A Mirandola torna la Space Week con mostre, conferenze e uno sguardo oltre le stelle
Per il terzo anno consecutivo, Latitude 44.5 – il progetto dell’astrofotografo e divulgatore Luca Reggiani, ben noto anche per i suoi interventi nei nostri video social – porta a Mirandola una settimana dedicata all’astronomia e all’esplorazione spaziale, con una mostra di astrofotografia a ingresso libero e un ricco programma di conferenze gratuite.
L’edizione 2025 si svolgerà dal 3 all’11 maggio nella suggestiva cornice della Sala Trionfini, in Piazza Ceretti 9, e sarà un’occasione unica per immergersi nelle meraviglie del cosmo attraverso immagini mozzafiato e approfondimenti scientifici accessibili a tutti.
🌌 La mostra di astrofotografia sarà visitabile per tutta la settimana, offrendo uno sguardo privilegiato sull’universo attraverso gli scatti di appassionati e professionisti.
📚 Il programma delle conferenze – organizzate in occasione della Giornata Mondiale dell’Astronomia – prevede otto incontri con esperti del settore, tra cui astrofisici, divulgatori, astronomi, storici della scienza e tecnici di osservatori astronomici. I temi spazieranno dalla ricerca di vita extraterrestre alla geopolitica dello spazio, passando per i grandi telescopi come Hubble, James Webb ed Euclid.
Tra gli appuntamenti da non perdere:
03 maggio: La (probabile) vita extraterrestre con Lorenzo Pelloni (Planetario di Modena)
04 maggio: Alla ricerca del tempo perduto: Euclid e JWST con Roberto Castagnetti (CosMo)
08 maggio: Le stelle: vita, morte e miracoli con Aldo Zanetti (astronomo)
11 maggio: Stelle erranti con Matteo Marchionni (astrofotografo)
🎫 Ingresso gratuito con posti limitati: per garantire la partecipazione è consigliata la prenotazione tramite il QR code disponibile in locandina o via Eventbrite.
Un’occasione imperdibile per chi desidera avvicinarsi all’astronomia o approfondirne i temi più attuali in un clima di curiosità e condivisione.
Vi aspettiamo numerosi sotto le stelle!
Luca “Orione” – Latitude 44º50’ Astrophotography IU4FNS – Amateur Radio Station
Rappresentazione artistica della sonda Lucy mentre sorvola l’asteroide troiano (617) Patroclus e il suo compagno binario Menoetius.
Lucy sarà la prima missione a esplorare gli asteroidi troiani di Giove – antichi residui del Sistema Solare esterno intrappolati nell’orbita del gigante gassoso. Crediti: NASA’s Goddard Space Flight Center / Conceptual Image Lab / Adriana Gutierrez
Cortesia: NASA’s Goddard Space Flight Center / Conceptual Image Lab / Adriana Gutierrez Lucy è la prima missione spaziale dedicata all’esplorazione degli asteroidi troiani, una popolazione di piccoli corpi celesti residui della formazione del Sistema Solare. Questi oggetti precedono o seguono Giove nella sua orbita attorno al Sole e potrebbero offrire indizi sull’origine dei materiali organici sulla Terra.
La sonda Lucy della NASA si avvicina al piccolo asteroide Donaldjohanson, nel cuore della Fascia Principale, a meno di 80 milioni di chilometri di distanza. Il sorvolo avverrà il 20 aprile alle 13:51 EDT (19:51 ora italiana), a una distanza ravvicinata di 960 km, rappresentando una vera e propria prova generale per la missione principale: l’esplorazione degli asteroidi Troiani di Giove, prevista nei prossimi anni.
Una tappa intermedia, ma fondamentale
Dopo il primo flyby del novembre 2023, che ha visto Lucy incontrare l’asteroide Dinkinesh e il suo satellite naturale Selam, questo secondo passaggio su Donaldjohanson permetterà di affinare manovre e strumenti in condizioni simili a quelle previste per gli asteroidi gioviani. Durante l’avvicinamento, Lucy ruoterà autonomamente per mantenere nel campo visivo il bersaglio, grazie al sistema di tracciamento terminale, e attiverà tutti e tre gli strumenti scientifici principali:
L’LORRI, la camera ad alta risoluzione in bianco e nero;
L’Ralph, spettrometro nel visibile e infrarosso;
L’TES, spettrometro a infrarossi termici.
Le osservazioni si interromperanno però 40 secondi prima del punto di massimo avvicinamento, per evitare che la luce solare troppo intensa danneggi i sensori: “Gli strumenti sono progettati per osservare oggetti illuminati da una luce solare 25 volte più debole rispetto a quella terrestre”, ha spiegato Michael Vincent, responsabile della fase di incontro presso il Southwest Research Institute (SwRI) di Boulder, Colorado. “Guardare verso il Sole in queste condizioni potrebbe rovinarli.”
Una manovra coreografica nello spazio
Dopo il sorvolo, Lucy effettuerà una rotazione per riorientare i suoi pannelli solari verso il Sole e, circa un’ora più tardi, ristabilirà il contatto con la Terra. Il ritardo delle comunicazioni – circa 12,5 minuti luce – impone una gestione completamente autonoma dell’incontro.
“Una delle cose più strane da comprendere di queste missioni nello spazio profondo è la lentezza della velocità della luce”, ha aggiunto Vincent. “Quando inviamo un comando per vedere le immagini scattate durante il passaggio, dobbiamo attendere 25 minuti prima di riceverle.”
Un asteroide giovane, una storia antica
Donaldjohanson, così battezzato in onore del paleoantropologo co-scopritore di Lucy, lo scheletro fossile che ha ispirato il nome della missione, è considerato uno degli asteroidi più giovani mai visitati da una sonda, con un’origine che risale a 150 milioni di anni fa, frutto di una collisione catastrofica.
“Ogni asteroide racconta una storia diversa, e insieme queste storie compongono il grande mosaico della storia del Sistema Solare,” ha commentato Tom Statler, scienziato del programma Lucy presso il NASA Headquarters. “Le osservazioni da terra ci fanno pensare che anche questo oggetto avrà molto da raccontare. E sono pronto a restare sorpreso, ancora una volta.”
Dietro le quinte della missione Lucy
NASA Goddard Space Flight Center: gestione missione e sviluppo dello spettrometro L’Ralph
Southwest Research Institute (Boulder, CO): direzione scientifica e fase operativa
Lockheed Martin Space: costruzione della sonda e controllo di volo
KinetX Aerospace e NASA Goddard: navigazione
Johns Hopkins Applied Physics Laboratory: progettazione di L’LORRI
Arizona State University: progettazione dello spettrometro termico L’TES
Lucy è la tredicesima missione del Discovery Program della NASA, coordinato dal Marshall Space Flight Center a Huntsville, Alabama.
Il Rubin Observatory ha installato la fotocamera LSST da 3200 megapixel, la più grande mai costruita, sul telescopio Simonyi in Cile. Il team internazionale sta completando la messa in servizio, raffreddando il sistema a –100 °C. Dal 2025, la fotocamera realizzerà il più grande film astronomico mai prodotto, con un'indagine decennale del cielo.
Installata la fotocamera LSST da 3200 megapixel: al via la mappatura decennale dell’Universo dal Cerro Pachón in Cile.
di Gaëlle Suter
In cima al Cerro Pachón, nel nord del Cile, un progetto ventennale giunge a un momento storico: la fotocamera LSST (Legacy Survey of Space and Time), il più grande sensore digitale mai costruito per l’astronomia, è stata installata con successo sul telescopio Simonyi Survey del Vera C. Rubin Observatory. Con i suoi 3200 megapixel, la camera permetterà una mappatura senza precedenti dell’Universo, offrendo dati fondamentali per comprendere fenomeni come materia oscura, energia oscura e l’evoluzione cosmica.
Realizzata presso lo SLAC in California, la fotocamera LSST rappresenta un capolavoro di ingegneria scientifica. Composta da 189 sensori CCD, è progettata per acquisire immagini ad altissima risoluzione con una sensibilità tale da rilevare oggetti celesti debolissimi in tempi rapidissimi. Ogni esposizione sarà equivalente a una fotografia da 3200 megapixel, una capacità sufficiente a riprendere l’intero cielo visibile in appena pochi giorni.
Ma accendere una macchina del genere non è affare da poco. Le fasi attuali non riguardano più l’assemblaggio, bensì la messa in servizio, un processo delicato che prevede il raffreddamento dei sistemi elettronici e sensibili a temperature estremamente basse per garantirne la stabilità operativa.
Sotto zero per vedere l’Universo
Il cuore della fotocamera è il criostato, una camera che isola termicamente i componenti interni. «Il vuoto è essenziale per proteggere l’elettronica dai cambiamenti di temperatura», spiega Stuart Marshall, scienziato operativo della fotocamera e ricercatore senior presso SLAC. Una volta creato il vuoto, verrà attivato un circuito di refrigerazione che farà circolare un fluido a –50 °C, in grado di rimuovere il chilowatt di calore generato dal sistema elettronico. L’obiettivo è mantenere le componenti tra i –20 e –5 °C, mentre i sensori CCD richiedono un raffreddamento ancora più estremo, fino a –100 °C, per garantire immagini prive di rumore termico.
Lavoro di squadra tra scienza e ingegneria
Su una stretta piattaforma sospesa a cinque metri dal suolo, incastrato tra la fotocamera LSST e il telescopio, Stuart Marshall, scienziato operativo della fotocamera e ricercatore presso SLAC, è impegnato nel collegamento del sistema a vuoto della fotocamera LSST. (RubinObs/NOIRLab/SLAC/NSF/DOE/AURA/Y. Utsumi)
Le operazioni di messa in servizio sono condotte da un team internazionale altamente specializzato. Accanto a Marshall, anche la postdoc Yijung Kang di SLAC e Yousuke Utsumi, professore associato al National Astronomical Observatory of Japan (NAOJ), stanno contribuendo a portare online il sistema. Tutti lavorano a cinque metri d’altezza, su una piattaforma limitata a 125 kg di carico, incastrati tra la fotocamera e lo specchio del telescopio.
«Ogni parte del sistema deve essere compresa a fondo», spiega Utsumi. «Il lavoro è complesso, ma il team è pronto ad affrontare anche gli imprevisti più difficili.»
Countdown verso la prima luce
Una volta stabilizzata la temperatura e attivati i CCD, il momento tanto atteso si avvicina: la rimozione del gigantesco copriobiettivo da 1,7 metri di diametro, che avverrà con l’aiuto di una gru. A quel punto, per la prima volta, la luce delle stelle raggiungerà i sensori LSST. Gli specialisti delle osservazioni sceglieranno la porzione di cielo da analizzare, e il telescopio catturerà le prime immagini.
Queste immagini, proiettate su tre schermi giganti nella sala di controllo, segneranno l’inizio di quella che è stata definita “la più grande pellicola astronomica mai realizzata”: un’indagine di dieci anni sull’Universo visibile, che genererà un time-lapse ad altissima risoluzione della volta celeste, utile a studiare transiti planetari, supernove, movimenti di galassie e persino a migliorare i modelli di cosmologia.
Un’eredità per la scienza del futuro
Il Legacy Survey of Space and Time (LSST) non sarà solo un catalogo di immagini: sarà una risorsa scientifica globale. I dati saranno resi pubblici e accessibili agli scienziati di tutto il mondo, permettendo di affrontare questioni fondamentali come la natura della materia oscura e l’espansione dell’universo. Il Rubin Observatory onora la memoria dell’astronoma Vera Rubin, pioniera nello studio delle curve di rotazione galattiche che per prima dimostrò l’esistenza della materia oscura.
Con la prima luce prevista per il 2025, il Rubin Observatory si prepara a diventare uno dei pilastri della nuova astronomia osservativa.
In questo numero di COELUM, parliamo non di una ma bensì di due immagini che lo ShaRA Team ha realizzato fra il finire del 2024 e l’inizio del 2025: la Piccola e la Grande Nube di Magellano. Questi due oggetti sono fra i più caratteristici del cielo australe e non potevano di certo sfuggire alle grinfie del team di Astrofotografi remoti ShaRA!
Indice dei contenuti
ABSTRACT
In questo numero di COELUM, parliamo non di una ma bensì di due immagini che lo ShaRA Team ha realizzato fra il finire del 2024 e l’inizio del 2025: la Piccola e la Grande Nube di Magellano. Questi due oggetti sono fra i più caratteristici del cielo australe e non potevano di certo sfuggire alle grinfie del team di Astrofotografi remoti ShaRA!
di Aldo Zanetti e ShaRA Team
Il Target
SMC e 47 Tuc ottenuta con la formula del Superstack ShaRA partendo da quasi 14 ore di integrazione RGB+HaOIII col Nikon 100mm di apertura f/2 del servizio remoto Chilescope.LMC ottenuta con la formula del Superstack ShaRA partendo da quasi 32 ore di integrazione LRGB+HaOIIISII su due pannelli parzialmente sovrapposti, col Nikon 100mm di apertura f/2 del servizio remoto Chilescope.
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Nel progetto ShaRA#11, il team esplora Fornax A (NGC 1316), una spettacolare galassia radio del cielo australe, oggetto di interesse per la fisica delle alte energie e possibile sorgente di raggi cosmici ultra-energetici. L’immagine finale, frutto di oltre 31 ore di posa e complesse tecniche di elaborazione, rappresenta uno dei migliori risultati del team, nonostante numerose difficoltà tecniche e meteorologiche affrontate durante le riprese.
di Adriano Anfuso, Alessandro Ravagnin, Aldo Zanetti e ShaRA Team
Il Target
A destra. L’immagine finale di Fornax A soggetto del progetto n°11 di ShaRA Team, uno dei migliori elaborati prodotti dal gruppo superando non poche avversità
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Perseverance osserva l’orizzonte verso ovest: questo è il punto più occidentale che
abbia raggiunto finora. Sol 1380. NASA/JPL-Caltech/Piras.
Indice dei contenuti
Intro
Per la prima volta i resoconti dell’esplorazione dei rover occuperanno una parte minore di queste pagine scegliendo di dedicare più spazio a diverse ricerche pubblicate tra gennaio e febbraio. I risultati scientifici non sarebbero mai stati possibili senza i preziosissimi dati raccolti dai nostri emissari robotici, quindi senza indugiare oltre, trasferiamoci nel Cratere Jezero: si parte!
PERSEVERANCE, PIROSSENI E SERPENTINI
Il nostro rover ha vissuto due mesi decisamente partico¬lari, caratterizzati da poche nuove zone esplorate ma tan¬ti metri percorsi. Sembra una contraddizione? Vedremo… Il filo delle cronache riprende da Witch Hazel Hill dove abbiamo lasciato Perseverance a metà dicembre. Nel Sol 1363 il rover aveva appena raggiunto il bordo esterno del Cratere Jezero inaugurando la North Rim Campaign. Complice la pausa natalizia, le attività di rilievo ripren¬dono il primo gennaio del nuovo anno con un’abrasione superficiale ad esporre le antichissime rocce di questa regione pronte per essere ispezionate con le macro di WA¬TSON, le rilevazioni ottiche spettrali delle MastCam-Z, e lo spettrometro a raggi-X PIXL. Seguono ulteriori analisi, rimandate di alcuni Sol, dopo di chè il rover viene fatto muovere per 136 metri verso ovest in direzione della loca¬lità Mill Brook. Da questa posizione vengono scattati vari panorami con le NavCam, tra i quali quello che vedete in doppia pagina qui sopra. Lo scatto attualmente rappre¬senta la visuale più a occidente dell’intera missione. È il 6 gennaio e hanno inizio giorni di lavoro per gli scien¬ziati e tecnici del JPL condizionati più dai fatti in svolgi¬mento sulla Terra che su Marte: la California è flagellata da incendi devastanti e i centri di ricerca della NASA ven¬gono temporaneamente chiusi per consentire ai lavora¬tori di mettersi al riparo.
Lunghi spostamenti (indicati cronologicamente dai numeri a fianco alle frecce con i percorsi), una foto panoramica indicata con il marker azzurro a sinistra, due prelievi di successo a witch hazel hill, due prelievi falliti a cat arm reservoir. Tutto questo in appena due mesi! Mappa aggior¬nata al 21 febbraio. Nasa/jpl-caltech/piras.
Dopo due settimane di apparente inattività, impegnate invece in verifiche dei sistemi e test, il Sol 1395 Perseve-rance torna al lavoro ed esegue una nuova abrasione. La “Bad Weather Pond”, questo il suo nome, nelle immagi¬ni acquisite mostra una grande differenza nella texture rispetto a quanto portato alla luce nell’attività di 20 Sol prima: il materiale che appariva quasi friabile ha lasciato il posto, a circa 130 metri di distanza, a una roccia parec-chio più compatta.
Se ci limitassimo a seguire la missione dando unicamen¬te importanza a quanti km vengono macinati e ignoran¬do le considerazioni delle decine di scienziati coinvolti, giudicheremmo inaspettato ciò che invece avverrà nei due giorni dopo: Perseverance, infatti, percorre la strada a ritroso e torna a Witch Hazel Hill. Nel Sol 1400 (27 genna¬io) si posiziona nell’esatto punto dell’abrasione del Sol 1375 e l’indomani esegue un prelievo di roccia.
ABRASIONI DEI SOL 1375 (PIÙ IN ALTO) E 1395. NASA/JPL-CALTECH/PIRAS
La località dove ci troviamo, Shallow Bay, presenta delle rocce ricche di pirosseno a basso contenuto di calcio (LCP). Per i geologi è un materiale di enorme interesse e rappresenta il primo campione dell’era Noachiana (l’intervallo che va da 4,1 a 3,7 miliardi di anni fa) che Perseverance può raccogliere. Si ipotiz¬za che l’affioramento appartenga a un’estesa unità rocciosa con alto contenuto di pirosseni ma la vista dall’orbita per ora la identifica come l’unica località che esponga con simili caratteristiche, fattore esclu¬sivo che aumenta il valore scientifico del campione. Le immagini di verifica al termine del prelievo, scat¬tate inquadrando la punta cava per svelarne il contenuto, non sembrano incoraggianti. A un primo sguardo la pun¬ta sembra vuota, ma le successive riprese con CacheCam (la camera dedicata all’osservazione dell’interno delle fiale immediatamente prima della loro chiusura) confer¬mano la presenza di campioni di materiale. Si tratta in ef¬fetti del prelievo più esiguo finora, solo 2,91 cm di roccia, ma tanto basta per dichiarare l’operazione un successo e poter così sigillare il 26esimo campione, battezzato Silver Mountain.
LA PUNTA SEMBRA VUOTA, MA AL SUO INTERNO CI SONO DEI PICCOLI FRAMMENTI DI ROCCIA. SOL 1401. NASA/JPL-CALTECH/PIRAS.CACHECAM CONFERMA LA PRESENZA DI ROCCIA ALL’INTERNO DELLA FIALA. SOL 1401. NASA/JPL-CALTECH.
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Oggi, lunedì 14 aprile, Blue Origin scriverà una nuova pagina nella storia dell’esplorazione spaziale con la missione NS-31, portando in volo suborbitale la prima equipaggiata interamente femminile dai tempi di Valentina Tereshkova, la pioniera sovietica del 1963.
Il decollo è previsto per le 13:30 UTC, dal Launch Site One di Blue Origin, situato a circa 50 km a nord di Van Horn, Texas. La diretta streaming sarà disponibile sul sito ufficiale di Blue Origin, su YouTube, su X (ex Twitter) e anche sul sito Space.com, a partire dalle 12:00 UTC, ovvero 90 minuti prima del lancio.
La missione durerà poco più di 10 minuti e attraverserà tutte le fasi classiche del volo suborbitale: dal distacco del booster, alla fase di microgravità oltre la linea di Kármán, fino all’atterraggio con paracadute nel deserto texano.
Un equipaggio eccezionale, sei storie da raccontare
La NS-31 sarà molto più di un semplice volo: rappresenta un messaggio di ispirazione, innovazione e inclusione, incarnato nelle sei protagoniste a bordo:
✦ Aisha Bowe
Ex ingegnera aerospaziale della NASA e CEO di STEMBoard, è un’attivista globale per l’educazione STEM. Aisha sarà la prima persona di discendenza bahamense a volare nello spazio. Con sé porterà cartoline scritte da studenti di tutto il mondo e condurrà tre esperimenti scientifici su biologia vegetale e fisiologia umana.
✦ Amanda Nguyễn
Scienziata specializzata in bioastronautica, attivista e nominata al Premio Nobel per la Pace. Ha lavorato con NASA, MIT e Harvard, contribuendo alla missione Kepler e allo Space Shuttle STS-135. Sarà la prima donna vietnamita e del Sud-est asiatico a volare nello spazio, unendo simbolicamente USA e Vietnam attraverso la scienza.
✦ Gayle King
Giornalista e conduttrice di CBS Mornings, è una delle voci più rispettate dei media americani. Ha deciso di accettare questa sfida come un passo fuori dalla sua “comfort zone”, portando con sé lo spirito di chi continua a esplorare, in ogni fase della vita.
✦ Katy Perry
Superstar globale della musica e UNICEF Goodwill Ambassador, Katy è impegnata da anni in cause educative e sociali. Vedere la Terra dallo spazio sarà per lei un messaggio potente rivolto a sua figlia e alle nuove generazioni: “Raggiungete le stelle, nel senso più letterale possibile”.
