, arricchendo il percorso educativo degli studenti.
Come funziona l’iniziativa?
1️⃣ Ogni abbonamento, due omaggi scolastici Per ogni abbonamento sottoscritto o rinnovato durante il periodo natalizio, due istituti scolastici di secondo grado riceveranno un abbonamento gratuito a Coelum Astronomia, valido per un anno.
2️⃣ Una lettera speciale nel primo numero Gli istituti selezionati riceveranno il primo numero dell’abbonamento accompagnato da una lettera che presenterà l’iniziativa e il valore educativo della rivista.
3️⃣ Il tuo contributo conta! Gli abbonati potranno segnalare le scuole che desiderano includere nell’iniziativa. Inoltre, sarà possibile scegliere se essere citati nella lettera inviata all’istituto oppure mantenere l’anonimato. Se non ci sono segnalazioni, Coelum sceglierà le scuole beneficiarie in base a criteri di necessità e interesse.
Un impegno a lungo termine per le scuole
Questa iniziativa si inserisce in un programma più ampio che Coelum dedicherà agli istituti scolastici per tutto il 2025. Con la nostra rubrica didattica già esistente e nuovi servizi in arrivo, puntiamo a supportare sempre di più gli insegnanti di materie scientifiche (STEM) e a promuovere l’astronomia e l’aerospazio come strumenti per ispirare gli studenti.
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L'immagine mostra una galassia su uno sfondo nero dello spazio. La galassia appare come un disco molto oblongo di colore blu, inclinato da sinistra a destra (circa dalle ore 10 alle ore 5). Al centro spicca un piccolo nucleo luminoso. Un disco interno più definito presenta una dispersione di stelle punteggiate, mentre il disco esterno, di tonalità bianco-azzurro, ha una struttura irregolare e simile a nuvole. Sullo sfondo nero dello spazio si notano puntini colorati, rappresentanti galassie lontane, disseminati intorno alla galassia principale. Credit:
NASA, ESA, CSA, STScI
Il telescopio spaziale James Webb JWST ci regala un nuovo spettacolare sguardo alla Galassia Sombrero, una delle strutture cosmiche più affascinanti del nostro universo. Grazie alla sua straordinaria capacità di osservare l’infrarosso, Webb ha catturato dettagli mai visti prima, offrendo agli astronomi informazioni preziose sulla composizione, la storia e i segreti di questa galassia. Scopriamo insieme le ultime rivelazioni di questa icona cosmica, immersa tra polveri stellari e luce antica.
L’immagine mostra una galassia su uno sfondo nero dello spazio. La galassia appare come un disco molto oblongo di colore blu, inclinato da sinistra a destra (circa dalle ore 10 alle ore 5). Al centro spicca un piccolo nucleo luminoso. Un disco interno più definito presenta una dispersione di stelle punteggiate, mentre il disco esterno, di tonalità bianco-azzurro, ha una struttura irregolare e simile a nuvole. Sullo sfondo nero dello spazio si notano puntini colorati, rappresentanti galassie lontane, disseminati intorno alla galassia principale. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI
Il telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA continua a stupire il mondo scientifico e il pubblico con le sue straordinarie immagini del cosmo. Stavolta, il protagonista è la Galassia Sombrero (M104), che si presenta in tutta la sua maestosità in una nuova immagine catturata dall’osservatorio spaziale.
La Galassia Sombrero, nota per la sua iconica forma a cappello con un nucleo brillante circondato da un disco scuro di polvere, si trova a circa 31 milioni di anni luce dalla Terra nella costellazione della Vergine. Grazie alle capacità all’infrarosso di Webb, i dettagli precedentemente nascosti di questa galassia sono ora visibili con una chiarezza senza precedenti.
I ricercatori affermano che la natura grumosa della polvere, dove MIRI rileva molecole contenenti carbonio chiamate idrocarburi aromatici policiclici, può indicare la presenza di giovani regioni di formazione stellare. Tuttavia, a differenza di alcune galassie studiate con Webb, tra cui Messier 82 , dove nascono 10 volte più stelle rispetto alla Via Lattea, la galassia Sombrero non è un focolaio particolare di formazione stellare. Gli anelli della galassia Sombrero producono meno di una massa solare di stelle all’anno, rispetto alle circa due masse solari all’anno della Via Lattea.
Il buco nero supermassiccio al centro della galassia Sombrero, noto anche come nucleo galattico attivo (AGN), è piuttosto docile, persino con una massa di ben 9 miliardi di masse solari. È classificato come un AGN a bassa luminosità, che fa lentamente uno spuntino con il materiale in caduta dalla galassia, mentre emette un getto luminoso, relativamente piccolo.
Sempre all’interno della galassia Sombrero risiedono circa 2000 ammassi globulari, una raccolta di centinaia di migliaia di vecchie stelle tenute insieme dalla gravità. Questo tipo di sistema funge da pseudo laboratorio per gli astronomi per studiare le stelle: migliaia di stelle all’interno di un sistema con la stessa età, ma masse e altre proprietà variabili rappresentano un’intrigante opportunità per studi comparativi.
Un’immagine a due pannelli. Vista Webb (in alto): La galassia appare come un disco molto oblongo, blu, che si estende diagonalmente (dalle 10 alle 5). Il nucleo è piccolo e brillante al centro, circondato da un disco interno chiaro punteggiato di stelle. Il disco esterno, bianco-azzurro, ha una struttura irregolare, simile a nuvole. Vista Hubble (in basso): La galassia si presenta come un disco oblongo di colore bianco pallido, con un nucleo brillante che domina il disco interno. Il disco esterno è più scuro e presenta una struttura irregolare. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI, Hubble Heritage Team (STScI/AURA)
L’immagine rivela un disco interno luminoso, punteggiato di stelle, che sembra emergere dal nucleo brillante. Intorno, un disco esterno bianco-azzurro mostra strutture irregolari, simili a nuvole, che sembrano catturare la luce delle stelle in formazione. Sullo sfondo, lo spazio nero è punteggiato di galassie lontane che testimoniano l’immensità del cosmo.
Questa osservazione offre agli scienziati un’opportunità unica per studiare la struttura e la composizione della Galassia Sombrero. I dati raccolti da Webb potranno aiutare a rispondere a domande fondamentali sulla formazione e l’evoluzione delle galassie a spirale con bulbi prominenti.
Il telescopio JWST, lanciato nel 2021, continua a dimostrare la sua capacità di spingersi oltre i limiti dell’esplorazione cosmica, aprendo nuove finestre sul nostro universo. Con questa immagine, Webb non solo ci mostra un capolavoro galattico, ma stimola anche l’immaginazione e il desiderio di comprendere meglio l’universo che ci circonda.
Raggi X: NASA/CXC/Stanford Univ./M. de Vries et al.; Ottico: (Hubble) NASA/ESA/STScI e (Palomar) Hale Telescope/Palomar/CalTech; Elaborazione delle immagini: NASA/CXC/SAO/L. Frattare
Gli astronomi hanno recentemente osservato un oggetto cosmico straordinario, soprannominato Nebulosa Chitarra, utilizzando i telescopi spaziali Chandra e Hubble della NASA. Questa struttura, associata alla pulsar PSR B2224+65, deve il suo nome alla somiglianza con una chitarra, visibile nella luce dell’idrogeno incandescente. La forma caratteristica deriva da bolle create dalle particelle espulse dalla pulsar PSR B2224+65 attraverso un vento costante.
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Al vertice della “chitarra” si trova la pulsar, una stella di neutroni in rapida rotazione, residuo del collasso di una stella massiccia. Mentre si muove nello spazio, la pulsar emette un filamento di particelle e luce X, catturato da Chandra, che si estende per circa due anni luce. Questo filamento ha mostrato variazioni nel corso di due decenni, come evidenziato dalle osservazioni di Chandra nel 2000, 2006, 2012 e 2021.
La combinazione di rotazione rapida e campi magnetici intensi nella pulsar porta all’accelerazione delle particelle e alla produzione di radiazioni ad alta energia, generando coppie di elettroni e positroni. Queste particelle, spiraleggiando lungo le linee del campo magnetico, emettono raggi X rilevati da Chandra. Quando la pulsar e la sua nebulosa circostante attraversano regioni di gas più denso, le particelle più energetiche riescono a sfuggire, formando il filamento osservato.
Raggi X: NASA/CXC/Stanford Univ./M. de Vries et al.; Ottico: (Hubble) NASA/ESA/STScI e (Palomar) Hale Telescope/Palomar/CalTech; Elaborazione delle immagini: NASA/CXC/SAO/L. Frattare
Le osservazioni suggeriscono che le variazioni nella densità del mezzo interstellare influenzano sia la formazione delle bolle nella nebulosa a idrogeno sia le fluttuazioni nel filamento di raggi X, simile a una fiamma che si accende e si spegne. Questo fenomeno offre agli astronomi l’opportunità di studiare come elettroni e positroni si muovono attraverso il mezzo interstellare e come questi processi contribuiscono all’iniezione di particelle nel cosmo.
La stella WOH G64, catturata dallo strumento GRAVITY sul Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO). Si tratta della prima immagine ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, la Via Lattea. La stella si trova nella Grande Nube di Magellano, a oltre 160.000 anni luce di distanza. Al centro dell’immagine si nota un bozzolo luminoso di polvere che avvolge la stella. Un anello ellittico più debole intorno ad esso potrebbe rappresentare il bordo interno di un toro di polvere, ma saranno necessarie ulteriori osservazioni per confermare questa ipotesi. Credit:
ESO/K. Ohnaka et al.
Un passo significativo nell’astronomia è stato compiuto con l’acquisizione della prima immagine ravvicinata di una stella morente in una galassia oltre la Via Lattea.
Grazie alla precisione del Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’ESO, gli astronomi hanno immortalato WOH G64, una supergigante rossa situata nella Grande Nube di Magellano, a 160.000 anni luce da noi. Questo traguardo, guidato dall’astrofisico Keiichi Ohnaka dell’Universidad Andrés Bello, rappresenta un punto di svolta per lo studio delle stelle extragalattiche, finora estremamente difficili da osservare.
La stella WOH G64, catturata dallo strumento GRAVITY sul Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO). Si tratta della prima immagine ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, la Via Lattea. La stella si trova nella Grande Nube di Magellano, a oltre 160.000 anni luce di distanza. Al centro dell’immagine si nota un bozzolo luminoso di polvere che avvolge la stella. Un anello ellittico più debole intorno ad esso potrebbe rappresentare il bordo interno di un toro di polvere, ma saranno necessarie ulteriori osservazioni per confermare questa ipotesi. Credit: ESO/K. Ohnaka et al.
Una stella gigante in trasformazione Con una massa circa 2000 volte superiore a quella del Sole, WOH G64 è nota per essere una delle stelle più grandi della sua categoria. L’immagine, ottenuta con lo strumento di seconda generazione GRAVITY, mostra un bozzolo di polvere e gas che circonda la stella in una forma inaspettata e allungata, simile a un uovo. Secondo Ohnaka, questo bozzolo potrebbe essere il risultato della massiccia espulsione di materiale prima dell’inevitabile esplosione in supernova.
Le osservazioni hanno rivelato che la stella si è notevolmente affievolita nell’ultimo decennio, un segno di cambiamenti significativi nelle sue fasi finali. Gli scienziati ritengono che il bozzolo e il suo oscuramento possano essere influenzati da materiali espulsi o dalla presenza di una stella compagna, ancora ipotetica.
Un’opportunità unica di studio in tempo reale Osservare l’evoluzione di una stella di questa portata è una rara opportunità per gli astronomi. Secondo Gerd Weigelt del Max Planck Institute for Radio Astronomy, questi cambiamenti offrono la possibilità di studiare in diretta gli ultimi istanti di vita di una supergigante rossa. Jacco van Loon, direttore dell’Osservatorio Keele, ha sottolineato l’importanza di WOH G64 come caso estremo di perdita di massa e oscuramento, un fenomeno che potrebbe precedere una catastrofica esplosione.
WOH G64, situata nella Grande Nube di Magellano a oltre 160.000 anni luce di distanza, è una stella morente con una dimensione circa 2000 volte quella del Sole. Questa immagine rappresenta la prima foto ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, resa possibile dal Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’ESO, in Cile. La foto, ottenuta con lo strumento GRAVITY del VLTI, mostra la stella avvolta in un grande bozzolo di polvere a forma di uovo. Accanto all’immagine reale, un’illustrazione artistica ricostruisce la geometria delle strutture attorno alla stella, tra cui l’involucro luminoso e un torus polveroso più debole. La conferma della presenza e della forma di questo torus richiederà ulteriori osservazioni. Credit: ESO/K. Ohnaka et al., L. Calçada
Strumentazione e futuro delle osservazioni Le difficoltà di osservazione aumentano man mano che la stella si affievolisce. Tuttavia, futuri aggiornamenti come GRAVITY+ promettono di migliorare la capacità del VLTI, consentendo ulteriori studi di follow-up. Le nuove osservazioni aiuteranno a comprendere meglio i meccanismi delle fasi finali delle stelle giganti e a verificare modelli teorici.
Questo progresso segna una pietra miliare nell’osservazione delle stelle extragalattiche e prepara il terreno per scoperte future, aumentando la comprensione della vita e della morte stellare su scala cosmica.
