Programma: 9 – 12 marzo 2017 – Il Congresso degli Astrofili Ricercatori
Il Congresso degli Astrofili Ricercatori si terrà nelle date indicate presso il Museo Civico di Scienze Naturali di Faenza (via Medaglie d’Oro, 51) con esposizione delle principali opere e gli strumenti di G. B. Lacchini. Il 9 marzo, durante la serata inaugurale del congresso sarà opite d’onore l’astronautica ed astrofisico Umberto Guidoni.
L’11 e il 12 marzo si terranno alcune conferenze e dibattiti tenuti dagli astrofili ricercatori italiani, suddivisi
per sezione:
– Asteroidi
– Meteore
– Novae
– Pianeti extrasolari
– Spettroscopia
– Supernovae
– Stelle variabili
Il Convegno è rivolto agli astrofili ricercatori a livello nazionale con alcuni contributi culturali di livello internazionale. 18 marzo – 2 aprile – Mostra: “l’astronomia attorno a noi”
Dal 18 marzo al 2 aprile 2017 sarà allestita presso il Palazzo delle Esposizioni di Faenza la mostra “l’astronomia attorno a noi”.
Questa iniziativa, che si svilupperà in collaborazione con la Palestra della Scienza, varie componenti del Tavolo della Scienza del Comune di Faenza ed altre importanti realtà locali, sarà incentrata su diverse sezioni principali:
– storica (anche con alcune opere e strumenti di Lacchini)
– moderna (nuove conoscenze)
– artistica, con opere prodotte con tecniche diverse, ma inerenti l’astronomia
– concorso rivolto alle scuole
– laboratori didattici
– libri (anche con testi di Lacchini di cui alcune riproduzioni)
Le varie sezioni saranno inoltre arricchite con la presenza di numerosi exhibit che renderanno più accattivante la fruizione e la comprensione dei principali concetti scientifici presentati. Il programma dell’esposizione sarà inoltre arricchito da eventi collaterali inerenti, conferenze, dibattiti ed altro che ripercorreranno l’evoluzione delle conoscenze di astronomia degli ultimi due secoli.
Fino a lunedì 3 aprile ospitiamo il Corso teorico di astronomia generale: un ciclo di conferenze settimanali che offre uno sguardo su argomenti raramente trattati nei corsi divulgativi. Scopriremo quali leggi fisiche agiscono nei più importanti fenomeni astronomici, per comprendere l’universo e la scienza che lo studia: approfondimenti di grandissimo interesse per gli appassionati. Un modulo riguarderà anche la meccanica quantistica.
– Gli incontri si svolgeranno tutti i lunedì dalle 21 alle 22.30 presso la nostra sede: sala conferenze San Gregorio Barbarigo, di fronte alla Metro B.
– Lunedì 6 marzo: “Corpi…neri come stelle!”.
Quanta luce emette una stella? E perchè? La fisica ebbe una crisi senza paragoni per rispondere a questa domanda, con conseguenze immense e imprevedibili.
– Lunedì 13 marzo: “La nascita dell’astrofisica”.
Come sappiamo composizione chimica, temperatura, pressione, velocità, massa e altre caratteristiche delle stelle? ..La lezione comprende un’esperienza pratica: osserveremo dal vivo lo spettro discreto ad emissione tipico delle nebulose interstellari.
– Lunedì 20 marzo: “Le dimensioni dell’Universo”.
Un taglio storico per approfondire l’argomento delle distanze astronomiche. In dettaglio: Parallasse, Cefeidi, Supernovae Ia e le altre candele standard, costante di Hubble e Oscillazioni di Massa Barionica. Sul filo tra scienza e umanesimo.