✦ Kerianne Flynn
Produttrice cinematografica e filantropa, ha firmato documentari sulla parità di genere e i diritti delle donne come This Changes Everything (2018). Per Kerianne, il volo spaziale è un’estensione naturale del suo spirito avventuroso e un’eredità da lasciare a suo figlio Dex.
✦ Lauren Sánchez
Pilota, giornalista premiata con un Emmy, vicepresidente del Bezos Earth Fund e fondatrice di Black Ops Aviation, la prima compagnia aerea cinematografica fondata da una donna. Il suo obiettivo dichiarato è ispirare la prossima generazione di esploratori, anche attraverso il suo recente libro per bambini The Fly Who Flew to Space.
Programma della missione (in orari UTC – Italy UTC+02):
13:30 – Decollo (liftoff)
13:32:40 – Separazione del booster
13:37:30 – Atterraggio del booster
13:40:30 – Atterraggio della capsula con l’equipaggio
Durante il volo, la capsula raggiungerà un’altitudine di oltre 100 km, attraversando la linea di Kármán, confine simbolico dello spazio. Il tutto si concluderà con un atterraggio dolce, grazie ai paracadute, nel deserto del Texas.
Dove vedere la diretta
📡 Lunedì 14 aprile, ore 12:00 UTC – Live streaming su:
CAPE CANAVERAL, Florida (AP) — Il telescopio spaziale James Webb ha catturato immagini dell’asteroide che, all’inizio di quest’anno, aveva fatto preoccupare gli scienziati, finendo in cima alla lista degli oggetti potenzialmente pericolosi per la Terra.
Scoperto alla fine del 2023, l’asteroide 2024 YR4 era stato inizialmente valutato con una probabilità del 3% di impattare la Terra nel 2032. Ma successive osservazioni hanno permesso agli scienziati di ridurre praticamente a zero questo rischio, dove rimane tuttora. Resta però una lieve possibilità che possa colpire la Luna. Questo asteroide compie un passaggio vicino alla Terra ogni quattro anni.
La NASA e l’Agenzia Spaziale Europea hanno diffuso mercoledì le immagini riprese da Webb, in cui l’asteroide appare come un piccolo punto sfocato. Secondo le due agenzie spaziali, Webb ha confermato che l’asteroide misura circa 60 metri di diametro, più o meno come un edificio di 15 piani. È l’oggetto più piccolo mai osservato da questo osservatorio, che è il più grande e potente mai lanciato nello spazio.
Questa immagine fornita dall’Agenzia spaziale europea mercoledì 2 aprile 2025, catturata dal telescopio Webb della NASA, mostra l’asteroide 2024 YR4. (Agenzia spaziale europea tramite AP)
L’astronomo Andrew Rivkin, della Johns Hopkins University, ha dichiarato che le osservazioni condotte con Webb sono state un esercizio “prezioso” in vista di eventuali asteroidi futuri che potrebbero rappresentare una minaccia. Anche telescopi da Terra hanno continuato a monitorare questo corpo celeste negli ultimi mesi.
«Tutto ciò — ha spiegato Rivkin in un comunicato — ci offre una finestra per comprendere meglio com’è fatto un oggetto delle dimensioni di 2024 YR4, incluso il prossimo che potrebbe dirigersi verso di noi».
Visuale verso sud nel Sol 1264. C’è un moderato effetto fisheye in questa foto della NavCam, ma quella che si vede è la montagna che a settembre ha messo alla prova Perseverance. NASA/JPL-Caltech/Piras
Indice dei contenuti
Intro
Vediamo insieme alcuni dei più interessanti aggiornamenti su Perseverance e un po’ di notizie relative a missioni spaziali del presente e del futuro che riguardano il Pianeta Rosso. Si parte!
La scalata di Perseverance
Il rover della NASA ha iniziato a fine agosto la sua ascesa verso sud dando inizio al quinto capitolo della sua esplorazione di Marte, la Crater Rim Campaign. In queste aree Perseverance sta affrontando alcune delle sue salite più ripide di sempre, guadagnando decine di metri in altezza nell’arco di poche settimane. Oltre agli spostamenti quasi quotidiani il rover ha sinora documentato anche l’abrasione di una roccia sedimentaria (vedi foto). Rilevazioni come questa saranno probabilmente ripetute lungo il percorso in modo da dare agli scienziati elementi per valutare come la geologia muti mentre il rover si allontana dagli scenari familiari che ha frequentato nei mesi passati tra Neretva Vallis e Bright Angel (l’area in cui, tra le altre cose, ha eseguito il suo ultimo prelievo e che risulta visibile nella zona più a nord della mappa).
Mappa con la posizione di Perseverance al 26 settembre (sol 1280 di missione). NASA/JPL-Caltech
Grazie alle posizioni sopraelevate che sta raggiungendo possiamo godere di spettacolari paesaggi attorno al rover acquisiti per mezzo delle NavCam e delle MastCam-Z. Le montagne più lontane risultano oscurate a causa delle tempeste di sabbia che affliggono questa zona di Marte. Oltre all’immagine in apertura di articolo vi propongo un panorama della regione frutto di un mosaico che si estende orizzontalmente. Tante altre foto trovano abitualmente spazio nelle pagine virtuali della rubrica ‘News da Marte’ ospitata sul sito di Coelum Astronomia.
Su questi tratti la navigazione procede a basse velocità, come deducibile dalle linee contorte in alto nella mappa e dall’alta densità di pallini bianchi. Ogni pallino rappresenta la posizione in un determinato Sol, quindi la distanza di un pallino da quello che lo precede indica quasi sempre lo spostamento che il rover ha compiuto in quella determinata giornata. Possiamo ragionevolmente supporre che la ragione dell’apparente lentezza non sia dovuta ad eventuali ostacoli del terreno da evitare (le immagini panoramiche non ne mostrano di rilevanti) ma piuttosto alle precauzioni adottate dai piloti che hanno fatto avanzare il robot su una collina parecchio scoscesa.
Foto della camera WATSON che documenta l’abrasione eseguita nel Sol 1257 (2 settembre). NASA/JPL-Caltech
Intorno al Sol 1264 (9 settembre) Perseverance è arrivato in un’area più pianeggiante e di lì a poco avrebbe potuto riprendere ad aumentare considerevolmente le distanze percorse giornalmente superando i 150 metri per Sol. Ma dopo alcuni giorni di terreni abbastanza monotoni c’è qualcosa che cattura l’attenzione dei geologi: è una roccia molto particolare, come mai ne erano state osservate prima su Marte, che viene battezzata Freya Castle.
Mosaico di immagini della Left MastCam-Z scattate nel Sol 1266 (11 settembre), la camera era puntata verso est. L’inquadratura inclinata non è un errore di processamento ma conseguenza della reale inclinazione del rover (la direzione della salita è verso destra rispetto all’immagine). NASA/JPL-Caltech/MSSS/Piras
Quella strana roccia a strisce
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Da decenni, l’umanità si interroga sulla possibilità di altre civiltà intelligenti nell’universo. L’equazione di Drake suggerisce che la nostra galassia potrebbe ospitarne milioni, eppure non abbiamo ancora ricevuto alcun segnale. Questo enigma, noto come paradosso di Fermi, ha dato vita a diverse ipotesi. Tra le più affascinanti, la teoria della selezione naturale cosmologica di Lee Smolin propone che gli universi si evolvano come organismi viventi, riproducendosi attraverso i buchi neri e favorendo condizioni adatte alla vita.
Facendo congetture ragionevoli circa i parametri che compaiono nell’Equazione di Drake – lo strumento matematico introdotto dall’astronomo americano Frank Drake nel 1961 per fornire una stima del numero di civiltà intelligenti nella nostra galassia – si arriva al risultato che, in questo preciso istante, ci potrebbero essere circa un milione di civiltà che cercano di comunicare tra cui molte sicuramente più avanzate della nostra ma, nella nostra ricerca di civiltà extraterrestri, ancora non abbiamo ricevuto alcun segnale. Questo paradosso – formulato da Enrico Fermi nel 1950 nel corso di un pranzo con Teller, York e Konopinski con la celebre domanda “Dove sono tutti quanti?”– non sta tanto nella non esistenza di civiltà extraterrestri, quanto piuttosto nel fatto che non incontriamo segnali di civiltà intelligenti mentre invece la nostra galassia, alla luce di congetture ragionevoli a partire dall’Equazione di Drake, dovrebbe brulicarne. Da oltre mezzo secolo sono state proposte varie soluzioni al paradosso di Fermi. Tra le soluzioni che prevedono che gli alieni sono già stati qui ma non ce ne siamo accorti, in particolare, il regno della fisica teorica ci prospetta una linea di pensiero che, se dimostrata, proverebbe l’esistenza di molti altri universi tendenti allo sviluppo di civiltà extraterrestri tecnologicamente avanzate; una congettura ancora più ardita implica che sarebbe stata proprio una di queste civiltà a creare il nostro universo. Ciò che è veramente interessante è che questa teoria porta ad una previsione precisa che può essere testata. Nell’ambito della ricerca di una teoria del tutto in grado di unificare tutte le forze della natura, abbiamo importanti indizi che portano ad un approccio teorico in cui i valori di tutta una serie di parametri (come le masse delle particelle elementari e l’intensità relativa delle forze fondamentali) devono essere inseriti “a mano”, cioè ad una teoria del tutto che non riesce a spiegare perché i parametri fondamentali hanno proprio i valori che osserviamo, il che significa che comporta l’esistenza di una moltitudine di universi possibili, ognuno dei quali avrebbe valori diversi per i vari parametri fondamentali. Ma per quali motivi i valori dei parametri fondamentali sono proprio quelli necessari alla vita?
Figura 1: Nella teoria della selezione naturale cosmologica, la singolarità al centro di un buco nero costituirebbe l’origine di un nuovo universo, diverso dal progenitore per i valori di alcuni parametri fondamentali.
Per rispondere a questo interrogativo esistono sostanzialmente tre linee di pensiero. Alcuni ritengono che tali valori siano stati disposti dal caso (ma, in base a calcoli eseguiti da Lee Smolin, fisico teorico del Perimeter Institute of Theoretical Physics di Waterloo, in Canada, la probabilità di incappare in un insieme di parametri casuali che portino ad un universo favorevole alla vita è addirittura di 1 su 10 229). Un secondo approccio consiste nel prendere in considerazione il principio antropico, l’idea che i parametri sono regolati su valori così improbabili proprio allo scopo di permettere il venire all’esistenza di creature razionali come noi, ma molti scienziati si sentono a disagio con ragionamenti di questo tipo. Un terzo approccio, sostenuto da Smolin, consiste nell’applicare l’evoluzionismo darwiniano alla cosmologia: secondo Smolin, le costanti – e forse anche le leggi – della fisica si sono evolute fino alla forma attuale seguendo un processo simile alla mutazione e alla selezione naturale, sulla base di processi di generazioni di nuovi universi da parte di buchi neri che si formano in un universo. Sulla base di questa visione, a livello cosmologico avrebbe luogo un processo analogo alla selezione naturale biologica: possono riprodursi solo gli universi che possiedono al loro interno il numero maggiore di buchi neri. In questo articolo, ci proponiamo di esplorare le prospettive introdotte da questo peculiare approccio cosmologico.
La Teoria di Smolin
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IMPIEGO DI FILTRI E CAMERE MULTISPETTRALI PER LA DIAGNOSTICA SU OPERE D’ARTE
La prima domanda da porsi è se sia possibile vedere l’invisibile. Apparentemente la risposta l’abbiamo già data: se è invisibile non si vede. Forse è utile cominciare dalle definizioni ufficiali che troviamo comunemente sui dizionari.
VISIBILE
Che può essere visto o percepito dall’occhio umano. In ottica si dice delle radiazioni elettromagnetiche percepite dall’occhio, corrispondenti al campo di lunghezze d’onda compreso tra i limiti convenzionali di 400 nm (estremo violetto) e 800 nm (estremo rosso) (fig. 1a e 1b).
Fig.1a – La radiazione elettromagnetica percepita dall’occhio – Fig.1b – Una superficie riflette alcune bande dello spettro elettromagnetico e l’occhio percepisce i colori.
INVISIBILE
Che non si può percepire con la vista (occhio umano), per la distanza, la dimensione o altro. Di cose che, per la loro distanza e piccolezza o per loro intrinseca natura, non si riesce a percepire con la vista (ma possono per lo più essere percepite con l’aiuto di strumenti) (fig. 2).
Fig. 2 – La parte di spettro elettromagnetico che è rilevabile solo strumentalmente.
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Le lucenti stelle blu, visibili in basso a destra in questa scintillante ripresa del telescopio James Webb, appartengono alla galassia nana irregolare Leo P, situata a circa 5 milioni di anni luce di distanza da noi nella Costellazione del Leone. Nella piccola galassia la formazione stellare è particolarmente attiva e sono presenti notevoli quantità di stelle blu, giovani e massicce. La struttura simile a una bolla bluastra visibile in basso nell’immagine è una regione ricca di idrogeno ionizzato, che circonda una calda e gigante stella di tipo O.
L’immagine ripresa dalla NIRCam (Near-Infrared Camera) a bordo del JWST combina dati nell’infrarosso a lunghezze d’onda di 0,9 micron (in blu), 1,5 micron (in verde) e 2,77 micron (in rosso). Le stelle di Leo P appaiono bluastre per vari motivi: galassie con formazione stellare attiva come questa sono ricche di stelle blu giovani e massicce. Inoltre Leo P è quasi priva di elementi più pesanti di idrogeno ed elio, di conseguenza le sue stelle povere di metalli tendono ad essere più blu rispetto alle stelle simili al Sole. La struttura simile a una bolla visibile in basso è una vasta regione HII che circonda una stella di tipo O, calda e massiccia. Credit: NASA, ESA, CSA, K. McQuinn (STScI), J. DePasquale (STScI)
Secondo gli astronomi le grandi galassie si formano grazie a un processo di “accrescimento gerarchico”, attraverso fusione e accrescimento di galassie minori. Le galassie di piccola massa sono le strutture galattiche più diffuse nell’Universo, ma sono anche estremamente sensibili alle perturbazioni interne ed esterne. Tuttavia, Leo P è un oggetto raro: al contrario di gran parte delle galassie nane osservabili, si trova in una posizione molto isolata, alla periferia estrema del Gruppo Locale cui appartiene anche la Via Lattea. Con il suo contenuto in metalli estremamente basso (appena il 3% degli elementi pesanti presenti nel Sole) e la sua bassa massa stellare (circa 400.000 masse solari), Leo P assomiglia molto alle mini-galassie che si sono formate all’alba dell’Universo e offre la possibilità di ricavare indizi sul loro aspetto, quale era miliardi di anni fa. Le galassie nane solitarie come questa, non soggette a fusioni o interazioni con altre galassie, potrebbero mantenere per miliardi di anni le loro proprietà originarie e costituiscono un eccellente laboratorio per studiare l’evoluzione galattica in un ambiente “incontaminato”. Utilizzando la Near-Infrared Camera (NIRCam) a bordo del telescopio Webb, un team di astronomi ha misurato luminosità e colore di oltre 15.000 singole stelle in Leo P. Si è scoperto che la mini-galassia, come le altre sue simili, ha cominciato a formare stelle attivamente ai primordi della storia universale, ma in seguito ha smesso improvvisamente, in un periodo di poco successivo all’Epoca della Reionizzazione. A questa pausa durata vari miliardi di anni è seguita un’insolita riattivazione dei fenomeni di formazione stellare, che perdura ancora oggi. L’Epoca della Reionizzazione, databile probabilmente tra 450 e 900 milioni di anni dopo il Big Bang, è quel periodo in cui il gas primordiale, una nebbia opaca di freddo idrogeno, passa dallo stato neutro a quello ionizzato, grazie alla radiazione energetica dei primi oggetti luminosi. In quell’epoca i fotoni ultravioletti ad alta energia riempirono il cosmo, surriscaldando forse il gas nelle galassie più piccole e sopprimendo così la loro capacità di produrre stelle. Un’altra possibilità è che molte stelle nelle galassie nane primordiali abbiano subìto esplosioni energetiche di supernovae, espellendo ad alta velocità nello spazio il gas molecolare indispensabile per formare nuove stelle. Le osservazioni hanno rivelato che oggetti simili a Leo P, ma inseriti in un ambiente popolato da altre galassie, hanno smesso definitivamente di formare stelle poco dopo l’Epoca della Reionizzazione, trasformandosi in galassie “spente”. Al contrario, Leo P, dopo una fase di “letargo” durata vari miliardi di anni, si è riaccesa di giovani luci stellari. Questa differenza di comportamento tra galassie nane isolate e galassie nane all’interno di ammassi suggerisce che, nel determinare la cessazione definitiva della formazione stellare, influisca anche l’ambiente circostante. Le mini-galassie isolate potrebbero avere chance migliori di accumulare nuovamente gas e riaccendere la formazione stellare, mentre quelle in ambienti più densi potrebbero trovarsi all’interno di aloni di gas caldo in grado di inibire il raffreddamento necessario per formare nuove stelle. Oppure potrebbero vedersi strappare via il gas da galassie più grandi nelle vicinanze, tramite deprivazione mareale. Osservazioni come questa possono aiutare gli astronomi a comprendere come le piccole strutture primordiali si siano evolute nel corso di miliardi di anni e quali processi dirigano la formazione delle galassie.
Collaborazione Internazionale
Il JWST, il più grande telescopio spaziale mai lanciato, è una partnership tra NASA, ESA e CSA. Grazie a strumenti avanzati come NIRSpec e MIRI, e al supporto europeo, il Webb continua a rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo primordiale.
Un’anomalia termica lontana dalle aurore gioviane ha sorpreso gli astronomi. Uno studio, guidato da Henrik Melin dell’Università di Leicester, rivela che un’improvvisa compressione del campo magnetico di Giove, provocata dal vento solare, ha generato un gigantesco riscaldamento atmosferico a latitudini inaspettate.
Il pianeta Giove è noto per le sue spettacolari aurore polari, generate dall’interazione tra il suo potente campo magnetico e particelle cariche provenienti sia dal Sole che dalla luna Io. Ma nel gennaio 2017, osservazioni effettuate con il telescopio Keck II alle Hawaii hanno rilevato qualcosa di inedito: una vasta regione atmosferica, lontana dai poli, con temperature superiori di 200 K rispetto alla media, in un’area di ben 180° di longitudine. L’anomalia, visibile solo per poche ore, ha sollevato interrogativi sulla sua origine.
Il team di ricercatori, tra cui anche membri della NASA e dell’Università del Colorado, ha utilizzato dati raccolti dalla sonda Juno e modelli avanzati del vento solare per ricostruire il contesto. Proprio in quelle ore, Giove aveva subito un impatto con un flusso solare ad alta velocità. Questo evento aveva compresso la magnetosfera, spingendo la sonda Juno fuori da essa per alcune ore e innescando, secondo gli autori, un processo simile a quanto avviene sulla Terra con le “Large-Scale Traveling Ionospheric Disturbances” (LSTIDs).4
Esempio di immagine ripresa dalla camera di guida NIRSPEC del telescopio Keck (in alto) e immagine spettrale corrispondente (in basso), registrate il 25 gennaio 2017 alle ore 11:42 UT. (In alto): immagine di Giove ottenuta con una camera di guida filtrata tra 2,134 e 4,228 μm, utilizzata per indicare la posizione della fenditura spettrale rispetto al pianeta. Durante tutta la sessione osservativa, la fenditura è stata mantenuta fissa in corrispondenza del mezzogiorno locale gioviano. Le regioni luminose nell’immagine corrispondono principalmente alla luce solare riflessa dai banchi di nubi di ammoniaca e dalle foschie polari. In alto a sinistra si può anche distinguere il satellite Europa. (In basso): immagine spettrale di Giove, suddivisa in due ordini spettrali, che mostra la radianza spettrale in funzione della lunghezza d’onda e della latitudine planetocentrica. Il metano assorbe fortemente la luce solare alle lunghezze d’onda più corte (a sinistra), mentre alle lunghezze d’onda più lunghe (a destra) prevale la luce solare riflessa. Le righe di emissione di H₃⁺ sono visibili in entrambi gli ordini spettrali e si estendono verticalmente dal polo nord (e oltre il bordo superiore del pianeta) fino a poco a sud dell’equatore.
“Questa ondata di calore potrebbe essere stata trasportata verso l’equatore da forti venti atmosferici, generati da un’improvvisa intensificazione dell’aurora,” scrivono gli autori, fra cui anche Tom Stallard e Henrik Melin dell’Università di Leicester. “Oppure potrebbe essere stata causata da un meccanismo energetico ancora sconosciuto, legato alla magnetosfera interna.”
Utilizzando osservazioni spettroscopiche infrarosse e sofisticate simulazioni, il team ha calcolato che l’anomalia si è spostata verso sud con velocità comprese tra 0,46 e 2,02 km/s, valori sorprendentemente simili a quelli osservati sulla Terra durante eventi aurorali estremi. La temperatura raggiunta in alcuni punti ha toccato i 950 K, un valore di norma riservato alle regioni aurorali polari.