The sparkling band of the Milky Way Galaxy backdrops the Nicholas U. Mayall 4-meter Telescope, located at Kitt Peak National Observatory (KPNO) near Tucson, Arizona.
Dopo le osservazioni del telescopio spaziale James Webb (JWST) pubblicate qualche giorno fa in grado di sollevare dubbi fondamentali sul modello standard Lambda-Cdm a favore della sempre più nota gravità modificata Mond (Modified Newtonian Dynamics), il progetto DESI del NOIRLab interviene per ristabilire gli equilibri.
I ricercatori hanno utilizzato il Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI) per mappare quasi sei milioni di galassie in 11 miliardi di anni di storia cosmica, consentendo loro di studiare come le galassie si sono raggruppate nel tempo e di indagare la crescita della struttura cosmica. Questa complessa analisi dei dati del primo anno del DESI fornisce uno dei test più rigorosi finora della teoria generale della relatività di Einstein.
La gravità ha modellato il nostro cosmo. La sua forza attrattiva ha trasformato le piccole variazioni nella distribuzione della materia nell’Universo primordiale nei filamenti tentacolari di galassie che osserviamo oggi. Un nuovo studio, basato sul primo anno di dati raccolti dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI), ha tracciato la crescita di questa struttura cosmica negli ultimi 11 miliardi di anni, fornendo il test più preciso mai realizzato sul comportamento della gravità su scala cosmica.
Il Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI) in azione sotto il cielo notturno sul telescopio Nicholas U. Mayall 4-meter Telescope at Kitt Peak National Observatory in Arizona. Credit: KPNO/NOIRLab/NSF/AURA/T. Slovinský
DESI, un avanzato strumento scientifico, è in grado di catturare la luce di 5000 galassie simultaneamente. Progettato e gestito grazie ai finanziamenti del DOE Office of Science, DESI è installato sul telescopio Nicholas U. Mayall da 4 metri presso il Kitt Peak National Observatory, parte del programma NSF NOIRLab. L’indagine del cielo, giunta al quarto anno dei cinque previsti, si propone di osservare circa 40 milioni di galassie e quasar entro la fine del progetto.
Il progetto DESI coinvolge una collaborazione internazionale di oltre 900 ricercatori provenienti da più di 70 istituzioni in tutto il mondo, sotto la guida del Lawrence Berkeley National Laboratory (Berkeley Lab) del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti.
Nel nuovo studio, i ricercatori DESI hanno confermato che la gravità si comporta come previsto dalla teoria generale della relatività di Einstein. Questo risultato consolida il modello attuale dell’Universo e restringe il campo delle possibili teorie di gravità modificata, proposte per spiegare fenomeni come l’espansione accelerata dell’Universo, solitamente attribuita all’energia oscura.
La collaborazione ha pubblicato i risultati in diversi articoli disponibili oggi su arXiv, basandosi sull’analisi di quasi sei milioni di galassie e quasar. Grazie a questi dati, i ricercatori sono riusciti a risalire fino a 11 miliardi di anni nel passato, realizzando la misurazione più precisa mai ottenuta sulla crescita della struttura cosmica, superando gli sforzi precedenti che hanno richiesto decenni.
Risultati significativi
I dati odierni offrono un’analisi estesa del primo anno di osservazioni DESI, che ad aprile ha prodotto la più grande mappa 3D dell’Universo fino a oggi, suggerendo che l’energia oscura potrebbe evolversi nel tempo. Mentre i risultati di aprile si concentravano su un aspetto specifico del raggruppamento galattico, noto come oscillazioni acustiche barioniche (BAO), questa nuova analisi si spinge oltre, studiando la distribuzione di galassie e materia su diverse scale spaziali. Inoltre, ha fornito vincoli più stringenti sulla massa dei neutrini, le uniche particelle fondamentali la cui massa non è ancora stata misurata con precisione.
L’accuratezza dei dati DESI ha permesso di ottenere i limiti più rigorosi mai registrati sui neutrini, complementari a quelli derivati da esperimenti di laboratorio. Questi risultati sono stati ottenuti grazie a mesi di verifiche incrociate e all’impiego di tecniche per mitigare pregiudizi inconsci, mantenendo i risultati nascosti agli scienziati fino alla fase finale.
Secondo Stephanie Juneau, astronoma del NSF NOIRLab e membro della collaborazione DESI: “Questa ricerca fa parte di uno degli obiettivi principali dell’esperimento: comprendere le caratteristiche fondamentali del nostro Universo su larga scala, come la distribuzione della materia e il comportamento dell’energia oscura, oltre a studiare aspetti fondamentali delle particelle. Confrontando l’evoluzione della materia con le previsioni attuali, tra cui la relatività generale di Einstein, stiamo restringendo sempre più i modelli di gravità.”
La collaborazione sta attualmente analizzando i dati raccolti nei primi tre anni e prevede di pubblicare misurazioni aggiornate sull’energia oscura e sulla storia di espansione dell’Universo nel prossimo anno. I risultati odierni, coerenti con le precedenti analisi, rafforzano l’ipotesi di un’energia oscura in evoluzione, aumentando le aspettative per le prossime scoperte.
Uno sguardo verso il futuro
Mark Maus, dottorando presso il Berkeley Lab e l’UC Berkeley, ha sottolineato: “La materia oscura costituisce circa un quarto dell’Universo e l’energia oscura un altro 70%, ma non sappiamo ancora cosa siano realmente. Poter osservare l’Universo e affrontare queste domande fondamentali è straordinario.”
Sebbene i dati DESI del primo anno non siano ancora accessibili al pubblico, i ricercatori possono già consultarli in anteprima. Questi dati sono disponibili sotto forma di file tramite la collaborazione DESI e come database ricercabili di cataloghi e spettri tramite l’Astro Data Lab e SPARCL del Community Science and Data Center, un programma del NSF NOIRLab.
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27, 28 e 29 NOVEMBRE P.V. AGENZIA SPAZIALE ITALIANA VIA DEL POLITECNICO, ROMA
(Roma) L’ASI – Agenzia Spaziale Italiana ospita, dal 27 al 29 novembre p.v., SWICo2024, terzo congresso della Space Weather Italian Community. Tre giorni di interventi e dibattiti: occasione per mettere a confronto e rendere disponibili le competenze del Gruppo Nazionale “Space Weather Italian Community” (SWICo) che sono presenti in varie università, in Enti di Ricerca (INAF, INGV, INFN, CNR), in diverse realtà industriali e presso l’Agenzia Spaziale Italiana.
“Con il progressivo sviluppo di sistemi tecnologici sempre più avanzati, le più significative manifestazioni dell’attività solare (emissioni di massa coronale, brillamenti,…) avranno un crescente impatto sulla nostra quotidianità – spiega il Prof. Umberto Villante, Presidente SWICo – Dipartimento Scienze Fisiche e Chimiche, Università degli Studi di L’Aquila – determinando ulteriori problemi per i satelliti, per le comunicazioni, per il controllo del traffico aereo, blackout nella distribuzione di energia elettrica, etc., con conseguenze economiche assai rilevanti. E’ quindi indispensabile sviluppare le attività e gli studi in questo campo di ricerca che va, appunto, sotto il nome di Space Weather”. Focus dei lavori di SWICo2024 e degli interventi in programma, gli studi sulle tempeste spaziali di elevata intensità che hanno il potenziale di minacciare le attività spaziali e i voli aerei lungo le rotte polari e che possono, inoltre, disturbare le comunicazioni radio, deteriorare la localizzazione GNSS ed essere la causa di blackout. Ne segue che, oggigiorno, lo studio e l’osservazione dello Space Weather rappresentano un aspetto chiave per le attività spaziali e per le possibili ricadute sulla società. Per questo motivo le grandi organizzazioni scientifiche internazionali, come ad esempio il COSPAR (Committee on Space Research) e la WMO (World Meteorological Organisation), e le agenzie spaziali come NASA (USA), ESA (EU), CNSA (PRC), JAXA (JP), DLR (D), e quella italiana (ASI) contribuiscono attivamente a programmi internazionali di Space Situational Awareness/Space Weather. Il Gruppo Nazionale “Space Weather Italian Community” (SWICo), costituito il 31 ottobre 2014, vede la partecipazione di personale delle Università, degli Enti di Ricerca e del settore privato con competenze scientifico-tecnologica nei settori di interesse del Gruppo. I relativi hanno lo scopo di comprendere e prevedere lo stato del Sole, degli ambienti interplanetari e planetari, e le perturbazioni solari e non solari che li influenzano, nonché di prevedere e fornire previsioni utili relative agli impatti potenziali su sistemi biologici e tecnologici.
Come in occasione dei precedenti Congressi, anche il Terzo Congresso SWICo intende essere un momento di incontro e confronto dell’intera comunità italiana impegnata nelle discipline in questione. Il Congresso è pertanto aperto anche ai non appartenenti a SWICo. E’ inoltre particolarmente incoraggiata la partecipazione attiva di studenti, dottorandi e giovani ricercatori. L’appuntamento dell’ASI offre, inoltre, l’opportunità del conferimento del Premio “Franco Mariani”, istituito per onorare la memoria di una personalità scientifica di statura internazionale, promuovendo il coinvolgimento di giovani ricercatori nelle discipline inerenti lo Space Weather.
SKA-Mid - wide angle artistimpression.jpg Una rappresentazione artistica di SKA-Mid, in Sud Africa: le antenne esistenti del progetto MeerKAT (a destra nell’immagine, ripresa reale) saranno incorporate nella struttura completa di SKA-Mid. La parte a sinistra nell’immagine è una rappresentazione artistica (Credits SKAO)
La ricerca astronomica si prepara a una svolta epocale grazie all’introduzione di tecnologie sempre più avanzate che aprono nuov frontiere nella comprensione dell’Universo. Tra queste, il progetto Square Kilometer Array (SKA) si distingue come una delle iniziative più ambiziose del prossimo decennio, promettendo di rivoluzionare la radioastronomia con una sensibilità e una precisione senza precedenti. Distribuito tra Sudafrica e Australia, SKA permetterà di esplorare con dettaglio fenomeni cosmici complessi, dall’origine delle prime galassie fino alla possibile rilevazione di segnali di vita extraterrestre. Il testo che segue approfondisce la struttura, gli obiettivi scientifici e il significativo contributo italiano a questo straordinario progetto.
Indice dei contenuti
Introduzione
Il prossimo decennio sarà sicuramente un periodo di rivoluzioni nella comprensione dell’Universo, grazie ad una nuova generazione di strumenti osservativi che operano in diverse frequenze. Ha inaugurato il nuovo corso il James Webb Space Telescope, che in un anno di osservazioni ci ha mostrato per esempio come l’Universo primordiale non sia popolato da galassie irregolari come si ipotizzava, ma da più placide galassie a disco. O ancora ci sta permettendo di studiare con dettagli impressionanti le atmosfere dei pianeti extrasolari. Ci proponiamo di capire il mistero della materia e dell’energia oscura con il telescopio Euclid, una missione che vanta una numerosa partecipazione italiana. L’Extremely Large Telescope, che con i suoi 39m di specchio principale sarà il più grande telescopio ottico terrestre, entrerà presumibilmente in funzione entro il 2028, permettendoci per esempio di studiare in dettaglio la complessità chimica dei sistemi protoplanetari. E allargando l’orizzonte all’astrofisica multimessaggera, nei prossimi due anni si arriverà alla decisione definitiva sul design tecnico e sulla posizione geografica del nuovissimo interferometro di terza generazione per le onde gravitazionali, l’Einstein Telescope, che vede la forte candidatura dell’Italia con il sito sardo di SosEnattos.
E sul fronte della radio astronomia? Il futuro si chiama SKA, acronimo di Square Kilometer Array, un progetto ambizioso di una vasta schiera di antenne radio e antenne suddivisi tra due continenti, l’Africa e l’Australia. Un progetto che, una volta completato, presumibilmente entro il 2028-29, rivoluzionerà il nostro modo di osservare l’Universo, con la sua gamma senza precedenti di applicazioni scientifiche, dalla cosmologia all’astrobiologia alla scienza dei dati.
Cos’è SKA?
Dopo oltre 30 anni di ideazione, progettazione e test, il progetto Square Kilometer Array (SKA) sta per diventare una realtà. SI tratta di una struttura radio interferometrica di ultima generazione che promette di rivoluzionare la nostra conoscenza dell’Universo e delle leggi fondamentali della fisica. In breve, il progetto SKA prevede la costruzione di un sistema interferometrico costituito da 197 grandi antenne paraboliche orientabili che opereranno a media frequenza (SKA-Mid, operante tra 350 MHz e 15.4 GHz) e da 131.072 antenne log periodiche a bassa frequenza (SKA-Low, operante nell’intervallo di frequenze 50-350 MHz).
Il nome SKA deriva dal progetto originale, che prevedeva che tutte le sue antenne e parabole avessero un’area effettiva combinata di circa un chilometro quadrato. Il piano è stato in seguito ridimensionato a causa dei costi, anche se rimane la speranza di completarlo nella sua configurazione originale in una seconda fase.