Ci saluta invece la 45P/Honda- Mrkos- Pajdusakova. Già passata al perielio e alla minima distanza dalla Terra, si sta ora allontanando per tornare a trovarci fra cinque anni. Diamole un ultimo saluto prima che si indebolisca troppo, cercandola nella prima parte del mese, appena dopo cena, nella pancia del Leone. L'immagine di Rolando Ligustri ce la mostra di passaggio vicina alle galassie NGC 4656 e NGC 4631. (qui l'immagine originale ad alta risoluzione: http://www.astrobin.com/full/284181/0/
Ci saluta invece la 45P/Honda- Mrkos- Pajdusakova. Già passata al perielio e alla minima distanza dalla Terra, si sta ora allontanando per tornare a trovarci fra cinque anni. Diamole un ultimo saluto prima che si indebolisca troppo, cercandola nella prima parte del mese, appena dopo cena, nella pancia del Leone. L'immagine di Rolando Ligustri ce la mostra di passaggio vicina alle galassie NGC 4656 e NGC 4631. (qui l'immagine originale ad alta risoluzione: http://www.astrobin.com/full/284181/0/) La mappa mostra il percorso seguito dalla cometa 41P/Tuttle-Giacobini-Kresak nel periodo compreso tra il 25 febbraio e i primi giorni di aprile. Si nota il lungo tragitto percorso che porterà il bell’astro chiomato a viaggiare attraverso numerose costellazioni. (L’aspetto del cielo si riferisce alle ore 22:00 per una località posta alle coordinate 42° N 12° E).
La 41P/Tuttle-Giacobini-Kresak, passerà al perielio il13 aprile transitando a poco più di 1 UA dal Sole. In quel momento disterà circa 22 milioni di chilometri dalla Terra. Fortunatamente le condizioni prospettiche per una volta ci sono favorevoli, permettendoci di osservarla nelle migliori condizioni. Ma già in marzo dovrebbe risultare un oggetto notevole, soprattutto verso la fine mese, quando sarà vicina alla massima luminosità che gli esperti indicano in una buona sesta magnitudine, forse qualcosa in meno.
Poco prima dell’alba del 22 marzo passerà a meno di un grado dalla galassia M 108 e dalla planetaria M 97 e nella stessa giornata, ma in serata, la troveremo a mezzo grado dalla galassia e sempre sotto il grado dalla planetaria. Due momenti in cui gli astrofotografi potranno catturare bellissime mmagini e i visualisti potranno lustrarsi gli occhi sservando nello stesso campo tre oggetti diversi.
La C/2015 V2 Johnson intanto, da “cometina” di secondo piano, si sta man mano trasformando in un oggetto sempre più convincente. D’altra parte così deve essere, dato che si sta avvicinando al Sole. La troveremo tra le stelle dell’Ercole.
Visualizzazione 3D della distribuzione, così com’è stata ricostruita dai dati della survey Hst Frontier Fields, dei grumi di materia oscura in un ammasso di galassie lontane. Crediti: Yale University
Visualizzazione 3D della distribuzione, così com’è stata ricostruita dai dati della survey Hst Frontier Fields, dei grumi di materia oscura in un ammasso di galassie lontane. Crediti: Yale University
Non sanno cosa sia. Non sanno che colore abbia. Non sanno se sia formata da particelle leggere o pesanti, calde o fredde. Della materia oscura non sanno quasi niente. Ma una cosa la sanno: esercita attrazione gravitazionale, proprio come tutta l’altra materia, quella che conosciamo, quella di cui siamo fatti. E tanto si sono fatti bastare per tracciarne mappe dettagliatissime, con una risoluzione fra le più elevate mai ottenute.
Stima della distribuzione della massa-energia nell'universo (rilevazioni del satellite Planck del 2013): Energia oscura, Materia oscura, Materia conosciuta. By Szczureq (Own work) CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.
Come ci sono riusciti? Sfruttando, appunto, quell’unica proprietà della quale sono certi: la forza gravitazionale. O meglio, la deformazione impressa dalla materia – normale o oscura che sia – sul tessuto dello spaziotempo. Deformazione alla quale, Einstein ci insegna, non sfugge nemmeno la luce, costretta a deviare dal suo percorso rettilineo in corrispondenza di grandi masse. Con effetti sorprendenti come quello – ben noto agli astronomi – della lente gravitazionale: una “lente d’ingrandimento” cosmica costituita non da vetro opportunamente molato bensì da enormi agglomerati di materia. Nel caso specifico, interi ammassi di galassie. Ammassi che – proprio come il vetro della lente – possono avere come effetto quello di convergere a favore di chi osserva i raggi di luce emessi da lontane sorgenti alle loro spalle.
