Un innovativo hardware sviluppato dalla NASA accorcerà finalmente le distanze tra il polveroso pianeta rosso e noi.
Il progetto è stato sviluppato dal Marshall Space Flight Center a Huntsville in Alabama.
Il sistema informatico rientra all’interno della campagna Mars Sample Return, un missione storica che ha il compito di recuperare campioni del suolo marziano, voluta da una partnership strategica tra NASA ed ESA. La project manager dell’iniziativa è Angie Jackman, la quale ha trascorso più di 35 anni alla guida di alcuni dei più avanzati progetti di propulsione e di ingegneria spaziale.
Angie Jackman, manager del progetto Mars Ascent Vehicle (MAV), possiede un modello stampato in 3D dei cilindri che il rover Perseverance della NASA sta già riempiendo con campioni di roccia e suolo marziano. Credit: NASA
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Rover a caccia di terra rossa
Il Marsh Ascent Vehicle è destinato ad essere il primo razzo mai lanciato dalla superficie di un altro pianeta.
Lo scopo della sua missione sarà quello di lanciare in orbita attorno a Marte i campioni raccolti dal rover Perseverance dall’antico cratere piano che quest’ultimo sta esplorando.
Il team dietro a questo progetto, voluto dalla stessa Jackman, comprende ingegneri strutturali, termici, meccanici, dei sistemi e della propulsione. Un gruppo quindi molto eterogeneo di veterani della NASA, che hanno sviluppato una grande familiarità tra l’hardware di volo del veicolo spaziale e il progresso scientifico.
Rappresentazione artistica del Mars Ascent Vehicle (MAV) della NASA, che trasporterà i cilindri contenenti rocce marziane e campioni di suolo in orbita attorno a Marte, dove la navicella spaziale Earth Return Orbiter dell’ESA li racchiuderà in una capsula di contenimento altamente sicura e li consegnerà sulla Terra. Credits: NASA
«Chiedi a qualsiasi ingegnere del team e ti risponderà che la scienza lo affascina», afferma Jackman, «Qui l’imperativo che guida tutti è l’orgoglio di aiutare a far avanzare la nostra conoscenza collettiva e aumentare la nostra capacità di navigare in sicurezza nel nostro mondo, per capire meglio il nostro posto nel cosmo».
Infatti, nel tentativo di cercare di migliorare costantemente, il team sta collaborando anche con il Lockheed Martin Space di Littleton, che sta costruendo il sistema integrato del Mars Ascent Vehicle e progettando l’equipaggiamento di supporto a terra del razzo.
«Insieme stiamo lavorando per trasformare il Mars Ascent Vehicle da un concetto da tavolo da disegno a un progetto eseguibile», aggiunge Jackman, «Abbiamo progettato di ridurre la massa del veicolo, garantire la capacità di lancio automatizzato e raggiungere con precisione l’orbita necessaria per incontrarsi con l’Earth Return Orbiter e trasferire i campioni per il volo di ritorno sulla Terra».
Anni di esperienza
Come la maggior parte dei più esperti manager aerospaziali, Jackman ha raccolto anni di ricerche all’interno della NASA, per poi spingere il suo team a cercare nuove sfide.
«In questa era competitiva e attenta ai costi, dobbiamo lavorare in modo più intelligente, più veloce e più efficiente», conclude la Jackman, «La cosa fondamentale è avere un ponte grande e robusto, con un team di ingegneri disciplinato per rispondere in modo rapido ed efficiente. Sono infatti molto orgogliosa della nostra squadra».
La missione Mars Sample Return della NASA rivoluzionerà la nostra comprensione di Marte restituendo campioni che verranno studiati con gli strumenti più sofisticati di tutto il mondo. I frammenti di suolo raccolti si ritengo infatti di estrema importanza per comprendere come Marte si evoluto nel tempo.
A partire dal prossimo week end lo staff di Coelum partirà per il tour in giro per l’Italia 🚴🚴🚴 un’occasione per incontrare i lettori e il pubblico appassionato di Astronomia.
In questo fine inverno piuttosto “freddino” Coelum ha accetto l’invito di alcune realtà commerciali in attesa di festival e serate astronomiche calde ed accoglienti!
Se siete nelle Marche e in Abruzzo (o di passaggio) lo Staff di Coelum vi aspetta a:
Chieti il 12/13 marzo presso il cc. Centro d’Abruzzo 👈 Ascoli il 19/20 marzo presso il cc. Città delle Stelle 👈 San Benedetto del Tronto il 02/03 aprile presso il cc. Portogrande 👈
Animazione con la Realtà Virtuale
Durante il week-end nella mattina dalle ore 10:00 alle 12:30
e nel pomeriggio dalle ore 15:00 alle ore 19:00
sarà possibile vivere l’esperienza CosmoExperience “Viaggio virtuale nell’Astronomia” con i visori della Realtà Virtuale, adatto a grandi e piccoli. Ingresso gratuito su prenotazione.
Per prenotazioni contattare il servizio clienti del centro commerciale di riferimento.
È l’alba del 2 marzo e il Sole regala questo spettacolo all’autore degli scatti, Giacomo Venturin
Sono due i green flash immortalati.
Il green flash o “raggio verde” è un fenomeno ottico visibile quando il Sole, all’alba o al tramonto, crea una sottile striatura luminosa dal colore verde che dura brevi istanti. Brevi istanti per catturare tanta meraviglia!
Primo green flash. Canon R6 – tempo di 1/4 sec a 50 ISO con obiettivo MTO 1000 (Giacomo Venturin)
Il secondo raggio verde si può osservare nell’immagine in copertina di questo articolo. Per ottenere questo secondo scatto è stata utilizzata una fotocamera Canon R6 con obiettivo MTO 1000 e un tempo di 1/200 a 50 ISO.
Catturare un green flash non è impresa semplice
Innanzitutto, non tutte le località sono adatte. Inoltre la giornata deve essere particolarmente limpida (all’alba o al tramonto), in quanto la tonalità verde (così come altre lunghezze d’onda della luce) è conferita dalla rifrazione dei raggi solari attraverso la nostra atmosfera.
Per un approfondimento: non perdete l’APOD NASA del 30 maggio 2020 della nostra autrice Marcella Giulia Pace – Pictores Caeli che è riuscita a catturare i green flash di Luna, Venere e Mercurio!
Non solo green flash!
Canon R6 – tempo di 1/10 a 50 ISO con obiettivo MTO 1000 (Giacomo Venturin)
In quest’ultima immagine si può invece notare una macchia solare allungata (in alto a destra) durante il passaggio nello strato d’inversione che aveva originato il primo flash.
Per altre segnalazioni e scatti su questo particolare fenomeno:
“… un raggio verde, ma di un verde meraviglioso, di un verde che nessun pittore può ottenere sulla sua tavolozza, di un verde la cui sfumatura la natura non ha mai riprodotto né fra le tinte così varie dei vegetali, né nel colore dei mari più limpidi! Se c’è del verde in Paradiso, non può essere che questo, che è senza dubbio il vero verde della Speranza!”
Lucy will launch on October 16 from Cape Canaveral on an Atlas V rocket, with a launch window that will remain open for no more than 23 days.
After that, the necessary alignment of the planets will fail. And that brings us to the wonderful thing that is Lucy’s trajectory.
Ti sei perso la prima parte? La puoi trovare a questo link
Getting to Jupiter’s orbit is difficult. It takes a lot of thrust to lift something so far from the Sun, and Lucy is a very heavy spacecraft (1550 kg, including the onboard fuel needed for correction maneuvers). Yes, because by the way, the spacecraft is solar powered. And this is an extraordinary progress. Only recently, in fact, solar cells have become efficient enough to power a spacecraft that must move so far from the Sun. When fully deployed, the solar panels will reach a total diameter of 14 meters!
Rappresentazione artistica della navicella spaziale Lucy in volo dal troiano Euribate, uno dei sei troiani diversi e scientificamente importanti da studiare. I troiani sono fossili di formazione del pianeta e quindi forniranno importanti indizi sulla prima storia del sistema solare. Credit: NASA/SwRI and SSL/Peter Rubin
After launch, Lucy will enter a high orbit around the Earth; then, a few months later, it will descend back to our planet to benefit from a gravitational assist that will push it beyond the orbit of Mars, until it meets the main asteroid belt where on April 20, 2025, it will have its first encounter with a 4 km asteroid called Donaldjohanson (yes, that’s right, the discoverer of Lucy’s skeleton!).
This will be the smallest of the mission’s targets, which Lucy will use as a testbed for all of her instrumentation. Not to mention the fact that Donaldjohanson is also an interesting object in itself, as it has been identified as a fragment of a massive collision that occurred about 130 million years ago that produced the asteroid family Erigone.
On August 12, 2027, the spacecraft will reach its first Trojan target, Eurybates, about 64 km in diameter. Eurybates is much larger than Donaldjohanson, but it does share some similarities. It is also member of a collisional family (the only known in the Trojans).
In January of 2019, the Lucy team learned that Eurybates has a satellite (named Queta) that is likely around 1 km in size. So this flyby will be two for the price of one!
While Lucy will continue to fly through the Greek field, in L4, her next target will be Polymele, which at 21 km in diameter will be the smallest of Lucy’s Trojan targets. And this will be the first time a spacecraft will have a chance to closely examine such an object: very dark and reddish, thought to be rich in organics. Lucy will fly close to this asteroid on September 15, 2027.
Scatto fotografico che rappresenta l’integrazione di Lucy all’interno dei fairing. Credits: NASA/Ben Smegelsky.
Lucy’s next target will be Leucus. A 40 km diameter asteroid that rotates very slowly. Its day is in fact 446 hours long! Also, as it rotates its brightness observed from Earth varies greatly, suggesting that it possesses a rather elongated shape. Lucy will know for sure when she passes by it on April 18, 2028.
Only a few months after the flyby of Leucus, exactly on November 11, 2028, Lucy will approach Orus, a 51 km diameter Trojan also very dark. And this will be the last flyby of this first part of the Mission.
Then Lucy – and this maneuver will be something never seen before in the history of space exploration – will drop back down through the asteroid belt and back to Earth’s orbit, to take in December 2030 another gravitational assist able to launch her this time towards the asteroids of the Trojan field in L5.
Arrived in L5 in 2033, on March 3 of that year it will fly over the double asteroid formed by Patroclus (113 km) and Menoetius (105 km), two objects separated only by a distance of 680 km.
Will this be the end of the mission?
Not even close! The coolest part of the Mission is that this amazing cycle of departures and returns will repeat every six years! Lucy will descend back to Earth and then head into Jupiter’s orbit, cycling between asteroids L5 and L4 each time. As long as the spacecraft stays healthy and NASA wants to continue the mission, the goings-on can continue for a long time to come.
And even after the eventual final shutdown, Lucy will continue to orbit between Earth and the Trojan asteroids for at least 600,000 years. Until, perhaps a million years from now, gravitational forces will either crash her into the Sun or propel her out of the solar system.
But there’s more. The first spacecrafts to leave the Solar System, Pioneer and Voyager … carried with them messages from Earth for any intelligent life that may one day encounter them. The Lucy Mission continues this tradition, but the plaque it carries is not for unknown aliens, but for our own descendants.
As we have just said, after the mission is over the Lucy spacecraft will remain on a stable orbit – traveling between the Earth and the Trojan asteroids for hundreds of thousands of years. It is not hard to imagine that someday in the distant future our descendants may retrieve the Lucy spacecraft as a relic of the early days of humanity’s exploration of the Solar System and that’s why the spacecraft carries with it a plaque as a time capsule, including messages from prominent thinkers of our time
La divulgatrice scientifica Dava Sobel. Credit: Ragesoss.
We, therefore, find it very appropriate to close by quoting the words of the writer Dava Sobel:
“We, the inquisitive people of Earth, sent this robot spacecraft to explore the pristine small bodies orbiting near the largest planet in our solar system. We sought to trace our own origins as far back as evidence allowed. Even as we looked to the ancient past, we thought ahead to the day you might recover this relic of our science.”
Per tutti gli interessati Coelum Astronomia vi segnala la lista di eventi:
Conferenze e Osservazioni del Cielo
Usciamo a Riveder le Stelle
Proseguono gli incontri del secondo giovedì del mese presso la sede in Via Zauli Naldi 2 a Faenza. È prevista a inizio serata una conferenza divulgativa con un ospite e, a seguire (condizioni meteo permettendo) osservazione del cielo con i binocoli e i telescopi a disposizione dell’associazione.
Questi incontri sono gratuiti, ma i posti sono limitati! Per partecipare in presenza è consigliata la prenotazione attraverso i contatti disponibili sul sito www.astrofaenza.it
Sarà possibile seguire le conferenze anche in diretta o in differita, sul canale YouTube dell’associazione.
Giovedì 10 Marzo, dalle 20: Le Onde Gravitazionali: una nuova finestra sull’Universo con Niccolò Veronesi (Nick Tragula), astrofisico e divulgatore
Giovedì 14 Aprile, dalle 21: La Lunga Strada Verso Marte
con Pierdomenico Memeo, astronomo e divulgatore
Giovedì 12 Maggio, dalle 21: Astrofili e altri Animali Notturni con Andrea Boscherini, naturalista e divulgatore
Giovedì 9 Giugno, dalle 21:30: Astrofotografia – Due Passi nella Fotografia Notturna con Loris Ferrini, astrofotografo
Binocular Classroom
In collaborazione con ARAR (Associazione Ravennate Astrofili Rheyta), il Gruppo Astrofili Faenza organizza 2 serate di lezione pratica di osservazione del cielo con il binocolo, presso il Parco delle Ginestre di Faenza.
Ad ogni partecipante verrà fornito un binocolo, una torcia a luce rossa e una dispensa. I partecipanti verranno guidati nell’osservazione autonoma del cielo con il binocolo, ricevendo nozioni base di astronomia e osservando vari oggetti celesti interessanti.
Le date previste sono giovedì 21 aprile e giovedì 19 maggio, dalle ore 20:30, ma potrebbero essere rimandate in caso di maltempo.
Tutte le info sul sito www.astrofaenza.it
Via dei Pianeti
La Via dei Pianeti è la rappresentazione del nostro Sistema Solare in scala 1:un miliardo (dove un metro equivale a un milione di chilometri) che verrà inaugurata sabato 28 maggio a Faenza.
È composta da due installazioni: la principale e più dettagliata rappresenta in scala il Sole e tutti i pianeti; mentre la seconda è installata a terra sulle piastrelle che rappresentano le dimensioni dei pianeti fino a Saturno. Due ulteriori piastrelle saranno posizionate più lontano, per rappresentare dimensione e distanza di Urano e Nettuno.
Percorrendo via Firenze si potrà immaginare quanto spazio buio, vuoto e silenzioso esista tra il Sole e i vari pianeti e quanto questi siano piccoli in queste enormi distanze.
È la molecola di etere dimetilico, presente in un disco di formazione planetaria, la più grande mai individuata fino ad oggi nello spazio.
A riportarlo sono delle ricercatrici dell’ESO e dell’Osservatorio di Leiden nei Paesi Bassi, tramite l’utilizzo dell’Atacama Large Millimeter/subimillimeter Array (ALMA). La particella è composta da nove atomi ed è un precursore di molecole organiche più grandi che potrebbero portare all’emergere della vita.
L’articolo è stato pubblicato oggi sui canali ESO in occasione della Giornata Internazionale delle Donne 2022
«Con questo studio possiamo riuscire a comprendere con più chiarezza come il nostro e altri sistemi solari possano ospitare la vita», afferma Nashanty Bruken, studentessa di Master all’Osservatorio di Leiden e principale autrice dello studio pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics, «È entusiasmante scoprire come i nostri risultati si inseriscono in un quadro molto più ampio».
Molecole organiche fra le stelle
L’etere dimetilico è una molecola organica che si trova nelle nubi di formazione stellare. Prima d’ora non era mai stata osservata all’interno di undisco di formazione planetaria. Per individuarla, gli astronomi hanno ricercato le tracce del formiato di metile: un’altra molecola complessa, simile all’etere dimetilico ed elemento costitutivo di molecole organiche ancora più grandi.
«È qualcosa di unico trovare queste grandi molecole nei dischi planetari», aggiungere la coautrice Alice Booth, ricercatrice all’Osservatorio di Leiden, «All’inizio stavamo pensando che non fosse possibile osservarle».
Trappola per le polveri cosmiche
Queste grandi molecole sono state individuate nel disco di formazione planetaria che circonda la giovane stella IRS 48 (nota anche come Oph-IRS 48). Questa stella, a 444 anni luce di distanza dalla Terra nella costellazione dell’Ofiuco, è da sempre studiata per il suo disco che contiene una “trappola per la polvere”.
L’immagine di ALMA della trappola per la polvere/fabbrica di comete intorno a Oph-IRS 48 (con note). Credit: ESO
Questa regione si è formata o da un pianeta appena nato o da una stella compagna di IRS 48 e raccoglie una grande quantità di granelli di polvere di dimensioni millimetriche che possono riunirsi e crescere fino a formare oggetti di dimensioni simile a quelle di comete e asteroidi.
Particelle come l’etere dimetilico sembrano nascere dalle nubi di formazione stellare. In questi ambienti freddi, atomi e molecole semplici come il monossido di carbonio si attaccano ai granelli di polvere, formando uno strato di ghiaccio che può favorire la genesi di molecole più complesse. Infatti, la trappola di polvere del disco IRS 48 è anche un serbatoio di ghiaccio, poiché ospita granelli di polvere ricoperti da ghiaccio ricco di molecole complesse. È in questa zona che ALMA ha individuato la presenza di etere dimetilico: quando il calore prodotta da IRS 48 sublima il ghiaccio in gas, le molecole intrappolate, ereditate dalle nubi fredde, vengono liberate e diventano rilevabili per gli strumenti dell’ESO.
«Ora sappiamo che queste molecole complesse sono disponibili per nutrire i pianeti in formazione nel disco», spiega Booth, «Questo non era noto prima, poiché nella maggior parte dei sistemi queste molecole sono nascoste nel ghiaccio».
Queste molecole sono i precursori di molecole prebiotiche, come gli amminoacidi e gli zuccheri, che sono gli elementi di base costitutivi della vita. Studiandoli, gli scienziati possono quindi comprendere meglio come queste molecole prebiotiche vanno a finire sui pianeti, compreso il nostro.
«Speriamo che ulteriori osservazioni potranno favorire la comprensione dell’origine delle molecole prebiotiche nel Sistema Solare», conclude Nienke van der Marel, ricercatrice anche lei dell’Osservatorio di Leiden, che ha partecipato allo studio.
Ora l’Extremely Large Telescope (ELT), una volta entrato in funzione in Cile, consentirà all’equipe di studiare la chimica delle regioni più interne di altri dischi planetari, e rispondere così alle domande che hanno portato alla formazione di pianeti simili alla Terra.
Astronomy and Astrophysics (March 2022): “A major asymmetric ice trap in a planet-forming disk: III. Firstt detection of dimethyl ether” (doi: 10.1051/004-6361/202142981)
Quella di sabato 5 marzo 2022 si è rivelata una serata davvero speciale. Il racconto a cura del GRUPPO ASTROFILI PALIDORO.
Sono le 20:00 quando Ivano Vinci, un appassionato di astronomia, scrive da Cerveteri:
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“Qualcuno degli astrofili ha visto il fascio luminoso in cielo 10 minuti fa su Roma e provincia?”
Decidiamo quindi di scrivere la segnalazione sulla pagina Facebook del gruppo e, dopo pochi minuti, ha inizio una vera e propria raffica di messaggi!