Ma c’è di più: la posizione della regione calda non coincideva con aree di alta densità di H₃⁺ (l’idronio ionico), un tipico indicatore di riscaldamento da particelle precipitate, il che suggerisce un’origine dinamica piuttosto che locale.
I modelli solari HUXt e Tao-MHD, insieme ai dati in situ della sonda Juno (equipaggiata con lo strumento Waves), confermano che l’ambiente spaziale di Giove stava vivendo un momento di forte turbolenza. “L’emissione radio tipica del plasma magnetosferico era scomparsa e poi riapparsa, un chiaro segnale che la sonda era temporaneamente uscita dalla magnetosfera, schiacciata dal vento solare,” riportano gli autori.
Questa scoperta ha importanti implicazioni: l’influenza del vento solare si estende ben oltre le regioni aurorali, modificando l’intero bilancio energetico dell’alta atmosfera di Giove. Una dinamica che, finora, era stata considerata secondaria rispetto ai processi interni del pianeta.
Proiezioni cartografiche delle temperature di Giove e analisi della struttura calda osservata al di sotto della fascia aurorale, tutte registrate in corrispondenza del mezzogiorno locale del pianeta. Pannello a: mostra le temperature in funzione della longitudine e della latitudine, con l’ovale principale dell’aurora evidenziato in nero. Questo ovale rappresenta le regioni collegate magneticamente lungo le linee di campo fino a una distanza di 25 raggi gioviani nel piano equatoriale del pianeta. Pannello b: rappresenta una porzione del pannello a, in proiezione equirettangolare, e include l’adattamento al centro della struttura calda. Qui, la struttura è collegata ai punti dell’aurora a essa più vicini (seguendo il percorso più breve sulla superficie sferica, o “cerchio massimo”) tramite frecce nere. Sono inoltre sovrapposte le impronte magnetiche relative a distanze equatoriali di 5,9 raggi gioviani (l’orbita di Io) e 2,0 raggi gioviani. Pannello c: indica a quali regioni della magnetosfera equatoriale corrisponde la struttura calda, in termini di distanza dal centro del pianeta espressa in raggi gioviani (noti anche come L-shell). Pannello d: mostra la distanza tra la struttura calda e l’ovale aurorale, utilizzata per calcolare la velocità del movimento. Le velocità sono ottenute dividendo la variazione di distanza per l’intervallo temporale tra i punti di osservazione. In totale sono state determinate sei velocità, ciascuna calcolata da coppie di punti distanziati da un dato intermedio. Un esempio è riportato nel corpo del testo, con dettagli sul modello magnetico utilizzato. Le barre d’errore nei pannelli b e d derivano dalle incertezze nel puntamento del telescopio e dalle condizioni atmosferiche durante le osservazioni. Il pannello b è riportato nuovamente nella Figura S4 (nei materiali supplementari) per offrire una visione libera da annotazioni della struttura calda.
Il fenomeno osservato rappresenta la prima prova diretta di un meccanismo globale di trasporto termico atmosferico scatenato da un evento solare, e apre la strada a nuove indagini sia teoriche che osservazionali. In futuro, studi continui su più rotazioni gioviane potranno stabilire se questi eventi sono isolati o se rappresentano un elemento ricorrente del comportamento atmosferico di Giove.
Messier 21 è un giovane ammasso aperto situato nella costellazione del Sagittario, scoperto da Charles Messier nel 1764. Composto da circa 105 stelle, include anche giovani astri in formazione. Appartenente all'associazione Sagittarius OB1, si distingue per compattezza e per la “Croce di Webb”, una curiosa configurazione stellare.
Indice dei contenuti
Introduzione
Con Messier 21 approdiamo nuovamente agli ammassi aperti. Questi oggetti celesti, a differenza degli ammassi globulari, sono formati da un gruppo (che può essere anche di migliaia) di stelle nate nello stesso periodo da una nube molecolare gigante. Un esempio facile da ricordare per questa categoria è l’ammasso delle Pleiadi (M45) nella costellazione del Toro.
Storia delle osservazioni
M21 è situato nella Costellazione del Sagittario, e fu scoperto da Charles Messier il 5 giugno 1764, mentre era impegnato nella ricerca di comete. Lo descrisse come un “ammasso di stelle vicino al precedente” (riferendosi a Messier 20, la Nebulosa Trifida), osservando stelle di magnitudine 8 e 9 apparentemente immerse in una nebulosità diffusa. Tuttavia, il suo strumento non permise di distinguere con chiarezza l’ammasso, e l’impressione di una nebulosità si rivelò in seguito errata. L’ammasso non ricevette particolare attenzione nelle decadi successive. Né l’astronomo inglese William Herschel né suo figlio John fornirono descrizioni dettagliate, mentre l’ammiraglio William Henry Smyth lo osservò nel 1835 e lo descrisse come “un ammasso grossolano di stelle telescopiche, in una regione ricca della galassia”, notando una coppia stellare prominente al centro. Negli anni successivi, le osservazioni confermarono la presenza di stelle di tipo spettrale B0 e B1, suggerendo che si trattasse di un ammasso molto giovane. Solo con studi più recenti, grazie a osservazioni spettroscopiche e fotometriche, è stato possibile determinare con maggiore precisione l’età e la composizione di M21. Gli studi indicano che l’ammasso ha circa 4.6 milioni di anni, con una popolazione stellare che mostra una formazione relativamente omogenea.
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A.R.A.R. (ARAR Aps – Associazione Ravennate Astrofili Rheyta) e A.A.F. (Gruppo Astrofili Astro Amici Forlivesi) organizzano uno Star Party Romagnolo di fine primavera nelle colline degli Appennini, aperto a tutti gli appassionati (visualisti, astrofotografi, fotografi, curiosi).
Nella giornata di sabato si svolgeranno alcune attività aperte a tutti: prova di strumentazioni, confronti, osservazione del Sole con strumenti adeguati, cottura pietanze con forni solari e spiegazione della tecnica (a cura di Matteo Muccioli), laboratori e conferenze (con l’Astronomo Luca Angeretti alias Omino delle Stelle. Sarà inoltre presente il negozio Adriasky di Rimini con novità e strumenti. Infine ci sarà la possibilità di partecipare, nella giornata di sabato, al mercatino in cui ognuno potrà vendere e/o comprare accessori/strumenti ecc.
L’appuntamento è per l’ultimo week-end di maggio, da venerdì 30 maggio a domenica 1 giugno 2025, nella suggestiva location, immersa nel verde, di Corte San Ruffillo (via San Ruffillo, 12 – Dovadola FC).
La teoria della Relatività Generale di Albert Einstein, formulata all’inizio del secolo scorso (per la precisione nel 1915), è stata una delle più sorprendenti teorie scientifiche della storia dell’umanità e ha rivoluzionato la nostra conoscenza del cosmo. Einstein soppianta il concetto classico di forza, che si utilizzava nella descrizione della gravità classica elaborata da Newton, e ne rivoluziona i concetti base. Tempo e spazio non sono più enti assoluti, ma co-protagonisti negli eventi fisici. Massa ed energia modificano spazio e tempo. La gravità è quindi la manifestazione della curvatura dello spazio-tempo, che a sua volta influenza i percorsi dei corpi, con massa, come pianeti e stelle, oppure senza massa, come i fotoni, i costituenti della luce.
Indice dei contenuti
Le predizioni della Relatività Generale
Come qualsiasi teoria fisica che si rispetti la Relatività Generale ha risolto un problema che attanagliava le menti di fisici e astronomi. Ha riprodotto esattamente l’angolo di precessione del perielio dell’orbita di Mercurio e ha predetto fenomeni ed eventi dei quali si ignorava l’esistenza. Tra le prime intuizioni della Relatività Generale, numericamente verificate dalle osservazioni, c’è l’effetto di deflessione della luce a causa della curvatura dello spazio-tempo ad opera di un corpo celeste, come una stella. Einstein predice che la posizione apparente di una stella (sorgente) che si trovi sul bordo del Sole (lente) dovrebbe essere spostata di circa 1.75 secondi d’arco (un angolo 1000 volte inferiore a quello che sottende la Luna nel cielo) rispetto alla sua posizione vera. La teoria della gravitazione classica di Newton prediceva un valore esattamente pari alla metà. In quegli anni ci si chiedeva quindi chi avesse ragione e in occasione di una eclissi di Sole, Sir Arthur Eddington, misurò un valore prossimo a quello della predizione della Relatività Generale, dando ragione ad Einstein e alla sua idea rivoluzionaria. Era stata osservata la prima lente gravitazionale, un vero e proprio miraggio creato dalla gravità. A seguire, attraverso la risoluzione delle complesse equazioni della Relatività Generale è stata anche ipotizzata l’esistenza di corpi celesti con una gravità così intensa da trattenere la luce, e che corpi in rotazione producono delle onde che si propagano all’interno del substrato dello spazio-tempo. Stiamo parlando di buchi neri e onde gravitazionali, osservati un secolo dopo la loro formulazione teorica, fornendo ulteriori decisive conferme della bontà della teoria di Einstein. La Relatività Generale è anche alla base della migliore descrizione che abbiamo del nostro universo, permettendoci di spiegare l’allontanamento accelerato delle galassie attraverso un modello cosmologico di riferimento nel quale l’universo nasce da un Big Bang e si espande indefinitamente.
Questa immagine schematica rappresenta come la luce di una galassia distante (sorgente) venga distorta dagli effetti gravitazionali di una galassia più vicina, che agisce come una lente e fa apparire la sorgente distante distorta e più luminosa, formando caratteristici anelli di luce noti come anelli di Einstein. (Crediti: ALMA (ESO/NRAO/NAOJ), L. Calçada (ESO), Y. Hezaveh et al.)
Lenti gravitazionali
I miraggi gravitazionali sono diventati sempre più comuni negli ultimi decenni. Inizialmente, il fenomeno è stato osservato all’interno della nostra galassia, dove stelle deflettevano la luce di altre stelle, sia nella Via Lattea sia in galassie vicine.
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Un nuovo studio pubblicato su Nature (Bellinger et al., 2024) ha identificato una caratteristica sorprendente nelle oscillazioni acustiche di stelle in fase avanzata di evoluzione. Analizzando 27 stelle subgiganti e giganti rosse dell’ammasso aperto M67, gli autori hanno individuato un plateau nelle “piccole separazioni” sismiche, legato alla profondità della zona convettiva. Un risultato che apre la strada a nuove stime di massa e età per le stelle giganti rosse nel campo.
Le oscillazioni acustiche: la voce interna delle stelle
Le oscillazioni di pressione (p-mode) nelle stelle simili al Sole sono causate dalla convezione superficiale. Le frequenze delle onde acustiche dipendono dalla struttura interna: le cosiddette “large separations” (Δν) misurano la densità media, mentre le “small separations” (δν₀,₂) – la distanza tra i modi di grado ℓ=0 e ℓ=2 – riflettono le condizioni nel nucleo. Queste ultime sono particolarmente utili per stimare l’età delle stelle nella sequenza principale.
Con l’evoluzione stellare però, quando il nucleo diventa inerte e la convezione si approfondisce, le small separations perdono il legame diretto con il nucleo e si credeva diventassero proporzionali a Δν, perdendo potere diagnostico. Ma le nuove osservazioni smentiscono questa ipotesi.
Una firma nel diagramma C–D: il plateau delle frequenze
Utilizzando i dati della missione Kepler/K2, il team ha ottenuto spettri ad alta precisione per un campione uniforme di stelle appartenenti all’ammasso M67 (NGC 2682), un sistema noto per la sua età ben determinata (circa 3.95 miliardi di anni) e una popolazione stellare omogenea.
Nel diagramma asterosismico C–D (Δν contro δν₀,₂), gli autori hanno individuato un plateau ben definito tra 17 e 22 μHz, un comportamento inaspettato che coincide con l’approfondirsi della zona convettiva dell’inviluppo. Questa discontinuità chimica interna provoca un’anomalia sismica nota come “acoustic glitch”, ovvero un’impronta nel profilo delle frequenze acustiche.
Il ruolo degli istituti di ricerca coinvolti
Lo studio è stato guidato da Earl P. Bellinger del Max Planck Institute for Astrophysics in collaborazione con scienziati di:
Università di Aarhus (Danimarca) – specializzata in asterosismologia tramite la Stellar Astrophysics Centre
Il team ha confrontato i dati con modelli teorici variando il fattore di “overshooting”, cioè il grado con cui i moti convettivi superano i confini stabiliti. Solo il modello con overshooting solare calibrato riproduce correttamente il plateau osservato.
Come affermano gli autori: “Il plateau sismico osservato nel diagramma C–D fornisce un nuovo vincolo sulla profondità raggiunta dalla zona convettiva e sulla composizione chimica interna delle stelle giganti.” — Bellinger et al., 2024
Un nuovo indicatore di massa e età stellare
Il plateau non è esclusivo di M67. Simulazioni su stelle con metallicità solare e masse tra 0.8 e 1.6 M⊙ mostrano un comportamento simile. Poiché la posizione del plateau varia con la massa, il diagramma C–D può essere utilizzato per datare stelle rosse isolate, fornendo nuovi strumenti per ricostruire l’evoluzione stellare e la cronologia della Via Lattea.
Dalla metà degli anni 70 dello scorso secolo, l’Italia fu attraversata da un’onda di interesse verso l’astronomia e, più in generale, le materie legate allo spazio, a seguito delle prime imprese spaziali e, in particolare, dell’enorme sforzo in campo astronautico da parte degli USA e dell’URSS. Il risultato più concreto è stata la costituzione di associazioni di appassionati a questa materia che avevano come obiettivo lo studio e l’osservazione del cielo. È in questo contesto che il 28 dicembre 1974 è stata costituita in Napoli, con atto privato, l’Unione Astrofili Napoletani (UAN).
Scansione dell’originale del verbale della prima riunione e della costituzione dell’UAN.
I 12 soci fondatori, alcuni provenienti da precedenti esperienze associative, si incontrarono per gettare le basi per un’associazione che tenesse a cuore non solo lo studio dell’Astronomia e delle discipline affini, sia dal punto di vista sperimentale che teorico, ma anche la divulgazione di questa materia al più vasto pubblico e il sostegno alla didattica scolastica.
Sin dall’inizio, la scelta degli obiettivi dell’associazione è stata di apertura a tutti gli interessati, qualsivoglia fosse il loro livello di interesse, cercando di raccogliere i cultori ma anche i curiosi dell’astronomia e delle scienze affini, in un’ottica di associazione generalista che ponesse sullo stesso piano le attività osservative con quelle culturali in senso più ampio, dall’Astronomia Culturale e dalla Gnomonica sino all’osservazione e allo studio di luna, pianeti, stelle variabili e, più recentemente, degli esopianeti, con osservazioni visuali, digitali, fotometriche e radioastronomiche.
Dopo aver festeggiato lo scorso 28 dicembre 2024 il cinquantesimo anniversario dalla fondazione, il Consiglio Direttivo dell’UAN ha deciso di dedicare tutto il corrente anno per ricordare il primo anno di attività dell’UAN, attraverso l’organizzazione di varie attività a livello locale e nazionale, come il LVIII Congresso della Unione Astrofili italiani (UAI), il IX Convegno Annuale della Sezione Didattica della UAI (vedi box) e il XXXIII Convegno Nazionale del Gruppo Astronomia Digitale.
Ripercorrere i cinquanta anni di ininterrotta attività della UAN e fare una scelta tra quanto realizzato non è cosa facile. In questi 50 anni oltre 2600 appassionati hanno aderito all’UAN; alla data odierna, sono regolarmente iscritti 210 soci. Come in altre realtà simili, c’è un gruppo di soci che, con entusiasmo e dedizione, gestiscono l’insieme delle attività che negli anni si sono ampliate, uscendo fuori dal territorio cittadino e proiettandosi nella più ampia Città Metropolitana di Napoli ed oltre. Qui di seguito sono riportate alcune delle realizzazioni più significative che hanno segnato questi anni e che rappresentano in modo concreto il risultato dell’impegno di tanti soci. Infatti, i risultati conseguiti sono il frutto di una attività di collaborazione e condivisione che, pur partendo da una proposta avanzata da un singolo socio, hanno trovato la loro realizzazione grazie al contributo di più soci. Poiché tanti sono stati i soci che si sono avvicendati sia nella composizione dei consigli direttivi sia nelle varie attività sperimentali e culturali, non è qui possibile darne un elenco esaustivo senza rischiare di dimenticarne qualcuno. Di seguito è l’elenco dei Presidenti che si sono succeduti alla direzione dell’associazione in questi cinquant’anni, in ordine alfabetico: Edgardo Filippone, Francesco Franchini, Luca Orazzo, Franco Ruggieri, Emilio Tagliaferri, Andrea Tomacelli. Già dopo qualche mese dalla fondazione, furono intrapresi contatti con l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte (OACN), all’epoca diretto dal professor Mario Rigutti, che in altre occasioni aveva dimostrato il suo interesse ad accogliere in Osservatorio appassionati di astronomia partenopei. Nel marzo del 1976 i rapporti si concretizzarono con l’accogliere soci dell’UAN all’interno dell’OACN, con la possibilità di utilizzare in autonomia un rifrattore storico con tripletto obiettivo da 180 mm f:17 costruito da Fraunhofer agli inizi dell’ ‘800, posto nella Torre Ovest sul piazzale dell’Osservatorio. Iniziò quindi il coinvolgimento della UAN in attività di divulgazione al pubblico e alle scuole dell’astronomia, in collaborazione anche con la Società Astronomica Italiana. Questa collaborazione, precedentemente riconosciuta con uno scambio di lettere tra il Direttore dell’Osservatorio e il Presidente dell’UAN, si tramutò nel 1992 in una convenzione ufficiale tra l’OACN e l’UAN con la quale si dava all’associazione la disponibilità d’uso di un locale dove riunire i soci per scopi esclusivamente legati allo studio dell’Astronomia, di un locale dove riunire i soci e di due cupole sul terrazzo dell’osservatorio dove porre le attrezzature dell’associazione. La sede può accogliere sino a 25 persone e ospita la biblioteca dell’UAN oltre che il sistema di videoproiezione per le riunioni, che si tengono quasi quotidianamente da parte dei vari Gruppi e Sezioni che raccolgono i soci con interessi comuni.
Sede Sociale dell’UAN ospitata nel locale sottostante la Torre Ovest con la biblioteca.Interno della Cupola Est con il telescopio Celestron C11 dell’UAN su montatura 10Micron GM2000.
Nelle due cupole sul terrazzo dell’OACN sono presenti telescopi dell’UAN, impiegati per le osservazioni dei soci e coinvolti in attività di partecipazione a progetti di ricerca amatoriali e di professionisti. Inoltre, sempre in Osservatorio, l’UAN ha installato più di recente una stazione remotizzata intitolata ad Attilio Colacevich, primo astronomo dell’OACN a introdurre l’osservazione fotometrica delle stelle negli anni ’50. La stazione a tetto scorrevole permette di fare osservazioni digitali del cielo in remoto, con un telescopio SC da 250 mm f:6,3. Con questo strumento, soci aderenti alla Sezione Esopianeti e Stelle Variabili oltre a seguire alcuni programmi osservativi di esopianeti hanno scoperto alcune stelle variabili a corto periodo.
Stazione osservativa “Colàcevich” progettata e costruita dall’UAN col tetto scorrevole aperto e vista del telescopio remotizzato Meade SC 250 mm f:6,3. In secondo piano la Cupola Est dell’OACN.
La città di Napoli ospita il più grande museo delle scienze dell’Italia meridionale: si tratta della Città della Scienza, che dal 1988 organizza ogni anno la manifestazione Futuro Remoto, visitata da migliaia di curiosi di ogni età. L’UAN partecipa ininterrottamente dal 1983 con osservazioni e una postazione fissa dove sono svolti semplici esperimenti che coinvolgono i visitatori.
Durante tutto l’anno l’UAN propone almeno un’attività al mese di osservazione del Sole e dimostrazioni su teoria e pratica d’uso di orologi solari, assieme a una presentazione nel grande planetario Digistar della Evans & Sutherland da 120 posti. Anche con Città della Scienza l’UAN ha in essere una convenzione per la progettazione e lo svolgimento di attività di divulgazione scientifica rivolta in particolare agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado. Recentemente, particolare successo ha avuto l’attività di gamification ed escape room, proposte di soci del Gruppo Costellazioni per la prima volta proprio alle ultime edizioni di Futuro Remoto. Proprio il Gruppo Costellazioni è stato l’artefice della trasformazione delle costellazioni della cultura occidentale in altre che rispecchiano la cultura partenopea: sono così nate le costellazioni napoletane, che sono state accolte ed inserite tra le costellazioni di varie culture disponibili nel programma di planetario digitale Stellarium e scaricabili gratuitamente dal sito stellarium.org.
Orologio Solare, Piazzale Tecchio a Napoli. Torre del Tempo e della Vita, l’elemento centrale alto 29m è lo gnomone dell’orologio solare progettato dall’UAN.