L’area di raccolta rappresenta una componente fondamentale per capire le capacità osservative di SKA: se infatti la linea di base dell’array ne determina il potere risolutivo, cioè la capacità di apprezzare il più piccolo dettaglio della sorgente cosmica osservata, l’area di raccolta ne determina invece la sensibilità, con la conseguente possibilità di rilevare oggetti più deboli. Ci aspettiamo infatti di produrre immagini con una sensibilità 10-100 volte superiore a quella delle attuali infrastrutture radio, e di rilevare oggetti molto più deboli e lontani di quanto possano essere visti dai telescopi esistenti.
La sede principale del progetto si trova presso l’Osservatorio Jodrell Bank nel Cheshire, nel Regno Unito, anche se fisicamente è posizionato nell’emisfero australe, così da osservare la Via Lattea nella sua interezza, e ugualmente accedere allo spazio intergalattico. Nell’emisfero boreale come è noto, il nucleo della nostra galassia sfiora a malapena l’orizzonte durante i mesi estivi.
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Fig. 3 - Incremento di luminosità del transiente SNhunt133 rilevato dall'Osservatorio di Montarrenti
in due distinte epoche
Un evento astronomico transiente è un fenomeno tipicamente violento, improvviso e molto energetico del cielo profondo, che compare e scompare in tempi relativamente brevi, non paragonabili alla scala temporale di milioni o miliardi di anni durante i quali i componenti del nostro Universo si sono evoluti. I transienti infatti, si sviluppano su tempi scala di giorni, mesi o anni, facilmente apprezzabili nel corso della vita umana. L’autore ci accompagna nello studio di un transiente specifico SNHUNT133.
di Simone Leonini
Cenni Storici e Concetti Base
Sin dall’antichità, la comparsa di “stelle nove” ha destato stupore e turbato il senso di immutabilità dei cieli, fondamento della visione aristotelica dell’Universo. L’illusione di un cielo immobile ed incorruttibile ha quindi resistito per secoli. Successivamente, quando si iniziò a mettere in discussione l’idea delle “stelle fisse” correlata al sistema geocentrico, si comprese che le “stelle visitatrici” non potevano appartenere alla sfera sublunare ma rappresentavano dei cambiamenti delle stelle incastonate nella sfera celeste, suscitando l’interesse degli astronomi che si impegnarono in rigorose osservazioni. Solo agli inizi del secolo scorso però, si comprese l’origine della straordinaria luminosità degli astri che apparivano improvvisamente in cielo per poi scomparire. Si intuì che non tutte le stelle che osserviamo nella volta celeste si trovano alla stessa distanza e che esistevano altre galassie oltre alla Via Lattea. Si distinsero quindi le supernovae dalle novae, fenomeni eruttivi meno energetici originati all’interno di un sistema stellare binario.Una nana bianca cattura materiale dalla compagna, principalmente idrogeno, generando un’esplosione dello stato superficiale della stella che non coinvolge la struttura del sistema, tanto che potranno ripetersi altri episodi deflagranti.
Se la ricerca e lo studio di questi eventi ha appassionato gli astronomi sin dai secoli scorsi, lo studio sistematico dei transienti ospitati nei nuclei galattici invece si è sviluppato solo negli ultimi vent’anni, forse anche a causa della loro bassa luminosità intrinseca rispetto al nucleo della galassia e delle difficoltà di scoperta.
I nuclei delle galassie possono mostrare principalmente tre diversi tipi di transienti: nuclei galattici attivi, supernovae o eventi di distruzione mareale.
I nuclei galattici attivi sono oggetti celesti che emettono una enorme quantità di energia non riconducibile ad ordinari processi stellari. Il motore che li alimenta infatti è un buco nero di massa compresa fra un milione e qualche miliardo di volte quella del Sole. In rotazione vorticosa nelle regioni centrali della galassia, ingurgitano enormi quantità di gas residuo di formazione stellare o rilasciato successivamente da stelle in evoluzione. Circondati dal cosiddetto disco di accrescimento in cui la materia in caduta spiraleggia verso il centro, si nascondono dentro una “ciambella” (più propriamente un “toro”) di polvere molecolare coplanare al disco di accrescimento.
Le supernovae sono invece eventi esplosivi stellari. Le supernovae “termonucleari” vengono generate dall’esplosione di un sistema binario stretto, di cui almeno una delle due componenti è una nana bianca. Le due stelle lentamente si attraggono fino a fondersi, oppure può avvenire un trasferimento di materia dalla stella compagna alla nana bianca. Se la massa risultante dalla fusione o dalla cattura di materia è superiore al limite di Chandrasekar (1.44 Masse Solari), la nana bianca non sarà più in grado di sorreggere il proprio peso e, dopo un rapido collasso, si innescherà una reazione termonucleare che disgregherà la stella in una violenta esplosione, espellendo materiale nel mezzo interstellare senza lasciare alcun resto compatto.
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Desidero ringraziare Irene Salmaso (Università degli Studi di Padova) per la lettura critica e gli utili suggerimenti.
Simone Leonini: Agente di viaggio, sposato e papà di Matilde, è astrofilo sin da bambino, quando si dedicava con passione all’osservazione planetaria e delle stelle variabili. Già direttore dell’Osservatorio Astronomico di Montarredi e presidente dell’Unione Astrofili Senesi, ha condotto per anni attività di divulgazione delle scienze astronomiche
Dopo diverse ore di esperienza sul campo, l’autore dell’articolo Gabriele Iocco, ha ideato e realizzato l’app Panorama Mosaico per facilitare il lavoro degli appassionati di Astrofotografia Paesaggistica.
Benché esistano in commercio teste panoramiche che applicate su un treppiedi sono progettate proprio per la realizzazione di foto panoramiche e che fanno egregiamente il loro lavoro, l’applicazione che ho voluto sviluppare è un’alternativa gratuita e anche molto comoda dato che oramai abbiamo il nostro smartphone sempre con noi.
Ho iniziato a fare foto panoramiche circa due anno fa e man mano che prendevo confidenza con la tecnica è sorto in me il desiderio di creare panoramiche anche notturne includendo le stelle. Di notte però le condizioni di scarsa luminosità contribuiscono ad aumentare la difficoltà, poiché non siamo in grado di vedere cosa sta inquadrando effettivamente la nostra macchina fotografica. L’idea quindi è stata creare un’app che aiuti ad orientare la macchina fotografica di volta in volta nella giusta direzione catturando i fotogrammi che andranno a comporre il nostro mosaico.
Una volta scaricata dal playstore e avviata, l’app ci mostra le info sul suo funzionamento, dopodiché entriamo nella schermata d’inizio dove dobbiamo inserire tre informazioni che riguardano: il tipo di sensore utilizzato dalla nostra macchina fotografica, la lunghezza focale dell’obbiettivo e la percentuale di sovrapposizione che dovranno avere le nostre immagini [fig.1].
Fig.01 Anteprima Schermata APP “Panorama Mosaico”
Cliccando su tasto “Calcola” l’app calcolerà il FOV (angolo di campo inquadrato dall’accoppiata sensore/lunghezza focale) sia orizzontale che verticale, ad esempio se il sensore è FullFrame e la lunghezza focale 135mm, il FOV orizzontale sarà di 15.28°. Interpretare un simile dato è abbastanza semplice, avere un FOV di 15.28° significa che ogni scatto che andremo a catturare comprenderà una porzione di paesaggio relativa ad un angolo di 15.28°. Proseguendo, se si è optato per una percentuale di sovrapposizione pari al 50% vuol dire che ogni nuova immagine acquisita dovrà avere il margine sinistro coincidente con il centro dell’immagine precedente [fig.2].
Fig. 02
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Panoramica Blockhaus Majella startrail Numero scatti del mosaico: 27 Tempo esposizione per ogni scatto: 420 sec a 100 ISO f4. Macchina fotografica Canon 6D non modificata Filtro anti inquinamento luminoso: No Obiettivo: Samyang 135 mm. CREDITI: Gabriele Iocco“Panoramica Blockhaus Majella stelle” Numero scatti del mosaico: 12 Tempo esposizione per ogni scatto: 5 sec a 4000 ISO f4 per evitare di avere le stelle “allungate”. Macchina fotografica: Canon 6D modificata fullspectrum Filtro anti inquinamento luminoso: Optolong Lpro Obiettivo: Samyang 135 mm.
La scoperta di mondi oltre il nostro Sistema Solare è un nuovo e affascinate campo di ricerca i cui protagonisti sono sia astronomi che astrofili cacciatori di pianeti. Alcuni di loro hanno scovato di recente due pianeti attorno a una stella simile al Sole: si tratta di un team con diversi italiani, coordinati da Giuseppe Conzo. La stella madre, TIC 393818343 di classe G, si trova nella costellazione del Delfino a circa 307 anni luce di distanza dal Sole. Ha una magnitudine di 8,98 ed è circa il 9% più grande del Sole. Oggi, alla luce delle recenti scoperte effettuate dagli astrofili, possiamo dire che TIC 393818343 è il centro di un sistema multi-planetario.
A maggio del 2024 Giuseppe Conzo e Mara Moriconi hanno scoperto il primo esopianeta orbitante attorno a questa stella: TIC 393818343 b – un gigante gassoso, quattro volte più massiccio di Giove, classificato come un Gioviano caldo e confermato dal Team del SETI guidato da Lauen Sgro, con un periodo orbitale di circa 16 giorni. Il pianeta orbita attorno alla stella madre su un’orbita altamente eccentrica (eccentricità pari a 0,6). È vicino alla sua stella molto più di quanto la Terra lo sia al Sole.
Light Curve TIC 393818343 b
Il secondo pianeta è TIC 393818343 c, scoperto in un secondo momento grazie alla collaborazione tra Conzo, Moriconi e altri astronomi dilettanti che hanno lavorato insieme utilizzando tecniche come la fotometria dei transiti e osservazioni da terra.
Il pianeta, nel sistema, ha un periodo orbitale di solo 7,8 giorni e orbita due volte più vicino alla sua stella madre. La sua temperatura di equilibrio dovrebbe essere intorno a 1027 K. Sulla base dei dati ottenuti, gli astrofili hanno classificato TIC 393818343 c come un gigante gassoso super nettuniano, escludendo la possibilità che possa essere un mondo terrestre. Pianeti come TIC 393818343 c sono generalmente poco comuni attorno alle stelle di tipo solare.
Light curve di TIC 393818343 c
Giuseppe Conzo ci spiega:
“Stavamo osservando il pianeta TIC 393818343 b appena scoperto, perché volevamo monitorare eventuali ritardi o anticipi sul periodo. E’ una prassi che si utilizza normalmente sui pianeti recentemente trovati. Ci siamo accorti da queste osservazioni di un ritardo di circa 1 ora sul periodo in letteratura, dunque ci eravamo prefissati ulteriori osservazioni. Caso ha voluto che sbagliassimo involontariamente data della successiva osservazione, accorgendoci solo al mattino seguente che avessimo ripreso in una data errata. Non volendo buttare i dati ottenuti, abbiamo fatto a cuor leggero la fotometria, convinti di attenderci una magnitudine costante della stella in esame. Così non è stato ed abbiamo rilevato un primo transito molto diverso da quello osservato per il pianeta b. Chiaramente sono proseguite le osservazioni che hanno mostrato lo stesso evento nel tempo.”
A questo studio e alla scoperta sono coinvolti oltre a Giuseppe Conzo e Mara Moriconi (del Gruppo Astrofili Palidoro a Fiumicino), Nello Ruocco (Osservatorio Nastro Verde a Sorrento), Toni Scarmato (Toni’s Scarmato Observatory a Briatico) e gli americani Kyle Lynch e Nicolas Leiner.
È stato un affascinante lavoro di gruppo:
*Giuseppe Conzo* ha individuato per primo un transito sospetto ed ha condotto il team per le osservazioni necessarie e coordinato la stesura dell’articolo scientifico;
*Mara Moriconi* ha effettuato calcoli analitici sui principali parametri fisici del pianeta;
*Nello Ruocco* ha effettuato le osservazioni;
*Toni Scarmato* ha effettuato le osservazioni, ha condotto stime per le effemeridi preliminari ed ha analiticamente verificato la bontà del segnale ricevuto;
*Kyle Lynch* ha studiato l’aspetto genuino della sorgente e valutato la natura planetaria dell’oggetto;
*Nicolas Leiner* ha condotto un’analisi analitico-statistica per la stima della massa del pianeta.
Riguardo alla scoperta abbiamo chiesto un parere scientifico al Prof. Giovanni Covone, astrofisico della Federico II di Napoli:
“si tratta di una scoperta interessante per diversi motivi. Innanzitutto, è uno dei pochi sistemi planetari multipli intorno a stelle molto simili al Sole. Inoltre, dimostra che i dati raccolti dal telescopio TESS sono ancora ricchi di sorprese e il ruolo degli astrofili in questo campo è fondamentale.”
JADES-GS-z14-0 (mostrata nell'estrazione), è stata determinata a un redshift di 14,32 (+0,08/-0,20), il che la rende l'attuale detentrice del record per la galassia più distante conosciuta. Ciò corrisponde a un periodo inferiore a 300 milioni di anni dopo il big bang. Credito: NASA, ESA, CSA, STScI, B. Robertson (UC Santa Cruz), B. Johnson (CfA), S. Tacchella (Cambridge), P. Cargile (CfA).