Commenti, e-mail, messaggi Whatsapp, tante testimonianze di avvistamenti di una “palla di fuoco” nel cielo. Molte testimonianze hanno riportato anche l’orario e con molta sorpresa ci siamo accorti che esso coincideva in tutti i messaggi.
L’indagine è proseguita durante la serata, chiedendo segnalazioni e dettagli sulla durata e sulla direzione ai nostri followers e, grazie a moltissime risposte (ne avremmo contate più di un centinaio!), siamo stati in grado di avere dati a sufficienza da inviare a PRISMA – Prima Rete per la Sorveglianza sistematica di Meteore e Atmosfera.
La conferma non si è fatta attendere: il mattino di domenica 6 marzo viene approvato il report osservativo presso PRISMA disponibile al seguente link
Il report del fenomeno (credits Gruppo Astrofili Palidoro)
Si tratta ufficialmente di un bolide
Durante la giornata di domenica 6 marzo arriva presso Gruppo Astrofili Palidoro tantissimo materiale tra foto e video, ma c’è un video in particolare che ha destato molta attenzione. È stato realizzato da Sabina Frauzel che aveva accompagnato il figlio allo stadio e che, durante la chiusura della partita Roma-Atalanta, è riuscita a spostare l’inquadratura del suo smartphone durante la discesa del bolide nell’atmosfera. Il video è il seguente:
Dal video è stata estrapolata l’immagine in copertina (elaborazione a cura di Giuseppe Conzo).
Grazie al Gruppo Astrofili Palidoro per il contributo su questo bell’avvistamento!
La vita aliena si basa su leggi biochimiche completamente diverse dalle nostre.
Ci sono dei limiti nei modelli universali della biochimica. È quello che si afferma in una ricerca pubblicata nel Proceeding of the National Academy of Sciences (PNAS). Questi risultati forniscono una nuova opportunità per scoprire le caratteristiche della vita aliena con una biochimica diversa da quella presente sulla Terra.
Rappresentazione artistica di una formazione planetaria che mostra esopianeti in una zona abitabile con somiglianze con la Terra, presenti all’estrema destra. Credit: NASA/Ames/JPL-Caltech
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La vita come (non) la conosciamo
Da sempre la ricerca della vita aliena si è limitata agli organismi che abbiamo sul nostro pianeta. Per gli astrobiologi non ci sono strumenti per prevedere le caratteristiche della “vita come non la conosciamo”.
«Vogliamo disporre nuovi strumenti per identificare e persino prevedere le caratteristiche della vita che non conosciamo», afferma la coautrice dello studio Sara Imari Walker dell’Arizona State University, «Per fare ciò, stiamo cercando di identificare le leggi universali che dovrebbero applicarsi a qualsiasi sistema biochimico. Questo comporta lo sviluppo di una teoria quantitativa per le origini della vita e l’utilizzo della statistica per guidare la nostra ricerca della vita su altri pianeti».
I colori vivaci della Grande Primavera Prismatica del Parco Nazionale di Yellowstone provengono da varie popolazioni di microrganismi amanti del calore che prosperano nell’acqua ad alta temperatura. Tali ecosistemi estremi potrebbero offrire indizi vitali agli astrobiologi alla ricerca di vita extraterrestre. Credit: Peter Adams Getty Images
Sul nostro pianeta, la vita si sviluppa dall’interazione di centinaia di composti chimici e reazioni. Queste reazioni di base per ogni organismo sono condivise da tutta la vita sulla Terra. Le stesse regole però non valgono più quando si prendono in considerazione gli esopianeti.
«La vita è un concetto sorprendentemente difficile da definire», dichiara l’autore principale Dylan Gagler, analista di bioinformatica presso il Langone Medical Center della New York University di Manhattan, «Per riuscire a comprenderla bisogna interessarsi di cosa succede durante i processi biochimici».
Modelli enzimatici
Per arrivare a questo obiettivo, Gagler e Walker si sono concentrati sugli enzimi, motori funzionali principali della biochimica. Usando un database integrato dei genomi di diversi microrganismi, il team di ricerca è stato in grado di studiare la composizione enzimatica di diversi batteri (archei ed eucari). Come risultato gli astrobiologi hanno acquisito un nuovo tipo di universalità biochimica, individuando nuovi modelli statistici che spiegano il comportamento biochimico degli enzimi.
Rappresentazione artistica di un esopianeta roccioso delle dimensioni della Terra. Credit: NASA Ames/SETI Institute/JPL-Caltech
«Questo nuovo modello di universalità biochimica è generalizzabile per forme di vita sconosciute», spiega il coautore Hyunju Kim, assistente di ricerca presso la School of Earth and Space Exploration dell’ASU, «La nostra scoperta ci consente di sviluppare una nuova teoria per le regole generali della vita e così guidarci alla scoperta di vita aliena sugli esopianeti».
Per la prima volta, uno studio condotto dal MIT ha svelato la correlazione chimica diretta fra riduzione dell’ozono atmosferico e fumo iniettato in atmosfera da incendi naturali. Il caso è quello degli incendi della “black summer” australiana, che potrebbero aver vanificato gli sforzi umani degli ultimi 10 anni.
Gli incendi australiani del 2019 e 2020 sono stati storici non solo in termini di durata, ma anche di distanza e velocità di diffusione. Complessivamente, durante quella che è stata definita “Black Summer” hanno bruciato più di 17 milioni di ettari di terreno facendo morire (o costringendo alla fuga) quasi 3 miliardi di animali. Non solo, oltre 1 milione di tonnellate di particelle di fumo sono state immesse nell’atmosfera, raggiungendo i 35 chilometri sopra la superficie terrestre: una massa e una portata paragonabili a quelle di un vulcano in eruzione.
Nella morsa dell’inferno
Gli incendi australiani del 2019 e 2020 sono stati storici non solo in termini di durata, ma anche di distanza e velocità di diffusione. Complessivamente, durante quella che è stata definita “Black Summer” hanno bruciato più di 17 milioni di ettari di terreno facendo morire (o costringendo alla fuga) quasi 3 miliardi di animali. Non solo, oltre 1 milione di tonnellate di particelle di fumo sono state immesse nell’atmosfera, raggiungendo i 35 chilometri sopra la superficie terrestre: una massa e una portata paragonabili a quelle di un vulcano in eruzione.
Fumo degli incendi sulla costa sud-orientale dell’Australia durante la “black summer” del 2020. Credit: NASA
Un nuovo studio condotto dal MIT e pubblicato su PNASha rivelato come il fumo di quegli incendi abbia scatenato reazioni chimiche nella stratosfera che contribuiscono alla distruzione dell’ozono, un elemento chimico che protegge la Terra dalle radiazioni ultraviolette in arrivo dal Sole.
Nel marzo 2020, poco dopo che gli incendi si sono placati, è stato infatti osservato un forte calo di biossido di azoto nella stratosfera, il primo passo di una cascata di reazioni chimiche note per finire con la riduzione dell’ozono. In questo caso, i ricercatori sono riusciti a trovare un legame diretto – per la prima volta – fra questo calo nel biossido di azoto e la quantità di fumo che gli incendi hanno rilasciato nella stratosfera. A conti fatti, la colonna di fumo provocata dagli incendi in Australia, avrebbe impoverito la colonna di ozono dell’1%, vanificando di fatto gli sforzi messi in atto dall’uomo negli ultimi 10 anni.
Il trend del prossimo futuro
Se gli incendi futuri diventano più forti e più frequenti, come si prevede che faranno con il cambiamento climatico, il recupero dell’ozono previsto e stabilito dal protocollo di Montreal potrebbe essere ritardato di anni. Non solo, i dati – raccolti dall’Optical Spectrograph and InfraRed Imager System (OSIRIS), dallo Stratospheric Aerosol and Gases Experiment (Sage III) a bordo della Stazione spaziale internazionale e dall’Atmospheric Chemistry Experiment (ACE) – hanno mostrato che il fumo accumulato ha riscaldato, per un periodo di sei mesi, alcune parti della stratosfera di ben 2 C°.
Un incendio a Lake Conjola, Australia, il 31 dicembre 2019. (Matthew Abbott, The New York Times/Contrasto)
Insomma, come ormai spesso succede rispetto agli eventi estremi del clima, la loro connotazione di eccezionalità va rivista. Mentre il mondo continua a scaldarsi, infatti, ci sono tutte i presupposti affinché incendi del genere diventino più frequenti e più intensi. E se questo studio è un importante passo avanti nella comprensione di fenomeni di chimica dell’atmosfera, quali siano nel dettaglio le reazioni che colpiscono l’ozono rimane da capire.
I detriti di un razzo sconosciuto hanno bombardato la Luna. L’impatto ha guadagnato l’interesse della comunità scientifica.
Verso la fine di gennaio sembrava che una parte di un razzo Falcon 9 di SpaceX dovesse colpire la Luna. Successivamente, invece, la colpa dello schianto è stata reindirizzata su Chang’e-5 T1.
Chang’e-5 T1 è una sonda spaziale sperimentale lanciata il 23 ottobre 2014 dall’Agenzia spaziale cinese (CNSA), per verificare la funzionalità della capsula di rientro, utilizzata nella missione Chang’e 5. L’oggetto era legato al razzo cinese Long March 3C, ed è andato e tornato dal nostro satellite per testare le capacità del veicolo nel rientro dell’atmosfera terrestre.
Sito di impatto previsto del corpo del razzo che andrà a sbattere contro il lato opposto della luna il 4 marzo 2022. Credit: NASA/LROC/ASU/Scott Sutherland
Secondo le analisi del radar Goldstone Solar System Radar in California, il pezzo del razzo dovrebbe aver impattato con il cratere Hertzsprung.
Questa è la prima volta che un pezzo di spazzatura spaziale colpisce la superficie del nostro satellite.
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Il dubbi sull’identità del razzo
Foto che ritrae il razzo spaziale Chang’e-5 T1 della missione Chang’e 5 in fase di progettazione Credit: CASC
Secondo alcuni studenti dell’Università dell’Arizona la vernice impiegata per dipingere il “fatale” razzo sembra essere simile a quella di alcuni vettori cinesi. Questo sembrerebbe escludere l’ipotesi su Falcon 9, dando conferma che i residui del razzo in questione siano del tutto di origine asiatica.
Foto che ritrae il lancio della missione Chang’e 5. Credit: CASC
Ci sarebbe stata conferma anche dallo statunitense Bill Gray, ricercatore indipendente in dinamica orbitale, che avrebbe un contatto diretto con l’agenzia spaziale cinese.
«E’ chiaro che si tratta di Chang’e-5 T1», afferma Gray, «Chiunque affermi il contrario, deve mostrare una grande quantità di prove».
Perché è importante?
Gli impatti e la formazione di crateri sono un fenomeno pervasivo nel sistema solare.
I crateri frantumano e frammentano le croste planetarie, formando gradualmente lo strato superiore sciolto e granulare comune nella maggior parte dei mondi senz’aria. Tuttavia, la fisica generale di questo processo è poco conosciuta.
L’osservazione dell’imminente impatto del razzo e del cratere risultante potrebbe aiutare gli scienziati planetari a produrre migliori simulazioni di impatto.
Al di là della vera identità di questo razzo, questo evento raro di impatto fornirà la possibilità di conoscere meglio alcuni dettagli della superficie lunare, utili per future missioni sulla Luna.
Oggi è il 1° gennaio 1987 e già si sente l’odore degli anni ’90 che avanzano, un’altra decade bella tosta! Finite la vostra tazza di latte e Sprint che si parte! Quest’anno sarà ricco di sorprese, sia a livello scientifico che no.
Nei cinema usciranno robette come Terminator 2, Fuga dal futuro, Predator e Beverly Hills Cop II, uno dei pochi bis fighi quanto il primo. Ci sarà Robocop che protegge gli innocenti ed il profumo della Mattel che riecheggia nel film I dominatori dell’Universo: film da bypassare ma come competere con l’universo devastante collettivo dei Masters?
Patrick Swayze faceva sognare orde di ragazzine e Balle Spaziali sarà già un cult per piccoli nerd. Nel frattempo, le scienze pullulano di figosità, come è nel mood degli anni ’80. Il 23 febbraio verrà infatti scoperto il primo neutrino proveniente dallo Spazio al di là del Sistema Solare. Una supernova nella Grande Nube di Magellano, 1987A esploderà e sarà la prima visibile a occhio nudo, dopo quasi 400 anni, nell’emisfero australe della Terra, facendo così nascere una nuova branca dell’astronomia: la cosiddetta astronomia neutrinica.
Dal 1987 nulla sarà come prima. Infatti da quel momento i valori sui punti interi di una forma quadratica irrazionale, indefinita e con almeno tre variabili, formeranno un sottoinsieme denso dei numeri reali. E come se non bastasse verranno scoperte due stelle nane orbitanti dagli astronomi Benjamin Zuckerman ed Eric E. Becklin, della University of California, a Los Angeles. Sarà il primo sistema stellare di questo genere in assoluto.
Anche le comunicazioni faranno passi da giganti. Alcuni ricercatori della società IBM riusciranno a generare un solitone ottico, un’onda luminosa stazionaria, in una fibra ottica.
Dal lato genetico verrà messa a punto la tecnica del ‘gene targeting’., secondo cui sarà possibile inattivare un gene durante lo sviluppo embrionale di un organismo e seguire il destino fisiologico dell’animale. Grazie alla manipolazione genetica sarà anche possibile modificare virus e proteine. La genetica comincerà a farla da padrona coi i primi mammiferi modificati geneticamente per produrre farmaci e lo sviluppo dell’AZT per il trattamento dell’AIDS.
Anche i fumetti rispecchiavano le idee dell’epoca. E’ interessante vedere come i fumetti rispecchino le psicosi dell’epoca. Prima c’erano il nucleare e la radioattività, poi la manipolazione genetica, le malattie autoimmuni e infine la discriminazione verso il diverso. Ogni epoca porta con sé i timori e le vittorie delle loro generazioni. Come diceva Michael Jackson“The Whole World Has To Answer Right Now Just To Tell You Once Again, Who’s Bad”. Ma spesso il bene e il male danzano sulla lama di un rasoio e le ombre di una candela li illuminano a turno. Questa generazione porta a casa, fra le altre cose, Megaman, Final fantasy, e le manine appiccicose delle patatine.
Ti pare poco? Ora scappo che mi si scalda la One o One. Ciao belli!
Brillamenti dai colori variopinti si diffondono nello spazio
Il bagliore residuo dell’energia rilasciata da una esplosione astronomica senza precedenti è stata osservata per la prima volta sulla Terra. Il fenomeno in questione si chiama kilonova e gli astronomi della Northwestern University sembrano essere riusciti a catturarlo tramite i loro potenti telescopi.
Fusione stellare
Una kilonova è un’esplosione astronomica che si verifica quando due oggetti celesti superdensi, come stelle di neutroni e buchi neri, si fondono tra loro. La loro luminosità è 1000 volte più intensa di quella di una “classica” nova. Nel caso preso in esame, un getto stretto e fuori asse di particelle ad alta energia ha accompagnato questo evento di fusione (ora denominato GW170817). Dalla fusione, tre anni e mezzo dopo, ciò che rimasta è una fonte di misteriosi raggi X.
Guarda l’animazione ESO che mostra la fusione di stelle di neutroni che termina con l’esplosione di kilonova (credits www.eso.org)
Per spiegare l’insorgere di questa nuova sorgente, gli astrofisici ritengono che l’espansione dei detriti ottenuti dalla fusione abbia generato uno shock, simile a quello che si ha al passaggio di un areo supersonico. Questo shock ha riscaldato il materiale e le polveri circostanti, generando emissioni di raggi X, note come il bagliore residuo di kilonova.
«Siamo entrati in un territorio inesplorato», afferma Aprajita Hajela, ricercatrice della Northwestern a capo della ricerca, «Ciò ci dà l’opportunità di studiare e comprendere nuovi processi fisici, che prima non erano mai stati osservati».
Raggi X che precipitano in un buco nero
La ricerca su GW170817 è incominciata nell’agosto del 2017. Utilizzando il Chandra X-ray Observatory della NASA, gli scienziati hanno studiato le emissioni di raggi X di un getto, prodotto dalla fusione tra stelle di neutroni, che si muoveva alla velocità della luce. L’anno successivo però, le emissioni di raggi sono incominciate a svanire, mentre la scia luminosa del getto ha iniziato a rallentare per poi espandersi.
«Queste variazioni nello schema dei raggi X ci hanno permesso di rilevare qualcosa d’insolito nei pressi della kilonova», aggiunge Raffaella Margutti, astrofisica della University of California presso Berkeley, «Sembra esserci un altra sorgente di raggi X oltre alla fusione tra le due stelle di neutroni».
Rappresentazione artistica di stelle di neutroni che si fondono, e producono onde gravitazionali, dando luogo ad una kilonova. Credit: University of Warwick/Mark Garlick
I ricercatori sono arrivati alla conclusione che potrebbe trattarsi di un buco nero.
Il coautore Joe Bright, anche lui ricercatore presso la University of California, spiega: «Abbiamo osservato per la prima volta come il bagliore residuo di kilonova sembri precipitare in un buco nero. Questi risultati sono qualcosa di entusiasmante».
Simili osservazioni consentono di approfondire, infatti, gli studi su come la materia cade all’interno dei buchi neri e apre nuove prospettive nel campo dell’astrofisica.
«Il sistema di GW170817 potrebbe avere implicazioni di vasta portata», conclude Kate Alexander, borsista di post-dottorato CIERA presso la Northwestern, «Non vediamo l’ora di scoprire quali altre sorprese ha in serbo per noi».
Il libro di Angelo Perrone, Come fotografare il cielo notturno, è un’autentica sorpresa.
Innanzi tutto perché più che un semplice libro da sfogliare è un vero e proprio manuale con tanto di copertina rigida per resistere a lunghe sessioni di osservazione all’aperto ed alle intemperie. L’impaginazione rimanda ad una serie di appunti presi sul campo. È essenziale, ma in grado, a discapito dell’estetica non necessaria, di risaltare con le dovute proporzioni tutti quei dettagli di contenuto che davvero hanno importanza. Anche il font e gli allineamenti contribuiscono a facilitare la lettura in caso di ambienti non favorevoli quali quelli notturni.
Insomma un vademecum con tutto, ma proprio tutto, quello che c’è da sapere per avvicinarsi all’astrofotografia. Si parte dalle macchine fotografiche, con dettagli sulle singole marche in commercio, fino ad arrivare ai software di elaborazione immagini descritti in ogni passaggio con tanto di screenshot delle schermate.
Nel mezzo trovano spazio, tecniche, suggerimenti, strumentazione e quanto essenziale per partire da zero ed arrivare ad realizzare le prime spettacolari immagini. Un manuale, dicevamo, molto pratico, quasi una guida all’acquisto perché si nota subito, per l’autore, il rapporto qualità/prezzo è un fattore determinante, che condiziona i risultati ma che ugualmente si può cercare di contenere trovando e suggerendo soluzioni alternative ugualmente efficaci ed efficienti.
Nel testo per ogni capitolo non mancano suggerimenti bibliografici, link a rivendite in cui trovare gli strumenti suggeriti, link a software e guide per l’utilizzo.
Portando con se il libro di Angelo Perrone, durante una notte osservativa, magari proprio la prima, è come avere a proprio fianco un astrofotografo esperto, un amico in grado di consigliare e per ottenere dei risultati sorprendenti sarà sufficiente affidarsi ai suoi passaggi.