Un effetto che, di solito, gli astronomi sfruttano per vedere meglio cosa c’è, dietro alla lente. Non in questo caso. Questa volta l’oggetto di studio, l’incognita, era la “lente” stessa. Conoscendone l’effetto atteso e assumendo di conoscere le sorgenti alle loro spalle, un team internazionale di astrofisici, guidato da Priyamvada Natarajan della Yale University, ha così potuto tracciare, procedendo a ritroso, la struttura di tre “lenti”: vale a dire, la mappa ad alta risoluzione della distribuzione della materia in tre ammassi di galassie. Materia costituita, se i modelli cosmologici sono corretti, per circa l’80 per cento dalla sua componente oscura.
Fra gli autori dello studio, pubblicato martedì su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, anche un ricercatore dell’Inaf di Bologna, Massimo Meneghetti.
Meneghetti, partiamo dall’inizio. Quali telescopi avete utilizzato?
«Il nostro lavoro è basato su una serie di osservazioni condotte dallo Hubble Space Telescope nell’ambito di una survey denominata “Hubble Space Telescope Frontier Fields”: si tratta di osservazioni cui Hubble ha dedicato una quantità di tempo paragonabile a quella spesa nelle osservazioni dei suoi campi più profondi, ad esempio lo Hubble Ultra-Deep-Field. Vale a dire che stiamo parlando di osservazioni tra le più profonde mai fatte. A differenza dello Hubble Ultra-Deep Field, tuttavia, i Frontier Fields sono centrati su alcuni ammassi di galassie, sei in totale».
L'ammasso di galassie A2744, in cui sono state identificate, grazie all'effetto di lente gravitazionale, 181 immagini originate da 61 galassie. Si tratta di unìimmagine a lunga esposizione ripresa dal Telescopio Spaziale Hubble.
Di che ammassi si tratta?
«Questi oggetti sono tra le strutture cosmiche più massicce che si possano osservare in cielo, e sono stati scelti perché sono delle potentissime lenti gravitazionali. La teoria della relatività generale ci spiega che le masse sono in grado di deflettere la luce in modo molto simile a quanto accade in un fenomeno di rifrazione, dando luogo a effetti quali la comparsa di immagini multiple di una stessa sorgente, distorsione della forma delle immagini e ingrandimenti (o rimpicciolimenti) di una sorgente. Questo fenomeno è detto “lensing gravitazionale”. Nei Frontier Fields, gli ammassi di galassie sono le lenti che agiscono da rifrattori su un gran numero di sorgenti retrostanti».
Ecco, le sorgenti retrostanti: cosa sapete di loro?
«Sono galassie molto lontane e, data la profondità delle osservazioni in questione, che permette di rivelare anche le sorgenti più deboli, nelle immagini degli Hubble Frontier Fields, ne stiamo rivelando un numero senza precedenti. Ad esempio, dietro all’ammasso A2744 sono state identificate 181 immagini originate da 61 galassie: 61 galassie che risultano quindi distorte dalla lente gravitazionale e rese visibili molteplici volte nella stessa immagine astronomica. Nel caso dell’ammasso MACSJ0416 sono state invece identificate 194 immagini multiple, originate da 68 galassie. Nel caso di MACSJ1149, infine, il numero di immagini è “solo” 65, originate da 22 galassie lontane».
A proposito d’immagini: quelle che avete ottenuto sono ricostruzioni a tre dimensioni della distribuzione della materia oscura. Non sono le prime che vediamo. Cos’hanno di nuovo?