Le osservazioni del telescopio spaziale James Webb (JWST) stanno sollevando interrogativi fondamentali sulla comprensione dell’universo primordiale. I dati ottenuti non sembrano confermare il modello standard Lambda-Cdm, che prevede che la formazione delle galassie sia agevolata dalla presenza di materia oscura, ma trovano maggiore coerenza con la teoria alternativa della gravità modificata Mond (Modified Newtonian Dynamics), che elimina la necessità della materia oscura.
Galassie luminose e massicce nell’universo primordiale
Secondo il modello Lambda-Cdm, le galassie nell’universo primordiale si sarebbero dovute formare attraverso un processo graduale: piccoli aloni di materia oscura avrebbero attirato materia ordinaria, portando alla formazione di galassie di massa crescente. Il James Webb, tuttavia, ha rivelato galassie antiche che appaiono già grandi e luminose, contraddicendo le aspettative del modello standard.
Come spiega Federico Lelli, ricercatore dell’INAF di Arcetri e coautore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal, il modello Lambda-Cdm prevede che galassie massicce come quelle ellittiche si formino in epoche più tarde della storia cosmica. Tuttavia, osservazioni precedenti di telescopi come Hubble, Spitzer e Alma avevano già suggerito che le galassie massicce esistessero sorprendentemente presto. Ora, il JWST ha fornito prove ancora più solide in questa direzione.
Teoria Mond: una sfida alla materia oscura
La teoria Mond, proposta da Mordehai Milgrom oltre 40 anni fa, introduce modifiche alle leggi di Newton ed Einstein per spiegare i fenomeni gravitazionali senza ricorrere alla materia oscura. Secondo Mond, le galassie massive si formano rapidamente nei primi centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, come confermato dai dati di JWST. Questa teoria è stata inizialmente ignorata dalla comunità scientifica, ma le recenti scoperte stanno spingendo gli esperti a riconsiderarla.
Il primo autore dello studio, Stacy McGaugh della Case Western Reserve University, sottolinea che le predizioni del modello standard non corrispondono a ciò che il JWST ha effettivamente osservato. «Gli astronomi hanno ipotizzato la materia oscura per spiegare la formazione delle strutture cosmiche, ma ciò che vediamo ora è più coerente con Mond», afferma.
Nuove prospettive dall’universo primordiale
Le osservazioni del JWST hanno mostrato che le galassie massive non solo si formano velocemente, ma alcune diventano “passive” (cessano di formare stelle) molto prima di quanto previsto dal modello standard. Inoltre, il telescopio ha individuato ammassi di galassie a epoche cosmiche più antiche di quelle compatibili con Lambda-Cdm, una scoperta che potrebbe riscrivere la nostra comprensione del tempo cosmico.
Un telescopio per nuove domande
Il JWST è stato progettato per rispondere a domande fondamentali sull’universo, ma i suoi dati stanno aprendo scenari inaspettati. A soli tre anni dal suo lancio, il telescopio sta già contribuendo a rivedere teorie consolidate, come dimostra questo studio che coinvolge anche ricercatori italiani come Federico Lelli.
Molte delle osservazioni necessitano di ulteriori conferme, ma la promessa di JWST di ridefinire l’astrofisica sembra più viva che mai. Se i dati continueranno a supportare la teoria Mond, potremmo trovarci a un passo dal superare uno dei pilastri della cosmologia moderna: l’idea della materia oscura.
LA VIA DELLA COMPLESSITA’ PER GLI STRUMENTI DI GESTIONE DELLE CRISI E DEI RISCHI DI DISASTRO
a cura di Alfonso Mangione Dip. FIBIOTEC –Fisica e Biotecnologie applicate allo Spazio, alla Geologia e all’ Ambiente, Istituto Euro-Maditerraneo di Scienza e Tecnologia
ABSTRACT
I recenti disastri che hanno colpito la zona di Valencia hanno messo in luce la vulnerabilità del territorio e la complessità delle risposte necessarie per gestire le crisi. Senza voler entrare nello specifico delle cause di tali eventi, l’obiettivo di questo articolo è offrire una prospettiva sul giusto approccio alla gestione dei rischi e delle emergenze.La gestione efficace delle crisi non può infatti limitarsi a un approccio tradizionale, ma deve abbracciare la complessità intrinseca degli scenari, integrando discipline diverse e sfruttando strumenti innovativi come le tecnologie virtuali e immersive. Questo articolo esplora come tale approccio multidisciplinare possa fornire nuove opportunità per migliorare la consapevolezza, la preparazione e l’operatività di soccorritori e cittadini di fronte a eventi disastrosi.
INTRODUZIONE
Uno scenario di rischio o di crisi coinvolge una serie di attività che possono essere pensate come parti di sistema tipicamente complesso, in cui ogni elemento mostra connessioni, anche multiple e spesso non lineari, con gli altri. Senza addentrarsi nel dettaglio delle definizioni risulta intuitivo collegare ad una situazione di rischio alcune idee che accompagnano la nozione della complessità quali quella del sistema a molte componenti, fuori dall’equilibrio, adattivo, la non-linearità, il caos, l’auto-organizzazione, i comportamenti emergenti, e molti altri, inclusa la multidisciplinarità. Quest’ultima vede affiancare alla fisica discipline che vanno dalla psicologia all’antropologia, alla sociologia, alla storia ed oltre. Un segno dell’interesse crescente nei confronti degli aspetti psicologici, sociologici, e storici collegati alle crisi e ai disastri, in aggiunta e in connessione con le discipline tecniche è dato dall’attenzione specifica a loro dedicata nei programmi di finanziamento EU degli ultimi anni (un esempio indicativo in Ref [1] ).
Esaminare gli scenari di crisi sotto la luce della loro complessità, e quindi, innanzitutto, delle connessioni multiple tra un congruo numero di parti componenti (geografiche, gestionali, operative, culturali, economiche, etc.) potrebbe apparire un esercizio dispersivo, non esattamente a vantaggio della pronta operatività e in generale della promozione della resilienza di un territorio colpito. In prima analisi, infatti, risulta evidente la numerosità degli ambiti da tenere in considerazione, la loro vastità e articolazione, e la difficoltà di individuare le cause che conducono a determinati effetti risultanti, all’interno di un sistema (ovvero l’“ecosistema” a rischio) che si auto-organizza in molte componenti dialoganti.
Tuttavia, l’approfondimento di (almeno) una parte significativa delle componenti del sistema in crisi (il territorio, le comunicazioni, le relazioni trans-nazionali, la multiculturalità sociale, il rapporto con i media, la storia e l’evoluzione locale della percezione, etc.), permette di “pesare” il contributo di ognuna delle parti sul risultante scenario di rischio che si è presentato o che si potrebbe presentare. A questo scopo, appare chiaro il ruolo fondamentale dell’aspetto simulativo (numerico e virtuale/immersivo). Si aggiunga inoltre che l’approccio “per parti concorrenti” nell’analisi di uno scenario di rischio non deve necessariamente riguardare tutti gli ambiti dialoganti e le scale di analisi più ampie, ma può essere ridotto a territori circoscritti, a singoli tipi di rischio (incendio, terremoto, inondazione, crisi sanitaria o altro), può riguardare solo porzioni di popolazione (ad es. gruppi considerati “vulnerabili” per quel rischio in particolare), o soltanto alcune categorie di soccorritori, o un settore economico in particolare. Gli ambiti e la scala dell’analisi possono quindi essere ridotti ad esempio ad un singolo evento o territorio o gruppo di popolazione etc.. Operativamente, tale approccio può portare ad un contributo innovativo nell’analisi degli scenari da disastro che si presentano al singolo soccorritore che opera sul terreno, quando supportato dalle tecniche di realtà virtuale/immersiva. Molte ricerche e progetti, basati sulla realtà virtuale sono stati sviluppati in anni recenti per supportare i piani di intervento (coordinamento e attività operative sul terreno) [2,3]. Gli scenari possono essere costruiti aggiungendo gradualmente le diverse cause concorrenti, per consentire di testare direttamente l’influenza sull’operatività sul campo.
Complessità negli scenari da disastro
Il presentarsi di un evento di grande impatto generalmente modifica lo scenario reale nel quale i soccorritori sono chiamati ad operare, e nel quale le vittime devono muoversi, rispetto alla sua forma consueta. In generale, un gap sostanziale esiste tra ciò che la popolazione potrebbe comunemente attendere dal verificarsi dell’evento impattante e quello che ne risulta nel caso reale, a causa delle diverse variabili concorrenti. In termini estremamente semplici ed esemplificativi, è possibile considerare il caso di un evento off-shore quale un terremoto (o lo scorrimento della lava da un vulcano nel mare), che causa le conseguenti onde di maremoto. Sulla base delle esperienze comuni, si può immaginare la semplice situazione di una goccia d’acqua che, una volta lasciata cadere in un contenitore riempito di liquido, genera una serie di onde che si propagano fino ad infrangersi contro le pareti del contenitore. Similmente, se si agisce con una ferma spinta data sul fondo del contenitore, se non troppo rigido. Si potrebbe traslare tale idea di base sulla scala di un oceano, come situazione di partenza, per poi aggiungere gradualmente gli elementi (le parti) che concorrono successivamente alla costruzione dello scenario. In termini di simulazione dell’evoluzione, questo implica la descrizione fisica di alcune fasi salienti: l’evento “t0”, tipicamente un distacco che accade sul fondo del mare; le risultanti onde, che solitamente si propagano in un regime per il quale è almeno soddisfatta l’eguaglianza D:λ=1:20, dove D è la profondità delle acque, e λ è la lunghezza d’ onda, con una velocità v=(gD)1/2 (dove g è l’accelerazione di gravità), non dipendente da λ, che consente loro di procedere quasi inalterate (si consideri inoltre che le variazioni significative del fondo avvengono su scale molto maggiori rispetto alle lunghezze d’onda in questione, quando lontano dalla costa); infine, l’infrangimento sulla costa, dove ci si aspetta una riduzione della lunghezza d’onda e un aumento dell’ampiezza (i meccanismi sono descritti nei testi di base, e in alcuni studi, esperimenti e simulazioni specifici, ad es. Ref [4,5]). Lo schema di base restituisce quindi la possibilità di calcolare i tempi di arrivo, conoscendo la distanza dall’epicentro. Quello che accade nel caso reale può risultare non esattamente sovrapponibile alla sola descrizione di base sopra riportata, a causa di una serie di effetti locali (elementi concorrenti allo scenario) che influenzano l’effettiva propagazione dell’evento. Un livello ulteriore di dettaglio andrebbe oltre gli scopi del presente lavoro, tuttavia è possibile riassumere almeno alcuni degli elementi che possono influenzare la rappresentazione finale dello scenario, quali: (i) la velocità di rottura, il tempo di risalita e la modifica del fondo marino durante l’evento-origine, che forniscono il profilo iniziale delle onde [4,6-7]; (ii) la correzione per le maree [6]; (iii) gli eventuali effetti locali dovuti all’interazione con le coste, il terreno e le isole, così come gli effetti di amplificazione delle baie chiuse, gli effetti di diffrazione e riflessione [4,6-7]. Tali elementi concorrono ad aumentare il livello di complessità del fenomeno, così come delle simulazioni collegate e quindi la sua rappresentazione virtuale/immersiva (ad esempio quando implicano la necessità di utilizzare modelli di evoluzione non lineari o quando i termini descrittivi dell’amplificazione delle onde a partire dalla costa differiscono da funzioni polinomiali [6]) ma allo stesso tempo ne restituiscono una rappresentazione più adeguata.
Quindi, la “sfida” per una conoscenza accurata dei fenomeni e delle caratteristiche locali che contribuiscono ad accrescere il grado di complessità degli scenari, la loro catalogazione e la possibilità di inserirli gradualmente all’interno delle simulazioni e delle conseguenti riproduzioni virtuali, può rappresentare uno strumento considerevole sia nell’addestramento mirato dei soccorritori, che per i gestori delle crisi, oltre ad avere un ruolo nell’incrementare la consapevolezza del rischio da parte della popolazione.
NB: al momento della stesura e pubblicazione dell’articolo i recenti fatti di Valencia non erano ancora accaduti, perciò per accompagnare visivamente lo scenario di intervento la redazione e l’autore hanno optato per un’immagine di fantasia. Quella a seguire. Alla luce però dei nuovi fatti e riproponendo la lettura digitale dello studio del dott. Mangione una recente immagine tratta proprio dall’emergenza spagnola si presenta come più che opportuna. Vedi immagine a destra.