Una nota particolare va alla post-produzione che occupa buona parte del libro, probabilmente fin troppo dettagliata con ogni singolo screenshot ma ciò vi renderà impossibile perdervi nei meandri delle molte funzioni che inizialmente non sono necessarie.
Il nostro consiglio, se siete alle prime armi, è prendetelo.
Avere a portata di mano e sempre con se l’esperienza sul campo di un astrofotografo preparato, sarà sicuramente utile. Gli spunti sono moltissimi e il libro diventerà quasi un vecchio libro di testo delle scuole, magari “sporcato” con l’aggiunta di appunti, ma di sicuro un testo da cui apprendere.
Breve biografia
Angelo Perrone è astrofotografo appassionato di darksky. Opera in Puglia nella cui terra realizza scatti arricchiti da panorami unici. Pratico, essenziale e preparato, da oltre un lustro con attenzione e cura si dedica ad affinare la propria tecnica condividendo con generosità molti trucchi.
Ultimi aggiornamenti della Stazione Spaziale Internazionale
L’ESA ha rivisto il suo piano di volo. Missione di durata inferiore e l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti avrà un ruolo diverso all’interno della ISS: non sarà più comandate, ma è stata nominata leader del Segmento Orbitale Americano (Usos), il quale comprende moduli americani, europei, giapponesi e canadesi.
«Come membri dell’equipaggio, siamo pronti a contribuire secondo necessità» commenta Samantha Cristoforetti «Sono onorata di servire come leader dell’Usos e questo ruolo include la maggior parte dei doveri che avrei avuto come comandante, ma riconosco anche che molte persone in Europa, soprattutto donne, sono state ispirate dalla prospettiva di avere la prima donna europea comandante della ISS. Mi dispiace che ciò non accada sul mio volo, ma stiamo selezionando una nuova classe di astronauti e sono fiduciosa che questa classe includerà donne altamente competenti e motivate che saranno pronte, in un futuro, per ricoprire ruoli di leadership».
La Cristoforetti era stata nominata comandante a maggio 2021. Il logoscelto per la missione.
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Il direttore dell’agenzia spaziale russa Roscosmos Dmitry Rogozin afferma che la Russia potrebbe ritirarsi dalla partnership internazionale della ISS
Attualmente la collaborazione con la Russia prosegue, ma la NASA inizia a tastare una strada alternativa per mantenere in orbita la Stazione Spaziale senza l’aiuto dei russi, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
La porzione americana della ISS fornisce energia e supporto vitale, mentre quella russa è responsabile della propulsione e del mantenimento in orbita stazionaria. La navicella che permette questa operazione è chiamata Progress ed è ancorata alla struttura, conferendo periodicamente una spinta alla stazione per rimanere su una quota di circa 400 km.
Senza il supporto russo la stazione spaziale rischia di precipitare nel vuoto.
Kathy Lueders, direttrice del programma di volo umano dell’agenzia americana, dichiara che la società aerospaziale Northrop Grumman potrebbe fornire la tecnologia necessaria a sostituire la Russia.
«Per il momento le operazione spaziali stanno procedendo come di consueto», dice Lueders, «Non ci stanno dando indicazioni che si rinunci agli impegni prefissati. Detto ciò, però dobbiamo sempre cercare di ottenere la maggiore flessibilità operativa».
L’ultima navicella mercantile Northrop Grumman Cygnus, giunta alla ISS lo scorso 21 febbraio, è stata infatti la prima a vantare la capacità di “rilanciare” l’avamposto senza l’aiuto russo.
Mentre venerdì scorso, Elon Musk di SpaceX ha twittato il logo della sua azienda in risposta alla domanda retorica di Rogozin, su chi avrebbe salvato la ISS da una deorbita incontrollata.
La Lueders ci tiene però a sottolineare che questi sono solo dei piani di emergenza: «È difficile in questo contesto operare da soli: la ISS è un partnership internazionale che è stata creata con forze congiunte. Sarebbe quindi triste non poter più operare pacificamente nello spazio».
Segnali di distensione potrebbero essere dati però dalle notizie sui cambi di equipaggio, già programmati, che sembrano essere confermati.
Il 18 marzo è previsto l’arrivo di una Soyuz con tre cosmonauti, mentre il 30 marzo è in programma il rientro sulla Terra di due russi e dell’americano Vandei Hei.
Infine, in prossimo 15 aprile è previsto l’arrivo della Crew-4 di SpaceX con Samantha Cristoforetti, dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
Per quanto riguarda il proseguimento del programma ExoMars, le sanzioni e il contesto generale rendono molto improbabile un lancio nel 2022
È quanto si legge sul sito ufficiale dell’ESA in un comunicatodel 28 febbraio.
L’Agenzia Spaziale Europea ha rilasciato la dichiarazione a seguito dell’incontro con gli Stati membri e si è esposta a riguardo ai programmi in collaborazione con la Russia.
“Deploriamo la perdita di vite umane e le tragiche conseguenze della guerra in Ucraina” si legge sul sito dell’ESA. “Diamo la priorità assoluta all’adozione di decisioni adeguate, non solo per il bene del nostro personale coinvolto nei programmi, ma nel pieno rispetto dei valori europei, che hanno sempre plasmato in modo fondamentale il nostro approccio alla cooperazione internazionale.
L’ESA è un’organizzazione intergovernativa governata dai suoi 22 Stati membri e nel corso degli ultimi decenni abbiamo costruito una solida rete di cooperazioneinternazionale, al servizio della comunità spaziale europea e globale attraverso i suoi programmi di grande successo.
Stiamo dando piena applicazione alle sanzioni imposte alla Russia dai nostri Stati membri. Stiamo valutando le conseguenze su ciascuno dei nostri programmi in corso condotti in collaborazione con l’agenzia spaziale statale russa Roscosmos e allineando le nostre decisioni alle decisioni dei nostri Stati membri, in stretto coordinamento con i partner industriali e internazionali (in particolare con la NASA per la Stazione spaziale Internazionale).
Per quanto riguarda la campagna di lancio di Soyuz dallo spazioporto europeo di Kourou, prendiamo atto della decisione di Roscosmos di ritirare il proprio personale da Kourou.
Quiil tweet con il quale Dmitry Rogozin, direttore di Roskosmos, ha annunciato la fine della collaborazione russa presso lo spazioporto europeo di Kourou, in Guyana francese
Di conseguenza valuteremo, per ogni payload istituzionale europeo sotto la nostra responsabilità, il servizio di lancio appropriato, in particolare con i sistemi di lancio attualmente in funzione e sui prossimi lanciatori Vega C e Ariane 6.
Per quanto riguarda il proseguimento del programma ExoMars, le sanzioni e il contesto generale rendono molto improbabile un lancio nel 2022. Il Direttore Generale dell’ESA analizzerà tutte le opzioni e predisporrà una decisione formale sulla strada da intraprendere dagli Stati membri dell’ESA.
L’Esa continua a monitorare la situazione in stretto contatto con i suoi Stati membri.“
Individuato un sistema di giganti buchi neri danzanti. Le loro orbite sono così vicine che la coppia tende a fondersi in un unico corpo celeste.
I buchi neri supermassicci possiedono una massa da milioni a miliardi di volte superiore quella del Sole e si trovano nel centro della maggior parte delle galassie. Da sempre gli astronomi si domandano come questi oggetti celesti nascano; si ritiene che siano il risultato della fusione tra due buchi neri più piccoli, ma fino ad oggi non si erano riscontrate prove che potessero confermare una simile ipotesi.
Animazione artistica loopable di due buchi neri supermassicci che “danzano” l’uno intorno all’altro. L’immagine mostra come il buco nero più massiccio, centinaia di milioni di volte la massa del Sole, stia sparando un getto che cambia nella sua luminosità apparente mentre i due si girano intorno. Gli astronomi hanno individuato questo scenario in un quasar chiamato PKS 2131-021, dopo aver analizzato 45 anni di osservazioni radio che mostrano che il sistema si attenua e si illumina periodicamente. Si pensa che il modello ciclico osservato sia causato dal movimento orbitale del getto. Credit: Caltech / R. Hurt (IPAC)
Uno studio, pubblicato recentemente in The Astrophysical Journal Letters, potrebbe però cambiare le cose. Alcuni ricercatori della NASA hanno osservato un buco nero supermassiccio che sembra avere un compagno che gli orbita intorno. Questo sistema rotante viene chiamato “buco nero binario”, ed è costituito da, appunto, buchi neri che orbitano molto vicini l’uno all’altro.
Il diametro dell’orbita tra i due buchi neri risulta essere dalle 10 alle 100 volte più piccolo dell’unico altro “binario supermassiccio” già osservato (GW150914) e si prevede che la coppia si fonderà in circa 10.000 anni. In pratica, questi due buchi neri sono sulla strada della collisione per circa il 99%.
I dati per questo studio sono stati raccolti dagli astronomi Joseph Lazio e l’italiano Michele Vallisneri, del Jet Propulsion Laboratory della NASA nel sud della California, dove i due scienziati hanno analizzato il comportamento dei due buchi neri e cercato di interpretare le emissioni radio trasmesse.
Getti di blazar
Il buco nero binario individuato potrebbe avere un blazar, denominato PKS 2131-021. Un blazar è una sorgente altamente energetica e molto compatta, associata ai buchi neri supermassicci. Infatti, quest’ultimi non emettono luce, ma la loro forza di gravità può attrarre dischi di gas molto caldo, che incominciano a espellere materiale luminoso nello spazio circostante. Tali getti di energia possono estendersi per milioni di anni luce.
Animazione artistica di un buco nero supermassiccio circondato da un disco rotante di gas e polvere. L’immagine mostra come il buco nero sta sparando un getto relativistico, che viaggia quasi alla velocità della luce. Credit: Caltech/R. Ferito (IPAC)
PKS 2131-021 è situato a circa 9 miliardi di anni luce dalla Terra, ed è uno dei 1.800 blazar monitorati dall’Owens Valley Radio Observatory. Questo blazar presenta però un anomalo comportamento: la sua luminosità mostra uno schema regolare come quello di un orologio svizzero.
Gli astronomi dello studio credono che questa regolarità sia dovuta alla presenza dei buchi neri che ruotano insieme. Per conferma questa ulteriore ipotesi, si sta cercando di rilevare le onde gravitazionali provenienti dal sistema.
Grafico di tre serie di osservazioni radio del quasar PKS 2131-02, raccolte per 45 anni. I dati dell’Owens Valley Radio Observatory (OVRO) sono segnati in blu; quelli dell’University of Michingan Radio Astronomical Observatory (UMRAO) in marrone; e quelli del Haystack Observatory in verde. Le osservazioni corrispondono a una semplice onda sinusoidale, indicata in blu. Gli astronomi ritengono che il modello dell’onda sinusoidale sia causato da due buchi neri supermassicci nel cuore del quasar che orbitano l’uno attorno all’altro ogni due anni. Uno dei buchi neri emette un getto relativistico che si attenua e si illumina periodicamente. Si noti che i dati di OVRO e UMRAO corrispondono al picco nel 2010 e i dati UMRAO e Haystack corrispondono al picco nel 1981. Le grandezze dei picchi osservati intorno al 1980 sono due volte più grandi di quelle osservate in tempi recenti, presumibilmente perché più materiale stava precipitando verso il buco nero per poi essere espulso. Credit: Tony Readhead/Caltech
La ricerca sui buchi neri binari e i blazar vanno avanti da moltissimo tempo.
«Ci sono voluti 45 anni di osservazioni per ottenere i risultati che abbiamo oggi», afferma Joseph Lazio, «La nostra ricerca è incominciata nel 2016. Da quel momento, il nostro team ha raccolto i dati settimana dopo settimana, mese dopo mese, per riuscire a dare una prima preliminare risposta all’origine dei buchi neri supermassicci. Questo lavoro è una testimonianza dell’importanza della perseveranza».
The Astrophysical Journal Letters (February 2022): “The Unanticipated Phenomenology of the Blazar PKS 2131-021: A Unique Super-Massive Black hole Binary Candidate” was funded by Caltech, the Max Planck Institute for Radio Astronomy, NASA, National Science Foundation (NSF), the Academy of Finland, the European Research Council, ANID-FONDECYT (Agencia Nacional de Investigación y Desarrollo-Fondo Nacional de Desarrollo Científico y Tecnológico in Chile), the Natural Science and Engineering Council of Canada, the Foundation for Research and Technology – Hellas in Greece, the Hellenic Foundation for Research and Innovation in Greece, and the University of Michigan. Other Caltech authors include Tim Pearson, Vikram Ravi, Kieran Cleary, Matthew Graham, and Tom Prince. Other authors from the Jet Propulsion Laboratory, which is managed by Caltech for NASA, include Michele Vallisneri and Joseph Lazio.
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Le domande sulla formazione dei pianeti del Sistema Solare potranno avvalersi di nuovo metodo di datazione degli impatti tra asteroidi e corpi planetari.
Un team di ricercatori della University of Cambridge ha compiuto delle analisi al microscopio del meteorite di Chelyabinsk, caduto sulla terra nel 2013 in Russia. Nello studio, pubblicato su Communications Earth & Environment, si prende in esame come i minerali all’interno del meteorite possono essere stati danneggiati da antichi impatti.
Rappresentazione artistica di un impatto astronomico. Credit: NASA/JPL- Caltech/T.
«Datare un impatto tra meteoriti è una impresa assai ardua», afferma Craig Walton, ricercatore del Cambridge’s Department of Earth Science di Cambridge, «Il nostro lavoro dimostra che per riuscire nell’intento bisogna considerare più variabili».
La genesi dei pianeti
Durante la preistoria del nostro Sistema Solare, i pianeti, inclusa la Terra, si sono formati con massicce collisioni tra asteroidi e corpi più grandi, chiamati protopianeti.
Il coautore dello studio Dr. Oli Shorttle, astronomo presso il Cambridge’s Department of Earth Sciences and Institute of Astronomy: «Le prove degli antichi impatti tra meteoriti e protopianeti sono andate perse. La Terra, in particolare, ha la memoria pressoché corta, poiché le rocce superficiali vengono continuamente riciclate dalla tettonica delle placche».
Al contrario però, gli asteroidi e i frammenti che cadono sul nostro pianeta sono freddi, inerti e molto più vecchi della crosta terrestre, rendendoli oggetti utilissimi per trovare le prove di queste preistoriche collisioni. Per analizzare il meteorite di Chelyabinsk sono stati frantumati i minerali di fosfato al suo interno.
Immagine che mostra un processo di cristallizzazione.
«I fosfati sono perfetti per la datazioni di eventi traumatici come gli impatti tra asteroidi», spiega il Dr. Sen Hu, che ha effettuato la datazione con il piombo all’uranio presso Beijing’s Institute of Geology and Geophysics, Chinese Academy of Sciences.
Una precedente datazione di questo meteorite ha rilevato due età d’impatto: una più vecchia di circa 4,5 miliardi di anni, e una seconda più recente avvenuta negli ultimi 50 milioni di anni. Il nuovo studio è riuscito a dare un ordine temporale alle collisioni registrate nel meteorite, e i risultati dimostrano che i minerali contenti la traccia della collisione più antica sono stati frantumati in molti cristalli più piccoli e fortemente deformati dalle alte pressioni e temperature degli impatti.
«Con questo studio abbiamo dimostrato che le analisi minieralogiche per la datazione è di fondamentale importanza», aggiunge Walton.
Rappresentazione artistica della collisione cosmica. Credit: Don Davis, Southwest Research Institute.
Gli scienziati sembrano essere particolarmente molti interessati alla data dell’impatto di circa 4,5 miliardi di anni fa, poiché è il momento in cui si pensa che sia nato il sistema Terra-Luna. Il meteorite di Chelyabinsk appartiene ad un gruppo di meteoriti pietrosi, che sembrano contenere frammenti di quel colossale impatto. Le date acquisite dalle analisi registrano collisioni ad alta energia avvenute tra 4,48 e 4,44 miliardi di anni fa.
Walton conclude: «Il fatto che tutti questi asteroidi registrino intesi impatti proprio in quel periodo di tempo, potrebbe indicare che all’epoca ci fu una riorganizzazione del Sistema Solare, derivante dalla formazione Terra-Luna».
I ricercatori della University of Cambridge, infatti, prevedono di perfezionare le tecniche di datazione per aprire una nuova finestra d’indagine che si concentri sulla genesi della Luna e della Terra.
Communications Earth & Environment (Febraury 2022): “Ancient and recent collisions revelaed by phosphate minerals in the Chelyabinsk meteorite” by Walton, C.R. DOI: 10.1038/s43247-022-00373-1.
Marzo è il mese che segna il passaggio dall’inverno alla primavera astronomica, stagione il cui ingresso è sancito dall’Equinozio che quest’anno cadrà il giorno 20/03.
È un momento di transizione in cui a popolare la volta celeste troviamo sia costellazioni invernali che parte di quelle primaverili.
All’inizio del mese, Mercurio si affiancherà a Saturno poco prima delle calde luci dell’alba. Il giorno 2, in particolare, la loro separazione sarà di appena 0°41′. Un evento molto bello, ma che purtroppo sarà difficilmente osservabile: l’approssimarsi del giorno e la scarsa luminosità degli stessi renderà difficoltosa la visione.
Venere
Visibile poco prima del sorgere del Sole, si accosterà a Marte già dai primi giorni del mese, in un abbraccio sempre più stretto che vedrà il suo apice il giorno 16, vegliati, più in basso, dal timido Saturno. Con il pianeta ad anelli Venere si affiancherà il 28/03, in un bel quadro celeste a cui si uniranno anche Luna e Marte. Questa triangolazione si ripeterà anche il giorno successivo, in assenza però della Luna.
Marte
Nell’arco del mese, Marte rimarrà basso e poco visibile fino a circa un’ora prima del sorgere del Sole. Oltre ad accompagnarsi a Venere, lo vedremo in congiunzione con la Luna il giorno 28, con una separazione di circa 4°.
Giove
Proprio come Saturno a febbraio, in questo mese è il turno di Giove entrare in congiunzione con il Sole (il 5 marzo). Il pianeta diviene quindi inosservabile per diverse settimane e l’evento segnerà il suo passaggio dal cielo della sera a quello del mattino presto.
Saturno
All’alba del primo giorno del mese, una sottilissima falce di Luna calante si avvicinerà a Saturno di poco più di 4° di separazione. Un momento suggestivo, ma di difficile osservabilità, così come le già citate congiunzioni con il pianeta ad anelli e Mercurio.
Urano
Osservabile primissime ore serali, anticiperà sempre più il suo tramonto. Il giorno 7 sarà occultato da una falce lunare crescente.
Nettuno
Accostato al Sole, ne seguirà il moto per tutto il mese e, il giorno 13, sarà in congiunzione con la nostra stella.
In questo mese di Marzo la nostra stella transiterà dalla costellazione dell’Acquario, dove rimarrà fino al giorno 12, a quella dei Pesci.
La durata delle ore di luce aumenta di 1 ora e 24 minuti e il giorno 27 marzo 2022 avremo il passaggio all’Ora Legale, pari a un’ora in più rispetto all’Ora Solare (TMEC).
Tutti gli approfondimenti sull’osservazione e i fenomeni celesti legati al nostro satellite disponibili per il mese di Marzo 2022, a cura del nostro autore Francesco Badalotti.
Rimane la 19P/Borrelly la cometa più interessante, probabilmente l’unica al di sotto della decima magnitudine. Si muoverà dall’Ariete verso il Perseo, visibile in prima serata appena fa buio, inizialmente ancora discretamente alta, ma in abbassamento sull’orizzonte.
Marzo vedrà (16)Psyche, asteroide tra i più luminosi del mese, raggiungere l’opposizione ilgiorno 3, momento nel quale brillerà di magnitudine 10,4.