Un altro campo dell’astronomia dove sin dalla costituzione dell’UAN si sono cimentati soci dell’associazione è stata l’attività di studio e progettazione di orologi solari, portata avanti dalla Sezione Gnomonica. Nel 1990, in occasione dei mondiali di calcio, l’UAN fu contattata al fine di progettare un orologio solare orizzontale che sarebbe stato installato nell’area di Piazzale Tecchio prospiciente lo stadio San Paolo, oggi stadio Maradona e l’ingresso della Mostra d’Oltremare. Il progetto fu approvato e l’installazione gnomonica è risultata tra i più grandi orologi solari orizzontali italiani dell’era moderna, con il suo gnomone alto 29 m. Altre installazioni gnomoniche curate dall’UAN sono stati i rifacimenti nel 1980 di due orologi solari verticali per il Castello borbonico nel Parco Gussone della Reggia di Portici e nel 2015, in occasione della risistemazione del giardino prospiciente la Reggia stessa, sede dal 1864 della Reale Scuola di Agricoltura, poi della Facoltà di Agraria e dal 2012 del Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, la progettazione di un orologio azimutale-analemmatico, oggi facente parte del Museo delle Scienze Agrarie. L’orologio è diventato un elemento caratterizzante di questo giardino e della Reggia, meta di turisti oltre che di scolaresche in visita al sito storico.
Orologio azimutale-analemmatico progettato dall’UAN e installato nel giardino verso il mare della Reggia borbonica a Portici, Napoli.
Sempre per quanto riguarda le attività di Astronomia Culturale, sin dalla fondazione dell’UAN soci interessati all’archeoastronomia hanno portato avanti ricerche sul campo per rilevare e studiare l’orientamento e l’allineamento di templi e chiese presenti nell’area campana e regioni limitrofe, per trovarne relazioni con particolari fenomeni astronomici, principalmente con i solstizi e gli equinozi. In questo contesto sono stati scoperti, in particolare. due calendari lunari nel parco archeologico di Cuma, nelle vicinanze del cosiddetto antro della Sibilla Cumana.
La fotografia degli oggetti celesti e sempre stata al centro dell’attenzione del mondo della astrofilia. Purtroppo, la città di Napoli e i comuni limitrofi sono segnati da un forte inquinamento luminoso e atmosferico: all’epoca dell’astrofotografia basata sulle pellicole non era possibile pensare di ottenere immagini almeno sufficienti degli oggetti del profondo cielo dalla città. Tuttavia, in questi ultimi anni, la rivoluzione digitale ha consentito agli astrofili che abitano in zone segnate dall’inquinamento di ottenere risultati impensabili solo vent’anni fa. La Sezione Astrofotografia dell’UAN si è impegnata da una parte a dare un supporto a quanti siano interessati all’astrofotografia digitale e dall’altra a sviluppare tecniche al fine di ottenere i migliori risultati sotto i cieli della città. Così è nato il progetto “Il cielo possibile”, basato sull’impiego di filtri e di tecniche di ripresa che riducano al massimo gli effetti dell’inquinamento, rendendo possibile ottenere immagini soddisfacenti di oggetti del profondo cielo. Il progetto si è tramutato in una serie di roll up riportanti alcune foto esplicative dei risultati ottenibili dalla città, che sono mostrati nei luoghi dove l’associazione organizza attività pubbliche, per promuovere l’osservazione digitale anche dalla città, senza per altro rinunciare alle trasferte e star party che, però, possono essere fatte solo in alcuni periodi dell’anno e in luoghi lontani dalla propria postazione “casalinga”.
Planetario progettato e realizzato da soci dell’UAN per l’Istituto Comprensivo Virgilio 4 di Scampia, Napoli.
L’attività di divulgazione e di sostegno alla didattica della UAN è stata rivolta anche alle zone del disagio della città di Napoli, con eventi portati nella periferia della città. In questo contesto è stato dato avvio ad una collaborazione con l’Istituto Comprensivo Virgilio 4 del quartiere Scampia. Qui, circa dieci anni fa un gruppo di soci ha realizzato un planetario, costruendo completamente la struttura reggente una cupola di 3 metri di diametro, anch’essa realizzata ex novo in vetroresina, posizionandolo poi all’interno di un’aula. Il proiettore del planetario è di tipo analogico, modello GOTO3. Il planetario è stato inaugurato nel 2016 e in questi anni è stato impiegato per dimostrazioni agli studenti della scuola elementare e media, guidati da insegnanti per i quali l’UAN ha organizzato incontri di addestramento all’uso del planetario e di illustrazione dei sistemi di coordinate e di astronomia di base, utili per le dimostrazioni agli studenti. Al fine di organizzare al meglio le attività di sostegno alla didattica, è stato costituito il Gruppo Didattica UAN al quale partecipano docenti iscritti all’associazione, che coniugano quindi il loro interesse per l’astronomia in qualità di docenti e anche come astrofili, partecipando attivamente anche alle attività di divulgazione al pubblico e di osservazione al telescopio.
IX Convegno Nazionale di Didattica dell’Astronomia UAI, organizzato dall’Unione Astrofili Napoletani (UAN), ha avuto luogo presso l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte. Questa sede, simbolica e strategica, è un punto di riferimento per gli appassionati di astronomia e osservazioni celesti. Il convegno ha avuto con la presentazione delle attività della Sezione Nazionale di Didattica dell’Astronomia UAI mentre un momento significativo è stato l’intervento di Edgardo Filippone, che ha illustrato l’impegno dell’UAN nel campo della didattica, sono seguite le diverse presentazioni, che hanno coinvolto docenti ed astrofili, si sono concentrate su esperienze didattiche innovative e approcci personalizzati, offrendo spunti interessanti per l’insegnamento dell’astronomia. Nel pomeriggio, una visita guidata dell’Osservatorio ha offerto ai partecipanti l’opportunità di osservare il Sole attraverso un telescopio. Il convegno ha rappresentato un’occasione preziosa per approfondire la didattica dell’astronomia, creando un ponte tra conoscenza teorica e applicazione pratica, il tutto in un contesto di grande fascino e tradizione scientifica e sotto il Sole della bella Napoli. Tutti i presenti hanno ricevuto in omaggio una copia della rivista Coelum Astronomia, era presente anche la Direttrice Molisella Lattanzi, un gesto che ha sottolineato l’importanza della condivisione della conoscenza e della passione per l’astronomia.
Il pianeta WD 0806-661 b ruota intorno alla stella nana (A). Crediti: NASA
Nell’Universo post-stellare, là dove le stelle si spengono e restano come fioche nane bianche, può accadere qualcosa di straordinario: un pianeta sopravvive, e la sua atmosfera continua a raccontare la sua storia. È il caso di WD 0806-661 b, un esopianeta freddissimo, la cui atmosfera è stata studiata per la prima volta in dettaglio grazie alla straordinaria sensibilità del James Webb Space Telescope (JWST).
Il contesto: un campo ancora inesplorato
Gli esopianeti che orbitano attorno a nane bianche – le stelle giunte al termine del loro ciclo evolutivo – sono oggetti estremamente rari e difficili da osservare. La loro atmosfera, in particolare, rappresenta una sfida quasi impossibile per l’osservazione diretta. In questo contesto, WD 0806-661 b, scoperto da K. L. Luhman et al. nel 2011, rappresenta un caso eccezionale: un oggetto planetario a 2500 unità astronomiche dalla sua stella madre, con una temperatura stimata tra i 300 e i 345 K, simile a quella di un frigorifero.
Il ruolo cruciale del JWST
Lo studio, condotto da un team internazionale guidato da D. Barrado, H. Kühnle, Q. Changeat, B. E. Miles e altri, ha utilizzato lo spettrometro a bassa risoluzione MIRI-LRS (Mid-InfraRed Instrument – Low Resolution Spectrometer) a bordo del JWST, insieme all’Imager MIRI per misure fotometriche a 12.8, 15, 18 e 21 μm. I dati sono stati acquisiti nell’ambito del programma GTO 01276 (PI: Lagage), il 14 luglio 2023.
Un’atmosfera fatta di metano, acqua e ammoniaca
Attraverso un’elaborazione sofisticata dei dati e un’analisi di retrieval basata sul codice TauREx (Al-Refaie et al. 2021), gli scienziati sono riusciti a determinare la composizione atmosferica del pianeta. Sono state rilevate tre molecole chiave:
Metano (CH₄)
Ammoniaca (NH₃)
Vapore acqueo (H₂O)
Queste molecole definiscono una tipica atmosfera da “Giove freddo”, simile a quella dei giganti gassosi del Sistema Solare. I rapporti tra gli elementi principali mostrano un valore C/O = 0,34 ± 0,06 e N/O = 0,023 ± 0,004, in linea con altri oggetti della classe Y0, freddi e poco luminosi.
Nessuna nuvola… per ora
Nonostante il profilo temperatura-pressione del pianeta attraversi la curva di condensazione dell’acqua, l’analisi non ha rilevato la presenza di nubi di ghiaccio d’acqua o ammoniaca. Anche l’eventuale presenza di foschia o particelle opache è risultata trascurabile. Il modello privo di nuvole risulta quello statisticamente più solido.
Il mistero della massa e la chimica dell’ammoniaca
Una delle sorprese maggiori emerse dallo studio riguarda la massa del pianeta, stimata tra 0,45 e 1,75 masse gioviane: un valore significativamente più basso di quanto previsto dai modelli evolutivi, che la collocavano tra 6,3 e 9,4 MJ. Questo potrebbe significare che WD 0806-661 b è un oggetto giovane formatosi successivamente alla morte della stella madre. Una possibilità affascinante è che sia stato catturato gravitazionalmente dal sistema.
Altro elemento inaspettato è l’aumento dell’ammoniaca agli alti strati atmosferici, un comportamento che i modelli chimico-fisici faticano a spiegare. Si ipotizzano meccanismi dinamici non ancora compresi, come onde di gravità o convezione di tipo diabatica.
Una combinazione futura di osservazioni con lo strumento NIRSpec potrebbe fornire dati complementari sulle nubi e migliorare i vincoli su massa e composizione. I risultati ottenuti mettono in evidenza l’importanza di modelli atmosferici sempre più raffinati, che integrino anche scenari di formazione post-stellare.
Una nuova cometa sta attirando l’attenzione di astronomi professionisti e amatoriali: si tratta della C/2025 F2 (SWAN), scoperta di recente grazie alle immagini della camera SWAN (Solar Wind Anisotropies), montata a bordo della sonda SOHO, frutto della collaborazione tra NASA ed ESA. Prima di ricevere la designazione ufficiale dal Minor Planet Center (MPC), la cometa era conosciuta con il nome provvisorio SWAN25F.
Uno dei co-scopritori è l’astrofilo australiano Michael Mattiazzo, che aveva già individuato una cometa nel 2020 utilizzando lo stesso metodo, ovvero analizzando le immagini SWAN pubblicamente accessibili.
Dopo la conferma è stata “battezzata” C/2025 F2 SWAN.
L’ oggetto è molto promettente ed è già stato valutato tra l’ottava e la nona magnitudine. Il perielio è previsto il primo maggio, con un passaggio a circa 50 milioni di chilometri dal Sole. In quel momento la F2 SWAN potrebbe raggiungere la quinta magnitudine, forse la quarta, diventando teoricamente visibile ad occhio nudo. Le condizioni prospettiche però ben difficilmente permetteranno di avvistarla senza strumenti.
Di certo la cometa si renderà visibile in piccoli binocoli sotto cieli ideali. Attualmente l’oggetto si trova all’interno del Quadrato di Pegaso, mentre dal 13 aprile si trasferirà in Andromeda.
Occorre anche ricordare in questi giorni la luna disturba non poco le osservazioni e lo farà fino a dopo il 20 aprile. In questo periodo le sessioni andranno condotte poco prima del termine della notte astronomica.
Dal giorno 24, senza Luna, troveremo l’ “astro chiomato” in condizioni migliori dopo il tramonto tra le stelle del Triangolo, anche se sarà sempre più basso sull’orizzonte, tanto che a inizio maggio, quando avvicinerà le Pleiadi, non sarà facile rintracciarlo e successivamente impossibile.
Percorso della cometa C/2025 F2 SWAN dall’11 aprile al 05 maggio.
La C/2025 F2 SWAN arriva in un periodo poverissimo di comete luminose e vale senz’altro la pena fare qualche sacrificio per seguire il suo scomodo ma interessantissimo transito, che potrebbe riservare emozioni e sorprese.
Secondo il professor Paul Wiegert del dipartimento di fisica e astronomia della Western University (Canada), si ritiene che C/2025 F2 provenga dalla Nube di Oort, una regione remota del sistema solare popolata da miliardi di corpi ghiacciati, situata tra 2.000 e 5.000 unità astronomiche (AU) dal Sole.
La cometa è stata già fotografata da diversi astrofili, come Rolando Ligustri, che ha utilizzato un telescopio remoto nello Utah.
La cometa SWAN25F (c/2025 F2 SWAN), visibile in questa immagine, è stata fotografata dall’astrofilo Rolando Ligustri utilizzando un telescopio remoto situato nello Utah.
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Le Pleiadi (M45) tratte dall'archvio PhotoCoelum di Michele Bernardo.
Le Pleiadi, uno degli ammassi stellari aperti più noti e facilmente osservabili nel cielo notturno, non sono solo uno spettacolo per gli occhi. Secondo uno studio condotto da R. Liu et al. (2025), rappresentano anche un laboratorio ideale per comprendere i complessi meccanismi dinamici che regolano l’evoluzione interna degli ammassi stellari. Il lavoro, frutto della collaborazione tra diversi istituti tra cui la Chinese Academy of Sciences e l’Università di Peking, si concentra in particolare sulla distribuzione delle stelle binarie e su come esse vengano influenzate dalla dinamica gravitazionale interna del sistema.
Un ammasso giovane, ma già in fermento
Le Pleiadi contano oltre 1400 membri stellari (Lodieu et al. 2019; Hunt & Reffert 2023) e si trovano a una distanza di circa 135 parsec (circa 440 anni luce) dalla Terra. Nonostante siano relativamente giovani — circa 100 milioni di anni (Gossage et al. 2018; Niu et al. 2020) — mostrano già segni evidenti di segregazione in massa, cioè una tendenza delle stelle più massicce a spostarsi verso il centro dell’ammasso.
La particolarità di questo studio è l’attenzione riservata alle stelle binarie non risolte, ovvero sistemi di due stelle troppo vicine per essere distinte singolarmente con i normali strumenti ottici. Utilizzando i dati astrometrici di Gaia DR3 e fotometrici del catalogo 2MASS, i ricercatori hanno identificato oltre mille stelle della sequenza principale, classificandole come singole o binarie tramite un modello statistico avanzato.
Distribuzione delle stelle della sequenza principale (MS) nelle Pleiadi. Il colore indica la probabilità che una stella faccia parte di un sistema binario, mentre la dimensione dei simboli rappresenta la massa della stella. I cerchi pieni e tratteggiati indicano rispettivamente il raggio che racchiude metà della massa dell’ammasso (rh), secondo questo studio, e il raggio mareale (rt) riportato da J. Alfonso e A. García-Varela (2023).
Segregazione in massa e disgregazione delle binarie
I risultati mostrano che le stelle binarie tendono a essere più massicce rispetto alle stelle singole, confermando precedenti osservazioni (Bouy et al. 2015). Ma c’è di più: quando si analizza la distribuzione radiale — cioè la distanza dal centro dell’ammasso — emerge un quadro complesso. Le stelle più massicce, singole o binarie, si trovano prevalentemente nel nucleo centrale dell’ammasso, segno di una segregazione in massa in atto. Tuttavia, le binarie risultano distribuite in modo più disperso rispetto alle singole nella stessa fascia di massa.
Questo suggerisce che, nelle regioni centrali dell’ammasso, le interazioni dinamiche sono così intense da disgregare molte delle coppie binarie, soprattutto quelle composte da stelle meno massicce o con legami gravitazionali deboli. È una chiara firma del processo di disgregazione dinamica delle binarie, che si affianca alla segregazione in massa nel modellare la struttura dell’ammasso.
Diagramma colore–magnitudine delle stelle nella regione delle Pleiadi, basato sui dati fotometrici di Gaia. I punti grigi rappresentano le stelle di campo (cioè non appartenenti all’ammasso). I cerchi indicano le stelle della sequenza principale (MS) delle Pleiadi, con il colore che esprime il rapporto di massa tra i componenti nel caso di sistemi binari. Le linee rosse continua e tratteggiata mostrano rispettivamente le isocrone empiriche per stelle singole e per sistemi binari, derivate dalla Tabella 3 del Paper I.
La curva fb–R: un indicatore chiave
Uno degli strumenti chiave dell’analisi è la curva fb–R, che descrive la variazione della frazione di binarie (fb) in funzione della distanza dal centro (R). Il profilo osservato nelle Pleiadi è bimodale: la frequenza di stelle binarie è alta sia nel nucleo che nella periferia, mentre cala nelle zone intermedie.
Dividendo la popolazione in stelle di massa più bassa e più alta, emerge un doppio effetto:
Le stelle meno massicce mostrano un aumento della frequenza binaria con la distanza dal centro, coerente con il fatto che le coppie meno legate vengono facilmente disgregate nella regione centrale.
Le stelle più massicce, invece, mostrano una frequenza binaria più alta al centro. Questo è dovuto al fatto che le stelle più pesanti si spostano naturalmente verso il centro con l’evoluzione dinamica, portando con sé un’alta incidenza di sistemi binari.
Questo comportamento è stato previsto anche da simulazioni numeriche come quelle di Geller et al. (2013, 2015) e osservato in altri ammassi come NGC 1805 nella Grande Nube di Magellano (Li et al. 2013).
Nessun bisogno di un’origine “primordiale”
I ricercatori sottolineano che non è necessario ipotizzare che le Pleiadi siano nate con una concentrazione iniziale di binarie nel nucleo. I fenomeni osservati possono essere spiegati interamente come effetto dell’evoluzione dinamica interna, inclusa la formazione di nuove binarie attraverso interazioni a tre corpi (Converse & Stahler 2010) e il progressivo “indurimento” dei sistemi binari più stabili (Heggie 1975).
La vocazione del filosofo è di essere portatore del Tutto. Mentre gli altri si limitano a una specialità, a una parte, egli s’incarica della totalità. Dovrebbe conoscere […] le nozioni e le applicazioni degli altri uomini e specialmente degli esseri elitari, nella politica, nella religione, nelle tecniche e nelle arti; pensare a tutto, pensare il Tutto, ammesso che sia possibile… Poi, enucleare da questa ipotesi imperfetta una regola di vita, una saggezza… Naturalmente è un ideale irrealizzabile, soprattutto ai tempi nostri… Ma la filosofia viene definita da questa impossibilità. Jean Guitton
Indice dei contenuti
Abstract
La filosofia dovrebbe incaricarsi – perlomeno secondo il filosofo francese Jean Guitton – di pensare il tutto, di studiare la totalità. In ambito scientifico, la disciplina che ha lo stesso compito – certo con le dovute e innumerevoli differenze concernenti sia, genericamente, il concetto di “totalità”, sia gli approcci alle rispettive ricerche – è la cosmologia. Questa comunanza d’interessi, solo parziale ma significativa, ci spinge a ipotizzare che la filosofia, per realizzarsi pienamente, avrebbe bisogno della cosmologia, o almeno delle sue conoscenze più fondamentali riguardanti il cosmo fisico in cui siamo tutti noi immersi; al contempo, anche la cosmologia avrebbe bisogno della filosofia per approfondire il suo sguardo sull’universo. In questo articolo introdurrò brevemente solo questa seconda tesi, accennando poi al pensiero di uno dei suoi massimi interpreti: il filosofo e storico della scienza francese Jacques Merleau-Ponty.
Cenni a un approccio filosofico alla cosmologia
La cosmologia è la scienza che forse, più di ogni altra, ha bisogno della filosofia. Si pensi alla sua stessa tipica definizione: la cosmologia studia la struttura su larga scala dell’universo, dove con quest’ultimo termine s’intende tutto ciò che – in senso fisico – esiste, è esistito e per certi versi esisterà, pertanto l’universo è considerato come un sistema totale e unico, e con una sua storia. Si dice anche che la cosmologia studia l’universo come un tutto, o nel suo insieme, vale a dire essa non s’interessa direttamente dei corpi celesti (pianeti, stelle, galassie, e persino ammassi di galassie e superammassi) presenti nel cosmo, che del resto vivono a “piccole” scale rispetto alla “totalità”. Di questi corpi se ne occupa l’astronomia, osservandoli e descrivendone le proprietà, i raggruppamenti, i moti apparenti e reali, ecc., mentre l’astrofisica cerca di interpretare questi corpi e i fenomeni che li riguardano in termini di leggi fisiche note, che essa applica a modelli più o meno semplificati dei sistemi osservati. Invece, scopo principale dell’analisi della cosmologia è di ottenere una descrizione fisica coerente dell’universo nella sua interezza, dunque tentando di includere anche la sua parte inosservabile, tramite modelli che fanno uso di branche della fisica nota, modelli – si badi – di necessità estremamente semplificati, data l’enorme complessità del reale. Dunque la ricerca cosmologica spazia dalle leggi naturali, che permeano i corpi celesti in relazione al cosmo, alla sua struttura geometrica e topologica, dalle sue dimensioni spaziali e temporali alla sua formazione, evoluzione ed eventuale fine, inclusi ovviamente i fenomeni accaduti nel suo lontano passato che hanno dato luogo alla sua attuale conformazione.