Generata con AI
Proposte metodologiche
La possibilità di incrementare la cognizione spaziale (intesa quale la capacità di avere contezza della posizione del proprio corpo all’interno di un ambiente, e di muoversi in questo senza perdersi) all’ interno di scenari complessi può contribuire in tutte le fasi collegate ad eventi impattanti. Una combinazione tra metodi utilizzati in ambiti differenti (quali la psicologia e le neuroscienze), le simulazioni numeriche (e la fisica in queste inclusa) e la realtà virtuale/immersiva può essere proposta quale schema per sviluppare strumenti utili allo scopo. In Ref [8] viene fatto uso di ambienti di realtà virtuale per indagare la qualità del trasferimento dell’apprendimento da un ambiente virtuale ad uno reale per indagare la cognizione spaziale, sulla base di tre fasi di conoscenza (Landmark, Route, e Survey), e secondo indicatori quali gli errori di percorso o le esitazioni. Nel caso di uno scenario da disastro, questa attività, sia essa inglobata nelle sessioni di addestramento o anche quale strumento digitale autoconsistente, risulterebbe di supporto per i soccorritori, i gestori delle crisi e anche per le popolazioni. I soggetti coinvolti, in una prima fase, aumenterebbero la loro capacità di fissare nell’immediatezza un numero sufficiente di punti di riferimento caratteristici individuati nei diversi scenari ipotizzati. In una fase successiva, i soggetti sarebbero allenati ad acquisire le vie più brevi tra i punti di riferimento individuati, al fine di stimare distanze e scorciatoie. Le task sarebbero presentate con livelli di complessità crescente. A tale scopo, sarebbero simulati scenari di disastri differenti, gradualmente implementati, sulla base dei diversi elementi che possono influire sulla reale evoluzione del fenomeno. Oltre che per i soccorritori, l’attività risulterebbe utile alle vittime dei disastri (si pensi ad esempio ai casi di persone con disabilità). In questo caso, lo scopo finale sarebbe di muoversi con rapidità e in sicurezza al’ interno dello scenario proposto, e possibilmente allontanarsi da esso (a differenza del caso dei soccorritori, che necessitano invece di raggiungerlo). Inoltre, risulterebbe interessante introdurre la distinzione tra task presentate in un riferimento esocentrico ed egocentrico rispettivamente [8]. Nel caso dei disastri, il primo punto di vista si riferirebbe ai gestori della crisi, mentre il secondo sarebbe più appropriato per i soccorritori e le vittime.
Conclusioni
L’utilizzo degli scenari virtuali da disastro con crescente livello di complessità dovuto a variabili di contesto, è stato preso in considerazione al fine di migliorare la capacità di cognizione spaziale di gestori della crisi, soccorritori, e vittime. All’interno di un approccio multidisciplinare, è stato proposto uno schema che coinvolge specifiche task per aumentare l’individuazione dei punti di riferimento e dei percorsi più rapidi e più sicuri per muoversi all’interno di uno scenario da disastro, al fine di raggiungere le aree di crisi, o di abbandonarle.
[2] Bernardini, G. et al., A Non-Immersive VirtualReality Serious Game Application for FloodSafety Training, SSRN Electronic Journal,2022. DOI:10.2139/ssrn.4110990, 2022
[3] Lovreglio, R., Proceedings, Fire andEvacuation Modeling Technical Conference(FEMTC) 2020. https://www.researchgate.net/publication/3438091011961, 2020
ESA/Hubble & NASA, J. Tan (Chalmers University & University of Virginia), R. Fedriani (Institute for Astrophysics of Andalusia)
ABSTRACT
La regione di formazione stellare RCW 7 rappresenta un’affascinante finestra sul complesso processo di nascita delle stelle massicce. Situata nella costellazione della Poppa a circa 5.300 anni luce di distanza, RCW 7 è una vasta nebulosa in cui gas e polveri interstellari si aggregano e collassano, dando origine a giovani e potenti astri. La radiazione ultravioletta e i forti venti stellari emessi da queste stelle in formazione non solo illuminano, ma anche plasmano il materiale circostante, generando una regione HII dal caratteristico bagliore rosato. Lo studio di RCW 7, e in particolare del sistema binario IRAS 07299-1651, permette di comprendere meglio le dinamiche che regolano i primi stadi della vita stellare, offrendo nuove prospettive sui processi che plasmano le galassie e influenzano l’evoluzione delle nubi molecolari.
RCW 7 o NGC 2409 Regione di Formazione stellare
Luci stellari come brillantini sparsi in un cielo azzurro in cui si addensano a tratti nubi tempestose: è la turbolenta regione di formazione stellare RCW 7, soggetto di questa straordinaria ripresa del telescopio Hubble. RCW 7 è una vasta nebulosa ricca di gas e polveri interstellari. Ospita stelle in formazione particolarmente massicce, capaci di emettere forti radiazioni ultraviolette e impetuosi venti stellari, che illuminano e modellano il materiale circostante, trasformando questo insieme di nubi cosmiche in una variopinta regione HII.
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Come tutti sappiamo, la materia che ci circonda è formata da atomi, costituiti a loro volta da un nucleo centrale fatto da protoni e neutroni, e dagli elettroni che gli gravitano vorticosamente intorno.
Un po’ meno noto è forse il fatto che un atomo è quasi completamente vuoto; il nucleo, infatti, ha un diametro che è circa un centomillesimo di quello dell’atomo che lo ospita, mentre gli elettroni sono addirittura considerati puntiformi. Quasi completamente vuoto, quindi, allora perché non si può schiacciare un po’?
Normalmente, stando alle nostre esperienze quotidiane, un gas (che è fatto da atomi o da molecole libere tra loro) può essere compresso facilmente in un volume un po’ più piccolo aumentandone semplicemente la pressione, esattamente come quando gonfiamo una ruota di una bicicletta, con il risultato che gli atomi del gas si avvicinano un po’ tra di loro, di pari passo cresce anche la densità.
Un’operazione però che non si può eseguire ad oltranza; succederà infatti prima o poi che, come in un liquido o in un solido, gli atomi saranno vicini a tal punto che i loro orbitali atomici arriveranno a toccarsi, inutile continuare a “pressare”, non si andrà oltre. O quasi.
Al centro del nucleo terrestre che è composto quasi esclusivamente di ferro e dove vigono pressioni elevatissime che arrivano a 360 GPa (circa 3,5 milioni di atmosfere), la densità sale a circa 13 g/cm3 contro il classico 7,8 g/cm3 in condizioni normali; ancora più estremo è il centro del nostro Sole, dove, grazie ad una pressione di oltre 230 miliardi di atmosfere, la densità tocca picchi di circa 150 g/cm3, ovvero circa 20 volte la densità dell’acciaio.
Nane Bianche
Ma questo è solo l’inizio.
Una volta che il nostro Sole avrà terminato il suo combustibile nucleare, la materia che lo compone, non più sorretta dall’energia prodotta dalle reazioni nucleari, collasserà su se stessa, aumentando sempre di più la sua densità.
In condizioni normali la pressione di un gas ideale è proporzionale alla sua temperatura e alla sua densità; superando però una densità di 105 g/cm3, le distanze interatomiche sono tali che le nubi elettroniche dei vari atomi sono portate a compenetrarsi a vicenda e, viste le temperature in gioco (circa cento milioni di gradi Kelvin) sono completamente ionizzati, formando così un gas di nuclei ed elettroni; raggiunto il milione di gr/cm3 (1.000 kg/cm3), la pressione del gas è a un livello tale che essa risulta indipendente dalla temperatura e non segue più le leggi classiche, bensì viene regolato in base alla fisica della materia condensata, in cui il maggior contributo alla pressione è dato dal principio di esclusione di Pauli (vedi Coelum Astronomia n°258 pag.92).
Questa sostanza che abbiamo ottenuto, un gas di Fermi relativistico, è chiamata ‘gas degenere di elettroni’, si comporta non differentemente da un gas di elettroni allo zero assoluto e la sua densità media è dell’ordine delle tonnellate per centimetro cubo (un elefante adulto pesa tre tonnellate, pensate a condensarlo in una zolletta di zucchero).
Ma questo gas degenere è ancora relativamente comprimibile: aumentando la pressione, se la massa della stella di partenza è sufficiente, gli elettroni acquisteranno sempre maggiore velocità e la densità salirà di conseguenza; ne deriva che una nana bianca, dalle dimensioni tipicamente paragonabili a quelle della Terra, sarà stranamente più piccola nelle stelle con maggiore massa, grazie alla pressione finale più elevata.
Questo però vale fino a che la massa della stella rientra entro un certo valore, chiamato “limite di Chandrasekhar”; per i più arditi, questo valore si ottiene applicando la formula
dove ħ è la Costante di Planck ridotta, c è la velocità della luce nel vuoto, G è la Costante Gravitazionale, μe è la massa molecolare media per elettrone che dipende dalla composizione chimica della stella, mH è la massa dell’atomo di idrogeno e ω03 (≈ 2.0182) è una costante connessa alla soluzione dell’equazione di Lane-Emden (fonte: Wikipedia), e vale 1,44 masse solari.
Un’immagine ad alta definizione di Cassiopea A, che contiene una stella di neutroni vicino al suo centro (Autore: Space Telescope Science Institute Office of Public Outreach; Ringraziamenti: NASA, ESA, CSA, STScI, D. Milisavljevic (Purdue University), T. Temim (Princeton University), I. De Looze (University of Gent).
Stelle di Neutroni
Superato questo valore, la densità cresce sempre più e con essa la velocità degli elettroni, che giunge ad essere vicina a quella della luce; a questo punto, gli elettroni urtano così violentemente i protoni dei nuclei da fondersi con essi, dando origine ai neutroni.
È nata una stella di neutroni.
In realtà il processo è più complesso e comunque non omogeneo; un neutrone, nel vuoto e in quiete, ha una vita media di circa 15 minuti, e decade in un protone, un elettrone e un antineutrino:
l’energia rilasciata da questa reazione, distribuita come energia cinetica nelle tre particelle ottenute, è di 0,782±0,013 MeV, e questo significa che, per mantenere stabile un neutrone indefinitamente, è necessario rendere questo decadimento non più conveniente dal punto di vista energetico.
Ora, un aumento della densità del gas degenere comporta un innalzamento del livello di Fermi e quindi un corrispondente aumento dell’energia cinetica di ogni singola particella del gas, fino a che questo raggiunge la soglia necessaria a impedire quanto sopra e addirittura a ottenere il processo inverso, ovvero il processo chiamato neutronizzazione:
dove alcuni elettroni liberi vengono catturati dai protoni presenti nei nuclei, rilasciando neutrini che sfuggono dalla stella e formando neutroni, rendendone così i nuclei sempre più ricchi a spese dei protoni originari; la conseguenza è che il rapporto neutroni/protoni aumenta, creando nuclei che in condizioni normali sarebbero altamente instabili e decadrebbero quasi istantaneamente, ma che ora risultano stabili visto l’alto livello di Fermi degli elettroni e al gas degenere; contemporaneamente, grazie alla cattura elettronica, la pressione del gas cala e le forze gravitazionali possono continuare il loro lavoro di compressione.
Scendendo verso le profondità della stella, al crescere della densità i nuclei tenderanno ad avere un numero di massa sempre maggiore: fino a un ρ<1011 g/cm3 (ρ è rho, o ro: la diciassettesima lettera dell’alfabeto greco, e indica la densità) prevarranno quelli con numero di massa attorno agli 80, mentre arrivati a ρ=2×1011 g/cm3 predomineranno quelli vicini a 120.
Arrivati ad una densità critica di 4,3×1011 g/cm3, inizia quello che viene chiamato il ‘gocciolamento di neutroni’, ovvero un fenomeno in cui questi ultimi iniziano a fuoriuscire dai nuclei, dato che la forza di coesione nucleare n-n è inferiore a quella p-p e non è più sufficiente a mantenerli coesi; questo processo continua scendendo sempre più in profondità fino alla dissoluzione totale dei nuclei, o, meglio, fino al punto in cui questi tendono ad avere una distribuzione della densità nello spazio sempre meno localizzata nei loro centri, arrivando a sovrapporsi attorno a un ρ=2×1014 g/cm3; il risultato è così un gas degenere di neutroni liberi, con la presenza di un 2 o 3% di elettroni e protoni a un ρ=3×1014 g/cm3.
A pressioni più elevate, andando verso il centro, neppure i neutroni riusciranno a sopravvivere, come vedremo.
Mosaico tratto da 24 immagini effettuate dall’Hubble Space Telescope tra il 1999 e il 2000 della Nebulosa del Granchio, al cui centro troviamo una stella di neutroni. Crediti:NASA/JWST
Struttura di una Stella di Neutroni
Una volta terminata l’implosione della stella, otterremo un oggetto di una ventina di chilometri di diametro e fatto a strati, un po’ come una cipolla:
Atmosfera
All’esterno troviamo una sottile atmosfera di carbonio spessa solo 10 centimetri, con una temperatura di circa 2 milioni di gradi Kelvin e una densità simile a quella del diamante vista l’enorme gravità presente sulla superficie, ovvero circa 100 miliardi di volte a quella a cui siamo normalmente abituati (analisi ottenuta dalle recenti osservazioni da parte di Chandra sulla Pulsar presente in Cassiopea A).
Per confronto, la nostra atmosfera si innalza per circa 100 km e ha una densità al livello del mare di 0,001 g/cm3.
Crosta Esterna
Subito sotto troviamo la crosta esterna, profonda circa 200 metri con un ρ che va da ≃ 1×109 g/cm3 a ≃ 4×1011, costituita da nuclei che partono dal 56Fe negli strati superiori ma che aumentano di massa e soprattutto di neutroni a mano a mano che si scende, fino a quando non inizia il fenomeno del gocciolamento dei neutroni; si presume che il fenomeno grazie al quale un nucleo di 56Fe possa aumentare di massa fino a divenire ad esempio 122Rb, fenomeno tutt’altro che banale, sia dovuto alla fotodisintegrazione di alcuni nuclei in particelle α e alla ricombinazione di queste ultime.