(39)Laetitia, altro asteroide di notevoli dimensioni, sarà in opposizione il15 del mese e risulterà di poco più luminoso, raggiungendo una magnitudine pari a 10,3.
Questo Marzo la Stazione Spaziale Internazionale sarà rintracciabile nei nostri cieli sia in prossimità dell’alba che in orari serali. Avremo molti transiti notevoli con magnitudini elevate durante il primo mese della Primavera.
La ISS – Stazione Spaziale Internazionale a Marzo sarà rintracciabile nei nostri cieli sia in prossimità dell’alba che in orari serali. Avremo molti transiti notevoli con magnitudini elevate durante il primo mese della Primavera, auspicando come sempre in cieli sereni.
Si inizierà il giorno 9 Marzo dalle 05:29 alle 05:38, osservando da ONO ad ESE. Visibilità perfetta da tutto il Paese per uno dei migliori transiti del mese con una magnitudine massima che si attesterà su un valore di -3,8.
Si replica il 10 Marzo dalle 04:43 verso N alle 04:49 verso ESE. La ISS sarà ben visibile da tutta Italia, con magnitudine di picco a -3,3. Osservabile senza problemi, meteo permettendo.
Saltando di sei giorni e iniziando con i transiti serali, il 16 Marzo avremo un nuovo passaggio dalle 19:42 in direzione SO alle 19:47 in direzione SSE. Visibilità migliore dal Sud Italia, con magnitudine massima di -3,1.
Il 18 Marzo, la Stazione Spaziale transiterà dalle 19:41 alle 19:48 da OSO a NE. Visibilità ottima per tutta la nazione. Magnitudine massima a -3,7.
Il giorno dopo, 19 Marzo dalle 18:53 alle 19:02 da SO ad ENE, avremo il migliore transito serale del mese, osservabile da tutta Italia, con magnitudine massima a -3,8.
Il 21 Marzo dalle 18:52 alle 19:02, con magnitudine di picco a -3,2 e visibile al meglio dal Centro Nord Italia, la Stazione Spaziale Internazionale effettuerà un altro ottimo transito serale da OSO a NE.
L’ultimo transito notevole del mese sarà nuovamente visibile al meglio dal Centro Nord Italia, osservabile da orizzonte fino a metà cielo circa, il 31 Marzo dalle 21:26 alle 21:31, da NO a NNO. Magnitudine di picco a -3,4.
N.B. Le direzioni visibili per ogni transito sono riferite ad un punto centrato sulla penisola, nel centro Italia, costa tirrenica. Considerate uno scarto ± 1-5 minuti dagli orari sopra scritti, a causa del grande anticipo con il quale sono stati calcolati.
Nel ciclico avvicendarsi delle stagioni è interessante poter essere continui testimoni dell’alternarsi degli astri sulla volta celeste.
Marzo è il mese che segna il passaggio dall’inverno alla primavera astronomica, stagione il cui ingresso è sancito dall’Equinozio che quest’anno cadrà il giorno 20/03.
È un momento di transizione in cui a popolare la volta celeste troviamo sia costellazioni invernali che parte di quelle primaverili.
Il cielo di marzo 2022.
Quelle di marzo saranno serate in cui assisteremo al lento declino di Orione verso l’orizzonte Ovest, accompagnato dagli oggetti non stellari che custodisce. Come il mitologico cacciatore, anche la costellazione del Toro e del Cane Maggiore con la brillante Sirio saranno visibili nella prima metà della notte; un po’ più alte sulla volta celeste troveremo l’Auriga con la luminosa Capella e Castore e Polluce dei Gemelli.
Dall’ampia porzione di cielo compresa tra Sud ed Est faranno il loro ingresso le costellazioni che preannunciano la primavera, ovvero: Idra, Cancro, Leone con Regolo e Denebola, Vergine con Spica e il Boote con la brillante stella di colore rosso/arancio Arturo.
Le brillanti Denebola, Spica e Arturo ci regaleranno quello che è l’asterismo del Triangolo Primaverile.
LA MARATONA MESSIER
Organizzandoci per affrontare una serata all’insegna dell’osservazione astronomica, potremmo tentare quella che da moltissimi anni durante il mese di marzo è una vera sfida tra appassionati e astrofili.
È il momento di dare la caccia agli oggetti, ben 110, del Catalogo Messier … tutti in una notte!
L’iniziativa, promossa dall’UAI, è dedicata a tutti coloro che vogliono tentare di osservare (annotandone i dettagli) tutti gli oggetti del catalogo nell’arco di una sola notte.
Le date consigliate per la Maratona Messier tradizionalmente vengono scelte nei week-end di marzo e aprile prossimi al novilunio. Quest’anno le date proposte cadono il giorno 5 marzo e 2 aprile.
L’ORSA MAGGIORE: FONDAMENTALE RIFERIMENTO PER L’ORIENTAMENTO STELLARE
Immagine della Costellazione dell’Orsa Maggiore.
Fra tutte le costellazioni, quella dell’Orsa Maggiore è di certo tra le più note.
Ursa Major deve la sua fama all’asterismo del Grande Carro che, con le sue sette stelle principali visibili ad occhio nudo, compone solo una piccola parte della molto più estesa costellazione.
Dubhe, Merak, Phecda, Megrez, Alioth, Mizar e Alkaid sono i nomi delle stelle principali che compongono l’asterismo.
Dubhe (α Ursae Majoris), è un sistema quadruplo che dista 124 anni luce dalla Terra: attorno alla componente principale ruotano Dubhe B e Dubhe C che a sua volta è una stella binaria.
Degna di nota anche Mizar: i più acuti osservatori avranno di certo notato accanto ad essa un’altra stella che, seppur meno brillante, fa coppia con la compagna di cielo e porta il nome di Alcor: i due oggetti sono separati da una distanza compresa tra 0,28 e 2 anni luce circa e insieme formano la stella binaria visuale più famosa del cielo, visibile ad occhio nudo.
Un asterismo davvero importante quello del Grande Carro per l’orientamento stellare: tracciando infatti una linea immaginaria tra Dubhe e Merak e prolungandola di circa 5 volte, si giungerà alla Stella Polare.
Per quanto riguarda gli oggetti non stellari presenti nella costellazione, nei pressi della stella Merak si trova la Nebulosa Civetta (M97) e vi sono diverse galassie entro i confini dell’Orsa Maggiore: si tratta della coppia formata da M81 e M82, la galassia M101 e la galassia spirale barrata M109.
MITOLOGIA E ASTRONOMIA: LA FIGURA DELL’ORSA MAGGIORE LEGATA QUELLA DEL BOOTE
Immagine della Costellazione dell’Orsa Maggiore e il Boote.
La figura dell’Orsa Maggiore è strettamente legata a quella di Arturo: i riferimenti nella mitologia sono diversi.
Secondo la mitologia greca Callisto era una ninfa, una bellissima fanciulla figlia del Re di Arcadia Licaone e ancella di Artemide. Divenuta l’ennesimo oggetto del desiderio di Zeus, fu tramutata in orso dallo stesso padre degli Dei.
Le versioni della storia sono diverse, le due più famose ci raccontano: la prima, che fu proprio Zeus a trasformare la giovane fanciulla in un’orsa per sottrarla alle ire di Era; mentre, la seconda versione, sostiene che fu Artemide a trasformare Callisto dopo aver scoperto lo stato di gravidanza della giovane ancella, votata alla castità.
La metamorfosi di Callisto avvenne dopo aver dato alla luce Arcade. Questi, allevato da Artemide e le sue ancelle, venuto a conoscenza della presenza di un orso nel bosco dove abitavano le ninfe, si mise sulle sue tracce per ucciderlo. Dopo aver scovato Callisto, si preparò a colpire l’animale con una lancia, ignaro chi fosse in realtà. Zeus, impietosito, fermò il tempo, trasformò sia l’orsa che Arcade in stelle e li collocò per sempre sulla volta celeste.
In cielo madre e figlio sono “vicini”, poiché, prolungando la coda dell’Orsa, si arriva ad Arcade, ovvero il più conosciuto Arturo. Il nome dell’astro significa “inseguitore dell’Orsa” ed è situato nella costellazione del Bovaro (Boote), riconoscibile per il suo brillante colore rosso/arancio e visibile durante i mesi primaverili ed estivi.
LA COSTELLAZIONE DEL BOOTE
Nella costellazione del Boote troviamo le stelle doppie ν1-ν2 Bootis e μ1-μ2 Bootis: la prima coppia è formata da una stella gigante arancione e una bianca; la seconda coppia è composta da due stelle bianco-giallastre. Entrambe le coppie possono essere facilmente risolvibili anche con il solo utilizzo di un binocolo.
Nella costellazioni sono presenti anche stelle variabili come W Boötis, molto luminosa, la cui variazione può essere osservata anche ad occhio nudo.
Ma l’astro che sicuramente identifica il Boote è proprio Arturo (α Boo): la stella più luminosa della costellazione e la quarta più brillante del cielo notturno dopo Sirio, Canopo e α Centauri. Arturo è una gigante rossa con un diametro di 35 milioni di km (circa 25 volte più grande della nostra stella) e la sua luminosità è 113 volte quella del Sole.
Arturo ha anche una consistente emissione nell’infrarosso e se teniamo conto di tutte le bande dello spettro elettromagnetico, la sua luminosità totale arriva a circa 200 volte quella del Sole.
La stella è posta a una distanza di 36,7 anni luce da noi e, pur essendo una stella dell’emisfero boreale, la sua posizione 19° a nord dell’equatore celeste fa sì che Arturo sia visibile da ogni popolazione della Terra.
La seconda parte dell’articolo tratto dalla rivista “Meridiana” a cura di Luca Berti – Società Astronomica Ticinese
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Indice dei contenuti
Altro che stelle fisse e cielo invariabile: gli astri si spostano, eccome. E mentre le costellazioni si deformano, Proxima Centauri perde il suo primato di stella più vicina.
I miti cambiano forma
Dunque il firmamento non è immutato e immutabile. Tanto che possiamo dire senza tema di smentita che l’essere umano è nato sotto un altro cielo. Letteralmente.
Perché 200 mila anni fa, quando l’essere umano moderno stava muovendo i suoi primi passi sul pianeta, il firmamento era molto differente. Un homo sapiens che avesse guardato verso l’alto avrebbe disegnato tutt’altre costellazioni rispetto alle nostre che, tracciate nel cielo di allora, sarebbero irriconoscibili, distorte, a causa del differente moto apparente delle varie stelle che le compongono.
Potessimo prendere una macchina del tempo e proiettarci avanti nel tempo di 25 mila anni, quando la Stella Polare tornerà a essere quella che tutti conosciamo oggi, alzando gli occhi scopriremmo che alcune delle costellazioni che conosciamo sono cambiate poco, mentre altre sono parecchio deformate. Tra queste anche la stessa Orsa minore, che avrà un carretto decisamente più “ammaccato”. Il moto proprio di Decapoda (Iota Persei), molto alto rispetto alle altre stelle della costellazione, deformerà Perseo, mentre a cambiare poco in 25 mila anni sarà, per esempio, Orione.
L’esercizio ripetuto al successivo giro di giostra, 25 mila anni dopo, porta invece a un cielo quasi completamente irriconoscibile: estraneo per chiunque lo conosca oggi. Solo alcune costellazioni e asterismi di oggi rimarrebbero più o meno individuabili, benché deformati. Tra questi la parte centrale del Gran Carro e la cintura di Orione.
Rappresentazione grafica delle variazioni delle costellazioni. Credit: Società Astronomica Ticinese.
Dove vai, Luna?
Visto che stiamo parlando di come è cambiato e come cambia il cielo, allora esageriamo un po’ e consideriamo anche che la Luna si sta allontanando dalla Terra a un ritmo di 3,82 centimetri all’anno. Ciò significa che tra circa 600 milioni di anni la sua dimensione apparente in cielo non sarà più sufficiente a coprire completamente il disco solare durante un’eclissi. Ciò significa che non esisteranno più le eclissi totali di Sole. Potendo andare avanti nel tempo, il cambiamento più evidente sarebbe però nella durata di un giorno. Con l’allontanarsi della Luna, il nostro pianeta inizierà infatti a ruotare sempre più lentamente. Le giornate cominceranno a durare sempre di più, passando a 25 ore. In linea teorica la Terra è destinata a entrare in rotazione sincrona con la Luna, rivolgendole sempre la stessa faccia. I giorni potrebbero allora durare anche 1000 ore. Ci vorrebbero però 50 miliardi di anni perché questo fenomeno si consolidi. Purtroppo entro allora il Sole sarà già morto e, nel suo ultimo respiro, avrà spazzato via sia la Terra sia la Luna.
Riavvolgendo invece il nastro del tempo, si scopre che 1,4 miliardi di anni fa la Luna era più vicina dell’11% (a 341 mila chilometri) e i giorni sulla Terra duravano poco meno di 19 ore. Guardando la Luna, benché fosse più vicina, non si sarebbe visto qualcosa di troppo diverso da quanto si vede oggi. Per constatare dei cambiamenti significativi nel diametro apparente dovremmo portare la nostra macchina del tempo a 4 miliardi di anni fa, quando si stavano ancora mettendo le basi per la nascita della vita. La Luna allora appariva 3 volte più grande in cielo; mentre 4,5 miliardi di anni fa, agli albori del Sistema solare, poco dopo l’impatto tra Terra e un corpo celeste delle dimensioni di Marte che formò la Luna, la dimensione del nostro satellite era 24 volte maggiore a quella di oggi. Doveva essere uno spettacolo mozzafiato, a patto di non badare al fatto che sia la Terra sia la Luna erano per lo più ancora una distesa di lava incandescente.
Il grande scontro
Ci siamo spinti fino a oltre la morte del nostro Sole, tra 4,5 miliardi di anni. Eppure uno dei più grandi cambiamenti che avverranno in cielo avverrà prima di allora. È lo scontro-incontro tra Via Lattea e la Galassia di Andromeda, in agenda tra circa 3,8 miliardi di anni fa. Già tra 2 miliardi di anni, Andromeda sarà decisamente più visibile e nettamente più grande nel cielo notturno terrestre. Tra 3,75 miliardi di anni la galassia a spirale riempirà completamente il cielo stellato. Da lì in poi inizierà il “balletto d’amore” delle due galassie. A 3,85 miliardi di anni il cielo si illuminerà di stelle neonate, mentre l’interazione tra le due galassie inizierà a deformarle, tanto che nel giro di 150 milioni di anni saranno ormai irriconoscibili. Da lì in poi ci vorranno ancora 3 miliardi di anni per la fusione completa. I cieli notturni della galassia saranno allora dominati dalla luminosità del nucleo della nuova galassia ellittica.
Ma tanto per allora la Terra non ci sarà più. Anche questo sarà un cambiamento.
In marzo niente di particolarmente eclatante da segnalare. Per vivere nuove intense emozioni occorrerà attendere qualche mese, salutando nel frattempo un paio di vecchie conoscenze in allontanamento e seguendo la crescita di uno degli oggetti più interessanti dell’anno.
C/2017 K2 PanSTARRS
Di lei abbiamo già parlato ampiamente, anche se diventerà protagonista vera solo fra qualche mese brillando secondo le stime di un’ottima luminosità (sesta/settima mag.). L’oggetto è in avvicinamento ed aumenta ovviamente la sua luminosità (anche più lentamente del previsto). A marzo, secondo le stime, dovrebbe raggiungere un valore attorno alla nona magnitudine, cominciando a dare qualche soddisfazione agli appassionati, in attesa di una più corposa prossima crescita. Dall’Ofiuco si trasferirà nell’Aquila, non variando molto la sua posizione tra le stelle. Per osservarla ci toccherà fare un piccolo sforzo (leggi levataccia) dato che è rintracciabile abbastanza alta in cielo al termine della notte astronomica.
La posizione della PanSTARRS è calcolata per le 3.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 10,5.
19P/Borrelly
Borrelly ai saluti dopo essere stata buona protagonista nei mesi invernali, scendendo al di sotto della nona magnitudine. A marzo sarà un inesorabile calo dovuto al suo allontanamento, ma risulterà però ancora una delle poche comete alla portata di una strumentazione modesta, aggirandosi la sua luminosità attorno alla decima magnitudine. Dall’Ariete si trasferirà nel Perseo, osservabile ad un’ottima altezza non appena il cielo si fa abbastanza buio. Tra il 25 e il 28 marzo gli astrofotografi avranno la possibilità di riprenderla a meno di due gradi della Nebulosa California.
La posizione della Borrelly è calcolata per le 21.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 9.
C/2019 T4 ATLAS
È un oggetto più debole durante questo mese, dato che la sua luminosità si aggirerà attorno all’ undicesima magnitudine. Una delle tante scoperte del sistema automatizzato di ricerca ATLAS (Asteroid Terrestrial-Impact Last Alert System), dedicato alla caccia degli asteroidi pericolosi per la Terra, ma che si imbatte spesso anche in comete. Lo testimonia il fatto che moltissimi “Astri chiomati” portano il suo nome. La scoperta risale al 2019 ed il perielio è previsto per giugno di quest’anno. La luminosità raggiunta tra fine marzo inizio aprile sembra però quella di picco e questo si spiega considerando che il perielio di giugno prevede un transito piuttosto distante dal Sole (quasi 4 U.A.). Risulta quindi più luminosa nel momento del suo passaggio in prossimità della Terra, purtroppo però anche questo sfavorevole dato che sfilerà a oltre 3 U.A. di distanza. Risulterà osservabile alla massima altezza in cielo (comunque modesta) in piena notte ed il suo movimento la porterà a spostarsi dall’Idra verso il Cratere.
La posizione della ATLAS è calcolata per le 1.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 11.
Correva l’anno 1776: un professore di astronomia, Johan Daniel Titus, si accorse di una strana relazione che sembrava accomunare le distanze tra i pianeti allora conosciuti e la annotò.
Qualche anno più tardi Johan Elert Bode – che divenne di lì a poco direttore dell’Osservatorio di Berlino – trovò quella nota all’interno di un libro che stava traducendo e la formalizzò nei propri scritti.
Quella relazione (oggi nota come la legge di Titus Bode) descriveva empiricamente le distanze tra i pianeti attraverso una semplice formula matematica. Assumendo che la distanza che separa Saturno dal Sole sia pari a 100 unità (per semplificare il concetto, in questo articolo ogni unità di distanza la chiameremo “klick”): Mercurio dista 4 klick dal Sole, Venere 7 klick (4+3), la Terra 10 klick (4+6), Marte 16 klick (4+12), Giove 52 klick (4+48).
Salta immediatamente all’occhio che c’è una lacuna in questa progressione: manca un pianeta nel punto situato a 28 klick!
Incoraggiati dalla scoperta di Urano da parte del grande William Herschell, (il pianeta orbitava a una distanza molto vicina a quella predetta dalla legge di Titus Bode), astronomi professionisti e amatoriali si lanciarono in una caccia al pianeta mancante.
Il primo di gennaio del 1801 Giuseppe Piazzi, direttore dell’Osservatorio di Palermo, si accorse di una “stella” nella costellazione del Toro che stava lentamente cambiando posizione. Inizialmente, Piazzi pensò di aver trovato una nuova cometa.
Poco dopo comunicata la scoperta, l’astronomo Italiano confessò i propri dubbi sulla sua effettiva natura, scrivendo una lettera all’amico Barnaba Briani. Piazzi ipotizzò che potesse invece trattarsi di
Giuseppe Piazzi (credits www.aif.it)
“qualcosa di molto più importante di una cometa”
Su volere dell’astronomo, l’oggetto fu battezzato Cerere Ferdinandea, in onore dalla dea romana Cerere e del re Ferdinando IV di Sicilia e, per quasi 50 anni, fu considerato il pianeta mancante.