È evidente la difficoltà di cogliere propriamente il significato dell’universo come un tutto, sia a livello spaziale (e topologico), sia temporale, sia nei suoi aspetti osservabili, sia nelle interconnessioni fra le sue parti. Del resto l’universo come un tutto non è certo dato dalla totalità degli oggetti, dei sottosistemi, dei processi ed eventi appartenenti all’universo osservabile. Quest’ultimo è soltanto una porzione di un sistema ovviamente più inclusivo che non è però “quantificabile” estendendo, fino a un limite a tutt’oggi del tutto imprecisato, il dominio dell’universo osservabile. Si ha bisogno, insomma, di un “salto” teorico; in altre parole, per rappresentare la composizione e la struttura dell’universo come un tutto bisogna costruirsi un sistema concettuale – il più comprensivo e globale possibile, che incarni la singola totalità integrata degli oggetti e dei processi fisici – che assuma la forma, come già detto, di un modello cosmologico. Un tale modello specifica, quindi, come l’universo come un tutto debba essere concepito, e come, a partire da questo, si possano poi comprendere anche i fenomeni nelle regioni relativamente più ristrette dell’universo osservabile.
Non è solo per mezzo, allora, dell’osservazione astronomica e dei dati che essa mette a disposizione che si può cogliere quel significato del concetto di “universo” al quale la cosmologia anela, ma è grazie all’adozione di un certo modello cosmologico, e quindi, in ultima istanza, alla nostra decisione di adottarne uno piuttosto che un altro. E il fatto importante, come sottolinea il filosofo Milton Munitz, è che “questa decisione si basa in fondo su una visione filosofica del ruolo epistemologico svolto da tali modelli cosmologici” (1990, p. 154)2. Ovviamente, la validità di un modello cosmologico è valutata soprattutto sulla base di evidenze e “riscontri fisici” riguardanti: osservazioni e misurazioni di oggetti e strutture cosmiche, analogie con altri sistemi fisici “minori”, concetti e modelli matematici e geometrici, leggi fisiche ed equazioni riguardanti aspetti “locali” dell’universo, e così via. Però, il cuore epistemologico e, più generalmente filosofico, di quella scelta rimane. Per giunta, data l’impossibilità di manipolare l’universo, di variarne le condizioni iniziali, di riprodurne le altissime energie protagoniste di alcune sue fasi, di analizzarne l’evoluzione da altre posizioni spaziali e in altre epoche temporali e, quindi, di “vedere” le sue prime fasi o le sue più lontane distanze, insomma data l’impossibilità di rendere la cosmologia una scienza direttamente sperimentale, risulta inevitabile il bisogno di affidarsi a delle scelte filosofiche che se da una parte certo contribuiscono, in maniera più o meno significativa, a dar forma alle nostre teorie cosmologiche e ai loro modelli, dall’altra influenzano anche la “genuinità” della nostra comprensione dell’universo. Si pensi al cosiddetto principio cosmologico, che asserisce l’omogeneità e l’isotropia spaziale del nostro universo a larga scala (cioè l’assenza, rispettivamente, di punti e direzioni particolari), o al principio copernicano, nel quale si sostiene che non siamo osservatori privilegiati (nessun luogo nell’universo è in una posizione “speciale”).
Da questi principi discende una ben precisa metrica per la struttura geometrica a larga scala dell’universo (aperta comunque a configurazioni topologiche diverse). Tali principi sono assunzioni ormai quasi date per scontate nella cosmologia standard, ed è naturale, sia perché i riscontri empirici a loro favore hanno assunto un ruolo consistente con il corpus teorico sottostante ai modelli, sia perché in fondo, senza di essi, l’impresa scientifica cosmologica risulterebbe difficilissima se non impossibile. Si pensi, infatti, al principio copernicano: se non valesse, ossia se noi fossimo in una posizione particolare, come potremmo continuare a fare affermazioni sulla globalità dell’universo sapendo che da altri punti di osservazione (per noi inesplorabili) lo scenario potrebbe drasticamente essere diverso? Eppure, quei principi non sono affatto verità sacrosante, i riscontri empirici e le osservazioni non sono per niente in grado di porre una qualche parola definitiva sulla loro validità, e infatti non è raro trovare dei cosmologi che si cimentano con l’analisi di universi in cui essi non valgono.
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Un team internazionale propone un’inedita combinazione di materiali terrestri e lunari per costruire pannelli solari direttamente sulla Luna. La soluzione, basata sull’utilizzo del regolite e di celle in perovskite, potrebbe rivoluzionare la produzione energetica delle future basi spaziali, combinando leggerezza, efficienza e protezione dalle radiazioni.
Con la missione Artemis 3 prevista per il 2026 e l’ambizioso progetto della Lunar Gateway, la possibilità di costruire una base lunare stabile non è più fantascienza. Tuttavia, per garantire la sopravvivenza umana nello spazio in modo sostenibile, la produzione di energia sulla Luna diventa una sfida cruciale. Attualmente, i pannelli solari impiegati nelle missioni spaziali, basati su semiconduttori III-V a multigiunzione, offrono un’ottima efficienza ma un rapporto potenza/massa ancora limitato. La soluzione potrebbe arrivare dalla Terra e… dalla Luna stessa.
Un gruppo di ricercatori guidato da Tobias Kirchartz, Sebastian Lang e colleghi, appartenenti al Forschungszentrum Jülich e alla Technische Universität Berlin, ha presentato un approccio innovativo: utilizzare il regolite lunare per realizzare pannelli solari in loco, integrando celle solari a base di perovskite depositate su “moonglass”, un vetro ottenuto proprio dal suolo lunare.
Energia dalla Luna, con la Luna
Il regolite lunare, abbondante e facilmente accessibile, può essere fuso tramite forni solari per creare lastre vetrose di protezione (moonglass), che fungono da substrato per le celle fotovoltaiche. Le perovskiti, semiconduttori emergenti noti per la loro efficienza e facilità di lavorazione, possono essere depositate su questi vetri con tecniche a bassa temperatura (<150°C), utilizzando quantità minime di materiale terrestre.
Secondo i ricercatori, questo metodo permette di raggiungere rapporti potenza/massa fino a 50.000 W/kg, un ordine di grandezza superiore rispetto alle soluzioni attuali. «Il nostro approccio ibrido ISRU (In-Situ Resource Utilization) è altamente realizzabile e facilmente scalabile nel prossimo futuro», affermano gli autori.
Il regolite simulato TUBS-T, prodotto alla TU Berlin, imita le caratteristiche dei terreni dell’altopiano lunare, ricchi di anortosite. Fuso in laboratorio a 1.550°C, ha generato un vetro trasparente, sufficientemente resistente e con una trasmittanza compatibile con l’assorbimento delle celle in perovskite (∼1.5 eV). Sebbene meno trasparente del vetro terrestre standard, il moonglass si è dimostrato efficace nel limitare la degradazione da radiazioni.
Celle in perovskite: prestazioni e resistenza oltre le aspettative
Le celle fotovoltaiche realizzate direttamente su moonglass hanno mostrato una qualità ottica e strutturale comparabile con quelle costruite su vetro convenzionale. Con configurazioni opache standard, l’efficienza ha raggiunto l’8,5% sotto condizioni di luce lunare (AM0), mentre configurazioni più avanzate, con contatti trasparenti in IZO (indium zinc oxide), hanno superato il 12%.
Una simulazione con moonglass sottile (0,1 mm) suggerisce che si potrebbero superare PCE del 21%, rendendo queste celle tra le più performanti mai proposte per applicazioni lunari.
Un’inaspettata resistenza alle radiazioni
Uno dei risultati più sorprendenti riguarda la tolleranza alle radiazioni. Durante test condotti con protoni ad alta energia (68 MeV), i dispositivi costruiti su moonglass hanno mantenuto il 96% dell’efficienza iniziale. Questa resilienza è stata attribuita alla presenza di ferro nel vetro lunare, che agisce come “spugna elettronica” simile al cerio nei vetri spaziali, impedendo la formazione di centri di colore che normalmente degradano le prestazioni dei vetri irradiati.
«Questa straordinaria resistenza del moonglass alle radiazioni – in combinazione con la tolleranza delle perovskiti – rappresenta un fattore chiave per l’affidabilità a lungo termine dei pannelli solari lunari», scrivono i ricercatori.
Meglio delle celle in silicio?
La produzione di celle in silicio direttamente sulla Luna, ipotizzata da decenni, resta un obiettivo complesso. Richiede processi ad alta temperatura, raffinazione spinta del silicio fino a livelli di purezza <1 ppb, e infrastrutture metallurgiche avanzate. In confronto, la fabbricazione di celle in perovskite su moonglass risulta di gran lunga più semplice, meno energivora e adatta a condizioni di bassa gravità.
Una via concreta per alimentare le basi lunari
Con un impianto produttivo compatto da circa 3 tonnellate, il team stima di poter produrre sul suolo lunare una capacità fotovoltaica di oltre 3 MW, sufficiente per sostenere una base abitata da circa 200 astronauti, basandosi sui consumi dell’ISS.
In conclusione, questa ricerca apre una strada concreta alla produzione energetica autonoma sulla Luna, essenziale per le future colonie spaziali. Combinando innovazione nei materiali, utilizzo di risorse locali e strategie ingegneristiche sostenibili, i pannelli solari in perovskite su moonglass si candidano come la tecnologia più promettente per illuminare il futuro lunare dell’umanità.
NOAA inaugura una nuova era dell’osservazione solare e del monitoraggio delle tempeste geomagnetiche con il primo coronografo moderno per la previsione del meteo spaziale.
Dal 25 febbraio 2025, chiunque può osservare quasi in tempo reale l’attività della corona solare grazie alle immagini trasmesse dal nuovo coronografo CCOR-1 (Compact Coronagraph), montato a bordo del satellite GOES-19 della NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). Le immagini, aggiornate ogni 15 minuti, sono pubblicamente disponibili sul sito del Space Weather Prediction Center (SWPC) e archiviate, dal 7 marzo, presso il National Centers for Environmental Information (NCEI).
Un Occhio Sulla Corona del Sole
Il CCOR-1 è progettato per monitorare costantemente la corona solare, ovvero lo strato più esterno e rarefatto dell’atmosfera del Sole, dove si originano fenomeni violenti come le espulsioni di massa coronale (CME). Queste gigantesche nubi di plasma, proiettate nello spazio interplanetario, possono raggiungere la Terra e interagire con il campo magnetico terrestre, generando tempeste geomagnetiche in grado di disturbare sistemi elettrici, comunicazioni radio, reti GPS e satelliti.
Con il CCOR-1, la NOAA inaugura il primo coronografo moderno pensato specificamente per la previsione operativa del meteo spaziale. Rispetto agli strumenti precedenti (come il LASCO a bordo del Solar and Heliospheric Observatory, SOHO), il nuovo coronografo fornisce aggiornamenti in tempi molto più rapidi — ogni 15 minuti — e in maniera continua.
Il video ripreso dallo strumento CCOR-1, mostra la corona solare. La dimensione del Sole è indicata dal piccolo cerchio vuoto al centro dell’immagine, mentre un disco scuro, circa quattro volte più grande, blocca la luce diretta della nostra stella. Questo accorgimento consente di osservare le strutture più deboli e delicate della corona, come le espulsioni di massa coronale (CME), che appaiono come nuvole luminose e filamentose di plasma che si allontanano dal disco centrale.
Previsioni Migliori per Proteggere Infrastrutture e Tecnologie
Le immagini di CCOR-1 rappresentano una fonte primaria di dati per le previsioni meteorologiche spaziali del SWPC. Grazie a queste osservazioni, è possibile prevedere l’arrivo di tempeste geomagnetiche con uno o tre giorni di anticipo, dando così il tempo necessario agli operatori di prendere contromisure fondamentali per la sicurezza di infrastrutture critiche, come le reti elettriche o le comunicazioni satellitari.
Le informazioni derivate da CCOR-1 sono già utilizzate da numerosi settori: dall’aviazione commerciale alla navigazione di precisione per l’agricoltura, fino all’esplorazione petrolifera e alla difesa nazionale. L’importanza di questi dati è cresciuta soprattutto alla luce dei numerosi eventi registrati negli ultimi mesi, inclusa la potente tempesta geomagnetica del 10 ottobre 2024, documentata in dettaglio proprio da CCOR-1.
Un’Icona del Sole: Come Funziona il Coronografo
Nelle immagini del CCOR-1, il Sole appare come un piccolo cerchio vuoto al centro, circondato da una schermatura nera che blocca la luce diretta della nostra stella. Questo permette di osservare le strutture più deboli, come le CME, che appaiono come nuvole di plasma luminose e filamentose che si espandono all’esterno.
Curiosità: due volte al giorno, un intenso lampo attraversa le immagini. Si tratta della Terra che “photobomba” il campo visivo dello strumento, riflettendo la luce del Sole attraverso oceani e nuvole — un fenomeno chiamato earthshine. Anche la Luna fa la sua comparsa quotidiana, passando attraverso l’inquadratura, anch’essa riflettendo la luce solare.
Il Futuro: CCOR-2 e L’Osservazione dallo Spazio Profondo
Il satellite GOES-19 entrerà ufficialmente in servizio come GOES-East il 4 aprile 2025, ma già oggi il CCOR-1 è operativo in via preliminare. In parallelo, NOAA lancerà un coronografo gemello, CCOR-2, a bordo della missione SWFO-L1 (Space Weather Follow On – Lagrange 1). Questo strumento sarà posizionato nel punto lagrangiano L1, a circa un milione di chilometri dalla Terra, offrendo una seconda prospettiva costante del Sole. Insieme, CCOR-1 e CCOR-2 garantiranno continuità e ridondanza delle osservazioni, anche in caso di guasti.
Dove vedere le immagini in diretta del Sole?
Tutti possono consultare le immagini aggiornate e le animazioni delle ultime 24 ore sul sito ufficiale dello SWPC.
Inoltre, l’archivio completo delle osservazioni CCOR-1 (e presto anche CCOR-2) è disponibile presso la sezione dedicata al meteo spaziale del NCEI.
In occasione del 35° anniversario del telescopio spaziale Hubble, lanciato nel 1990 come progetto congiunto NASA/ESA, l’Agenzia Spaziale Europea dà il via alle celebrazioni con una nuova e spettacolare immagine dell’ammasso stellare NGC 346, uno dei più attivi laboratori di formazione stellare nelle vicinanze della Via Lattea.
Questa immagine inaugurale fa parte di una serie celebrativa che riunisce alcune delle più iconiche osservazioni realizzate da Hubble, aggiornate grazie a nuove tecniche di elaborazione e a dati più recenti. L’obiettivo è quello di riproporre al pubblico meraviglie cosmiche già conosciute, ma ora ancora più dettagliate e suggestive.
NGC 346: una fucina di stelle nella Piccola Nube di Magellano
Protagonista di questa prima immagine è NGC 346, un giovane ammasso stellare situato nella Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea distante circa 200.000 anni luce nella costellazione del Tucano. Nonostante fosse già stato immortalato più volte da Hubble, questa nuova versione è la prima a combinare osservazioni a diverse lunghezze d’onda – infrarosso, ottico e ultravioletto – offrendo una visione senza precedenti della regione.
NGC 346 ospita più di 2500 stelle neonate, molte delle quali estremamente massicce e luminose. Nell’immagine si distinguono per la loro intensa luce blu, mentre la nube rosa incandescente e le scie scure serpeggianti indicano la presenza di polveri residue dal processo di formazione stellare.
Un ammasso stellare immerso in una nebulosa. Sullo sfondo si estendono sottili nubi di gas di colore azzurro pallido, che in alcuni punti si addensano e assumono tonalità rosate. Al centro dell’immagine, un gruppo compatto di stelle blu molto luminose illumina la nebulosa circostante. Attorno all’ammasso, si curvano ampi archi di polveri dense, situati sia davanti che dietro le stelle, compressi dalla loro intensa radiazione. Al di là delle nubi nebulose, si intravedono numerose stelle arancioni più distanti. Crediti: ESA/Hubble & NASA, A. Nota, P. Massey, E. Sabbi, C. Murray, M. Zamani (ESA/Hubble)
Una finestra sull’universo primordiale
La Piccola Nube di Magellano presenta una composizione chimica povera di elementi più pesanti dell’elio, i cosiddetti “metalli” in gergo astronomico. Questa caratteristica la rende simile all’universo primordiale, fornendo un’opportunità unica per studiare come avveniva la formazione stellare nelle epoche più remote della storia cosmica.
Grazie all’eccezionale risoluzione del telescopio Hubble, i ricercatori hanno potuto tracciare il moto delle stelle di NGC 346, osservando due set di dati a distanza di 11 anni. I risultati hanno rivelato che le stelle si stanno muovendo a spirale verso il centro dell’ammasso, guidate da un flusso di gas che dall’esterno alimenta la nascita di nuove stelle nel cuore della nube turbolenta.
Gli scultori di N66
L’energia sprigionata dalle giovani stelle di NGC 346 non solo alimenta la formazione stellare, ma modella attivamente l’ambiente circostante. I venti stellari e le radiazioni ultraviolette scavati nel gas residuo della nebulosa stanno creando una grande cavità all’interno della nube, come veri e propri “scultori cosmici”.
La nebulosa che circonda l’ammasso è denominata N66 ed è la più brillante regione H II (pronunciata “acca due”) della Piccola Nube di Magellano. Queste regioni sono nubi di idrogeno ionizzato illuminate da stelle giovani e calde. La presenza stessa di N66 testimonia la giovane età di NGC 346: le regioni H II infatti brillano solo per pochi milioni di anni, il tempo di vita delle stelle massicce che le alimentano.
Programmi di osservazione e cooperazione internazionale
Questa nuova immagine è il risultato della combinazione di più campagne osservative condotte nel corso degli anni, in particolare i programmi #10248 (PI: Antonella Nota), #12940 (PI: Phillip Massey), #13680 (PI: Elena Sabbi), #15891 e #17118 (entrambi guidati da Claire Murray).
Il telescopio spaziale Hubble continua a rappresentare uno degli strumenti più preziosi per l’astronomia moderna, frutto della cooperazione tra l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e la NASA. A 35 anni dal lancio, Hubble continua a stupire il mondo con immagini straordinarie e scoperte fondamentali sulla nascita e l’evoluzione dell’universo.
Una porzione di spazio profondo è popolata da numerose galassie di forme diverse e colori che vanno dal blu al bianco fino all’arancione, insieme ad alcune stelle vicine. Sulla sinistra, un piccolo riquadro mostra un ingrandimento di una minuscola zona dell’immagine. Al centro di questo riquadro si vede un puntino rosso, evidenziato da linee e contrassegnato con la scritta “Redshift (z)=13”, che indica la sua straordinaria distanza dalla Terra. Si tratta della galassia JADES-GS-z13-1, una delle più lontane mai osservate. Due galassie molto più grandi, visibili nella stessa area, sono indicate con “z=0.63” e “z=0.70”, valori che corrispondono a distanze molto inferiori rispetto a GS-z13-1. Crediti: ESA/Webb, NASA, STScI, CSA, JADES Collaboration, Brant Robertson (University of California Santa Cruz), Ben Johnson (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics), Sandro Tacchella (University of Cambridge), Phill Cargile (CfA), Joris Witstok, Peter Jakobsen, Alyssa Pagan (STScI), Mahdi Zamani (ESA/Webb)
A 330 milioni di anni dal Big Bang, la galassia JADES-GS-z13-1 sorprende gli astronomi con un segnale luminoso impossibile da spiegare con le teorie attuali.
Un nuovo studio pubblicato su Nature ha svelato una scoperta che sta facendo discutere la comunità scientifica internazionale: il James Webb Space Telescope ha individuato un segnale luminoso proveniente da una galassia così remota e antica che, secondo le attuali teorie cosmologiche, non avrebbe dovuto essere visibile.
La protagonista di questa scoperta è JADES-GS-z13-1, una galassia osservata com’era appena 330 milioni di anni dopo il Big Bang, in un’epoca in cui l’universo era ancora avvolto da una densa nebbia di idrogeno neutro. Eppure, da questo remoto angolo dello spazio, gli strumenti di Webb hanno rilevato un’emissione sorprendentemente intensa di Lyman-α, una caratteristica luce prodotta dagli atomi di idrogeno. Un evento che, in teoria, non avrebbe dovuto essere possibile.
Subito dopo il Big Bang, l’universo era una sorta di nebbia densa composta da atomi di idrogeno neutro, opachi alla radiazione ultravioletta. Solo centinaia di milioni di anni dopo, con la nascita delle prime stelle e galassie, la luce ultravioletta iniziò a “ionizzare” questi atomi, rendendo lo spazio trasparente alla luce: fu la cosiddetta epoca della reionizzazione.
Tuttavia, JADES-GS-z13-1 appare molto prima che questo processo fosse completo. “È come se un faro potentissimo riuscisse a bucare una fitta nebbia molto prima del previsto”, spiega Kevin Hainline dell’Università dell’Arizona, membro del team.