Grazie all’estrema gravità, le eventuali ‘montagne’ presenti sulla superficie sarebbero alte non più di qualche frazione di millimetro
Crosta Interna
C’è poi la crosta interna, spessa circa un chilometro e che arriva ad un ρ ≃ 2×1014g/cm3, pari alla densità nucleare, e che è composta da un reticolo cristallino di nuclei, elettroni relativistici e un superfluido di neutroni.
Questa zona finisce quando i nuclei iniziano a dissolversi
Nucleo Esterno
Il nucleo esterno invece è essenzialmente costituito da neutroni superfluidi, con una piccola percentuale di protoni superconduttivi ed un’identica quantità di elettroni degeneri relativistici, necessari per mantenere un equilibrio nelle cariche elettriche e che poi scompaiono completamente nella parte più interna (si arriva fino a un ρ circa doppio alla normale densità nucleare).
A queste densità inizia la creazione di particelle che normalmente non sono stabili in condizioni normali: attorno a un ρ di 2×1014g/cm3, il livello di Fermi degli elettroni raggiunge quello della massa di un muone (particella che come simbolo μ, che a riposo ha una massa di 105 MeV), e a questo punto diviene più conveniente introdurre un muone negativo con energia cinetica nulla piuttosto che creare un elettrone con un’alta energia cinetica.
Nucleo Interno
Il nucleo interno è ancora più interessante: viste le estreme densità ed energie raggiunte, vengono a crearsi le condizioni per cui è più conveniente creare degli iperoni ‘pesanti’ piuttosto che mantenere dei semplici neutroni, che hanno una massa a riposo minore; iniziano così ad essere create particelle come Σ⁻, Λ⁰ e altre ancora, con masse sempre più elevate a mano a mano che la pressione aumenta.
Altre teorie poi prevedono l’esistenza al centro di questi corpi celesti di un plasma di quark in stato superconduttivo e di gluoni, e altre ancora che ipotizzano la formazione in tali condizioni di quella che viene chiamata ‘materia strana’, formata da quark strani e che si presume possa addirittura rimanere stabile al di fuori di quelle immense pressioni; capire quali di queste teorie corrisponda al vero è tutt’ora una questione molto delicata e ben lungi dall’essere completamente chiarita, anche perché non è neppure sicuro che si riescano a raggiungere tali densità senza che la stella collassi definitivamente in un buco nero.
Tuttavia osservazioni recenti effettuate con l’osservatorio a raggi X Chandra hanno trovato due candidate precedentemente considerate stelle di neutroni ‘normali’, dove una risulta molto più piccola e l’altra molto più fredda di quello che dovrebbero essere secondo le leggi fisiche oggi conosciute, suggerendo l’ipotesi che esse siano composte da materia più densa del neutronio; queste deduzioni sono comunque messe in dubbio da parecchi ricercatori, e non sono conclusive.
Stelle da record
Con queste premesse, arrivare a stracciare dei record è molto facile, vediamoli insieme:
Campo Magnetico
Alcune stelle di neutroni hanno dei campi magnetici miliardi di volte di quello terrestre (che è di circa 50 μTesla), e in questi casi prendono il nome di Magnetar (contrazione di ‘Magnetic Star’).
Attualmente se ne conoscono meno di 30, e quella che ha la palma per il campo magnetico più potente sembra essere la SGR 1806−20, una stella sita a 42.000 anni luce da noi il cui campo, secondo il McGill Online Magnetar Catalog, arriva alla bellezza di 2×1011 Tesla.
Tenete presente che una simile intensità ucciderebbe qualunque essere umano lacerandone i tessuti a una distanza di oltre 1000 km per via del diamagnetismo dell’acqua, e che arriverebbe a smagnetizzare una carta di credito a una distanza corrispondente a quella dalla Terra alla Luna; inoltre questi campi deformano le strutture orbitali degli atomi facendo loro assumere la forma di un sigaro, così che, sottoponendo un atomo di idrogeno a un campo di 1010 Tesla, questo si allunga di 200 volte il proprio diametro originario.
Velocità di Rotazione
Tutti sappiamo che il periodo di rotazione terrestre è di 24 ore (un giorno), mentre il Sole ruota attorno al proprio asse in 27 giorni circa; quando però una stella collassa su se stessa, a causa della legge di conservazione del momento angolare (così come una pattinatrice che accelera la sua rotazione chiudendo le braccia), la stella è costretta ad accelerare in maniera vertiginosa la propria rotazione.
Tipicamente, le stelle di neutroni ruotano su se stesse con periodi che vanno da 1 a 30 secondi, ma uno studio del 2007 ha rilevato che la pulsar chiamata XTE J1739-285 ha un periodo di poco superiore ai 0,8 millisecondi (anche se in tempi successivi altri astronomi non sono riusciti ad ottenere lo stesso risultato), quindi la palma andrebbe a PSR J1748-2446ad, con una velocità di rotazione di 716 giri al secondo.
C’è comunque un limite alla velocità di rotazione raggiungibile: se questa superasse infatti i 1.500 giri al secondo, nonostante l’intensissima attrazione gravitazionale le pulsar potrebbero andare in pezzi; inoltre, oltre i 1.000 giri al secondo le stelle perderebbero più velocemente energia di quanto il processo di accrescimento possa renderle veloci grazie alla produzione di onde gravitazionali.
Gravità
Le stelle di neutroni sono gli oggetti ‘solidi’ (quindi buchi neri esclusi) con il campo gravitazionale più intenso sulla loro superficie, che arriva ad essere cento miliardi di volte (1011) quello terrestre, e quindi una monetina da un euro peserebbe lì come 200.000 (duecentomila) elefanti sulla Terra; questo comporta anche una velocità di fuga elevatissima, che è circa un terzo della velocità della luce nel vuoto (100.000 km/s).
Sono valori enormi: se un malcapitato astronauta volesse avventurarsi sulla sua superficie, nell’improbabile caso che riuscisse ad atterrare sano e salvo (dovrebbe sopportare enormi forze mareali mentre si avvicina, proprio come succede avvicinandosi ad un buco nero), verrebbe stritolato, schiacciato e infine annichilito dal calore presente e da quello generato dai suoi atomi leggeri, che subirebbero una fusione nucleare.
Densità
Beh, che dire, ci piace vincere facile 🙂
La densità nel nucleo interno, secondo quanto teorizzato, sarebbe dell’ordine dei 1015gr/cm3, ovvero l’equivalente di oltre 2.000.000.000 (due miliardi!) di elefanti per ogni cucchiaino da tè di detta sostanza (10 ml), oppure 1.400 (millequattrocento!) piramidi di Cheope, se preferite!
Da tenere presente che la densità all’interno di un nucleo atomico in condizioni normali è dell’ordine dei 1014g/cm3
Pressione
Qua è più difficile fare mente locale, visto che non abbiamo nessuna pietra di paragone a noi familiare che si possa facilmente usare.
Come stima dell’ordine di grandezza, diverse fonti riportano una pressione all’interno del nucleo di una stella di neutroni un valore di circa 1035 Pa (Pascal); ora, tenuto conto che 105 Pa equivalgono circa alla pressione dell’aria sulla superficie terrestre, avremo che la pressione al centro di una stella di neutroni è in una prima approssimazione equivalente a:
1030 volte la pressione dell’aria al livello del mare (P = 105 Pa)
1027 volte la pressione nella Fossa delle Marianne (P = 108 Pa)
2,5×1023 volte la pressione al centro della Terra (P = 4×1011 Pa)
3×1018 volte la pressione esistente nel centro del Sole (P = 3×1016 Pa)
Numeri a cui è difficile dare un senso; diciamo quindi solo che, nel centro di una stella di neutroni, la pressione è circa tre miliardi di miliardi di volte più forte che nel centro del Sole.
E ho detto tutto.
Riferimenti
Bernardini, C. Guaraldo: Fisica del Nucleo
Gittins, N. Andersson: Modelling neutron star mountains in relativity
Craig Heinke:Chandra X-Ray Observatory -Chandra Peers into Neutron Stars
Andrew W. Steiner: neutronstars.utk.edu
NASA’s HEASARC: Education& Public Information (per dimensioni e spessori degli strati)
Salve a tutti appassionati Astronomi. Vi lascio una mia opera fatta nella serata di Halloween: Nebulosa di Orione | M 42 |, situata al di sotto della cintura nella costellazione di Orione a 1.350 anni luce dalla Terra.
La Nebulosa di Orione è un oggetto ad emissione a luce diffusa ed è facilmente visibile ad occhio nudo non solo grazie alla sua luminosità (magnitudine apparente di +4.0) ma alla sua immensa grandezza di circa 24 anni luce (pari a 210 mila miliardi di km).
La nebulosa si è generata grazie ad una potente esplosione di una stella (attualmente “Nana Bianca”), chiamata comunemente in astronomia con il termine: “Supernova”. I colori della nebulosa sono dovuti ai gas espulsi dalla stella stessa che lo ha generato (presente nel nucleo di Orione se andiamo a zoomare la fotografia). Gli astronomi hanno rilevato che all’interno di questo ammasso di gas e polveri ci sono degli elementi in particolare che compongono la nebulosa e sono: “idrogeno molecolare, acqua, il monossido di carbonio, la formaldeide, il metanolo, l’etere dimetilico, l’acido cianidrico, l’ossido e il biossido di zolfo”.
La Nebulosa di Orione è soprannominata come una “fucina di stelle”. Attualmente, nella regione Sud della nebulosa, si possono notare dei “dischi neri” (dischi protoplanetari) di dimensione importante che ruotano attorno ad una piccola stella (nana bruna) appena nata: questo vuol dire che si formando dei nuovi sistemi solari (sistemi extrasolari) nella quale presenteranno nuovi pianeti e oggetti celesti di varia forma e dimensione, esattamente com’è successo al nostro sistema solare circa 5 miliardi di anni fa. Sembra assurdo ma è reale.
La Nebulosa di Orione brilla nel periodo invernale, scomparendo poi nei periodi estivi dell’anno regalando uno spettacolo senza eguali, permettendo all’umanità di conoscere com’è stato l’avvenire del nostro sistema solare.
Questa foto è stata scattata dal mio semplice Seestar S50 e processata su PixInsight.
•- IL MIO SETUP -•
• Telescopi: Skywatcher 305/1500 – Seestar S50
• Montature: EQ6 – R Pro | Alt/Az Seestar S50
• Camera: Sony IMX 462 (Seestar S50) | SW 300″ (Camera del Samsung S23+ Ultra per il Planetario).
Mentre alcune agenzie spaziali si preparano per le prossime missioni di ritorno sulla Luna, scienza e ingegneria devono affrontare la sfida di misurare, controllare e mitigare un importante rischio ambientale associato: la polvere. Nasce il progetto DUSTER
Indice dei contenuti
Dalla polvere sulla Terra…
La polvere è onnipresente e può diventare un vero incubo. Sulla Terra, questo conglomerato di minuscole particelle, composte da acari, fibre, terra e polline, si trova su ogni tipo di superficie. Quando viene smossa, la polvere depositata può rimanere sospesa nell’aria: alcuni ne restano affascinati nel vederla illuminata dalla luce solare, tracciando traiettorie Browniane, mentre altri semplicemente starnutiscono. Fortunatamente, utilizzando uno strofinaccio o un aspirapolvere, ce ne possiamo facilmente liberare.
…alla polvere sulla Luna
Peró la polvere può essere fastidiosa e sgradevole anche fuori dalla nostra Terra, più in là, nello spazio. Quando gli astronauti delle missioni Apollo tornarono a casa dal nostro satellite, si resero conto di avere della polvere, proveniente dalla superficie lunare, attaccata alle tute spaziali, la quale provocava irritazione alla gola e lacrimazione.
Figura 0 L’astronauta dell’Apollo 17 Harrison Schmitt mentre raccoglie un campione di terreno, con la sua tuta spaziale ricoperta di polvere. Credito: immagine NASA AS17-145-22157.
Sulla Luna la polvere è composta da minuscole particelle affilate e abrasive, generate da granelli di roccia frantumata dall’impatto di meteoriti e micrometeoriti sulla superficie lunare. Sono particelle, dotate di carica elettrostatica e si attaccano su tutte le superfici, dalle tute spaziali alle parti strumentali elettroniche ed ottiche dei moduli spaziali, e possono persino infiltrarsi nei polmoni degli astronauti.
A differenza della Terra, sulla Luna non è così facile liberarsi da questi minuscoli detriti nonostante i tentativi degli equipaggi di spazzarli via dalle loro tute spaziali con spazzole o spesso con le mani, nessuno dei metodi è risultato efficace. La minore gravità lunare – un sesto di quella terrestre – inoltre fa sì che le minuscole particelle rimangano sospese per più tempo e possano quindi penetrare più profondamente nei polmoni.
Quando la missione Apollo orbitò attorno al lato nascosto della Luna, gli astronauti videro un arco di luce incredibilmente luminoso brillare all’orizzonte subito dopo il tramonto. Il punto luminoso in alto è il pianeta Venere. Credito: NASA.