Questa convinzione vacillò alla scoperta da parte di Wilhelm Olbers di un secondo presunto pianeta: Pallas.
Nessun altro pianeta allora conosciuto aveva un compagno che orbitasse alla medesima distanza dal Sole. Inoltre, né Cerere né Pallas sembravano presentare un disco che potesse essere in qualche modo risolto al telescopio, come invece accadeva per tutti gli altri pianeti. Entrambi dovevano inoltre essere molto piccoli, dato che la loro luminosità pareva variare nell’arco di poche ore.
Si affacciò l’idea, oggi confutata, che questi potessero essere i resti di un più grande oggetto di dimensioni planetarie, andato distrutto a seguito di una collisione con un altro corpo celeste o di un qualche altro evento catastrofico. Pur non corretta, questa ipotesi diede una poderosa spinta all’osservazione, che si concentrò nell’area in cui le orbite di Pallas e Cerere si intersecano.
In quella regione Karl L. Harding scoprì un terzo oggetto, battezzato Juno, in onore della consorte di Giove. Nel marzo 1807 seguì la scoperta di Vesta da parte di Olbers. Dovettero trascorrere 40 anni prima che si trovassero nuovi oggetti, trascorsi i quali le scoperte si susseguirono a ritmo serrato: 84 anni dopo gli asteroidi conosciuti erano circa 400.
Fu William Hershell nel 1802 a coniare il termine “asteroide“, che in greco significa “simile a una stella“.
Oggi sappiamo che l’assoluta maggioranza degli oltre 1 milione di asteroidi conosciuti, inclusi (1)Cerere (2)Pallas e (3)Juno, orbitano in un ambiente complesso e dinamico, la Fascia Principale: la regione collocata tra Marte e Giove a una distanza tra le 2 e le 5 Unità Astronomiche dal Sole.
Un’altra importante riserva di asteroidi si trova nei punti Lagrangiani L4 e L5, di fronte e dietro a Giove. Si tratta degli asteroidi Troiani. Ad oggi ne sono conosciuti all’incirca 7000 (ma si ipotizza ne esistano un numero paragonabile a quello della Fascia), suddivisi in due sottogruppi: i Troiani e i Greci. Gli Hilda, un gruppo di oltre 5000 asteroidi, orbitano in risonanza 3:2 con Giove, tra il gigante gassoso e la Fascia Principale.
Cosa osservare a Marzo 2022
L’orbita di (16)Psyche e la sua posizione al 3/3/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=16-psyche-a852-fa)
(16)Psyche
(16)Psyche è un asteroide di Fascia Principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.830 giorni (5,01 anni) ad una distanza compresa tra le 2,53 e le 3,32 unità astronomiche (rispettivamente 378.482.611 Km al perielio e 496.664.928 Km all’afelio).
Deve il suo nome alla mitologica figura di Psyche. Scoperto da Annibale Gasparis il 17 Marzo 1852, questo grande asteroide che misura 226 km di diametro sarà in opposizione il 3 Marzo del 2022, momento in cui raggiungerà la magnitudine di 10.4.
Il suo moto sarà di 0,55 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto risulti puntiforme nelle nostre immagini, potremo utilizzare tempi di esposizione fino a 4/5 minuti. Per ottenere una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo e con 40 minuti di posa vedremo (16)Psyche trasformarsi in una bella striscia luminosa di 22 secondi d’arco.
L’osservazione di questo corpo celeste sarà particolarmente “intrigante” in quanto la luce che raccoglieremo con il nostro strumento proviene da quello che si pensa essere il nucleo metallico, esposto, di un antico planetesimo (teoria messa in dubbio dalle ultimissime scoperte: non perderti l’articolo). (16)Psyche sarà la meta dell’omonima missione della NASA, la cui partenza è programmata per quest’anno.
L’orbita di (39)Laetitia e la sua posizione al 15/3/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=39-laetitia-a856-ca)
(39)Laetitia
(39)Laetitia è un asteroide di Fascia Principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.680 giorni (4,60 anni) ad una distanza compresa tra le 2,46 e le 3,08 unità astronomiche (rispettivamente, 368.010.760 Km al perielio e 460.761.440 Km all’afelio).
Deve il suo nome alla divinità romana Laetitia, personificazione della gioia. Scoperto da Jean Chacornac l’8 Febbraio 1856, (39)Laetitia misura 179 km di diametro, sarà in opposizione il 15 Marzo del 2022 e raggiungerà la magnitudine di 10.3. Il suo moto sarà di 0,58 secondi d’arco al minuto, quindi, utilizzando tempi di esposizione fino a 4/5 minuti, manterremo l’oggetto di aspetto puntiforme. Per ottenere una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (39) Laetitia trasformarsi in una bella striscia luminosa di 23,2 secondi d’arco.
Questo nuovo anno 2022 sta promettendo molto bene per gli astrofili italiani che fanno ricerca di supernovae.
Dopo i successi di Gennaio di Franco Cappiello, Salvo Massaro e Mirco Villi, nel mese di febbraio, ad eludere la rete di controlli dei programmi professionali ed a mettere a segno un altro colpaccio, è stato un veterano della ricerca di supernovae amatoriale italiana. Nella notte del 7 febbraio l’astrofilo forlivese Giancarlo Cortini ha individuato una stella nuova con una luminosità intorno alla mag.+17,5 nella galassia a spirale barrata NGC1233 posta nella costellazione del Perseo a meno di 2 gradi a Sud della stella Algol ed a circa 200 milioni di anni luce di distanza dalla Terra. Il giorno seguente la scoperta, dall’Osservatorio di Asiago con il telescopio Copernico da 1,82 metri, è stato ripreso lo spettro di conferma, che ha permesso di classificare il transiente come una supernova di tipo II molto giovane cioè scoperta pochi giorni dopo l’esplosione. Alla supernova è stata quindi assegnata la sigla definitiva SN2022bqi. NGC1233 ha visto esplodere al suo interno altre due supernovae conosciute: la SN2017lf di tipo Ia scoperta il 22 gennaio 2017 dal programma professionale cinese denominato Tsinghua-NAOC Transient Survey (TNTS) e la SN2009lj di tipo Ic scoperta il 13 novembre 2009 dal programma professionale americano denominato Lick Observatory Supernova Search (LOSS). Giancarlo Cortini riveste un ruolo fondamentale nella ricerca amatoriale di supernovae. Agli inizi degli anni novanta, insieme all’amico Mirco Villi, gettò le basi per la nascita della ricerca amatoriale italiana di supernovae, a cui si è dedicato incessantemente per tutti questi anni, ottenendo numerose scoperte: 27 ufficiali e 3 indipendenti, occupando la terza posizione nella Top Ten italiana.
Abbiamo chiesto a Giancarlo un commento sulla sua scoperta e con molto piacere lo pubblichiamo integralmente:
«La scoperta è avvenuta appunto la prima parte della notte di Lunedì 7 Febbraio, quando dopo aver centrato la galassia NGC 1233, che sorveglio con una cadenza di circa 20 giorni, ho notato un oggetto stellare piuttosto debole (mag. tra +17.5 e +18.0) nella zona nord della spirale; ho pensato subito ad un eventuale pianetino (ne ho trovati più di 200 in circa 20 anni di ricerca digitale), dato che è una tipologia di oggetto ben più facile da individuare rispetto ad una SN.
Giancarlo Cortini accanto al suo telescopio C14 all’interno dell’Osservatorio di Monte Maggiore (Predappio).
Ma quando mi sono collegato col programma del Minor Planet Center, che fornisce la posizione di eventuali asteroidi entro una distanza di circa 15 primi d’arco dalla galassia ospite, ho capito che poteva essere un oggetto di natura stellare, poiché non erano presenti pianetini più luminosi della mag.+24.0! Sorvolo su tutte le verifiche preliminari, delle quali si è già parlato più volte, per arrivare al momento della comunicazione al TNS, che è sempre carico di incertezze (mi sembrava quasi impossibile essere arrivato per primo su una galassia in quell’area della fascia zodiacale). Il programma è certamente molto ricco ed esauriente, ma risulta (almeno per me) un po’ troppo farraginoso nella compilazione del report di scoperta; oltretutto spesso i professionisti hanno il vizio di non indicare il nome della galassia ospite di una eventuale scoperta, cosa che faciliterebbe di molto la verifica preliminare.
Alla fine comunque tutto è andato bene, nel senso che è stata assegnata la sigla 2022 bqi in NGC 1233; ed anche la “dolce” attesa per avere la conferma spettrale è stata abbastanza breve, dato che il sempre disponibilissimo e gentilissimo Andrea Pastorello mi ha comunicato, già la mattina di Mercoledì 9, che si trattava di una SN tipo II colta nella fase iniziale di crescita. Al giorno d’oggi è infatti impensabile scoprire SNe “vecchie” più di 1 giorno, cosa che poteva invece capitare non di rado fino a 7 – 8 anni fa (delle circa 30 SNe che ho scoperto, ben 6 erano esplose da almeno 10 – 15 giorni!). A conti fatti si tratterebbe quindi di un evento classico di tipo collasso del nucleo, con una M circa di -16.0, forse del tipo II P, ma per definire meglio lo spettro sarà necessario attendere ancora almeno qualche settimana, sempre che la stella ospite riesca ad essere ancora visibile. Con la mia strumentazione, la solita da oltre 11 anni (Celestron 14 a F/5.5, ccd Starlight X-Press Trius S9), per evidenziare bene questo evento sono necessarie pose di almeno 120 sec. Dulcis in fundo, alle prime ore di Venerdì 11 ho ritrovato la incredibile LBV in NGC 4559, di mag. +18.0 circa, forse in crescita nel suo ennesimo outburst; un Febbraio quindi di tutto rispetto per il sottoscritto.»
Chiudiamo la rubrica con una notizia che ha davvero dell’incredibile.
Immagine della galassia NGC5605 realizzata dall’astronomo americano Andrew Drake e dal suo team con il telescopio Cassengrain da 1,5 metri di Monte Lemmon in Arizona ed elaborata dall’astrofilo americano Stan Howerton.
Sono passati quasi 137 anni dalla scoperta della prima supernova extragalattica, la SN1885A nella galassia di Andromeda M31 ed in tutti questi anni abbiamo avuto galassie molto prolifiche in fatto di esplosioni di supernovae, prima fra tutte la famosa NGC6946 che in 100 anni ha visto esplodere al suo interno ben 10 supernovae. Dalla parte opposta abbiamo invece galassie come la nostra Via Lattea che aspettano da oltre 400 anni l’esplosione di una supernova. Esistono poi dei casi molto rari di due supernovae che esplodono contemporaneamente o quasi nella solita galassia, ne conosciamo circa una ventina. Ma il record assoluto che ha ottenuto la galassia a spirale barrata NGC5605, nella settimana dal 6 al 13 gennaio 2022, ha qualcosa di veramente incredibile e difficilmente replicabile. Ben tre supernovae visibili contemporaneamente in questa galassia posta nella costellazione della Bilancia a circa 170 milioni di anni lucedi distanza. Sono state scoperte tutte e tre dal programma professionale americano di ricerca supernovae e pianetini denominato ATLAS Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System. La prima denominata SN2022bn è stata scoperta nella notte del 6 gennaio di tipo Ib. La seconda denominata SN2022ec scoperta la notte del 7 gennaio di tipo II. Infine la terza denominata SN2022pv scoperta la notte del 13 gennaio anche questa di tipo II. Attualmente le tre supernovae sono molto deboli vicine alla mag.+19 e la SN2022bn vicina alla mag.+21. Pubblichiamo questa bella immagine di NGC5605 realizzata l’11 febbraio dall’astronomo Andrew Drake e dal suo team del programma professionale americano denominato Catalina CRTS con il telescopio Cassengrain da 1,5 metri di Monte Lemmon in Arizona ed elaborata dall’astrofilo americano Stan Howerton, che evidenzia la presenza delle tre supernovae. La SN2022ec di mag.+18,4 la SN2022pv di mag.+18,8 e la SN2022bn di mag.+20,7.
Marzo si apre col Novilunio del giorno 2 alle ore 18:35 rivolgendo al nostro pianeta il suo emisfero completamente in ombra, ma col lato sempre invisibile dalla Terra in piena luce solare, come sempre accade durante ogni lunazione da oltre quattro miliardi di anni. Infatti non esiste assolutamente nessun “lato oscuro della Luna” come talvolta si sente dire, in quanto il Sole illumina esattamente allo stesso modo, anche se alternativamente, entrambi gli emisferi in stretta relazione con l’avvicendarsi delle fasi. Contestualmente ripartirà un nuovo ciclo lunare che col progressivo avanzare della Luna crescente porterà gradualmente il nostro satellite nelle migliori condizioni osservative.
Infatti alle ore 11:45 del 10 Marzo il nostro satellite sarà in Primo Quarto ma per effettuare osservazioni col telescopio sarà necessario attendere fin verso le ore 19:00 circa quando la Luna, dopo il transito in meridiano delle ore 18:36 ad un’altezza di +70°, si renderà perfettamente visibile fino alle prime ore della notte seguente quando scenderà sotto l’orizzonte. Nel caso specifico le grandi strutture geologiche situate in prossimità del bordo lunare orientale risentiranno ormai del differente angolo di incidenza della luce del Sole, di sera in sera sempre più alto sull’orizzonte della Luna, a differenza di quanto accade in prossimità del terminatore dove la radiazione solare relativamente radente, a causa della bassa declinazione del Sole contribuisce ad evidenziare anche i più fini dettagli superficiali fino ad esasperarne talvolta le reali dimensioni.
Condizione, questa, ideale per chi predilige l’alta risoluzione.
Infatti, scorrendo col telescopio da est (bordo lunare) verso ovest (terminatore) non sarà difficile notare la differente percezione dei dettagli, ad esempio, se consideriamo i crateri Langrenus (long. 61.038°est), Theophilus (long. 26.285°est), Albategnius (long. 4.009°est), tre strutture situate circa alla medesima latitudine mentre la rispettiva collocazione sulla porzione lunare illuminata in occasione del Primo Quarto ne determinerà le effettive condizioni osservative in stretta relazione con l’angolo di incidenza della luce solare.
Dominando incontrastata le ore tardo pomeridiane e serali, la Luna terminerà la fase crescente col Plenilunio del 18 Marzo alle ore 08:17 in fase di 15.5 giorni, alla distanza di 382454 km dalla Terra, diametro apparente di 31.24′, ma a -14° sotto l’orizzonte. Per osservarla basterà attendere che sorga alle ore 18:46 per poi seguirne la presenza in cielo fino alle prime luci dell’alba del mattino seguente, quando poi cederà all’invadenza della luce del Sole. Considerando che le vaste aree basaltiche di colore scuro che possiamo individuare sul disco della Luna Piena che in epoche remotissime videro la loro formazione in seguito ad impatti da parte di corpi meteoritici più o meno grandi ne deriva che, anche in relazione alla loro forma più o meno circolare, effettivamente si tratta di antichissime strutture crateriformi invase da una enorme quantità di materiali e colate laviche in seguito agli sconvolgimenti geologici sopra citati. Ma ad un’attenta osservazione non potrà sfuggire come esistano anche regioni basaltiche che nulla hanno a che vedere con la citata forma circolare tipica dei bacini da impatto bensì esibiscono una conformazione decisamente irregolare.
Fra queste, nel settore settentrionale, la lunga striscia scura del mare Frigoris (436.000 kmq) con orientamento est/ovest unito al meno esteso Sinus Roris. Orientando poi il telescopio da qui in direzione sudovest si entra nell’immensa e notevolmente irregolare distesa basaltica dell’Oceanus Procellarum che con circa 2 milioni di kmq di superficie occupa gran parte del settore occidentale della Luna. Questo vero e proprio “oceano basaltico” è in diretto collegamento con l’adiacente enorme bacino da impatto circolare del mare Imbrium, mentre scendendo verso sud-sudest va a confluire con le aree altrettanto irregolari del mare Insularum, Sinus Aestuum e Sinus Medii fino al mare Vaporum. Ancora più a sud Procellarum confluisce direttamente con i mari Cognitum e Nubium da una parte e col bacino da impatto del mare Humorum dall’altra, il tutto senza particolari delimitazioni orografiche da parte di rilievi montuosi o altre strutture. Sul settore orientale della Luna invece prevalgono nettamente vari bacini da impatto con forma relativamente circolare come i mari Imbrium, Serenitatis, Tranquillitatis, Fecounditatis, Nectaris, fino al fotogenico bacino di Crisium (180.000 kmq) con la sua inconfondibile conformazione circolare priva di collegamenti diretti con le pianure circostanti essendo situato in una regione prevalentemente montuosa. Essendo il Plenilunio lo spartiacque fra Luna crescente e Luna calante, ora ripartirà quest’ultima allontanando pertanto il nostro satellite dalle comode ore serali confinandolo progressivamente sempre più alle ore notturne.
Alle 06:37 del 25 Marzo il nostro satellite sarà in Ultimo Quarto poco dopo il suo transito in meridiano (ore 06:29 a +17°) mentre per effettuare osservazioni col telescopio si dovrà attendere fino alle ore 03:21 del giorno successivo, il 26 Marzo. Fra le principali formazioni in evidenza in questa fase è quasi d’obbligo citare Copernicus, una spettacolare struttura crateriforme di 95 km di diametro e con una imponente cerchia di pareti terrazzate che si innalzano fino a 3700 mt di altezza rispetto all’area circostante. Questo cratere, di formazione relativamente recente, proviene dal periodo geologico Copernicano collocato a non oltre un miliardo di anni fa. Inoltre è sede di una notevole raggiera. Altrettanto meritevole di una visita è l’Aristarchus Plateau, altipiano con rilievi di origine vulcanica in cui si estende per oltre 160 km l’eccezionale e spettacolare solco della Vallis Schroteri (periodo geologico Imbriano, 3,2/3,8 miliardi di anni) fra i crateri Heordotus ed Aristarchus. Da qui fino agli ultimi giorni del mese la Luna sarà sempre più confinata alle più profonde ore della notte mostrando falci sempre più sottili, quasi a preannunciare il Novilunio che vedremo proprio in apertura del prossimo mese.
Le Falci lunari di Marzo
Per gli appassionati di falci lunari appuntamento per il 4 Marzo in prima serata con una bella falce di Luna crescente in fase di 2 giorni che alle ore 20:15 scenderà sotto l’orizzonte. Sulla sua superficie vi si potranno individuare le scure aree basaltiche del mare Humboldtianum a nordest ed i mari Marginis e Smythii sul bordo orientale. La serata successiva, il 5 Marzo, falce molto più comoda di 3 giorni visibile fino al suo tramonto previsto alle ore 21:25 fra le stelle dei Pesci. Oltre al già citato mare Humboldtianum, vi si potranno individuare anche il settore est del mare Crisium con gli adiacenti mari Marginis, Smythii, Undarum e Spumans oltre agli spettacolari crateri presenti lungo il margine est del mare Fecounditatis. Una falce particolarmente interessante ed anche spettacolare, anche se non proprio “sottile“ (fase di 25,4 giorni), sarà quella che sorgerà alle ore 05:48 del 28 Marzo fra le stelle del Capricorno preceduta a breve distanza da ben tre pianeti, Venere (8°), Marte (4°), Saturno (7°). A parte il fotogenico quadretto, il breve tempo a disposizione consentirà comunque alcune veloci osservazioni sulla sua superficie illuminata prima che il sorgere del Sole sul nostro pianeta prevalga nettamente. Infatti, vi si potranno individuare gran parte dell’Oceanus Procellarum e gli altipiani sudoccidentali oltre alle rispettive cuspidi nord e sud. Per questa tipologia di osservazioni, oltre agli ormai noti parametri osservativi, risulterà determinante disporre di un orizzonte il più possibile libero da ostacoli.