Una luce che non doveva esserci
Una piccola area ingrandita dello spazio profondo. Sono visibili numerose galassie di forme diverse, la maggior parte molto piccole, ma due appaiono grandi e brillanti. Al centro dell’immagine, un minuscolo puntino rosso: è la galassia GS-z13-1, estremamente lontana. A sinistra dell’immagine si vedono due linee luminose, chiamate spike di diffrazione, artefatti visivi causati dalla presenza di una stella brillante poco fuori campo. Crediti:ESA/Webb, NASA, STScI, CSA, JADES Collaboration, Brant Robertson (University of California Santa Cruz), Ben Johnson (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics), Sandro Tacchella (University of Cambridge), Phill Cargile (CfA), Joris Witstok, Peter Jakobsen, Alyssa Pagan (STScI), Mahdi Zamani (ESA/Webb)
Il team, guidato da Joris Witstok (Università di Cambridge e Cosmic Dawn Center di Copenaghen), ha osservato la galassia con lo spettrografo NIRSpec di Webb, confermandone la distanza estrema con un redshift di 13.0. Ma il vero colpo di scena è arrivato con l’osservazione di quella inaspettata linea di emissione di Lyman-α, chiara e intensa.
“Secondo i modelli attuali, quella luce non avrebbe dovuto attraversare la nebbia cosmica così presto nella storia dell’universo”, afferma Roberto Maiolino, co-autore dello studio e professore a Cambridge e University College London. “Eppure, è lì, ben visibile.”
Come ha fatto questa luce a farsi strada tra il gas neutro che avvolgeva l’universo primordiale? Gli scienziati stanno considerando due possibili spiegazioni. La prima ipotesi è che la galassia sia circondata da una “bolla” di idrogeno ionizzato, prodotta da stelle di primissima generazione, estremamente massicce, calde e luminose — molto diverse da quelle che vediamo oggi.
La seconda possibilità è ancora più affascinante: un nucleo galattico attivo (AGN), alimentato da uno dei primi buchi neri supermassicci dell’universo, potrebbe aver generato l’energia necessaria a ionizzare l’ambiente circostante.
La scoperta è parte del JADES (JWST Advanced Deep Extragalactic Survey), uno dei programmi chiave del telescopio Webb, che si sta rivelando una macchina del tempo impareggiabile per esplorare l’universo primordiale. Grazie alla sua sensibilità all’infrarosso, Webb riesce a scrutare più lontano – e più indietro nel tempo – di qualsiasi altro strumento mai costruito.
“Con Hubble sapevamo che avremmo potuto vedere galassie sempre più distanti”, ricorda Peter Jakobsen, già scienziato del progetto NIRSpec. “Ma ciò che Webb sta rivelando sulla natura delle prime stelle e buchi neri va ben oltre le aspettative.”
I “Big Five” delle meteoriti, come i celebri animali della savana africana, rappresentano i più grandi e affascinanti esemplari extraterrestri mai ritrovati sulla Terra. Tra questi spiccano le sideriti Hoba (Namibia, 60 t), Cape York (Groenlandia, 31 t), Campo del Cielo (Argentina, 30,8 t), Armanty (Cina, 28 t) e Bacubirito (Messico, 22 t). Composte principalmente da ferro e nichel, queste meteoriti resistono meglio all’ingresso atmosferico rispetto a quelle pietrose, come Chelyabinsk (2013). La loro storia, spesso intrecciata a miti locali, esplorazioni e musei internazionali, testimonia il costante legame tra il cielo e la Terra.
Introduzione
Elefante, Leone, Bufalo, Rinoceronte e Leopardo, compongono i famosi Big Five della savana africana. Questa hit parade stilata all’epoca in cui si abbattevano per sport questi splendidi animali è rimasta in voga anche oggi, quando (per la gran parte dei casi), si mira solo con la fotocamera e non più con i fucili da caccia. Anche per le meteoriti esiste una classifica per i più grandi esemplari conosciuti, tenendo conto che qualsiasi elenco è destinato nel tempo a modificarsi. Infatti nuovi esemplari vengono trovati di tanto in tanto in zone impervie e inoltre, grandi meteoriti, possono cadere in qualunque momento, come ci ha ricordato nel 2013 quello di Chelyabinsk la cui onda d’urto causò molti danni e feriti (soprattutto a causa delle vetrate infrante) nell’omonima città russa. Tra le centinaia di frammenti recuperati, il maggiore pesava 654 kg; un’inezia in confronto alle 9-10.000 tonnellate stimate del meteoroide originale, esploso a 30km di altezza. Chelyabinsk era però un meteorite pietroso; una condrite LL5 e questo tipo di rocce, offre una bassa resistenza alle vibrazioni ed agli stress meccanici all’ingresso in atmosfera. Ciò fa sì che queste tendano a frantumarsi, in molte piccole sezioni. Diverso è il caso delle meteoriti ferrose, che resistono assai meglio allo “scontro” e possono generare, anche nei casi di frammentazione, singole masse di molte tonnellate. Perciò quasi tutti i meteoriti più grandi conosciuti sono sideriti, con l’importante eccezione di Jilin, la condrite H5 caduta in Cina nel 1976 che con una massa principale di 1,7 tonnellate è di gran lunga la condrite ordinaria singola più grande conosciuta. Ma anche questo “gigante” tra le meteoriti pietrose sfigura vicino alle grandi sideriti che compongono i nostri “big five”.
HOBA (NAMIBIA)
Nel Nord della Namibia, vicino alla città di Grootfontein1 si trova questo meteorite di 60 tonnellate (un tempo, prima di campionamenti, furti e vandalismi sembra arrivasse a 66 tonnellate). Venne scoperto per caso nel 1920 da un contadino che lo colpì con l’aratro, dissodando il terreno. E’ un “mattone” di ferro di 2,7×2,7×0,9 metri in un avvallamento del terreno circondato da un anfiteatro di muretti a secco. Si trova ancora nel punto del ritrovamento. È un tipo di siderite assai raro; un Atassite, che contiene un tenore di nikel molto più alto delle altre ferrose. Nonostante il suo aspetto “giovanile” (dovuto al clima estremamente secco) questo meteorite è caduto sul nostro pianeta circa 80.000 anni fa. È possibile che la forma, simile ad un sasso piatto, lo abbia aiutato a perdere velocità in modo meno traumatico, durante l’impatto con l’atmosfera. Il meteorite avrebbe quindi rimbalzato più volte, come un sasso lanciato sulla superficie di un lago.
Il meteorite Hoba a Grootfontein in Namibia massa 60t.
CAPE YORK (GROENLANDIA)
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Il telescopio posizionato al sito Dome Argus dalla spedizione cinese. Dome A in Antartide. Crediti: Zhaohui Shang
Nell’estate australe del 2023-2024, un gruppo di astronomi cinesi ha compiuto un’impresa scientifica straordinaria: osservare le stelle… di giorno. Non in un osservatorio qualsiasi, ma nel luogo forse più remoto e promettente della Terra per l’astronomia: Dome Argus, noto anche come Dome A.
Situato nel cuore del Plateau Antartico, a oltre 4.000 metri di quota, Dome Argus è il punto più elevato della calotta glaciale antartica, e uno dei luoghi più freddi e secchi del pianeta. Proprio per queste sue caratteristiche estreme, rappresenta un sito eccezionale per l’osservazione del cielo notturno nelle bande dell’ottico e dell’infrarosso vicino (NIR). Ma finora nessuno aveva mai misurato quanto il cielo fosse “buio” durante il giorno, in estate, quando il Sole non tramonta mai.
Un piccolo telescopio per un grande esperimento
L’esperimento, condotto da un team dell’Osservatorio Astronomico di Shanghai dell’Accademia Cinese delle Scienze (Shanghai Astronomical Observatory), si è avvalso di un telescopio compatto da 150 mm di apertura, installato in cima a una piattaforma alta tre metri sopra la superficie ghiacciata.
Lo strumento era dotato di una fotocamera NIR con sensore Sony InGaAs, sensibile alla luce nel range 400–1800 nm, e di un filtro centrato sulla banda J dell’infrarosso (attorno ai 1250 nm). Il filtro è stato progettato dal Nanjing Institute of Astronomical Optics & Technology (link).
L’apparato è stato trasportato a Dome Argus dalla 40ª spedizione antartica cinese, e ha operato per otto giorni in condizioni atmosferiche ideali: cielo sempre sereno e una stabilità dell’aria praticamente senza paragoni.
La base di ricerca Davis.Base di ricerca Mawson.
Stelle visibili anche con il Sole alto
Le osservazioni si sono concentrate su stelle brillanti visibili nel vicino infrarosso, una banda in cui la luce solare viene diffusa molto meno rispetto al visibile. Grazie a brevi esposizioni (circa 0,3 secondi), il telescopio ha rilevato stelle fino alla magnitudine J=5,3. Combinando 500 immagini brevi in una tecnica di “stacking”, è stato possibile scendere fino alla magnitudine J=10,06, ben visibile anche con il Sole sopra l’orizzonte.
Le misure di luminosità del cielo al mezzogiorno antartico – con il Sole a 27° sopra l’orizzonte – indicano un valore di circa 5,2 mag/arcsec² nella banda J, che si riduce a 5,8 intorno alla mezzanotte locale, quando il Sole scende a circa 10° sull’orizzonte.
Per fare un paragone: questi valori sono molto vicini (solo leggermente più luminosi) a quelli registrati durante il giorno in cima al monte Haleakalā, alle Hawaii – uno dei migliori osservatori astronomici in uso. E Dome Argus non aveva nemmeno un cupolino per schermare la luce solare riflessa dalla neve!
Il futuro dell’astronomia continua anche di giorno
Questi risultati aprono la strada a una nuova frontiera: l’osservazione continua, 24 ore su 24, di eventi luminosi transitori nel cielo australe. Supernove, esplosioni di raggi gamma, stelle variabili e persino detriti spaziali in orbita bassa possono essere monitorati da Dome Argus anche durante l’estate antartica, grazie alla relativa “oscurità” del cielo nell’infrarosso.
Il sito è perfetto anche per l’osservazione di oggetti in orbita terrestre: oltre l’80% dei detriti spaziali passa sopra Dome A almeno una volta per ogni orbita. In futuro, è previsto l’utilizzo di telescopi di classe 1 metro, che miglioreranno ulteriormente la sensibilità e permetteranno osservazioni più profonde e precise. Alcuni di questi strumenti potrebbero anche essere equipaggiati per la misurazione laser di precisione delle orbite dei satelliti – una tecnologia chiamata Satellite Laser Ranging (SLR).
Un laboratorio naturale unico al mondo
Le condizioni uniche di Dome Argus – assenza di inquinamento luminoso, atmosfera estremamente stabile e un’altissima percentuale di giorni sereni – ne fanno uno dei luoghi più promettenti per l’astronomia del futuro. Proprio grazie alla sua posizione (80°22′ S, 77°22′ E), la volta celeste australe rimane osservabile tutto l’anno, senza alternanza tra giorno e notte come avviene altrove.
Dome A si trova nel punto più alto del Plateau Antartico, a circa 4.093 metri sul livello del mare, su una calotta di ghiaccio spessa oltre 3.000 metri. La sua posizione isolata, su una dorsale lunga 60 km, lo rende uno dei luoghi meno esplorati del pianeta.
Coordinate: 80°22′ S, 77°22′ E Temperatura record: -82,5 °C nel luglio 2005 Clima: aria secca, assenza di vento forte, cielo sereno oltre l’80% del tempo
Un’importante stazione meteorologica automatica è stata installata nel 2005 da una collaborazione australiana-cinese. Questa raccoglie dati fondamentali per comprendere le condizioni ambientali estreme del sito, misurando temperatura, vento, pressione atmosferica, umidità e radiazione solare.
Dome A potrebbe essere il luogo più freddo della Terra: anche se il record appartiene ufficialmente alla stazione russa di Vostok, Dome A si trova a un’altitudine ancora maggiore e resta un serio candidato per future misurazioni da primato.
Fonte: Z. Li et al., 2024 (studio completo su Dome A)
Questa illustrazione artistica raffigura una regione di Venere che potrebbe presentare vulcanismo attivo e subduzione, dove la superficie sprofonda nel mantello. Le rocce in primo piano mostrano materiali poveri di ferro, forse analoghi ai continenti granitici della Terra. La missione VERITAS metterà alla prova queste interpretazioni.
Crediti: NASA/JPL-Caltech/Peter Rubin
Un team di ricercatori dell’Università della California a Riverside e del Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory ha avanzato una proposta affascinante e concreta: utilizzare un osservatorio spaziale per osservare direttamente le “ExoVenere”, pianeti rocciosi simili a Venere che orbitano attorno ad altre stelle. Lo studio è stato condotto da Stephen R. Kane, Emma L. Miles e Colby M. Ostberg (University of California, Riverside) insieme a Noam R. Izenberg (Johns Hopkins APL).
Il ruolo di Venere nella ricerca della vita
Comprendere l’abitabilità dei pianeti è una delle grandi sfide dell’astrobiologia. E se la Terra rappresenta l’esempio ideale di mondo abitabile, Venere ne è l’estremo opposto: un pianeta della stessa dimensione e composizione, ma con un’atmosfera soffocante, dominata da anidride carbonica e nuvole di acido solforico, in preda a un effetto serra incontrollato.
Studiare Venere non è solo utile per capire come sia arrivata a questo stato, ma anche per individuare le condizioni che possono rendere inabitabile un pianeta simile alla Terra. Ecco perché le missioni future come VERITAS, DAVINCI della NASA, e EnVision dell’ESA, avranno un ruolo centrale nel fornirci dati chiave per costruire modelli di evoluzione atmosferica applicabili anche agli esopianeti.
Un catalogo in crescita di mondi rocciosi caldi
Grazie a missioni come TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite), gli scienziati hanno già identificato centinaia di potenziali “ExoVenere”: pianeti rocciosi, di dimensioni simili alla Terra, che orbitano molto vicino alla loro stella, in una regione nota come Venus Zone (VZ). Al marzo 2024, sono almeno 334 i candidati identificati, ma si stima che il numero crescerà rapidamente man mano che verranno confermati oltre 7000 candidati.
Poiché i pianeti della VZ ricevono un’intensa radiazione stellare, sono più facili da osservare rispetto ai loro simili più freddi. Inoltre, se presentano temperature elevate, tendono a riflettere più luce e quindi a risultare più visibili per gli strumenti astronomici.
illustrazione della grande Corona Quetzalpetlatl, situata nell’emisfero sud di Venere, raffigura un vulcanismo attivo e una zona di subduzione, dove la crosta in primo piano sprofonda nell’interno del pianeta. NASA/JPL-Caltech/Peter Rubin
L’Habitable Worlds Observatory: il futuro è già in cantiere
Tra le raccomandazioni del decennale sondaggio dell’Astronomy and Astrophysics Decadal Survey del 2020 figura una missione rivoluzionaria: il Habitable Worlds Observatory (HWO). Questo futuro telescopio spaziale avrà lo scopo di osservare direttamente pianeti rocciosi potenzialmente abitabili attorno a stelle simili al Sole.
Ma c’è di più: HWO sarà anche in grado di identificare pianeti simili a Venere. L’osservazione diretta permetterà di analizzare lo spettro riflesso della luce dei pianeti, una tecnica più sensibile delle osservazioni in trasmissione per atmosfere dense e nuvolose. In particolare, sarà possibile cercare firme chimiche come il biossido di zolfo (SO₂), che potrebbe indicare attività vulcanica, oppure atmosfere dominate da anidride carbonica con nubi di acido solforico, segni distintivi di un ambiente inabitabile ma ricco di informazioni.
Una sinergia tra scienza planetaria e astronomia
Un aspetto chiave di questo approccio è l’integrazione tra le conoscenze acquisite all’interno del Sistema Solare e l’analisi degli esopianeti. Poiché non potremo mai visitare fisicamente questi mondi lontani, dovremo affidarci a modelli basati sui dati raccolti da pianeti come Venere e la Terra per interpretare ciò che vediamo.
Il lavoro dei ricercatori americani sottolinea proprio questo punto: finché non comprenderemo appieno i processi che hanno trasformato Venere in un inferno inabitabile, resterà difficile valutare il reale potenziale di altri mondi rocciosi scoperti attorno a stelle lontane.
Conclusioni
Studiare le ExoVenere non significa solo comprendere mondi alieni, ma anche fare luce su ciò che rende la Terra così speciale. L’osservazione di questi pianeti caldi e irrequieti potrà rivelarci quanto siano frequenti le condizioni estreme e quanto siano rari gli ambienti temperati.
Grazie all’Habitable Worlds Observatory, e con il supporto delle missioni dirette verso Venere, la scienza è pronta a compiere un nuovo passo nella comprensione della diversità planetaria. E chissà: tra le centinaia di ExoVenere già individuate, potremmo trovare un giorno anche un mondo che ci racconti una storia diversa da quella di Venere — una storia dove un destino infernale è stato evitato.
Fino al 1609, qualsiasi tipologia di azione investigativa del cielo è stata condotta unicamente mediante l’uso degli occhi, pertanto ne risultava fortemente limitata in termini di magnificazione e potere risolutivo. L’impiego del cannocchiale (de facto un telescopio rifrattore) come strumento per l’indagine astronomica, rappresenta una vera e propria rivoluzione: da quel momento, l’umanità ha sempre migliorato i suoi mezzi di osservazione, sia mediante lo sviluppo di design innovativi per i propri strumenti ottici, sia introducendo materiali ed ottiche di fattura sempre più raffinate. In poco più di 400 anni, si è passati dal cannocchiale di Galileo, avente pochi centimetri di diametro, fino ai telescopi odierni, i più estesi dei quali hanno, attualmente, diametro dell’ordine dei 10 metri (come il Gran Telescopio Canarias), con progetti di strumenti ottici fino ai 39 metri (ci si riferisce, a tal proposito, all’europeo Extremely Large Telescope, la cui prima luce dovrebbe avvenire nel 2027). In effetti, l’estensione di un telescopio per l’osservazione del cielo, quantificata mediante il diametro della sua apertura, è un parametro importante in quanto influenza la quantità di luce entrante nel sistema ottico in un certo periodo di tempo, ossia la magnitudine limite degli oggetti osservabili e la risoluzione ottenibile. Non è, tuttavia, il solo parametro da tenere in considerazione. Ugualmente significativo per valutare le prestazioni di uno strumento per l’indagine astronomica è il campo di vista, o Field of View (FoV), ossia l’area di cielo osservabile tramite lo strumento stesso. Questa superficie è, in genere, quantificata mediante l’angolo solido sotteso dalla stessa e si misura in gradi quadrati o in steradianti. I più grandi telescopi on-ground per lo svolgimento di survey astronomiche non superano, in genere, poche decine di gradi quadrati: se si pensa che l’intera volta celeste osservabile da un qualsiasi sito sulla Terra, approssimata ad una semisfera, sottende un angolo solido di circa 21.000 gradi quadrati, se ne deduce come i telescopi debbano essere puntati in continuazione per portare, all’interno del proprio FoV, gli oggetti di interesse. Questo implica, come intuibile, un notevole consumo di tempo e risorse. E se si disponesse di un sistema ottico avente un campo di vista dello stesso ordine di grandezza di quello che caratterizza la volta celeste, ossia 10.000 gradi quadrati, con un’apertura di dimensioni relativamente grandi, ad esempio 1 metro? In questo caso, non si avrebbe necessità di alcun puntamento per l’individuazione di sorgenti astronomiche e astrofisiche e si disporrebbe, al contempo, di uno strumento con elevata area di raccolta dei fotoni. Proprio questa è l’idea alla base di un telescopio innovativo, chiamato con ispirazione, “MezzoCielo”.
Introduzione
Da qualche decennio, l’astronomia vive una fase caratterizzata da emozionanti scoperte ed intense trasformazioni: un esempio è offerto dalla nascita e dallo sviluppo della cosiddetta “astronomia multi-messaggera”, la quale si propone di studiare una sorgente (o un evento) analizzando in maniera coordinata le informazioni ricavabili dai segnali astrofisici che la caratterizzano, comprendenti, tra gli altri, radiazione elettromagnetica e onde gravitazionali. Numerose sono anche le sfide che l’astronomia moderna è chiamata ad affrontare. L’inquinamento rientra sicuramente in questa categoria, ma quando si parla di inquinamento in ambito astronomico, non si intende solo quello luminoso: l’abbandono nelle orbite terrestri, in particolare in quelle basse o Low Earth Orbits (LEOs), di oggetti artificiali, quali satelliti a fine vita operativa, stadi di lanciatori, propellente e così via ha dato origine ad un nuovo tipo di pollution, costituito da una nutrita popolazione di space debris o detriti spaziali. Questi detriti spaziano in un ampio range di dimensioni e orbite di collocamento e, pertanto, velocità: un “censimento” operato dall’Agenzia Spaziale Europea e reperibile nel “ESA’s Space Environment Report” del 2023 indica chiaramente che i debris orbitanti attorno al nostro pianeta con dimensione superiore a 10 cm (e fino all’ordine del metro) sono almeno 32.000, distribuiti in maniera non uniforme tra le diverse orbite, essendo la maggior parte di essi, attorno alle 20.000 unità, collocati nelle orbite basse, fino a 2.000 km dal suolo. Diversi milioni sarebbero invece i detriti con dimensione minore di 1-10 cm e gli oggetti più estesi non ancora tracciati. E, con la costruzione in orbita (pianificata o attualmente in atto) di numerose costellazioni di satelliti, la previsione per il futuro prossimo è quella di un incremento sostanziale del numero dei debris. I detriti rappresentano un problema di sempre maggiore serietà per due motivi principali: il primo è legato alla capacità della maggior parte di essi di riflettere la radiazione elettromagnetica solare e quindi di interferire con le osservazioni astronomiche condotte da terra. Il secondo deriva dalla loro elevata velocità (inversamente proporzionale alla dimensione dell’orbita) e quindi dall’energia cinetica che li caratterizza: per fissare le idee, si consideri che l’energia cinetica di un oggetto di 10 g che si muova in orbita LEO alla velocità (tipica) di 7 km/s corrisponde approssimativamente a quella associata ad una autovettura di medie dimensioni (1500 kg) che si muova a circa 65 km/h. L’impatto con un tale oggetto sarebbe potenzialmente distruttivo per qualunque satellite o velivolo non adeguatamente schermato, con annessa produzione a cascata di ulteriori debris. Immediata è la considerazione che una tale situazione, protratta sufficientemente a lungo, potrebbe dar luogo ad un ambiente spaziale così ostile da impedire l’accesso dell’umanità alle orbite esterne, con notevoli danni, oltre che per la ricerca astronomica condotta con telescopi space-based, anche per l’intera società.