Insomma saper controllare la presenza di polvere, che si trova anche sulla superficie di Marte, come su comete e asteroidi, rappresenta una vera sfida per le future missioni di esplorazione – sia con equipaggio umano che robotiche – su diversi corpi del Sistema Solare, incluso sul nostro satellite. Oltre a compromettere la salute degli astronauti per irritazione e inalazione, la polvere lunare ha molti altri effetti deleteri sulla strumentazione e l’equipaggiamento tecnico: tra i tanti il danneggiamento e la rottura delle tute spaziali, l’oscuramento della visione esterna, a causa del deposito sulle lenti delle telecamere e dei visori, false letture strumentali, perdita di adesione, intasamento delle meccaniche, abrasione, problemi di controllo termico (per esempio surriscaldamento dei radiatori), guasti nelle giunture sigillanti, l’elenco è decisamente lungo!
Differenze tra il suolo terrestre e lunare
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AUTORI
Karolien Lefever, direttrice del dipartimento di “Comunicazione e Documentazione” del Reale Istituto Belga di Aeronomia Spaziale (BIRA-IASB)
Sylvain Ranvier, scienziato del gruppo di ricerca “Accoppiamento magnetosfera-ionosfera” del BIRA-IASB e coordinatore del progetto DUSTER
Rosario Sanz Mesa, scientific manager e divulgatrice, e Julio Rodríguez Gómez PI presso l’unitá di sviluppo di strumentazione tecnologica, UDIT, dell’ Istituto di Astrofisica di Andalucía, IAA-CSIC
Traduzione all’italiano di Sebastiano de Franciscis, ricercatore e divulgatore scientifico presso l’IAA-CSIC.
Credit: ESA/Hubble & NASA, J. Dalcanton, A. Filippenko
ABSTRACT
In questa insolita ripresa del telescopio Hubble una stella della Via Lattea, brillante come un fulgido diamante, mette in ombra la luce emessa dalle stelle di un’intera galassia di fondo, che appare come un insieme fitto di lucine sparse. Nonostante la predominanza della stella nella scena celeste, Arp 263 è un oggetto interessante e attraente da osservare, in particolare per le vaste e diffuse regioni di formazione stellare, simili a delicati mazzolini di fiori rosati.
Fiori Rosa per una Galassia Irregolare
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“Ci sono infiniti mondi simili e diversi da questo nostro” – Epicuro 341-270 s.C.
Gli Esopianeti, gioielli cosmici, sono ovunque nell’universo eppure trovarli è molto più impegnativo che trovare il classico ago nel pagliaio. Anche se sono impossibili da fotografare direttamente possono essere osservati grazie a missioni dedicate per cercarli e caratterizzarli utilizzando tecniche indirette.
La prima missione progettata per la caccia ai pianeti nasce con la NASA, il 7 marzo 2009 con il lancio del telescopio spaziale Kepler il cui scopo era individuare nuovi esopianeti monitorando i cali periodici di luminosità causati dai transiti planetari.
Kepler ha scoperto più di 2300 mondi, sistemi multi-planetari e perfino pianeti nella zona abitabile ma i limiti di Kepler erano ben noti da prima del suo lancio e già al momento della progettazione si considererò che il satellite potesse esplorare una piccola una porzione della Via Lattea alla ricerca di pianeti delle dimensioni della Terra.
ALLA SCOPERTA DI NUOVI MONDI: TESS SEGUE LA MISSIONE KEPLER
Nel 2013 a seguito di un guasto il programma di indagine di Kepler termina e nel 2013 per prenderne il posto viene finanziato il nuovo strumento TESS Transiting Exoplanet Survey Satellite lanciato poi con successo nel 2018. Mentre Kepler si immergeva in profondità in una regione specifica del cielo, TESS ancora oggi osserva stelle che sono da 30 a 100 volte più luminose di quelle che osservava Kepler – in un’area 400 volte più grande – dove molte delle quali sono stelle simili al nostro Sole.
TESS ha prodotto e continua a produrre una grande quantità di dati che devono essere innanzitutto confermati. Infatti, nonostante la precisione dei suoi strumenti e il vantaggio di non essere disturbato dall’atmosfera terrestre, anche le osservazioni di TESS possono essere contaminate da fattori esterni. Ben una frazione importante dei pianeti candidati trovati da TESS si rivelano essere ad un’indagine successiva “falsi positivi”. Un falso positivo è un segnale simile a quello emesso dal transito di un pianeta davanti alla sua stella ma che in realtà la sua origine è diversa, forse strumentale oppure legata a fenomeni astrofisici. Rientrano ad esempio in questa ultima categoria le stelle variabili (come le binarie ad eclisse) che si trovano vicino ai target osservati.
A sostegno della missione TESS occorrono quindi osservazioni follow-up da terra al fine di escludere i falsi positivi e successivamente perfezionare le effemeridi dei pianeti confermati. Nasce così TFOP Tess Follow-Up Observing Program programma di follow-up di TESS con lo scopo di completare le osservazioni di TESS con dati raccolti da osservatori terrestri.
ASTROFILI A CACCIA DI ESOPIANETI
Il TFOP, grazie al contributo di Astronomi professionisti e di Astrofili, ha fino ad oggi confermato circa cinquecento pianeti extrasolari.
Gli osservatori terrestri si impegnano a riprendere fotometricamente i pianeti candidati trovati dal telescopio spaziale al fine di confermarne i transiti oppure tentano di ripetere l’osservazione mettendo in campo strumenti diversi come, ad esempio, spettroscopi, utile per determinare la massa dei target.
Abbiamo chiesto all’astronoma Karen Collins, membro dell’ufficio scientifico TESS, di raccontarci come opera TESS.
“Il TESS Follow-up Observing Program (TFOP) ha l’obiettivo di confermare i cosiddetti TOI (TESS Object of Interest), che in genere sono segnali di possibili esopianeti in transito. Il gruppo è organizzato in cinque diversi sottogruppi (SG) e attualmente comprende oltre 650 cittadini fra astrofili, studenti e astronomi professionisti di tutto il mondo. Tutti gli osservatori con le competenze necessarie per contribuire a uno o più sottogruppi sono invitati a candidarsi per entrare a far parte del TFOP seguendo le istruzioni riportate sul nostro sito web dedicato alle candidature (https://tess.mit.edu/followup/apply-join-tfop).”
Specificità dei gruppi di lavoro TESS
SG1 utilizza fotometria per identificare i falsi positivi dovuti a binarie ad eclisse vicine al TOI che contaminano le misure fotometriche di TESS e, nella maggior parte dei casi, per rilevare gli eventi di transito sul target. I tempi di transito misurati sono utilizzati per contribuire a perfezionare le effemeridi di TESS e, in alcuni casi, per misurare le variazioni temporali. Quando è possibile, si raccolgono anche osservazioni multibanda per verificare la dipendenza del segnale di transito dalla lunghezza d’onda: conferma di una binaria ad eclisse che non può essere distinta dal TOI.
Il team SG2 individua e misura parametri spettroscopici per calcolare in maniera più precisa la massa e il raggio delle stelle madri dei pianeti, per individuare i falsi positivi causati dalle binarie spettroscopiche e per identificare le stelle non adatte a misure precise di RV (quelle in rapida rotazione)
Il team SG3 usa immagini ad alta risoluzione (ad esempio con ottiche adattive) per rilevare oggetti vicini che non sono risolti nelle osservazioni di TESS o ad integrazione dei lavori del gruppo SG1.
Il team SG4 ottiene misure accurate di velocità radiali delle TOI con l’obiettivo di determinare le orbite dei pianeti intorno alla stella madre e calcolarne la massa.
Il gruppo SG5 compina dati fotometrici raccolti da più fonti come HST, Spitzer (non più attivo), MOST, CHEOPS e JWST, per confermare e migliorare le effemeridi fornite da TESS, ma anche per fornire curve di luce migliorate per eventi di transito o addirittura TTV Transit Timing Variation in alcuni casi.
Intervista a Karen Collins
Approfittiamo della preziosa disponibilità di Karen Collins per rivolgerle ancora qualche domanda.
Qual è il suo ruolo all’interno del programma TESS e più nello specifico nel TFOP?
Sono a capo del team SG1, insieme alla collega Cristilyn Watkins. Insieme, esaminiamo tutte le osservazioni presentate dai membri del team SG1 e aggiorniamo le valutazioni dei pianeti candidati man mano che il processo di follow-up procede fino alla conferma del pianeta o del falso positivo. Specifichiamo inoltre quale tipo di osservazione è necessaria per ogni TOI. Gli osservatori che hanno fornito le curve di luce secondo le nostre richieste e che si sono rivelate utili per la completa valutazione di un candidato pianeta diventano coautori degli articoli sulla scoperta di pianeti.
Karen Collins presso l’Apache Point Observatory
Cosa cerca principalmente il vostro team e qual è stata la scoperta più importante dell’ ultimo anno grazie ai dati di follow-up di TESS?
L’obiettivo generale del team TFOP è quello di contribuire alla conferma dei pianeti trovati da TESS. La maggior parte degli autori degli articoli sulla scoperta dei pianeti sono anche membri del TFOP, quindi lavoriamo a stretto contatto con loro durante il processo di pubblicazione. Ad oggi sono stati scoperti quasi 500 pianeti grazie a TESS e non saprei dire quale fra essi può rappresentare la scoperta più importante. Suppongo invece che sia proprio il gran numero di scoperte di pianeti da parte di TESS e del TFOP a rivestire una notevole importanza per gli studi statistici sugli esopianeti, sulla loro formazione e soprattutto indirizzare gli approfondimenti delle atmosfere grazie al James Webb Space Telescope (JWST).
La NASA consente l’accesso al database Exo FOP-TESS affinché tutti i membri di TFOP possano caricare le proprie osservazioni una volta che un esopianeta viene stato confermato.
Per i curiosi, tutti i candidati pianeti trovati da TESS, che dovranno poi essere confermati dal TFOP, sono presenti nel catalogo TOI (TESS Objects of Interest). Per consultarli https://tess.mit.edu/followup/
TESS non è in grado di approfondire lo studio e l’analisi delle caratteristiche dei nuovi pianeti non essendo stato progettato specificatamente per questo scopo non possiede infatti la strumentazione necessaria. In futuro, ed anche ora, TESS ricoprirà il ruolo di “puntatore” del telescopio spaziale James Webb (JWST). Una volta individuati quindi gli oggetti più interessanti sarà TESS a indicare al JWST la direzione verso cui puntare.
Quando si parla di supernovae, il nostro sguardo si allarga inevitabilmente verso gli angoli più remoti e affascinanti dell’Universo. L’articolo che segue vi guiderà attraverso le scoperte di alcuni degli eventi astronomici più luminosi e significativi mai osservati: le supernovae extragalattiche. In particolare, ci concentreremo su quelle che, grazie alla loro vicinanza e brillantezza, hanno lasciato un segno indelebile nella storia dell’astronomia. Attraverso un viaggio che inizia con la celebre SN1895B, scoperta dalla pioniera dell’astronomia Williamina Fleming, esploreremo come tali fenomeni abbiano contribuito a ridefinire la nostra comprensione delle galassie e del cosmo. Preparatevi dunque ad immergervi nella storia di queste esplosioni stellari, alla scoperta delle meraviglie e dei misteri che esse portano con sé.
SN1895B di Williamina Fleming
1) Primo piano dell’astronoma scozzese, naturalizzata statunitense, Williamina Paton Stevens Fleming realizzato intorno all’anno 1890.
L’articolo prosegue cronologicamente l’analisi delle supernovae più luminose e quindi più vicine ed importanti della storia. Dopo la SN1885A scoperta dall’astronomo tedesco Ernst Hartwig nella galassia di Andromeda (prima supernova extragalattica della storia), che abbiamo trattato nella puntata precedente (vedi COELUM 269), ci spostiamo di circa dieci anni più avanti, arrivando alla scoperta della SN1895B ad opera dell’astronoma scozzese, naturalizzata statunitense, Williamina Paton Stevens Fleming il 12 dicembre 1895, analizzando una lastra fotografica del 18 luglio 1895 nella galassia NGC5253.
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IL 23 NOVEMBRE 1924, CENTO ANNI FA, EDWIN HUBBLE PUBBLICÒ IN THE OBSERVATORY: “CEPHEIDS IN SPIRALNEBULAE“. UNO STUDIO BASATO SULLE SUE OSSERVAZIONI ASTRONOMICHE, NEL QUALE DIMOSTRÒ CHE LA VIA LATTEA NON È L’UNICA GALASSIA DELL’UNIVERSO DANDO COSÌ UNA SVOLTA ALLA STORIA DELL’ASTRONOMIA ED ALLA COMPRENSIONE DEL CIELO SOPRA DI NOI.