Librazioni di Marzo
(In ordine di calendario, per i dettagli vedere le rispettive immagini). Si precisa che, per ovvi motivi, non vengono indicati i giorni in cui i punti di massima Librazione si discostano dalla superficie lunare illuminata dal Sole.
Librazioni Regione Nord-Nordest-Est:
Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.
04 Marzo: Fase 02,07 giorni – Massima Librazione est cratere Endymion
05 Marzo: Fase 03,11 giorni – Massima Librazione nordest cratere Gauss
06 Marzo: Fase 04,07 giorni – Massima Librazione sudest cratere Gauss
07 Marzo: Fase 05,19 giorni – Massima Librazione est mare Crisium
Librazioni Regione Sud-Sudovest:
Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.
11 Marzo: Fase 09,03 giorni – Massima Librazione sud cratere Kircher
12 Marzo: Fase 10,07 giorni – Massima Librazione sud cratere Phocylides
13 Marzo: Fase 11,11 giorni – Massima Librazione sud cratere Phocylides
14 Marzo: Fase 12,11 giorni – Massima Librazione sudovest cratere Phocylides
15 Marzo: Fase 13,19 giorni – Massima Librazione sud cratere Inghirami
16 Marzo: Fase 14,19 giorni – Massima Librazione sud cratere Inghirami
17 Marzo: Fase 15,03 giorni – Massima Librazione sud cratere Inghirami
18 Marzo: Fase 16,15 giorni – Massima Librazione sud cratere Inghirami
19 Marzo: Fase 17,19 giorni – Massima Librazione ovest cratere Schickard
20 Marzo: Fase 18,03 giorni – Massima Librazione ovest cratere Piazzi.
Librazione Regione Ovest-Nordovest:
Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.
21 Marzo: Fase 19,19 giorni – Massima Librazione ovest cratere Grimaldi
Librazione Regione Nordovest-Nord:
Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.
22 Marzo: Fase 20,19 giorni – Massima Librazione nord cratere Xenophanes
23 Marzo: Fase 20,41 giorni – Massima Librazione nord cratere Xenophanes
24 Marzo: Fase 21,33 giorni – Massima Librazione nord cratere Goldschmidt
Importante riconoscimento per l’Associazione Romana Astrofili, tra i vincitori dello Shoemaker NEO Grant 2021
Tra gli otto vincitori del prestigioso premio Shoemaker, due sono italiani: oltre al Gruppo Astrofili Montelupo Fiorentino, si aggiudica il riconoscimento anche l’A.R.A. – Associazione Romana Astrofili. Le parole del presidente dell’associazione, Ing. Massimo Calabresi:
«L’Associazione Romana Astrofili (A.R.A), delegazione UAI, svolge la sua attività presso l’Osservatorio “Virginio Cesarini” di Frasso Sabino (RI) sin dal 1995, anno dell’inaugurazione dello stesso. Il gruppo di osservatori A.R.A ha sempre lavorato nella misura astrometrica di asteroidi e comete sin dagli Anni ’80, utilizzando da prima pellicole e lastre fotografiche e poi camere CCD».
L’associazione ha all’attivo la scoperta di due asteroidi della fascia principale (34138 Frasso Sabino e 257439 Peppeprosperini) e ha effettuato 6773 misure di posizione di 1703 oggetti (dati luglio 2021) tra asteroidi, NEO e comete. Collabora inoltre con gruppi di ricerca per la caratterizzazione di asteroidi, misure fotometriche di oggetti minori del Sistema Solare e stelle variabili.
La somma in denaro ricevuta, pari a 7.329 dollari, per la vittoria dello Shoemaker NEO Grant 2021 verrà utilizzata per sostituire la camera con una più sensibile e acquistare nuovi filtri fotometrici (sloan g’ e r’), con cui ottenere una più ampia gamma degli indici di colore da misurare e una maggior scelta delle stelle di confronto per le misure fotometriche.
Lo scopo? Poter rilevare – a parità di tempo di esposizione della vecchia camera attualmente in dotazione all’Osservatorio – oggetti meno luminosi e ottenere un migliore rapporto segnale/rumore nelle misure.
«Il progetto presentato, dal titolo “Astrometry and photometry instrumentation upgrade of 157 Observatory” è finalizzato all’attività di follow up sui NEO proponendo misure astrometriche su oggetti pari a 20-21 di magnitudine in banda V, l’incremento dell’attività di caratterizzazione fisica (misure di indice di colore) e determinazione delle curve di luce per la misura dei periodi di rotazione».
Sarà anche possibile realizzare la gestione del telescopio da remoto per consentire una maggiore produttività: sono già in corso test sul software realizzato per l’apertura del tetto scorrevole e per la gestione della strumentazione a distanza.
Complimenti per la vittoria a tutto il gruppo dell’Associazione Romana Astrofili da parte di Coelum Astronomia!
Quil’articolo dedicato all’altro gruppo italiano tra i vincitori dello Shoemaker NEO Grant 2021, il Gruppo Astrofili Montelupo Fiorentino
Nuova stella variabile scoperta nella costellazione del Cane Minore.
Una collaborazione proficua quella che si è instaurata tra l’Osservatorio Astronomico Margherita Hack di Firenze e l’Osservatorio Astronomico Hypatia di Rimini.
Quando il lavoro di “routine” si trasforma in una bella scoperta.
È proprio ciò che è accaduto a Nico Montigiani e Massimiliano Mannucci dell’Osservatorio Hack, e Fabio Mortari e Davide Gabellini dell’Osservatorio Hypatia.
La collaborazione tra i due osservatori, denominata “HH Collaboration“, ha avuto inizio 6 mesi fa. Lo scopo principale di questa unione è la fotometria di asteroidi, finalizzata alla definizione della curva di luce caratteristica di questi corpi. Ad ogni sessione osservativa, sono centinaia le immagini riprese per gli asteroidi monitorati: una ghiotta opportunità per analizzare anche le centinaia di stelle presenti in ogni scatto, nella speranza di imbattersi in qualcosa di nuovo o anomalo.
La scoperta
È stato durante l’analisi delle stelle di campo dell’asteroide Arequipa che l’attenzione è caduta proprio su una stella in particolare che sembrava mostrare una leggera variabilità. I dubbi però erano molteplici, in quanto si trattava di una variazione di intensità luminosa molto, molto piccola.
Dopo numerose sere spese a misurare fotometricamente le stella e unendo i dati
raccolti con quelli messi a disposizione dalle surveyASAS-SN (All-Sky Automated Survey della Ohio State University) e ZTF (le osservazioni del Palomar Observatory in California), è stato possibile far convergere i dati e ottenere una curva di luce ed il relativo periodo di variabilità.
La nuova stella variabile situata nella costellazione del Cane Minore (credits Osservatorio Astronomico Margherita Hack)
I dati raccolti sono stati comunicati all’American Association of Variable Star Observers (AAVSO), nello specifico al The International Variable Star Index (VSX).
Pochi giorni di attesa ed il 19 Febbraio 2022 è arrivata la validazione della scoperta.
È così che una nuova stella variabile è stata aggiunta la catalogo VSX e denominata Hack-Hypatia V1 (quiil bollettino ufficiale)
La variabile è situata nella costellazione del Cane Minore, ha un periodo primario di circa 2 ore 17 minuti 46 secondi, una magnitudine media di circa 13,63(V) e una escursione di poco superiore ad un centesimo.
Dalla curva di luce è stato possibile dedurre che si tratta di una variabile del tipo Delta Scuti: una stella variabile che può cambiare la propria luminosità a seguito delle
pulsazioni della sua superficie, sia radiali che non radiali. Le variazioni di luminosità
tipiche sono semi-regolari con variazioni di magnitudine tipicamente comprese tra 0,003
a 0,9 nel corso di alcune ore. Le stelle di questo tipo sono in genere giganti o
di sequenza principale di tipo spettrale da A0 a F5.
Da parte di Coelum Astronomia
complimenti agli Osservatori Astronomici Hack e Hypatia per la scoperta!
Altro che stelle fisse e cielo invariabile: gli astri si spostano, eccome. E mentre le costellazioni si deformano, Proxima Centauri perde il suo primato di stella più vicina.
La conoscenza si presenta sotto forme strane. Per me è stata quella di un CD.
Correva l’anno 1999, l’inizio dell’anno Santo a Roma e quello in cui fu osservato il primo transito di un pianeta extrasolare davanti a una stella (HD 209458). Per me era l’ultimo anno di liceo a Bellinzona ed è anche quello in cui ho capito davvero che il cielo non è per nulla immutabile.
Salutate Barnard quando passata
Avevo scelto “Astronomia” come lavoro di maturità. A insegnarci le basi era Stefano Sposetti, allora già attivissimo nella SAT, che un giorno ci aveva consegnato – a me e a un compagno – un compact disc. Il cd conteneva una serie di foto della stella di Barnard e un software attraverso il quale elaborare le immagini e ricavare il moto proprio dell’astro.
Non ricordo quanto il risultato fosse effettivamente vicino al valore corretto di 10,3 secondi d’arco all’anno. Quello che ne ricavai fu di più: la constatazione che nulla è davvero fermo lassù. A cominciare da quella stella, che in tutto il cielo ha il moto proprio più alto di tutte, tanto che a osservarla oggi sarebbe chiaramente da un’altra parte rispetto a 22 anni fa. Di magnitudo 9,51, questa nana rossa descritta per la prima volta dall’astronomo Edward Emerson Barnard nel 1916 si sta avvicinando rapidamente a noi, oggi si trova a circa 6 anni luce e fra 10mila anni ci sfreccerà vicina (relativamente: a 4 anni luce), tanto da avere la stessa distanza dalla Terra rispetto ad Alpha Centauri. Andrà quindi a un niente dal diventare la stella più vicina a noi. Nel passaggio cambierà costellazione, passando dall’Ofiuco a Ercole.
Non è però la prima stella errante che transita nelle vicinanze. A saperlo bene sono, per esempio, l’astrofisico bulgaro Valentin Ivanov e l’americano Eric Mamajek. Nel 2013, era a novembre, Mamajek si trovava in visita a Ivanov al European Southern Observatory di Santiago in Cile. In quel momento Ivanov aveva davanti a sé i dati di una piccola nana rossa di 18esima magnitudo a circa 20 anni luce da noi nominata WISE 0720−0846. Un astro sino ad allora passato inosservato, appena scoperto dall’astronomo tedesco Ralf-Dieter Scholz . I numeri suggerivano che la stella (in realtà un sistema binario composto da una nana rossa e da una nana bruna) non avesse molto moto laterale. La cosa era strana e poteva voler dire che la debole nana si stava avvicinando o allontanando da noi, per giunta a una velocità sostenuta. Quella sera i due effettuarono alcune misure e in breve tempo si accorsero che, riavvolgendo il nastro della storia, la Stella di Sholz(così chiamata in onore del suo scopritore) 77 mila anni fa era passata a 0,82 anni luce dal sole, transitando così in pieno nella nube di Oort, il nugolo di comete che circonda il nostro sistema planetario. Si trattava del passaggio più ravvicinato di una stella al Sistema Solare mai scoperto, anche se gli abitanti della Terra di allora non se ne sarebbero comunque potuti accorgere, dal momento che anche a così poca distanza la stella di Sholz sarebbe apparsa di decima magnitudo, quindi 50 volte più debole di quanto possa scorgere l’occhio nudo.
Non si tratta però sicuramente dell’ultimo passaggio ravvicinato. Il prossimo noto è in programma tra 1,2 milioni di anni, quando la stella che porta il numero 710 nel catalogo Gliese – la nana arancione attualmente di nona magnitudine – arriverà a una distanza di 1,1 anni luce.
Più in generale, il moto del firmamento è talmente intenso che nei prossimi 80 mila anni la stella più vicina alla Terra cambierà per ben 6 volte, passando dapprima da Proxima ad Alpha Centauri, per poi diventare Ross 248 attorno al 40 mila dopo Cristo. Sarà poi il turno di Gliese 445, di nuovo di Alpha Centauri e poi di Ross 128.
Nati sotto un’altra stella
Rappresentazione grafica che descrive lo spostamento del polo celeste. Credit: Società Astronomica Ticinese.
Tutto si muove dunque. Compreso quello che riteniamo il punto fermo del cielo: la Stella Polare. L’uomo e le sue tante civiltà ne hanno avute almeno due. Gli antichi egizi, cui la storia attribuisce competenze da provetti astronomi, non guardavano all’alfa dell’Orsa minore, come facciamo noi, per sapere dove era il nord, ma a Thuban, l’alfa del Dragone. Una stella decisamente più debole dell’attuale Polaris, ma che attorno al 2800 avanti Cristo si trovava praticamente in mira all’asse terrestre. Ai tempi, Polaris doveva apparire come una delle tante stelle in cielo e neppure tra le più importanti. Romani e Babilonesi non hanno invece potuto contare su un astro “perno del cielo”, visto che allora la volta celeste sembrava ruotare attorno a un punto compreso tra Thuban e l’attuale Polare. Tra duemila anni l’emisfero boreale avrà, di nuovo, un’altra stella fare da perno, ovvero Alrai (gamma Cephei, di magnitudo 3,3).
A causare questo perenne cambiamento è la cosiddetta precessione degli equinozi, il fenomeno per cui l’asse terrestre – a causa delle interazioni gravitazionali con la Luna e il Sole – si sposta lentamente in cielo, descrivendo all’incirca un cerchio che si chiude ogni 25mila anni.
E così, tra dodicimila anni l’asse terrestre (inclinato di 23 gradi e 27 primi rispetto al piano su cui si “trova” l’orbita del nostro pianeta) punterà pressappoco verso la brillante Vega, nella Lira. Prima di lei toccherà – fra 5.500 anni – ad Alderamin (in Cefeo) e fra novemila anni a Fawaris/Rukh (nel Cigno). Dopo Vega sarà il turno di due stelle nella costellazione di Ercole, poi di Edasich, nel Dragone e, in seguito – di nuovo – di Thuban. Il cerchio si chiuderà 2.500 anni più tardi di nuovo su Polaris. La tabella seguente riporta le prossime stelle polari per l’emisfero boreale così come calcolate da Cartes du Ciel, tenendo conto anche dei moti propri delle stelle.
La seconda parte dell’articolo, su come sono mutati i miti legati alle costellazioni nel corso del tempo, online il 26/02. Restate collegati!
La casa di Luke Skywalker è reale, ed è stata chiamata Kepler-16b.
Il pianeta orbita attorno a due stelle (un sistema stellare binario); di conseguenza avrebbe quindi due tramonti, proprio come il pianeta natale del protagonista di Star Wars:Tatooine.
Si trova a circa 245 anni luce dalla Terra ed era già stato individuato tramite il telescopio spaziale Kepler nel 2011. Gli astronomi della University of Birmingham sono però riusciti adosservarlo anche tramite un telescopio terrestre. I risultati dell’osservazione sono stati pubblicati nel Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
Illustrazione grafica del pianeta immaginario di Tatooine. Credit: Lucasfilm
Un pianeta circumbinario
Per individuare l’esopianeta è stato utilizzato un telescopio di 193 cm dell’Observatoire de Haute-Provence, in Francia. Il metetodo utilizzato è quello della velocità radiale, in cui gli astronomi osservano un cambiamento nella velocità di una stella mentre un pianeta le orbita attorno, ovvero la spettroscopia Doppler. E’ una delle tecniche più sfruttate in campo astronomico e la scoperta di Kepler-16b dimostra che è possibile osservare pianeti circumbinari con metodi pressoché tradizionali, utilizzando telescopi terrestri.
Rappresentazione artistica del sistema di Kepler-16b. Credit: NASA/JPL – Caltech
Un pianeta circumbinario viene definito come un pianeta che orbita attorno contemporaneamente alle due stelle di un sistema binario.
Kepler-16b, e altri esopianeti simili, si sarebbe formato all’interno di un disco protoplanetario, composto di polveri e gas, che circondava in origine due giovani stelle.
Il professor Amaury Triaud della University of Birmingham, a capo dello studio, fa però notare un fatto: «Questa ipotesi male si accosta con la realtà dei pianeti circumbinari. Due stelle binarie in verità tendono ad influenzare un disco protoplanetario, impedendo l’agglomerarsi dei detriti spaziali che possono portare all’accrescimento di un pianeta».
Rappresentazione artistica del sistema binario di HD 98800 circondato da un disco protoplanetario. Questo sistema viene usato come esempio su come un disco protoplanetario coesisterebbe con due stelle binarie. Credit: NASA/JPL -Caltech.
Kepler-16b dovrebbe quindi essersi formato lontano dalle sue due stelle madri, in un punto dove la loro influenza era più debole.
Successivamente il pianeta deve aver compiuto una migrazione verso l’interno di questo sistema binario.
«Questo fenomeno è chiamato “migrazione guidata dal disco”», spiega il dott. David Martin della Ohio State University (USA), «Sembra avvenire regolarmente ed è alla base della genesi dei sistemi binari».
I nuovi studi su Kepler-16b offrono quindi nuovi spunti d’indagine e favoriscono buone prospettive di ricerca sui pianeti extrasolari.
La dott.essa Isabelle Boisse, scienziata della University of Aix Marseille e responsabile dello strumento SOPHIE che ha raccolto i dati sull’esopianeta, conclude: «Abbiamo in programma di analizzare i dati presi da altri sistemi stellari binari e perciò svelare il mistero dei pianeti circumbinari come Kepler-16b».
Fonti:
Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (Febraury 2022): “BEBOP III. Observations and an independent mass measurement of Kepler-16 (AB)b – the first circumbinary planet detected with radial velocities” by Triaud et al.
Il pianeta WASP – 121b, conosciuto anche come “caldo Giove” per le sue alte temperature, possiede un lato oscuro scombussolato da una caotica atmosfera. Lo confermano gli astronomi del MIT, i quali hanno ottenuto per la prima volta una visione più chiara della fascia in ombra del pianeta. Queste informazioni sono state combinate con i dati raccolti sul lato diurno del pianeta, per essere pubblicate nella giornata di ieri 21 febbraio su Nature Astronomy.
L’esopianeta è un enorme gigante gassoso grande quasi il doppio di Giove. È stato scoperto nel 2015 nei pressi di una stella a circa 850 anni luce dalla Terra. La sua orbita è una delle più corte mai viste, compiendo una rivoluzione in sole 30 ore. Come molti altri oggetti troppo in orbita moltro stretta vicino ad un altro oggetto di massa considerevole, questo pienata è “bloccato dalle maree”, così che il suo lato diurno è sempre molto caldo perchè rivolto sempre verso la stella, mentre quello notturno è più freddo perchè sempre affacciato verso l’esterno.
«Questi giganti gassosi sono famosi per avere lati diurni molto luminosi, mentre quelli in ombra restano completamente nascosti ai nostri occhi», afferma Tansu Daylan, un post-doc del MIT, «Il lato oscuro di WASP-121b è circa 10 voltepiù debole di quello illuminato».