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Grazie alle più avanzate simulazioni cosmologiche, un team internazionale guidato da Lucio Mayer dell’Università di Zurigo ha esplorato i processi di formazione stellare nelle galassie primordiali che popolavano l’Universo a meno di 700 milioni di anni dal Big Bang. Il lavoro, realizzato tramite la simulazione ad altissima risoluzione Massive Black PS, ha mostrato come, in regioni molto dense dell’Universo primordiale, le galassie ricche di gas abbiano dato vita a dischi compatti che, a causa di instabilità gravitazionali, si sono frammentati in densi ammassi stellari.
Le simulazioni, che raggiungono una risoluzione spaziale di appena 2 parsec, sono tra le più accurate mai realizzate nel campo della cosmologia computazionale. Questi modelli hanno rivelato che le galassie coinvolte — incluse due compagne di massa inferiore — generano dischi di gas auto-gravitanti larghi meno di 500 parsec, che si frammentano in clump (grumi) massicci. Questi clump evolvono rapidamente in ammassi stellari compatti, con masse comprese tra 10⁵ e 10⁸ M⊙ e densità superiori a 10⁵ M⊙/pc².
Sorprendentemente, gli ammassi più piccoli presentano una stretta analogia con quelli scoperti di recente dal James Webb Space Telescope (JWST) nel sistema gravitazionalmente amplificato Cosmic Gems, situato a redshift z = 10.2. L’esistenza di tali oggetti era già stata ipotizzata, ma questa simulazione ne dimostra per la prima volta la formazione realistica all’interno di galassie a dischi altamente instabili.
Una nascita turbolenta
Il cuore della scoperta risiede nel meccanismo della frammentazione del disco di gas, regolato da un parametro noto come criterio di Toomre, che valuta la stabilità di un disco galattico rispetto al collasso gravitazionale. Nelle simulazioni, le condizioni sono ideali: dischi molto densi, ricchi di gas e soggetti a turbolenze compressive che favoriscono la formazione di grumi.
I risultati si allineano con la cosiddetta “Feedback-Free Burst” (FFB) theory proposta da Avishai Dekel (Università Ebraica di Gerusalemme), secondo cui, nelle prime epoche cosmiche, il gas riesce a formare stelle in modo estremamente efficiente prima che il feedback delle supernove riesca a interrompere il processo.
Una pioggia di buchi neri
Le simulazioni suggeriscono che la densità incredibilmente alta degli ammassi stellari possa favorire la formazione di buchi neri intermedi (IMBH). Secondo modelli recenti (Fujii et al., 2024), questi oggetti nascono attraverso fusioni stellari in ambienti ultra-densi, raggiungendo masse fino a 10⁵ M⊙. Successivamente, gli IMBH migrano verso il centro della galassia fondendosi tra loro e con un eventuale buco nero centrale preesistente, dando origine a un buco nero supermassiccio (SMBH) di almeno 10⁷ M⊙.
Questo meccanismo spiegherebbe l’osservazione, sempre da parte di JWST, di buchi neri sovramassicci (più massivi del previsto rispetto alla loro galassia ospite) già a redshift z > 6, come mostrato nei lavori di Y. Harikane, R. Maiolino, M. A. Stone e M. Yue.
Le simulazioni: uno zoom nel tempo
Il progetto utilizza il codice Gasoline2 e nasce come un’evoluzione del progetto MassiveBlack (guidato da Tiziana Di Matteo e Yu Feng presso la Carnegie Mellon University). Il volume simulato è uno dei più densi conosciuti, rappresentando un picco di 4–5σ nella distribuzione di densità cosmica. Le simulazioni seguono un periodo di soli 6 milioni di anni, ma con dettaglio senza precedenti: ogni clump, ogni formazione stellare, ogni frammento di gas è modellato con precisione pari a circa 2,4×10³ M⊙.
Anche galassie relativamente piccole, come il “Halo 47”, mostrano una straordinaria efficienza nella formazione di ammassi. In questi ambienti, oltre il 30% della massa stellare si concentra in ammassi compatti, un valore straordinariamente alto rispetto alle galassie odierne. Il destino finale di questi oggetti è spesso la fusione al centro galattico, contribuendo alla crescita dei buchi neri centrali.
Uno scenario multiplo per la nascita degli SMBH
Le simulazioni evidenziano due canali principali per la crescita dei buchi neri supermassicci:
Accrescimento e fusione di IMBH generati all’interno degli ammassi ultracompatti, prevalente nelle galassie di massa media o bassa.
Collasso diretto gravitazionale (“dark collapse”) in galassie molto più massicce, in cui il buco nero nasce già con massa 10⁷ M⊙ da una super-stella instabile, come proposto da L. Zwick e L. Mayer.
Entrambi i meccanismi forniscono una spiegazione convincente per la varietà di SMBH già presenti meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang.
Il quadro che emerge da queste simulazioni, supportato da dati JWST, offre una visione coerente e affascinante della formazione delle prime strutture cosmiche. In ambienti densi, le galassie sembrano favorire una modalità esplosiva ed efficiente di formazione stellare, che non solo dà origine a stelle e ammassi, ma anche ai semi dei colossali buchi neri che oggi popolano i nuclei delle galassie.
Un evento culturale dedicato all’archeoastronomia avrà luogo venerdì 4 aprile 2025, alle ore 17, alle Fabbriche Chiaramontane in Via S. Francesco d’Assisi 1, ad Agrigento. Intitolato “L’importanza dell’archeoastronomia nelle recenti scoperte: dal cielo dell’Egitto a quello della Sicilia preistorica e di Akrágas“, l’incontro rappresenta un’opportunità unica per esplorare le connessioni tra il cielo antico e le strutture sacre delle civiltà passate, con particolare focus sulle recenti scoperte riguardanti la città di Akrágas e i suoi Templi della Collina.
L’evento, promosso dalle associazioni A.N.D.E., Fidapa e Inner Wheel di Agrigento, vedrà la partecipazione di esperti di rilievo nel campo dell’archeoastronomia. Pietro Di Martino, docente ordinario di Astronomia, aprirà l’incontro con una conferenza dal titolo “Ferro e fuoco dal cielo nell’antico Egitto“, esplorando l’importanza del cielo nella cultura egizia. A seguire, l’astrofisico Carmelo Falco discuterà della “ricostruzione del cielo antico al tempo di Akragas“, concentrandosi sul periodo VI-V secolo a.C.
Andrea Orlando, presidente dell’Istituto di Archeoastronomia Siciliana, parlerà su “L’archeoastronomia nella Sicilia preistorica“, approfondendo le connessioni tra i cieli antichi e i siti preistorici siciliani. Infine, Maria Luisa Zagretti, dottore di ricerca in archeologia, presenterà una relazione sui “Dati archeoastronomici e aspetti topografici desumibili dalla ricostruzione del cielo antico di Akragas“, mettendo in luce come le scoperte recenti abbiano rivelato nuove conoscenze sul sito di Akrágas.
L’incontro sarà coordinato e moderato da Molisella Lattanzi, direttrice di Coelum Astronomia, e offrirà ai partecipanti l’opportunità di approfondire il rapporto tra il cielo e le culture dell’antichità, creando un dialogo interdisciplinare affascinante tra scienza e storia.
L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti. Non perdere l’opportunità di partecipare a questo affascinante viaggio tra cielo, storia e archeologia!
Il Sole a disco intero in H-Alpha - 3 novembre 2024
Telescopio: SkyWatcher 70mm Refractor (1000mm focal length)
Filtro: Coronado SolarMax 40mm Filter
Camera: ZWO ASI 174 MM Camera Mosaico di 4 pannelli
CREDITS: Alessandro Carrozzi
Il 25° ciclo solare ha preso il via nel 2019 e, contro ogni previsione, ha sorpreso gli scienziati con un’intensità inaspettata. Cosa regola questi cicli e perché alcuni si comportano in modo anomalo? Dalle macchie solari alla dinamo magnetica, l’articolo esplora i misteri del Sole, svelando come il suo ritmo influenzi non solo l’astronomia, ma anche la nostra tecnologia e il futuro dell’esplorazione spaziale.
Dicembre 2019 ha rappresentato l’inizio del Ciclo Solare numero 25 ed attualmente la nostra stella si ritrova nel momento di massima attività magnetica, rispettando in buona sostanza la periodicità caratteristica di questo fenomeno, che è approssimativamente di undici anni.
Cosa determina questo susseguirsi di cicli periodici e cosa succede durante questi undici anni?
Il protagonista indiscusso di questo fenomeno è il campo magnetico, generato dal processo della dinamo solare. Possiamo immaginare questo campo magnetico in una ideale situazione di “partenza” (come appunto quella di dicembre 2019) in una ordinata configurazione polare, che ricorda quella tipica del campo magnetico terrestre, con le linee di forza che escono da un polo e rientrano nell’altro. La struttura fisica del Sole però è quella di un plasma e quindi ben diversa dalla struttura di un pianeta. Sulle linee del campo magnetico agiscono sia la rotazione differenziale, per la quale il plasma all’equatore ruota più velocemente rispetto ai poli, sia i moti ascensionali convettivi. La rotazione differenziale modifica il campo magnetico portandolo dalla configurazione poloidale ad una toroidale. I tubi di flusso del campo toroidale sono trascinati in fotosfera dai moti convettivi e possono emergere così come strutture magnetiche sotto forma di coppie di macchie solari scure1 (accompagnate però anche da strutture brillanti), che aumentano di numero e di area superficiale. Dopo il massimo di attività inizia
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Un nuovo studio internazionale mette alla prova la stabilità delle leggi fondamentali della fisica osservando la galassia di Andromeda. A condurre la ricerca un team di astrofisici guidato da Renzhi Su, in collaborazione con Tao An, Stephen J. Curran, Michael P. Busch, Minfeng Gu e Di Li, provenienti da diverse istituzioni di primo piano, tra cui l’Osservatorio Astronomico di Shanghai (Shanghai Astronomical Observatory) e l’Accademia delle Scienze cinese (Chinese Academy of Sciences).
Le costanti della fisica sono davvero “costanti”?
Una delle grandi domande della fisica moderna è se le cosiddette costanti fondamentali, come la costante di struttura fine o il rapporto tra la massa del protone e quella dell’elettrone, siano davvero immutabili. Alcune teorie avanzate, come la teoria delle stringhe o la gravità quantistica, ipotizzano che queste costanti possano variare nel tempo o nello spazio, seppur in modo minimo.
Confermare o smentire queste variazioni può aiutarci a capire meglio l’universo e, forse, a fare luce sulla natura quantistica della gravità, ancora oggi una delle grandi incognite della fisica teorica.
Uno sguardo indietro di 2,5 milioni di anni
Per testare questa ipotesi, il team ha puntato i radiotelescopi verso una delle nostre galassie vicine: Andromeda (M31), distante da noi circa 2,5 milioni di anni luce. Significa che la luce (e le onde radio) che riceviamo oggi da quella galassia ci mostrano com’era 2,5 milioni di anni fa.
Utilizzando il Green Bank Telescope negli Stati Uniti, gli scienziati hanno osservato con altissima precisione le emissioni radio di due molecole molto comuni nello spazio: l’idrogeno neutro (H I) e l’ossidrile (OH). Le loro frequenze di emissione sono note con estrema precisione in laboratorio, quindi eventuali differenze osservate nel passato avrebbero potuto rivelare variazioni nelle costanti fisiche.
Risultato? Le costanti restano costanti
Dopo decine di ore di osservazione e una lunga analisi statistica, il team ha potuto concludere che non ci sono segni evidenti di variazione nelle costanti fondamentali. Le eventuali differenze sono talmente piccole da essere entro i margini di errore, con precisioni fino a una parte su un milione.
In particolare, gli scienziati hanno verificato che:
Il rapporto tra le costanti analizzate non è cambiato significativamente in 2,5 milioni di anni.
Le possibili variazioni, se esistono, sono inferiori a quanto previsto da alcune teorie alternative.
Un ponte tra esperimenti terrestri e l’universo primordiale
Fino ad oggi, i test sulla stabilità delle costanti erano stati condotti in laboratorio (su scale di anni) o guardando l’universo lontanissimo (fino a 13 miliardi di anni nel passato). Ma mancava un tassello importante: i tempi intermedi, come quelli delle dinamiche galattiche, cioè milioni di anni. Questo studio riempie proprio quel vuoto, offrendo un nuovo punto di riferimento nella ricerca.
L’approccio usato dal team – osservazioni simultanee di righe spettrali diverse nella stessa zona di una galassia – si è rivelato particolarmente potente per ridurre gli errori sistematici e aumentare l’affidabilità dei risultati. E con l’arrivo di strumenti ancora più sensibili, come il futuro Square Kilometre Array (SKA Observatory), sarà possibile estendere questi test ad altre galassie e tempi ancora più remoti.
Una galassia quasi invisibile, scoperta per caso nel progetto IAC Stripe 82 Legacy, sta mettendo in discussione uno dei pilastri della cosmologia moderna: la materia oscura fredda. Si chiama Nube, ed è una galassia nana estremamente diffusa e piatta, con caratteristiche così peculiari da non poter essere spiegate dai modelli standard.
Le osservazioni, realizzate con il Green Bank Telescope da 100 metri e il Gran Telescopio Canarias da 10,4 metri, hanno rivelato che Nube possiede una massa stellare di circa 3,9 × 10⁸ masse solari, e una massa dinamica molto più grande, circa 2,6 × 10¹⁰ masse solari, entro un raggio di 20,7 kiloparsec (M. Montes et al., 2024). Tuttavia, ciò che colpisce è la sua densità stellare superficiale sorprendentemente bassa (circa 2 masse solari per parsec quadrato), molto inferiore rispetto a qualsiasi altra galassia nana conosciuta.
Anche l’estensione di Nube è insolita: il suo raggio effettivo supera quello di molte galassie ultradiffuse (UDG), pur avendo una massa stellare simile. Inoltre, la galassia si trova in una posizione relativamente isolata, a circa 435 kpc dal suo probabile alone ospite, UGC 929, e non mostra segni di interazioni gravitazionali forti, come distorsioni mareali. Questo rende ancora più difficile spiegarne l’origine con il modello standard di materia oscura fredda (CDM).
Una nuova ipotesi: la materia oscura “sfocata”
Un gruppo di ricercatori guidato da Y. M. Yang et al. (2024) ha esplorato un’alternativa: la fuzzy dark matter (FDM), o materia oscura “sfocata”. Si tratta di una forma teorica di materia oscura composta da particelle ultraleggere (massa ≈ 10⁻²³ eV), che si comportano come onde su scale galattiche. Queste onde creano fluttuazioni nel campo gravitazionale, capaci di “scaldare” dinamicamente le stelle e distribuirle in modo più diffuso.
Utilizzando simulazioni numeriche evolute per oltre 10 miliardi di anni – l’età stimata di Nube – il team ha ricreato l’effetto del riscaldamento dinamico causato dalla FDM. Per farlo, hanno usato la tecnica di decomposizione in autostati quantistici per costruire il profilo iniziale dell’alone FDM e fatto evolvere il sistema con il software PyUltraLight (F. Edwards et al., 2018), basato sulle equazioni di Schrödinger–Poisson.
Le simulazioni hanno mostrato che, con un profilo coerente con la massa dinamica di Nube, la distribuzione stellare simulata riproduce sorprendentemente bene i dati osservativi, soprattutto nel Modello-1, che utilizza un valore di massa della particella di FDM di 10⁻²³ eV.
I risultati rafforzano l’ipotesi che la FDM possa essere responsabile della struttura estrema di Nube. Secondo gli autori, molte galassie isolate e povere di materia ordinaria non sono abbastanza vecchie da mostrare lo stesso effetto: il riscaldamento richiede tempo. Nube, invece, potrebbe essere il banco di prova ideale.
Studi precedenti avevano già suggerito una massa simile per le particelle di FDM per spiegare fenomeni come le curve di rotazione delle galassie nane o la distribuzione dei globuli in Fornax. Tuttavia, alcuni vincoli provenienti da osservazioni come la foresta Lyman-α o le funzioni di massa delle sottostrutture sembrano richiedere masse maggiori, anche se sono ancora oggetto di dibattito.
La distribuzione anomala delle stelle in Nube potrebbe essere la prima firma osservativa concreta della FDM. Se confermata, questa teoria rivoluzionerebbe la nostra comprensione della materia oscura e dell’evoluzione delle galassie.
I ricercatori sottolineano che future osservazioni – soprattutto in regioni ancora troppo deboli per essere rilevate – potrebbero confermare la presenza di stelle spinte oltre i 13 kpc da un centro galattico che si comporta come un “solitone” oscillante. Questo permetterebbe di testare in modo definitivo la validità della FDM come candidata alla materia oscura.
Il progetto ASTRI (Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana) rappresenta un’importante innovazione nell’astronomia dei raggi gamma, con particolare attenzione alla radiazione Cherenkov ad alta energia. Ispirato dalle idee pionieristiche di Guido Horn d’Arturo, il progetto impiega telescopi con specchi a struttura segmentata per studiare le particelle cosmiche ad altissime energie. ASTRI si inserisce nel contesto più ampio dell’osservatorio CTAO, mirando a esplorare energie tra 1 TeV e 100 TeV, e si distingue per l’uso di telescopi di piccole dimensioni in grado di osservare le docce di particelle prodotte da fotoni gamma estremamente energetici. Con il suo design avanzato, che include il sistema ottico Schwarzschild-Couder e fotocamere al silicio, ASTRI si prefigge di risolvere enigmi astrofisici come l’eccesso di raggi gamma dal centro galattico e la ricerca di “PeVatrons” — oggetti capaci di accelerare particelle fino a energie petaelettronvolt. Inoltre, ASTRI si inserisce in un contesto internazionale di ricerca multimessaggera, collaborando con progetti come MAGIC e LHAASO, e contribuendo a una comprensione più profonda dei fenomeni astrofisici estremi e della materia oscura. Il progetto, che prosegue la tradizione italiana nell’astrofisica, offre una nuova finestra sul cosmo, con il futuro osservatorio di Tenerife pronto a svelare nuovi segreti dell’Universo.
Quando si guarda con attenzione il James Webb Space Telescope, la prima cosa che colpisce è la struttura modulare del suo grande specchio primario, suddiviso in segmenti esagonali. Dietro questa soluzione ingegnosa esiste una vicenda affascinante che ha come protagonista Guido Horn d’Arturo, personalità essenziale nello sviluppo di alcune tra le idee più avanzate dell’astrofisica osservativa attuale. Fu infatti egli che, negli anni Trenta, ebbe l’intuizione di suddividere i grandi specchi monolitici per telescopi in superfici tassellate, rendendo possibile la realizzazione di grandi aree riflettenti riducendo i costi. Non è un caso che il suo nome sia ben conosciuto dagli studiosi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), impegnati oggi nel progetto ASTRI, acronimo di “Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana”: delle spettacolari superfici a specchio di grande dimensione specificatamente progettate per raccogliere e per studiare la radiazione Cherenkov nell’ultravioletto e visibile generata dall’interazione dei raggi gamma provenienti dalle profondità cosmiche e i raggi cosmici stessi.
Nel 2017, la camera Cherenkov montata sul primo telescopio prototipale del progetto, installato nel sito di Serra La Nave sull’Etna, presso Catania, ottenne la sua prima luce. Il telescopio fu significativamente chiamato “ASTRI Horn” in omaggio a Horn d’Arturo, essendo lo specchio primario a struttura segmentata come quella concepita nel 1935. Nel 2022 è stato completato sul vulcano Teide, a Tenerife, ASTRI-1, il primo telescopio dei nove previsti per il sito osservativo. Ma di cosa si tratta esattamente quando parliamo di ASTRI? E quali obiettivi scientifici si prefigge questo nuovo esperimento, pensato per indagare i fenomeni più energetici del cosmo grazie al rilevamento della radiazione Cherenkov?