Il centenario di una delle sue scoperte più importanti ci offre l’opportunità di guardare da vicino il lavoro straordinario di Edwin Hubble. I suoi studi rivoluzionarono nel secolo scorso la nostra conoscenza del cosmo al pari di quanto fecero Copernico e Galileo tra 1500 e 1600. Possono la scienza e la tecnica restituirci non solo maggiore conoscenza della realtà che ci circonda, ma anche senso e significato? È buona cosa che qualunque disciplina non risponda a domande che non sono pensate per quella disciplina e che stia, per dirla con parole proprie, nel suo statuto epistemologico. Tuttavia è possibile, se non auspicabile, che le scoperte della scienza ed i traguardi della tecnica, spingano tutti e chiunque a riflettere sul significato della vita e sulle grandi domande umane. Diversamente la scienza e la tecnica rischiano di essere solo a servizio del potere, e rivestite di una presunta neutralità, che non hanno mai avuto davvero, essere concluse in sé stesse. Analoghe considerazioni si possono fare della vita e del modo di fare scienza delle donne e degli uomini che hanno accompagnato l’umanità nel viaggio del sapere, perché le persone e le scoperte che hanno fatto restano sempre un tutt’uno nel fluire della storia. Quando si tratta di esplorazione dello spazio, cielo profondo, fisica ed astrofisica, tutto sembra ancora più favorevole ed invitante.
Nato a Marshfield negli Stati Uniti il 20 novembre 1889, Edwin Powell Hubble alle leggi della terra, si laurea nel 1910 in giurisprudenza per compiacere il padre, preferì le leggi del cielo, studiando astronomia all’Osservatorio dell’Università di Chicago, dove conseguì il dottorato nel 1917 discutendo una tesi dal titolo “Investigazione fotografica di nebulose deboli”. E le nebulose furono, in effetti, il suo grande amore. Colgo qui un primo elemento di senso che possiamo condividere: il valore inestimabile della vocazione personale di ciascuno di noi. Uso un termine teologico, ma che rende ragione di un significato denso anche al di fuori dell’orbita di un credo religioso. Lo psicoanalista e psichiatra Jacques Lacan esprimeva questo concetto con una domanda: “Vivi all’altezza dei desideri che ti abitano?”. Una domanda seria che possiamo legare più di altre proprio al cielo. Hubble ci mostra come la vita non sia prima di tutto una serie di scelte, ma una risposta a qualcosa di misterioso e profondo che ci abita sin dall’infanzia. Benché l’astronomo abbia afferrato in gioventù il suo desiderio, non è mai tardi per chiunque per investigare il cuore alla ricerca di quella radice, o di una domanda che è così strutturale da poter essere fatta fiorire in modi diversi a qualunque età. Per chi è appassionato di cielo e spazio questo piccolo passo, ma che segna la propria storia, potrebbe essere anche più semplice. Il detto popolare secondo cui è possibile esprimere un desiderio al vedere una stella cadente, non è così sbagliato se le “stelle cadenti” ci aiutano non tanto a realizzare, ma a focalizzare i nostri desideri più significativi.
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Dettagli del sistema Galassie Antenne. Crediti @ShaRA Team
Indice dei contenuti
ABSTRACT
Nel corso degli ultimi progetti del team ShaRA, ci siamo immersi nell’esplorazione di alcuni tra i più affascinanti oggetti del cielo profondo. Dopo aver catturato l’interazione gravitazionale tra le galassie NGC 3169 e NGC 3166, abbiamo deciso di posare il nostro sguardo su un oggetto tra i più iconici del cielo notturno. ShaRA#9 ci ha così trasportato in un angolo di universo oltre il nostro gruppo locale, dove due remote galassie stanno danzando una complessa coreografia di collisione e fusione, tra le più studiate in letteratura: le Galassie delle Antenne (NGC 4038 e NGC 4039).
di Alessandro Ravagnin e ShaRA Team
Il Target
Le Galassie delle Antenne (NGC 4038 e NGC 4039) nel campo inquadrato, sono visibili moltissime galassie di sfondo, tra le quali anche una coppia di galassie interagenti non classificate in letteratura.
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Una piccola immagine di una galassia distorta dalla lente gravitazionale in un anello fioco. Nella parte superiore dell'anello ci sono tre punti molto luminosi con punte di diffrazione che fuoriescono da essi, uno accanto all'altro: in realtà si tratta di copie di un singolo quasar nella galassia, duplicate dalla lente gravitazionale. Al centro dell'anello, la galassia ellittica che esegue la lente appare come un piccolo punto blu. Credit: ESA/Webb, NASA & CSA, A. Nierenberg
L’insolito oggetto immortalato in questa sorprendente ripresa del telescopio JWST sembra quasi un prezioso anello tempestato di rubini brillanti, appoggiato su uno sfondo di velluto nero profondo. Si tratta in realtà di un quasar distante oltre 6 miliardi di anni luce da noi nella Costellazione del Cratere, un oggetto estremamente brillante, la cui immagine risulta duplicata e deformata per effetto di un fenomeno noto come lente gravitazionale.
I quasar sono sorgenti estremamente luminose localizzate nel cuore di remote galassie attive: la luminosità eccezionale e la prodigiosa quantità di energia emesse da un quasar sono dovute al processo di accrescimento del buco nero supermassiccio centrale, circondato da un disco da cui divora avidamente materia. Il materiale in caduta nel vorace buco nero accresce la sua massa ed è anche responsabile della luminosità di un quasar.
Nel caso del quasar RX J1131-1231, accade che lungo la nostra linea di vista si interponga nello spazio una massiccia galassia ellittica, situata circa a metà strada tra noi e il quasar, a 3,5 miliardi di anni luce di distanza dalla Terra. A causa della presenza ingombrante di una grande quantità di massa, come previsto dalla Relatività Generale di Einstein, la deformazione del tessuto spaziotemporale fa sì che la luce emessa dal quasar venga forzata a viaggiare lungo percorsi differenti per arrivare fino a noi, cosicchè la sua immagine risulta deformata e riprodotta più volte. Inoltre, la galassia in primo piano agisce come una sorta di lente, un telescopio naturale che ci permette di osservare chiaramente il quasar remoto, la cui radiazione luminosa viene amplificata.
Una piccola immagine di una galassia distorta dalla lente gravitazionale in un anello fioco. Nella parte superiore dell’anello ci sono tre punti molto luminosi con punte di diffrazione che fuoriescono da essi, uno accanto all’altro: in realtà si tratta di copie di un singolo quasar nella galassia, duplicate dalla lente gravitazionale. Al centro dell’anello, la galassia ellittica che esegue la lente appare come un piccolo punto blu. Credit: ESA/Webb, NASA & CSA, A. Nierenberg
I tre punti brillanti affiancati e il puntino luminoso dalla parte opposta dell’anello sono in realtà quattro immagini distinte di questo singolo quasar, la cui luce lungo il percorso si è “piegata” creando l’illusione che la galassia ellittica in primo piano, visibile come piccolo puntino blu al centro dell’anello, sia circondata da quattro oggetti luminosi distinti, mentre la galassia in cui si trova il quasar ha assunto una forma simile ad un anello. Il numero e la forma delle immagini di un quasar lensato in questa sorta di miraggi cosmici dipende dalla posizione relativa del quasar, della galassia lente e del telescopio.
Il processo di accrescimento di materiale e l’ambiente estremamente energetico provocano un surriscaldamento del disco circostante il buco nero supermassiccio, con conseguente emissione di luce in varie lunghezze d’onda. Al di sopra del bordo interno del disco si trova la corona, una regione ricca di particelle altamente energetiche, accelerate dal campo magnetico del buco nero, che brillano in banda X. Grazie al fenomeno della lente gravitazionale e a osservazioni del telescopio spaziale Chandra, gli astronomi hanno ottenuto informazioni dettagliate sulla quantità di radiazione X a differenti energie emessa dal quasar. Questo ha permesso di misurare il tasso di rotazione del buco nero supermassiccio attivo responsabile della luminosità del quasar. Sembra che il buco nero volteggi a un tasso prodigioso, pari a circa metà della velocità della luce.
Misurare la rotazione dei buchi neri supermassicci nel giovane Universo può aiutare i ricercatori a capire se questi mostruosi oggetti crescano essenzialmente attraverso collisioni o grandi fusioni tra galassie, nel qual caso avrebbero a disposizione una fornitura costante di materiale proveniente da una direzione principale, formando un disco di accrescimento stabile, in grado di ruotare rapidamente. Oppure se acquisiscano massa attraverso molti episodi minori di accrescimento, da una serie di direzioni casuali variabili, nel qual caso il tasso di rotazione risulterebbe inferiore. I dati ottenuti dai ricercatori supportano la prima ipotesi, data l’eccezionale rapidità di rotazione calcolata in RX J1131.
L’immagine è stata ripresa dallo strumento MIRI (Mid-Infrared Instrument) a bordo del telescopio Webb, come parte di un programma osservativo volto a studiare la materia oscura. Queste osservazioni di quasar distanti permetteranno agli astronomi di sondare la natura della materia oscura su scale molto piccole, grazie al fenomeno della lente gravitazionale.
Figura 1. Rappresentazione artistica delle fasi che portano all’esplosione di una supernova a collasso del nucleo:la stella progenitrice espelle parte degli strati più esterni nei decenni che precedono l’esplosione (a sinistra); un numero cospicuo di neutrini viene emesso negli istanti successivi al collasso del nucleo (al centro); l’onda d’urto generata dal collasso raggiunge la superficie della stella determinandone la distruzione (a destra). Crediti: S. Orlando/INAF Palermo.
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Come i Modelli Scientifici Stanno Rivoluzionando lo Studio delle Supernove
INTRODUZIONE
Nell’articolo l’autore esplora come i modelli scientifici tridimensionali (3D) stiano rivoluzionando lo studio delle supernove, con particolare enfasi sulle supernove a collasso del nucleo (cc-SNe). Queste esplosioni stellari, tra gli eventi più energetici dell’universo, giocano un ruolo cruciale nell’evoluzione delle galassie, contribuendo alla distribuzione degli elementi chimici necessari alla formazione di nuove stelle e pianeti. Tuttavia, la comprensione dei processi fisici che guidano queste esplosioni è estremamente complessa a causa della loro imprevedibilità e della difficoltà di osservare direttamente le fasi che precedono e seguono immediatamente il collasso del nucleo.
Gli scienziati affrontano queste sfide utilizzando modelli 3D avanzati che, grazie alla potenza dei supercomputer, permettono di simulare dettagliatamente l’evoluzione delle supernove dal collasso del nucleo fino alla propagazione dell’onda d’urto attraverso l’ambiente circostante. Questi modelli non solo riproducono le condizioni fisiche e chimiche delle stelle progenitrici, ma consentono anche di collegare le strutture osservate nei resti di supernova ai processi fisici che le hanno generate.
Un caso di studio significativo è rappresentato dalla supernova SN 1987A, la cui esplosione è stata modellata in 3D, rivelando dettagli cruciali sulla sua asimmetria e sulla stella progenitrice.
Le Sfide per la Comprensione delle Supernove
Nonostante il ruolo cruciale che le supernove rivestono in numerosi campi dell’astrofisica, comprenderne i processi fisici è una sfida estremamente complessa. Gli eventi catastrofici, caratterizzati da esplosioni violente, sono infatti difficilmente prevedibili: non possiamo mai sapere con esattezza quando e dove si verificheranno e l’incertezza ci impedisce di catturare con precisione
Figura 2. La supernova extragalattica SN 2014C osservata in banda ottica e nei raggi X. L’immagine principale ottenuta con lo Sloan Digital Sky Survey (SDSS) mostra la galassia a spirale NGC 7331. Gli inserti mostrano le osservazioni del Chandra X-ray Observatory dell’insolita supernova SN 2014C.Crediti: immagini a raggi X: NASA, CXC, CIERA, R.Margutti et al.;immagine ottica: SDSS.
i momenti più cruciali, sia immediatamente prima che subito dopo l’esplosione. Inoltre, i processi che avvengono all’interno di una supernova sono nascosti dagli strati esterni della stella, rendendo impossibile osservare direttamente le fasi che portano al collasso del nucleo e allo sviluppo dell’esplosione. Un limite che condiziona fortemente la nostra capacità di cogliere quei dettagli fondamentali che potrebbero svelarci i segreti più profondi di questi straordinari fenomeni. Come se non bastasse, le supernove sono anche eventi rari nella nostra galassia e, negli ultimi quattro secoli, non ne abbiamo osservate direttamente. Per studiarle, dobbiamo quindi rivolgere lo sguardo a galassie lontane, dove queste esplosioni appaiono come minuscoli punti di luce distanti, impossibili da risolvere nei dettagli (Figura 2). Siamo perciò costretti ad estrarre informazioni cruciali da ciò che possiamo osservare, come le curve di luce che descrivono l’evoluzione della luminosità o gli spettri elettromagnetici che forniscono indizi sulle proprietà fisiche e chimiche del materiale che emette la radiazione. Tuttavia, interpretare questi dati è un compito complesso, e non sempre porta a risultati definitivi. Insomma non mancano difficoltà ci privano quindi di informazioni essenziali per comprendere i meccanismi dell’esplosione e la natura della stella progenitrice. Infatti i giorni e le settimane immediatamente successivi a una supernova sono un periodo di straordinaria importanza: in quel momento, i suoi detriti conservano ancora in modo nitido le tracce della stella che è esplosa e dei processi che ne hanno guidato l’esplosione, offrendo una rara opportunità per studiarne la natura in profondità.
Le Informazioni Codificate nei Resti delle Supernove
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