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Il giorno e la notte
Il gigante gassoso era già stato studiato in precedenza. Gli astronomi avevano tentato di analizzare il vapore acqueo e la temperatura dell’atmosfera. Ora la nuova ricerca riesce ad dare una quadro più ampio della situazione. I ricercatori sono riusciti ha mappare il lato “giorno” e il lato “notte” ed hanno visto come le temperature cambiano con l’altitudine. Sono anche riusciti a tracciare la presenza di acqua, osservando come questa circoli all’interno dell’atmosfera.
Mentre sulla Terra, l’acqua prima evapora e poi si condensa nelle nuvole, su WASP – 121b il ciclo dell’acqua risulta molto più intenso. Sul lato illuminato, le molecole di acqua vengono fatte a pezzi a temperature superiori a 3.000 Kelvin. Queste particelle divise vengono poi spinte verso il lato oscuro, dove le basse temperature consentono agli atomi di idrogeno e ossigeno di ricombinarsi per formare nuove molecole di H₂O. Un processo che sembra sostenuto da venti che sferzano intorno al pianeta ad una velocità pari fino a 5 km al secondo.
Illustrazione delle analisi compiute su WASP-121b che provano a descrivere il ciclo dell’acqua e il comportamento delle nubi di metallo dell’esotica atmosfera dell’esopianeta. Credit: MIT
L’acqua non è però l’unico elemento a circolare nell’atmosfera dell’esopianeta.
Da quanto emerso sembra poi che le fredde nubi del lato oscuro stiamo ospitando dense quantità di ferro. Nubi che, come quelle composte di acqua, arrivando sulla fascia illuminata vaporizzano sotto forma di gas lascindo cadere i metalli pesanti fino a provocare piogge di minerali.
«Abbiamo scoperto un sistema meteorologico incredibile ed esotico», afferma Thomas Mikal-Evans, primo autore dello studio e post-doc al Kavli Institute for Astrophysics and Space Research.
Per analizzare così nel dettaglio l’atmosfera di WASP-121b, è stata utilizzata una telecamera spettroscopica a bordo del telescopio spaziale Hubble della Nasa. La spettroscopia ha permesso agli scienziati di studiare caratteristiche dell’esopianeta mai individuate prima e apre nuove prospettive nella ricerca sugli esopianeti.
Come il fallimento di alcune spedizioni polari portò al rinvenimento di uno dei più grandi oggetti metallici mai caduti dal cielo.
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Città di Thule – Groelandia Maggio 1894
Nella prima partedi questo avvincente racconto, abbiamo visto come, barattando pellicce con coltelli e arpioni, Robert Peary riuscì a farsi accompagnare finalmente là dove si trovavano giganteschi meteoriti ferrosi. L’esploratore era infatti venuto a conoscenza che gli arpioni utilizzati dagli indigeni del luogo possedevano una punta metallica, ottenuta martellando a freddo frammenti di un enorme meteorite.
Ti sei perso la Prima Parte del racconto? La trovi qui
Robert Peary, qui ritratto nel 1909 a bordo della nave Roosevelt con gli abiti di pelliccia confezionati per lui dagli Eschimesi. Fu il primo esploratore a localizzare i meteoriti di Capo York (https://delphipages.live/it)
Nel 1894 Peary si era imbarcato con l’obiettivo di vincere la corsa senza precedenti che spingeva alcuni temerari a raggiungere per primi il Polo Nord.
Dovendo sostenere costi di spedizione ingenti, l’esploratore non si era dimenticato dell’offerta ricevuta dal banchiere Morris Jesup, filantropo e presidente dell’American Museum of Natural History, in merito alla generosa ricompensa promessa in cambio di interessanti reperti naturalistici da esporre al pubblico.
Falliti i tentativi di raggiungere il Polo Nord, pertanto, l’esploratore trovò il tempo per convincere un nativo a condurlo dalla “montagna di ferro” in cambio di un fucile.
Insieme a Hugh Lee, un membro della spedizione, partì il 16 maggio di quell’anno con slitta e cani verso Capo York, ma dopo un paio di giorni in mezzo alla tormenta l’accompagnatore decise di tornare indietro.
Perry e Lee avanzarono sino a un villaggio e qui reclutarono una nuova guida, un nativo di nome Tallakoteah, che raccontò loro dell’esistenza di due macigni metallici, che si trovavano nello stesso luogo, e di un altro molto più grande chiamato Ahnighito, ossia la Tenda, situato in una isola distante circa una decina di chilometri.
La fotografia mostra il meteorite Ahnighito in primo piano e alla sua destra il compagno di viaggio denominato il Cane (cortesia American Museum of Natural History)
Partiti per la spedizione e raggiunte le rive della Melville Bay, parzialmente sepolti dalla neve i tre trovarono un meteorite da 3 tonnellate, battezzato dai nativi la “Donna“, e uno da 400 kg chiamato il “Cane“.
Entrambi i meteoriti erano ricoperti da una crosta di colore bruno segnata in più parti dalle martellate a opera degli Eschimesi: un utilizzo confermato anche dagli innumerevoli massi di basalto, presenti nelle immediate vicinanze, usati per strapparne dei frammenti.
Preoccupato di assicurarsi la priorità del ritrovamento, Peary descrisse nei seguenti termini le azioni intraprese prima di ritornare indietro alla base:
Ho inciso una grossolana P sulla superficie del metallo, come indiscutibile prova di avere trovato il meteorite nel caso non fossi riuscito più tardi a raggiungerlo con la mia nave.
Oltre a ciò ritenne opportuno lasciare sul posto un biglietto con il seguente messaggio: Questo documento è depositato per dimostrare che nella sopra riportata data [domenica 27 maggio 1894] R. E. Peary della U.S.Navy e Hugh J. Lee della North-Greenland Expedition con Tallakoteah, una guida eschimese, scoprirono la famosa “montagna di ferro” menzionata per primo dal Capitano Ross.
Presa nota con cura della località, il gruppo tornò indietro e, durante il mese di agosto, tentò di avvicinarsi per caricare a bordo della nave Falcon i due meteoriti più piccoli, ma un freddo eccezionale impedì il completo scioglimento del mare ghiacciato lungo la costa e fu necessario rinviare il recupero all’estate seguente.
Il resto della spedizione rientrò negli Stati Uniti e qui la moglie, Josephine, iniziò subito a cercare nuovi finanziamenti per recuperare il marito e gli altri esploratori rimasti in Groenlandia.
Partecipò alla missione dell’estate seguente anche Rollin Salisbury, professore di geologia all’Università di Chicago, che dopo il sopralluogo eliminò ogni dubbio sulla vera natura delle grandi masse metalliche di Capo York scrivendo nel suo rapporto:
“La topografia della superficie, studiata in dettaglio, ha tutte le caratteristiche che individuano i meteoriti metallici, caratteristiche mai trovate in altre masse rocciose o metalliche della Terra […] la superficie dopo attacco acido mostra in diversi punti le figure di Widmanstätten che sono uno dei marchi distintivi di questi corpi. Un foro profondo diversi pollici consentì di stabilire il carattere metallico. Come molti altri meteoriti composti principalmente di ferro, l’ossidazione ha interessato solo un sottile strato superficiale. Queste e altre considerazioni meno facili da riassumere conducono alla sicura conclusione che le masse metalliche sono meteoriche”.
Sostenuto anche dalla perizia dell’esperto geologo, Peary decise di portare a New York la Donna e il Cane, ma movimentare oggetti tanto pesanti rese necessario mettere in atto una insolita strategia.
Il trasferimento in America
Nel 1897 Peary caricò a bordo della nave Hope il meteorite Ahnighito e questa fotografia documenta una fase di quella faticosa impresa (cortesia National Geographic) The ‘Ahnighito’ meteorite being loaded onto the deck of the ‘Hope’. Published in ‘Northward Over the Great Ice, volume #2, p. 586.
Le imbarcazioni potevano navigare nella Melville Bay solo un paio di settimane durante l’estate e proprio alcuni grandi blocchi di ghiaccio galleggianti servirono a traghettare i meteoriti sino alle fiancate della nave.
Potenti argani sistemarono nella stiva dell’imbarcazione Kite il prezioso carico, capace di rendere inutilizzabili le bussole, per poi salpare verso il porto di New York.
Il tentativo di recuperare anche Ahnighito l’estate seguente, nonostante la molta manodopera assoldata e la potente gru messa in campo, fallì a causa delle avverse condizioni meteorologiche.
Accompagnato da moglie e figlia piccola, battezzata Marie Ahnighito come il meteorite più grande, solo nel 1897 Peary terminò il recupero, segnato da difficoltà ambientali e ingegneristiche senza precedenti, caricando a bordo della nave Hope anche la “montagna di ferro”.
Le analisi condotte all’arrivo in America rivelarono modeste differenze, a conferma che provenivano tutti dalla frantumazione dello stesso oggetto.
Ahnighito rimase in deposito sino a quando, nel 1904, raggiunse l’American Museum of Natural History sopra un robusto carro trainato da 28 cavalli e l’accompagnamento della fanfara.
Josephine si adoperò a lungo per definire la vendita dei meteoriti, ricevuti in dono da Peary, e riuscì infine a chiudere la trattativa in cambio di 40.000 dollari: somma destinata al mantenimento dei figli nel futuro reso incerto dalla ferma volontà del marito di raggiungere il Polo Nord.
La donna giustificava l’importanza di quella ingente somma nella lettera indirizzata a Henry Osborn, diventato presidente del Museo nel 1908, scrivendo quanto segue:
Penso sia giusto affermare che i meteoriti sono di mia proprietà e che il denaro ottenuto in cambio non sarà speso nelle esplorazioni artiche. È tutto ciò che ho per educare i miei bambini, nel caso in cui qualcosa accada a mio marito.
La transazione giunse a conclusione dopo le polemiche sollevate da alcuni giornali, diffondendo il sospetto che la sua vera natura fosse terrestre. Ogni dubbio residuo sulla provenienza, però, fu rimosso dalla loro singolare struttura cristallina: derivante da un processo di raffreddamento lentissimo – pochi gradi per milione di anni – compatibile solo con quanto può avvenire nel nucleo di un grande asteroide.
I meteoriti di Capo York, oggi tra le principali attrazioni del Museo Americano di Storia naturale di New York, meritano in conclusione di essere rammentati perché, oltre al grande valore scientifico, favorirono per diversi secoli la sopravvivenza a una piccola comunità di Inuit.
Lunghi viaggi nello spazio profondo possono cambiare il cervello umano.
Per la prima volta sono stati osservati dei cambiamenti nella connettività strutturale dell’encefalo.
È quello che hanno scoperto alcuni neuroscienziati della University of Antwerp, con uno studio pubblicato di recente sul Frontiers in Neural Circuits. I risultati mostrano delle modifiche microstrutturali in diversi tratti della materia bianca [parte del cervello e midollo spinale che contiene le fibre nervose, ndr], ovvero i tratti sensomotori.
Simili ricerche possono costituire la base per comprendere meglio come l’uomo e il suo sistema nervoso si adattano durante le missioni spaziali.
Immagine di un astronauta nello spazio. Credit: NASA
Il nostro cervello tende a modificarsi nella sua struttura e funzione lungo tutto l’arco della vita. Poiché l’esplorazione spaziale si sta aprendo a nuovi scenari, è di fondamentale importanza comprendere gli effetti del volo spaziale sul cervello umano.
È stato dimostrato che la permanenza nello Spazio può alterare la forma del sistema cerebrale adulto.
Grazie alla collaborazione tra l’Agenzia spaziale europea (ESA) e Roscosmos, un team di ricercatori internazionale, guidato dal dott. Floris Wuyts, ha preso in esame la materia bianca presente nella parte più profonda del cervello. La materia bianca sembra essere deputata alla comunicazione tra la materia grigia e il resto del nostro corpo, favorendo di conseguenza l’acquisizione e l’elaborazione delle informazioni.
Cervello “appreso”
Per analizzare la struttura e la funzione del cervello umano dopo un volo spaziale, gli scienziati hanno sfruttato la trattografia delle fibre, una tecnica di imaging cerebrale.
«La trattografia su fibra ci fornisce una specie di schema elettrico del cervello. Siamo i primi ad utilizzare questo metodo d’indagine e quindi anche i primi ad osservare simili cambiamenti nella struttura celebrale», spiega Wuyts.
Immagine di tratti neurali associati a modifiche pre-volo. Il blu indica le connessioni delle parti “superiore – inferiore”. Il verde indica le connessioni delle aree “anteriore – posteriore”. Il rosso indica le connessioni laterali “sinistra – destra”. Credit: University of Antwerp
Sono state acquisite scansioni MRI a diffusione (dMRI) di 12 astronauti maschi prima e dopo una missione nello spazio. I cosmonauti avevano tutti compiuto missioni di lunga durata con una media di 172 giorni.
I risultati preliminari sembrano dare credito al concetto di “cervello appreso”; ovvero il nostro sistema cerebrale ha un livello di neuroplasticità tale da potersi adattare in maniera relativamente rapida ai viaggi nello spazio.
«Abbiamo riscontrato cambiamenti nelle connessioni neurali tra diverse aree motorie del cervello», aggiunge il primo autore dello studio, Andrei Doroshin della Drexel University, «Le aree motorie sono centri cerebrali da cui partono i comandi per il movimento. In assenza di gravità, un astronauta necessita di adattare velocemente la sua motricità. Per fare ciò, il nostro studio dimostra che il loro cervello viene, per così dire, “ricablato”».
Immagini tratti neurali associati a modifiche del follow-up post-volo. Il blu indica le connessioni delle parti “superiore – inferiore”. Il verde indica le connessioni delle aree “anteriore – posteriore”. Il rosso indica le connessioni laterali “sinistra – destra”. Credit: University of Antwerp
Dopo sette mesi dall’ultimi volo spaziale, tali cambiamenti sono ancora visibili.
«Tutto ciò è sorprendente», spiega Wuyts, «Inizialmente pensavamo di aver rilevato cambiamenti nel corpo calloso, ovvero l’autostrada che collega gli emisferi del cervello. Il corpo calloso confina con i ventricoli cerebrali: una rete comunicante di camere piene di liquido, che possono espandersi come conseguenza di un volo nello spazio. I cambiamenti rilevati potrebbero essere causati dalla dilatazione di tali ventricoli, i quali inducono spostamenti anatomici del tessuto neurale. Quindi si osservano modifiche solamente nella forma e ciò pone la nostra ricerca su una prospettiva del tutto diversa».
Il futuro dell’uomo nello spazio
C’è la necessità di avere chiaro come i viaggi spaziali possono influenzare il nostro corpo. Sappiamo che l’assenza di gravità comporta la perdita di massa muscolare ed ossea; perciò si è agito per prevenire simili problemi, come ad esempio svolgere attività fisica per due ore al giorno. Bisogna anche tutelare il nostro cervello e lo studio degli scienziati della University of Antwer potrebbe essere il punto di partenza per agire in modo preventivo.
«La nostra ricerca è cosìpionieristica che non sappiamo bene dove ci porterà», conclude Wuyts, «I nostri risultati contribuiscono solo ad avere una comprensione generale di quanto accade al cervello umano nello spazio. È fondamentale andare a fondo della questione utilizzando nuovi approcci d’indagine e tecniche diverse».
Fonti:
Frontiers in Neural Circuits (Febraury 2022): “Brain Connectometry Changes in Space Travelers After Long-Duration Spaceflight” by Andrei Doroshin, Stevem Jillings, Ben Jeurissen, Elena Tomilovskaya, Ekaterina Pochenkova, Inna Nosikova, Alena Rumishiskaya, Liudmila Litvinova, Ilya Rukavishnikov, Chloë De Laet, Catho Schoenmaekers, Jan Sijbers, Steven Laureys, Victor Petrovichev, Angelique Van Ombergen, Jitka Annen, Stefan Sunaert, Paul M. Parize, Valentin Sinitsyn, Peter zu Eulenburg, Karol Osipowicz and Floris L. Wuyts.
Jupiter is by far the largest and most massive planet in the solar system.
And as befits even the mightiest of gods, it surrounds itself with something of an impressive “court of miracles”, consisting of rings, 79 moons buzzing around it, comets and asteroids frequently sinking into its atmosphere, and… two swarms of asteroids preceding and following it in its orbit… the Trojan asteroids!
Illustration of the Lucy mission’s seven targets: the binary asteroid Patroclus/Menoetius, Eurybates, Orus, Leucus, Polymele, and the main belt asteroid Donald Johanson. Credit: NASA Goddard Space Flight Center
Despite all that we have discovered about Jupiter, its moons, and even its wafer-thin rings, we know very little about the Trojans. Pioneers 10 and 11, the two Voyagers, Galileo and Juno have all returned a wealth of data on the Jovian system. Until now, however, the only way to study the Trojans has been from afar, with ground-based and Earth-orbiting telescopes.
But all that is about to change. In just a few days, a new Discovery-class robotic mission is scheduled to launch in 2021. The space probe will visit and explore six different Trojans of Jupiter and “in passing” also an asteroid in the main belt.
This artist’s concept depicts the Lucy spacecraft flying past the Trojan asteroid (617) Patroclus and its binary companion Menoetius. Lucy will be the first mission to explore Jupiter’s Trojan asteroids – ancient remnants of the outer solar system trapped in the giant planet’s orbit. Credit: NASA’s Goddard Space Flight Center
So little is known about the Trojans that the data that the probe will send us will surely revolutionize our understanding of their origin and that of the entire solar system.
We’re used to thinking that the objects that populate our solar system all revolve around the sun, each of them neatly in its own orbit. But there is one class of objects, the “Trojan” asteroids, that prefers to go their own way in good company.
The “Trojans” are small planets that in astronomy are immediately distinguished from all others. In fact, they revolve around the Sun occupying (without disturbing) the orbit of a planet, preceding it or following it along its celestial circuit; with the same period of revolution, but moved on average of an angle of about 60° ahead or behind it. This particular configuration tends to remain stable, in the sense that a slight advance or a slight delay, instead of accumulating over time, are compensated by a dynamic effect that tends to bring the planet “on track”. If this dynamic effect (discovered by Turin mathematician Giuseppe Lagrange in 1772) did not act, sooner or later the Trojan would come close to the planet to the point of receiving a gravitational push that would send it on a different orbit, a fate that sooner or later (over tens or hundreds of thousands of years), touches all asteroids that cross the orbits of the major planets, except for the Trojans.
Illustration of Jupiter and Trojan asteroids. Image credit: NASA/JPL-Caltech
But how long have we been aware of the existence of these unique hitchhikers in the sky?
Well… the German astronomer Max Wolf accidentally discovered the first Trojan – later called Achilles – with the help of the emerging photographic technique. It was February 22, 1906, and Wolf was just exploring the region corresponding to Jupiter’s Lagrangian Point L4. Eight months later, one of his students, August Kopff, discovered a second in L5, and in the following February a third, this time in L4.
Almost all asteroids at that time were given a feminine gender name taken from Roman and Greek mythology, but Austrian astronomer Johann Palisa suggested that all asteroids in Jupiter’s orbit be named after the heroes of the Trojan War. And the first three were in fact named Achilles, Patroclus, and Hector.
However, the number of discoveries was increasing, and to make order it was decided to give to asteroids discovered in the point L4 (the “Greek Field”), the names of Greek heroes, and the names of Trojan heroes to those found in L4 (the “Trojan Field”).
Credit: Roen Kelly
The curious fact is that Patroclus (in L5) and Hektor (in L4) were named before this convention took hold… so that each camp still houses an “enemy spy”… (Patroclus in the Trojan camp and Hektor in the Greek camp).
Meanwhile, the number of discoveries grew, yes, but very slowly. In 1961, more than half a century later, the Trojans amounted to just 14 members.