L’apertura di una nuova finestra sul cosmo ad alta energia
La radiazione Cherenkov, scoperta a metà degli anni Trenta da Pavel Cherenkov (1909-1990), si manifesta quando una particella carica viaggia in un mezzo denso (per esempio l’atmosfera) a una velocità di fase superiore a quella consentita alla luce nello stesso mezzo. Questo curioso effetto è responsabile, ad esempio, del bagliore bluastro che si nota nei reattori delle centrali nucleari, quando una particella beta (cioè un elettrone) è rilasciata a velocità relativistica nelle vasche di raffreddamento: si crea quindi una sorta di analogo elettromagnetico del “bang” supersonico dei jet militari. Infatti, quando la particella supera il “muro” della velocità della luce nel mezzo, si produce esattamente lo stesso cono d’onda equivalente al cono di Mach prodotto quando un aereo o un proiettile supera il muro del suono. L’effetto Cherenkov che osserva ASTRI però è diverso, ed è prodotto da fotoni gamma ad altissima energia (nella regione del teraelettronvolt) che giungono sulla Terra e impattano contro gli atomi della nostra atmosfera, creando sciami di coppie elettrone-positrone in grado di indurre l’emissione di una grande quantità di fotoni Cherenkov. I telescopi di questo tipo (specificatamente quelli del progetto CTAO) possono registrare anche l’arrivo di raggi cosmici: in questo caso, le particelle adroniche (in gran parte protoni e, talvolta, nuclei atomici) hanno una interazione con l’atmosfera più complessa, che comporta anche la produzione di altre particelle come pioni e muoni. In entrambi i casi, grazie all’effetto Cherenkov, vengono prodotti bagliori bluastri di forma caratteristica, di fatto non percepibili dall’occhio umano: sono fenomeni di brevissima durata anche dell’ordine di nanosecondi o alcune decine di nanosecondi al massimo. È un processo tanto spettacolare quanto effimero e, per decenni, la sua fugacità ha reso estremamente complesso l’utilizzo della tecnica Cherenkov in atmosfera per lo studio dei raggi gamma di origine celeste e dei raggi cosmici che giungono sul nostro pianeta.
Progetti come ad esempio MAGIC, CTAO (Cherenkov Telescope Array Observatory) e, appunto, ASTRI, stanno aprendo nuovi scenari osservativi grazie a telescopi con specchi primari molto grandi e fotocamere rapidissime, in grado di “catturare” questi istanti di luce e decifrarne i segreti. Il processo chiave consiste nell’analisi dettagliata dell’immagine della cascata di particelle che si sviluppa quando un raggio cosmico o gamma interagisce con le molecole atmosferiche. Sebbene il fenomeno avvenga in pochi miliardesimi di secondo, la sua forma conica e la distribuzione dei fotoni Cherenkov conservano informazioni preziose sull’energia e sulla natura dell’oggetto che ha innescato lo sciame. Studiando la geometria e l’intensità del bagliore, il tasso di fotoni emessi, la durata e la forma della curva di emissione, diventa possibile ricostruire con precisione le caratteristiche dell’impulso cosmico originario.
Cascata elettromagnetica prodotta dall’impatto di un raggio cosmico con l’atmosfera credit ASPERA Novapix L. Bret
Un progetto complementare a CTAO
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Che serata, che emozione! Finalmente tra poco inizia la grande festa di Halloween organizzata dalla regina Cassiopea, l’evento mondano di fine estate di cui si parla su tutti i giornalini di gossip da settimane.
Cassiopea, regina di tutte le regine, la grande Cassiopea, bellissima, potentissima, famosissima… ma che, in realtà, dovete sapere, è anche annoiatissima! Tutto il giorno sta seduta sul suo trono a guardarsi nello specchio. Tutto il giorno non fa niente altro che attendere di tornare a testa in su, perché che fastidio stare girata sottosopra per ore e ore! Che noia… e che mal di testa!
“Basta con questo noioso girotondo!” Ha gridato stizzita una mattina che si era svegliata con una terribile emicrania. “Basta! Basta! Basta! Anche io mi voglio divertire!” Ed è stato così che, per spezzare la noia, la regina Cassiopea ha voluto organizzare una grandiosa festa di Halloween nella sua reggia, lassù sopra le nuvole, in mezzo alle stelle. Per l’occasione ha addobbato il suo castello personalmente con chili di ragnatele di zucchero, fumi pazzeschi e nebbie spettrali, suoni lugubri e musiche da brivido e tante tante zucche! Con le zucche ha deciso di illuminare il viale di accesso alla reggia, perché tutte le costellazioni sono invitate alla festa e il cielo rimarrà sgombro di stelle. Cassiopea ha deciso che per una sera vuole dimenticare gli affanni e ballare, e divertirsi, così ha invitato tutti quanti.
Naturalmente ci sono suo marito, il re Cefeo, e la loro figlia, la principessa Andromeda, e poi quel fusto di Ercole, Orione il super bello, i giovani palestrati Gemelli, quella smorfiosa della Vergine, l’eroe Perseo che porterà la fidanzata, Medusa dallo sguardo pietrificante, le sette sorelle Pleiadi, il cavallo Pegaso, l’Auriga sul carro di fuoco, il Bifolco (o Bovaro) con le Orse (Orsa Maggiore e Orsa Minore)… e, ospiti d’eccezione, i terrificanti mostri del cielo: l’Idra dalle cento teste, il mostro marino Balena, il velenoso Scorpione e il feroce Drago.
Tutti gli ospiti sono rigorosamente vestiti in maschera per l’occasione! La bella Cassiopea è vestita da strega, con tanto di cappello a punta e l’immancabile specchio in mano! Che festa incredibile, ci sono proprio tutti! Si, tutti quelli che appartengono a qualche costellazione, ma… Gatto nero, Ragno e Pipistrello? Non sono stati invitati!
Infatti, non hanno costellazione, quindi niente festa! E i tre si sono davvero offesi, proprio loro che sono l’anima di Halloween non possono partecipare al grande evento. Impossibile!
“Vendetta, tremenda vendetta!” sibila tra i denti Gatto nero col pelo tutto ritto dalla rabbia, mentre Ragno, che è un tipo un po’ strano, sbava lanciando fili di ragnatele dappertutto mentre borbotta parole incomprensibili, e Pipistrello svolazza a zig zag in tutte le direzioni in preda all’agitazione senza smettere di fischiare e sibilare…
Mentre la festa impazza e la musica a tutto volume si sente in tutta la Galassia, i tre decidono di andare al bar per bere qualcosa che li aiuti a digerire l’offesa. Sono lì che confabulano tra un sorso e l’altro del cocktail “Pozione stregata di Halloween”, parlottando e complottando, e così, dopo un po’, forse con la mente annebbiata dall’alcol, escogitano uno scherzetto per quell’antipatica regina del piffero che non li ha invitati: ruberanno tutte le zucche che Cassiopea ha disposto lungo il viale di accesso alla sua reggia e le faranno sparire!
Dovranno rimanere tutti al buio, allora sì che avranno una bella paura, una paura da morire! Che bello scherzetto! I tre, compiaciuti e barcollanti, vanno nel garage a prendere il Grande Carro e si mettono all’opera raccogliendo tutte le zucche sparse per il cielo. Passano le ore e ad un certo punto sorge la Luna, una bella luna piena che sale splendente e radiosa nel cielo, ma… qualcosa non va… le stelle sono sparite! “Ohibò! Dove sono andate?” si chiede la luna guardandosi intorno nel buio più assoluto di una notte senza stelle. Senza capire e sentendosi un po’ sola, si ricorda che è la notte di Halloween, così decide di andare a cercare qualcosa che illumini il cielo. Rovistando in soffitta, trova dei vecchi fantasmini, zucche, pipistrelli e ragni di una passata festa.
Sono tutti cosparsi di brillantini, possono fare al caso suo. Comincia a lanciarli nel cielo, ma non viene un bell’effetto… Per forza! Le stelle, nel cielo, non sono messe senza un ordine, ci sono le costellazioni e ognuna ha il suo posto ben preciso!
Così comincia a posizionare nel cielo le figurine secondo disegni ben precisi, i disegni delle costellazioni di Halloween, ed ecco che appaiono Gatto nero, Ragno, Fantasma, Pipistrello: che magia il cielo finalmente è illuminato!
I nostri amici, rimasti esclusi dalla festa, stravolti dalla fatica spingono il Grande Carro sempre più pesante per la quantità di zucche raccolte, quando improvvisamente vedono apparire le nuove costellazioni, ed è tale la meraviglia che la loro rabbia si dissolve. Anche Cassiopea vede le nuove costellazioni apparire nel cielo e invita i tre amici ad unirsi alla festa.
Adesso sì che la festa è una vera festa! Buon Halloween a tutti.
Testo di Laura Saba
Illustrazioni di Guido Marchesini
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C’era una volta una strega che abitava nel bosco incantato…
La strega si chiamava Estrella.
A Estrella piaceva abitare nel suo bosco magico, pieno di grandi fiori profumati che chiamava per nome e, di notte, pieno di stelle: con loro parlava e faceva lunghe chiacchierate sul trascorrere del tempo, sulla Terra che gira come una trottola e sul Sole che brucia come un forno per il pane.
Di giorno, la strega, nel suo pentolone preparava le pozioni magiche come le “gocce che profumano i fiori come fossero torte e biscotti”, la “polvere simpatica: per attaccare le punte delle stelle quando si rompono”, le “caramelle trasmutanti ai mille gusti: quando le mangi, diventi un rospo, un ragno, un corvo…” ; ma soprattutto amava profondamente i suoi gatti. Ne aveva tre: Biscottino, una gattona color albicocca, pigra e dormigliona; Camillo, un maschio tenerone, color grigio cenere, cacciatore e giramondo; e Ombra, la più piccola, tutta nera, furba come un leprotto ma monella come un bambino.
Un giorno, mentre lavorava ad una pozione magica per guarire le stelle quando hanno mal di testa e perdono lo scintillio, dal cielo cominciarono a cadere dei bigliettini colorati: all’inizio solo qualcuno, poi sempre più fitti, a centinaia, come una pioggia colorata. La strega raccolse un bigliettino, poi un altro e un altro ancora. Tutti riportavano lo stesso messaggio: “Estrella!!! Nel cielo una gran confusione, le costellazioni si azzuffano, si spintonano e si tirano i capelli! Vieni subito!” Firmato: le stelle.
Estrella prese allora la sua scopa volante, chiamò i gatti, li sistemò nel carrellino e partì alla volta del cielo, puntando la stella del Nord e controllando la strada sulla mappa siderale che teneva ben stretta in mano. Non voleva perdersi, aveva fretta di arrivare dalle sue amiche stelle per aiutarle a risolvere la situazione.
Il viaggio fu un po’ lungo, la Via Lattea era trafficata a quell’ora di punta e a causa del fondo sconnesso, i gatti traballavano nel carrellino e brontolavano per gli scossoni.
Arrivata nel cielo, Estrella restò di stucco! Vide le costellazioni tutte aggrovigliate in una rissa furibonda e dalla confusione che facevano non si capiva niente.
Le stelle erano disperate, nessuna trovava più il suo posto, nessuna sapeva quando doveva apparire nel cielo e quando tramontare. La tranquillità delle notti stellate sembrava persa per sempre. Ma qual è il problema, si chiese Estrella. Sembra che per colpa delle nuvole che avevano oscurato il cielo per diverse notti di seguito, le costellazioni avessero smarrito il loro posto e adesso volessero essere presenti sulla volta celeste tutte insieme nello stesso momento, cosa che non è proprio possibile.
Questo è davvero un grosso pasticcio pensò la strega, come si fa a riportare l’ordine?
A Estrella serviva un consiglio, così convocò in assemblea le Quattro Stagioni mandando i suoi gatti ai confini del mondo perché consegnassero la richiesta di aiuto. Le Stagioni sono sagge, governano la Terra da tanto tanto tempo, certamente potranno aiutare Estrella a trovare una soluzione.
Primavera, Estate, Autunno e Inverno si presentarono all’istante e, dopo una lunga consultazione con la strega, decisero di suddividere le costellazioni in quattro gruppi. Ogni Stagione si mise a capo di un gruppo di costellazioni che avrebbero potuto splendere nel cielo nel periodo dell’anno corrispondente alla presenza di quella Stagione, sulla Terra. Così, a rotazione, sarebbero state tutte visibili.
A Estrella sembrò una buona soluzione e, felice di avere riportato l’ordine, salutò le amiche stelle e si preparò a fare ritorno a casa. Ma le stelle ebbero un’altra richiesta per la strega prima della sua partenza: volevano infatti che qualcuno vegliasse sulle costellazioni, affinchè non accadesse mai più un altro pasticcio.
Estrella ripartì con questo pensiero in testa…
Estrella era con i suoi amati gatti che le si strusciavano alle gambe, di nuovo nella tranquillità del suo bosco, e girava, girava il romaiolone nel pentolone mentre pensava a chi potesse essere in grado di tenere sotto controllo le costellazioni. Mentre era distratta dai suoi pensieri, la pozione cominciò a bollire, a fare le bolle come la polenta, finché una bolla più grossa delle altre, del colore bianco giallognolo, salì verso l’alto. Sgocciolando e dondolando andò a piazzarsi nel mezzo del cielo. “Guarda che bella bolla!”, pensò Estrella, mentre la osservava ondeggiare verso l’alto.
Evviva, applaudirono le stelle, vedendo arrivare la grossa bolla traballante. Ecco chi potrà sorvegliare sulla pace del cielo: una Luna piena, bianca e luminosa, che porta gioia nel cielo e sogni a tutti i bambini.
Testo di Laura Saba
Illustrazioni di Guido Marchesini
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Dal numero 272 di Coelum Astronomia prende il via una nuova serie di buffe avventure animalesche dedicate ai più piccoli. L’autrice è una conoscenza di Coelum, Laura Saba, che torna a parlare di astronomia con un linguaggio semplice e divertente. Le puntate sono a volte pubblicate su Coelum cartaceo altre online, per queste ultime è sempre disponibile la funzione stampa oppure “salva in pdf”.
Presentazione
Prima di essere chiamato da Zeus tra le stelle, GattoBuio per molti anni ha prestato servizio come sorvegliante del cortile dell’Istituto per Geometri G. Salvemini di Firenze. Non si conoscono di preciso le sue origini, molto probabilmente è nato in qualche giardino limitrofo alla scuola e poi si è spostato nel grande e tranquillo cortile lontano dalla strada. Lì ha stretto amicizia col custode e con la bibliotecaria dell’istituto scolastico che gli portavano da mangiare tutti i giorni e controllavano che stesse bene. La mattina, il gatto, con la sua discreta presenza, sorvegliava l’ingresso degli studenti nell’edificio scolastico, tenendosi a debita distanza dagli zaini, dalle scarpe da ginnastica che andavano di fretta e da spintoni involontari. Alle 14.00, al suono dell’ultima campanella, ne controllava la regolare uscita, accompagnando i ritardatari fino fuori dal cancello. In cambio di quell’incarico di responsabilità, sapeva che poteva contare su due pasti al giorno, tutti i giorni, festivi compresi.
Alle volte, durante l’inverno, se faceva particolarmente freddo, andava ospite per una notte o due, in casa della signora del civico 25, che, rimasta sola e in là con l’età, era sempre contenta di avere compagnia. Ma GattoBuio non era tipo da appartamento, lui era nato libero e dopo poco se ne tornava per strada e nel suo cortile tranquillo dietro la palestra della scuola, a respirare la sua amata libertà, che fosse freddo polare o caldo africano.
Molti anni dopo, quando GattoBuio era sicuramente già in età di pensione, anche se continuava a presidiare con regolarità ingresso e uscita degli studenti, durante un inverno particolarmente rigido, si buscò un brutto raffreddore, cominciò a tossire e a respirare con fatica.
Allarmati dalle sue condizioni di salute, noi dipendenti del Museo adiacente alla scuola, in accordo con il custode e la bibliotecaria, decidemmo di portarlo dal veterinario.
“Questo gatto è vecchietto e ha bisogno di dormire al coperto, non può più fare la vita da randagio per la strada!” Sentenziò il dottore. E così GattoBuio fu accolto nel Museo, dove è stato curato per il raffreddore, coccolato, ha trovato una cuccia calda e cibo. Contento della nuova sistemazione, ha cambiato mansione ed è diventato ‘aiuto segretario’ con tanto di autorizzazione alla libera circolazione in tutte le stanze al piano degli uffici. I giorni lavorativi li passava acciambellato su qualche scrivania tra la tastiera e il monitor del computer o sul davanzale della finestra al sole.
@ Guido Marchesini
Nel fine settimana, a Museo chiuso, scendeva le scale dagli uffici alle cantine e andava in perlustrazione tra gli scatoloni polverosi del deposito degli strumenti e delle carte antiche, annusando dappertutto e uscendo poi tutto pieno di fili di ragnatele appiccicati ai baffi, al naso e alle orecchie, polveroso come uno straccetto, ma soddisfatto delle sue meticolose esplorazioni.
Il nome GattoBuio se lo è conquistato proprio quando lo cercavamo nelle stanze della cantina, perché essendo tutto nero, non c’era modo di vederlo fino a che lui decideva che era ora di tornare in ufficio ad occupazioni più pulite e professionali.
Durante un’estate molto molto calda, GattoBuio non stava affatto bene ed eravamo tutti davvero tanto preoccupati per la sua salute. Sapevamo che un giorno ci avrebbe lasciati, ma eravamo troppo affezionati per accettare la separazione. Per fortuna anche nei momenti più tristi possono accadere cose straordinarie. Ed è stato così, che mentre GattoBuio chiudeva gli occhi, una piccola pioggia di polvere di stelle è caduta dal cielo e si è posata sulla sua pelliccia color buio, rendendolo magico e donandogli una nuova vita.
Adesso ha una bella cesta sul margine della Via Lattea dove può riposare indisturbato, in caso di necessità aiuta Zeus nella gestione delle questioni di stelle e costellazioni, se ne va a suo piacimento a zonzo per il cielo a trovare i suoi amici pianeti e la stella Polare e presiede la rubrica ‘AstroRacconti dalle stelle’ che vengono pubblicati sulla rivista Coelum Astronomia.
Gli AstroRacconti sono brevi favole che arrivano dalle stelle, in cui elementi astronomici e mitologia si incontrano, si intrecciano, al fine di trasmettere curiosità scientifiche sul cielo in compagnia di eroi, eroine, dei, dee, animali fantastici e delle loro avventure.
Il 30 marzo 2025 segna una data storica per l’industria spaziale europea: il razzo Spectrum di Isar Aerospace ha completato con successo il suo primo volo di prova, diventando il primo veicolo orbitale a decollare dall’Europa continentale. Il decollo è avvenuto dallo Andøya Spaceport in Norvegia, un’area strategica che si è rivelata cruciale per questo evento senza precedenti.
Alle 12:30 PM CEST, il razzo Spectrum ha acceso il suo primo stadio, decollando verso lo spazio. In soli 30 secondi di volo, il veicolo ha raggiunto gli obiettivi prefissati, consentendo agli ingegneri di raccogliere dati fondamentali per il futuro sviluppo delle missioni spaziali. Dopo il volo, il razzo è stato terminato a T+30 secondi e ha effettuato un atterraggio controllato in mare, grazie a precise procedure di sicurezza.
Il volo di prova, pur avendo una durata di soli 30 secondi, rappresenta un traguardo fondamentale per l’accesso europeo allo spazio. Per la prima volta, un razzo orbitale è stato lanciato con successo da un sito europeo, dimostrando le capacità tecniche e logistiche di questo nuovo spazioporto. Il successo dell’operazione è una testimonianza della crescente competitività dell’Europa nel settore spaziale e dell’impegno verso una maggiore indipendenza nel lancio di satelliti.
Il lancio non solo ha testato il razzo Spectrum, ma ha anche permesso di raccogliere un’importante quantità di dati di volo. Questi saranno analizzati nei prossimi giorni per perfezionare i sistemi del razzo e prepararli per missioni future. Sebbene il volo abbia avuto una durata breve, l’esperienza acquisita è destinata a giocare un ruolo cruciale nel miglioramento dei lanci successivi e nell’espansione delle capacità di lancio satellitare.
La rampa di lancio rimane intatta, il futuro è già in produzione
Un altro aspetto significativo dell’evento è che la rampa di lancio dello Andøya Spaceport è rimasta intatta e pronta per nuovi lanci. Nonostante il breve volo del razzo, l’infrastruttura ha dimostrato di essere all’altezza delle sfide di un lancio orbitale. Attualmente, i razzi per i voli n. 2 e n. 3 sono già in fase di produzione, con il prossimo obiettivo di rendere operativo il razzo per lanci su larga scala.
La Norvegia ha giocato un ruolo chiave in questa realizzazione, essendo stata il paese ospitante del Andøya Spaceport. La missione ha ricevuto il sostegno della Norwegian Civil Aviation Authority (NCAA), che ha concesso la licenza di operatore di lancio per il primo volo di prova orbitale. Inoltre, la Norwegian Space Agency (NOSA) ha siglato un contratto con Isar Aerospace per il lancio di satelliti nell’ambito del programma Arctic Ocean Surveillance (AOS), segnando una nuova collaborazione internazionale.
La sequenza degli scatti del lancio è a cura di Ezio Cairoli che ha immortalato l’evento in diretta domenica 30 marzo dallo spazio porto di Andøya.
Il razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliIl razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliIl razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliIl razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliIl razzo Spectrum prima del lancio @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio CairoliLe fasi di caduta @Ezio Cairoli
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