Then, as instrumentation progressed, the two regions on either side of Jupiter began to crowd together. Slowly at first, and then faster and faster. To date, about 9000 Trojans have been cataloged: two-thirds of the total in the “Greek Field”. A quantity so large as to make it impossible to continue to assign names taken from the Iliad. So the International Astronomical Union (the official Keeper of Space Names) allowed naming them after Olympic athletes.
A decision in our opinion very questionable.
By extension, asteroids that are located at points L4 and L5 of other planets in the Solar System are also called “Trojans”. At present, only for Mars and Neptune, 4 and 6 Trojans are known, respectively. To avoid confusion with those of Jupiter, the adjective Trojans should be followed by the name of the planet. When nothing is specified, it is implied that they are the Trojans of Jupiter.
The origin of the Trojans has always been a very controversial subject, and still is. The hypotheses are diverse. They range from the capture of fragments of a Jovian satellite destroyed by tidal interaction with the planet, to the entrapment of planetesimals orbiting near proto-Jupiter, to the capture of short-period comets.
However, according to the results of recent numerical simulations on the early evolutionary phases of the Solar System, the Trojans would not be bodies captured by Jupiter during its planetary accretion phase, but asteroids from the outer Solar System… captured and then trapped forever in the L4 and L5 Lagrangian points of the Jupiter-Sun system.
Planet formation and evolution models suggest that the Trojan asteroids are likely remnants of the same primordial material that formed the outer planets, and thus serve as time capsules from the birth of our solar system over 4 billion years ago. These primitive bodies hold vital clues to deciphering the history of our solar system and may even tell us about the origins of organic materials – and even life – on Earth.
That is to say that over billions of years Jupiter has collected and preserved, in two vaults sealed by its gravitational field, thousands of objects that can be considered the fossils of the solar system in formation.
For astronomers, it would be a dream to get their hands on those treasures, and finally, understand how it all began…
And that’s where Lucy comes in.
About 3.2 million years ago, in what is now the Awash River Valley in Ethiopia, a small bipedal creature ceased to live. It is not known how it happened… death took it on the banks of a swamp, probably from exhaustion. Fortunately, no predator touched its remains, so that the body, submerged in mud, earth, and volcanic dust, fossilized over the millennia to become rock. Then, in 1974, a team of paleoanthropologists led by Donald Johanson had the good fortune to bring to light about 40% of its skeleton.
Credit: Houston Museum of Natural Science
Never had such an ancient bipedal hominid been found, and our distant ancestor was recognized as the first representative of a new hominid species, Australopithecus afarensis, becoming the most famous pre-human fossil in history.
Her scientific name is AL 288-1, but everyone knows her as Lucy. A name that comes from the equally famous Beatles song, , which Johanson’s team was listening to in camp the night of the discovery.
Over the years, Lucy has proven to be a veritable mine of information about the physical constitution of the hominids of that period, helping us to reconstruct the evolutionary history of our species.
And in the same way, a probe bearing her name and about to be launched in these very days will attempt to wrest the secrets of the formation of the solar system from fossils of another kind: the Trojans of Jupiter!
Ha un nome tutto nuovo la prossima missione dell’ESA, un nome che parla proprio del suo obiettivo: vegliare sulla Terra e avvisarci dell’arrivo di tempeste solari potenzialmente dannose
È appena stata rinominata “Vigil” la missione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), precedentemente nota come Lagrange, incaricata di monitorare il Sole e allertarci delle variazioni inattese della sua attività.
Lo scopo? Quello di proteggere infrastrutture terrestri, satelliti ed esploratori spaziali. Se la cercate, la troverete nella sezione “Safety and security” del sito dell’ESA.
Un nome evocativo
La notizia di alcuni giorni fa, dicevamo, è che la missione ha un nuovo nome, scelto attraverso un concorso internazionale.
“Vigil” ha derivazione latina e significa – nomen omen – fare la guardia, presidiare. Vediamo perché.
Dopo il lancio previsto per il 2025, Vigil stazionerà in uno dei cinque punti lagrangiani del sistema Terra-Sole, in cui l’equilibrio è garantito da un bilanciamento dell’attrazione gravitazionale dei due corpi. In particolare, la missione opererà in L5, a circa 150 milioni di chilometri di distanza dal nostro pianeta.
«Vigil si troverà in una posizione particolare, uno dei punti di equilibrio tra la Terra e il Sole in cui è possibile posizionare un satellite in orbita: i cosiddetti punti “Lagrangiani” (dal nome del matematico e astronomo Lagrange che per primo li identificò)», ci spiegaAlessandro Bemporad, astronomo dell’INAF di Torinoesperto di fisica del Sole. «Attualmente nessun satellite orbita in questa posizione che si trova lungo l’eclittica, ma spostata indietro di circa 60 gradi rispetto alla congiungente Terra-Sole».
Il Sole emette intense radiazioni in tutto il Sistema solare e, non di rado, è protagonista di esplosioni di grandi quantità di materiale energetico che viene eiettato nello spazio in ogni direzione, causando i fenomeni che gli astronomi chiamano Space weather (o meteorologia spaziale).
Parliamo di brillamenti solari, che si originano da regioni attive e visibili (come le macchie solari) e rilasciano grandissime quantità di energia lungo tutto lo spettro elettromagnetico, dalle basse frequenze delle onde radio, alla luce visibile, fino alle energie più alte dei raggi X e gamma. Oppure anche espulsioni di massa coronale, che possono scagliare miliardi di tonnellate di materia nello spazio a velocità che raggiungono i 3000 km/s.
Una vigile sentinella
Quando queste componenti delle tempeste solari sono dirette verso la Terra, possono interagire con la magnetosfera terrestre, dando origine – ad esempio – alle aurore polari. Non solo, possono creare disturbi o interruzioni dell’attività dei satelliti, inficiando strutture come reti elettriche, i servizi di navigazione aerea e marittima, i trasporti, il meteo e le telecomunicazioni. Non da ultimo, quantità ingenti di radiazioni possono essere dannose per gli astronauti in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale, oggi, e sulla Luna un domani.
«Da questa posizione particolare sarà possibile monitorare la formazione di nuove macchie solari e vedere le regioni in cui sorgono eruzioni solari 4-5 giorni prima che queste, con la rotazione del Sole, si rivolgano verso la Terra» spiega Bemporad. «Inoltre, quando si verificherà un’eruzione, da questa posizione sarà possibile seguirne la propagazione interplanetaria verso la Terra. Grazie ai dati forniti da questa sonda miglioreremo quindi le nostre capacità di previsione delle eruzioni solari prima che si verifichino e anche le stime del tempo di propagazione delle stesse, prevedendone l’arrivo sulla magnetosfera terrestre e quindi la possibile induzione di tempeste geomagnetiche».
Attualmente, gli strumenti che monitorano H24 il Sole sono in grado di predire possibili eruzioni solari solo poche ore a ridosso del fenomeno.
«Con le attuali conoscenze non è possibile dire “se e quando” un’eruzione solare avverrà: possiamo solo stimare la probabilità che questo avvenga entro le prossime 24 ore» conclude il ricercatore. «L’affidabilità di questa previsione migliorerà notevolmente se potremo seguire determinate regioni solari per più di una settimana, perché avremo più informazioni sulla loro evoluzione. A livello pratico queste previsioni aiuteranno moltissimo a prevenire effetti di interesse per la meteorologia spaziale. È giusto di pochi giorni fa la notizia della perdita di una quarantina di satelliti Starlink a causa dell’attività solare, evento che poteva essere evitato avendo a disposizione previsioni migliori. Altri effetti importanti sono, ad esempio, il danneggiamento anche permanente di satelliti per telecomunicazioni e GPS, il disturbo delle trasmissioni radio, della durata anche di giorni, e l’arrivo di particelle, sorgenti di radiazioni pericolose non solo per gli astronauti, ma anche per il personale di bordo degli aerei intercontinentali».
Crediti immagine: ESA/A. Baker
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La sonda ESA/NASA Solar Orbiter ha ottenuto le immagini della più grande eruzione solare mai osservata all’interno del disco solare.
Immagine dell’eruzione solare scattata dalle telecamere di Solar Orbiter. Credit:ESA
Questi eventi, noti come “protuberanze solari”, consistono in grandi strutture di linee di campo magnetico aggrovigliate che sostengono dense concentrazioni di plasma sospese sopra la superficie del Sole, assumendo a volte la forma di giganteschi anelli. Si associano ad esplosioni di massa coronale che, se dirette verso la Terra, possono provocare intense tempeste geomagnetiche.
Le spettacolari immagini di Solar Orbiter risalgono al 15 febbraio scorso, e l’eruzione si è estesa per milioni di chilometri nello spazio. Fortunatamente, l’esplosione non era puntata in direzione del nostro pianeta. La sonda SOHO che sta monitorando il plasma espulso conferma come lo stesso si stia completamente muovendo verso un’altra direzione.
Immagini di SOHO LASCO C2 . Il disco oscuro rappresenta il disco solare da cui fuoriescono i bagliori circostanti. Credit: ESA
Solar Orbiter ha raccolto questi incredibili dati tramite un strumento, chiamato “Full Sun Imager” (FSI) dell’Extreme Ultraviolet Imager (EUI). FSI è stato progettato per scandagliare nella sua interezza il disco solare durante i passaggi ravvicinati della sonda europea intorno al Sole. Il prossimo 26 marzo, il veicolo spaziale passerà così vicino alla nostra stella, che il Sole occuperà una porzione ancora più ampia del campo visivo del telescopio. Fino a quel momento però, FSI può ancora avere una grande visuale del disco solare, per così poter catturare dettagli fino a circa 3,5 milioni di km, equivalenti a cinque volte il raggio del Sole.
Quanto osservato da Solar Orbiter permette agli astronomi di studiare in tempo reale i fenomeni del disco solare. Altre missioni spaziali stanno ammirando l’evento, oltre il telescopio SOHO e la sonda Parker Solar Probe della NASA che nei prossimi giorni, eseguiranno osservazioni congiunte del disco solare.
Immagine ottenuta da FSI. Il Full Sun Imager (FSI) dell’Extreme Ultraviolet Imager (EUI) a bordo della navicella Solar Orbiter, si vede il disco solare e lo spazio circostante per circa 3,5 milioni di chilometri. Credit: ESA
Sebbene questo evento non abbia causato un’esplosione di particelle pericolose verso la Terra, fenomeni simili ci devono ricordare quanto sia imprevedibile la natura del Sole, e quanto sia importante comprendere e monitorare il comportamento della nostra stella. Future missioni di meteorologia spaziale, come ESA Vigil, forniranno informazioni utili per proteggere meglio il nostro pianeta natale.
Maura Tombelli e Fabrizio Bernardi del GrAM (Gruppo Astrofili Montelupo) e dell’Osservatorio Beppe Forti vincitori del Shoemaker NEO Grant 2021
La testimonianza di Maura Tombelli per Coelum Astronomia
Un riconoscimento prestigioso per gli astrofili del GrAM – Gruppo Astrofili Montelupo Fiorentino. Sono infatti tra i vincitori del Shoemaker NEO Grant 2021, indetto dalla Planetary Society. Il premio internazionale assegnato agli astrofili impegnati a cercare, tracciare e caratterizzare i NEO, ovvero gli asteroidi (e oggetti celesti) che orbitano vicino alla Terra.
Coelum Astronomia ha intervistato Maura Tombelli, astrofila con all’attivo la scoperta di ben 199 asteroidi, titolare del premio insieme a Fabrizio Bernardi.
Buongiorno Maura. Innanzitutto i nostri più sinceri complimenti a lei, a Fabrizio Bernardi e a tutti i collaboratori del GrAM! Mi auguro di non interrompere nessun lavoro al momento.
Buongiorno a voi! Vi ringrazio e assolutamente nessun disturbo: in questi giorni qua [a Montelupo Fiorentino, ndr] è nuvoloso, poi in queste notti a cavallo della Luna piena abbiamo potuto far poco… sa, di solito gli astrofili si riposano quando c’è Luna piena!
Ci parla del Premio? In cosa consiste e come si accede alle candidature?
La domanda di candidatura è stata fatta quasi per “scherzo”: nel senso che non credevo saremo stati scelti! Non avevamo mai provato a far domanda negli anni passati perché l’Osservatorio era ancora da finire, ma quest’anno (il 2021) abbiamo deciso di tentare. Siamo stati selezionati perché è stato riconosciuto il nostro grande lavoro: ci occupiamo infatti principalmente dei follow up dei NEO – Near Earth Objects e il Premio è rivolto agli astrofili che hanno bisogno di implementare la loro strumentazione per svolgere al meglio questo lavoro di ricerca. Con il GrAM abbiamo svolto molte ricerche, supportati naturalmente da professionisti: il nostro referente scientifico è Fabrizio Bernardi cofondatore di SpaceDyS, azienda italiana che fornisce servizi e software per le Agenzie Spaziali e l’industria aerospaziale. In questa azienda si occupano anche di calcolare le orbite asteroidali, verificando se possano rappresentare un pericolo per la Terra. Ogni giorno alle 17, all’Osservatorio Beppe Forti riceviamo la Priority List stilata dalla SpaceDys per controllare a nostra volta questi asteroidi.
Fabrizio Bernardi è l’altro nome che, assieme a lei, viene menzionato tra i vincitori del Premio.
Fabrizio è un amico, prima ancora che un collaboratore. Ci siamo conosciuti quando era ancora uno studente di astronomia, all’Osservatorio di Campo Imperatore. Poi ha lavorato per molti anni alle Hawaii, al telescopio Subaru di Mauna Kea, e ho avuto la fortuna di andare a trovarlo e lavorare con lui anche là, cementando la nostra amicizia. Fabrizio ci sta supportando molto e collabora strettamente con il GrAM.
Al GrAM sono stati assegnati 13 mila dollari. Cosa si potrà realizzare con questa cifra?
Con la somma del Premio acquisteremo una nuova camera con sensore CCD più grande, per consentire un campo visivo molto più ampio (40×40 arcominuti). Finora coprivamo un campo molto più ristretto; gli asteroidi pericolosi per la Terra si muovo velocemente sullo sfondo del cielo e ad attraversare questa porzione di cielo ci impiegano poco: con un campo più grande possiamo seguire meglio questi oggetti. Con una camera ad alta efficienza quantica sarà possibile catturare un maggior numero di fotoni e quindi catturare anche le magnitudini di oggetti più deboli.
I successi del Gruppo Astrofili di Montelupo Fiorentino non si arrestano. Ci parla di qualche numero?
In Italia siamo al secondo posto, subito dietro all’Osservatorio Schiapparelli, per lo studio dei NEO. Inoltre siamo sedicesimi a livello mondiale! Mi è arrivata proprio ieri la comunicazione. Non posso che esserne orgogliosa!
Un consiglio per tutti gli appassionati astrofili che vogliono avvicinarsi a questo mondo della “caccia agli asteroidi”?
Innanzitutto: l’unione fa la forza. Avvicinatevi ai gruppi astrofili della vostra zona. E poi: il campo dell’astronomia è pieno di cose da fare. A partire da osservare il cielo ed emozionarsi, fino a dare importanti contributi anche nel nostro piccolo. Ci sono tante cose che possono servire, oltre a monitorare i NEO, come anche lo studio delle stelle variabili. E poi le foto astronomiche, in grado di ricordarci la bellezza del nostro cielo.
Un sentito ringraziamento a Maura Tombelli e ancora complimenti a tutto il GrAM da parte di Coelum Astronomia!
Oggi ci catapultiamo direttamente nel 1986. Sì, abbiamo scavallato la metà degli anni ’80, ma niente paura, c’è ancora tantissima carne al fuoco! Che dire di questo anno? Gli hacker, che ancora non sapevano di esserlo, diffusero il primo virus informatico al mondo il 9 gennaio, così, per cominciare bene l’anno.
Sull’altro lato informatico, quello buono invece, uscivano videogame leggendari come Arkanoid, Bubble bubble, The Legend of Zelda (si chiama LINK!) e quel monello ammazzavampiri di Castlevania. Il 1986 è anche l’anno di un fallimento epico, quello dello Space Shuttle Challenger che esplode nella fase di decollo fumando tutti e sette gli astronauti a bordo.
Mentre nelle fumetterie usciva per la prima volta Dylan Dog, una mucca impazziva, a causa di un prione, in un allevamento dell’Hampshire. Ve lo ricordate o avete rimosso? Non si mangiarono hamburger per mesi! Per continuare la serie di sventure, in aprile ci fu la catastrofe nucleare di Černobyl, quando uno dei quattro reattori della centrale termoelettrica nucleare Ucraina subì un surriscaldamento e il suo nucleo si fuse, facendo esplodere tutto e disseminando nell’ambiente materiali fortemente radioattivi. Pensate, l’intera popolazione della città e dintorni fu esposta nei primi 10 giorni a una radioattività 100 volte superiore a quella subita dagli abitanti di Hiroshima per lo scoppio della prima bomba atomica del 1945. Gli effetti nocivi si riscontrarono anche in gran parte dell’Europa centromeridionale.
Dicono che le comete portassero sventura. Ovviamente non è vero, ma nel 1986 ci fu il passaggio della cometa di Halley che ritornava alla minima distanza dalla Terra, a 63 milioni di km l’11 aprile. Il cinema non era da meno. Nelle sale uscivano Aliens, Critters e La Mosca. Tanto per rimanere in tema. Ma nonostante tutto il cosmo era sempre lì, ad attendere e guardare con compassione le nostre vicende, che rispetto all’anno prima diventavano via via sempre più imbarazzanti. Tuttavia per tenere su l’asticella, gli scienziati si davano da fare per apparire più fighi possibile e fare scoperte toghe. Certo, non avranno avuto lo stesso appeal di Maverick che quell’anno faceva sbavare miliardi di pulzelle e sognare di essere aviatori circa il 99.9% dei teenager, ma almeno ci provavano.
Nel 1986 infatti, alcuni scienziati scoprirono il moto d’insieme delle galassie prossime alla nostra Galassia. Le osservazioni, compiute da diversi astronomi utilizzando strumenti portati da veicoli spaziali, resero infatti possibile capire che il superammasso costituito dalla nostra Galassia e dalle galassie relativamente vicine aveva un moto apparentemente rettilineo e uniforme verso un punto preciso, situato nella costellazione della Croce del Sud. Ora sappiamo che lì c’è una grande concentrazione di massa, chiamata con molta fantasia, Grande Attrattore. Nello stesso anno, la sonda planetaria statunitense Voyager 2 sorvolò Urano, a soli 81500 km dalle nubi del pianeta e ricavando dettagliate mappe fotografiche dei 5 satelliti noti (e sì, Urano ha 5 satelliti): Miranda, Ariel (no, non la sirenetta), Umbriel, Titania e Oberon (il giovane mago) e ne scoprì 10 nuovi più piccoli. Last but not the least, fotografò dettagliatamente 10 degli anelli del pianeta e le sue nubi.
Il 1986 è l’anno in cui la stazione spaziale sovietica Mir venne messa in un’orbita quasi circolare a 233,5 km di quota, permettendole di percorrere 16 volte al giorno il giro del mondo, in modo da esplorare quasi tutta la Terra. La struttura era composta da una parte centrale e 6 moduli principali, per una lunghezza complessiva di 33 m, una larghezza di 27 m e una massa totale di 130 t, attrezzata in modo da potere ospitare fino a 6 astronauti di varie missioni, anche internazionali. Siccome i russi facevano le cose per durare nel tempo, la sua vita, prevista per soli 5 anni, si protrarrà per oltre 15, sino al marzo 2001. Che ne pensate? Anno tosto vero il 1986?
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