Mappa 3D della distribuzione di materia oscura ottenuta combinando i dati di Hubble e del telescopio spaziale a raggi X XMM-Newton rilasciata nel 2007. Copyright NASA, ESA and R. Massey (California Institute of Technology)
«I numeri che elencavo prima sono senza precedenti. Poiché il lensing gravitazionale è dovuto alla massa della lente, è possibile utilizzare le immagini multiple e distorte, e la loro configurazione geometrica, per capire come la materia è distribuita all’interno degli ammassi lente, in particolare quella oscura, che sappiano esserne la componente dominante. L’alto numero di sorgenti distorte visibili nei Frontier Fields rende questi ammassi le lenti gravitazionali ideali per ottenere una mappatura accurata della materia oscura, anche sulle scale delle sue sottostrutture. La teoria della formazione delle strutture cosmiche ci dice infatti che gli ammassi di galassie si formano per aggregazione di oggetti più piccoli per attrazione gravitazionale. Questi oggetti, o “sotto-aloni”, mantengono una loro identità per una certa quantità di tempo anche quando sono stati conglobati negli ammassi. Nel nostro articolo discutiamo appunto delle masse di queste sottostrutture».
La distribuzione che ottenete, si legge nell’articolo, è compatibile con il modello Lambda-Cdm, il più diffuso, dove la sigla ‘Cdm’ sta appunto per cold dark matter: materia oscura fredda. Perché fredda?
«Quello che si intende per materia oscura fredda è una materia costituita da particelle con velocità non relativistiche. Viceversa, le particelle di materia oscura calda hanno velocita’ relativistiche. Quelle di materia oscura tiepida (warm) sono una via di mezzo. Questa distinzione ha una grande importanza per quanto riguarda la formazione delle strutture cosmiche: mentre nel caso della materia oscura fredda sono le strutture più piccole a formarsi per prime e poi si formano le più grandi, secondo un processo gerarchico, nel caso della materia calda o tiepida la formazione delle strutture piccole viene inibita, perché queste ultime si dissolvono a causa dell’alta velocità delle particelle, che la gravità non riesce a trattenere. Quindi, il fatto che si “vedano” sottostrutture di massa relativamente piccola all’interno delle mappe ottenute in questo studio è compatibile con uno scenario di materia oscura fredda».
Per saperne di più:
Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical l’articolo “Mapping substructure in the HST Frontier Fields cluster lenses and in cosmological simulations”, di Priyamvada Natarajan, Urmila Chadayammuri, Mathilde Jauzac, Johan Richard, Jean-Paul Kneib Harald Ebeling, Fangzhou Jiang, Frank van den Bosch, Marceau Limousin, Eric Jullo, Hakim Atek Annalisa Pillepich, Cristina Popa, Federico Marinacci, Lars Hernquist, Massimo Meneghetti e Mark Vogelsberger
Indice dei contenuti
Dai primi passi della radioastronomia in Italia, al mastodontico FAST, il radiotelescopio cinese di 500 metri. È disponibile online Coelum Astronomia 209 di marzo! Sempre in formato digitale e gratuito…
Lunedì 6 marzo, ore 18.30 Il Cielo nella storia. Gli studi astronomici dal tardo-antico al medioevo – 2° puntata
Relatore: Prof. Paolo Badalotti
Lunedì 13 marzo, ore 18.30
Nella galassia. Ricerca e proprietà dei pianeti extra-solari
Relatore: Antonio Pasqua (Circolo Culturale Astrofili Trieste)
Lunedì 20 marzo, ore 18.30
Nel Cielo. Meraviglie del cielo stellato di primavera
Relatore: Stefano Schirinzi (Circolo Culturale Astrofili Trieste)
Lunedì 27 marzo, ore 18.30
Cosmologia. L’origine della costante cosmologica
Relatore: Prof. Edoardo Bogatec (Circolo Culturale Astrofili Trieste).
Sala Incontri del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste, via dei Tominz 4.
Ingresso libero fino ad esaurimento posti.
INFO:
Museo Civico di Storia Naturale di Trieste
tel: 040 675 4603 / 040 375 8662
web: www.museostorianaturaletrieste.it
mail: sportellonatura@comune.trieste.it
Immagine ripresa dalla distanza di 8,700 chilometri, l'11 dicembre 2016. Elaborata da Sergey Dushkin. Le immagini raw provenienti dalla JunoCam possono essere liberamente scaricate e elaborate da chiunque da www.missionjuno.swri.edu/junocam Credits: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Sergey Dushkin
L’immagine a più alta risoluzione mai ottenuta, da terra o dallo spazio, del panorama delle nubi di Giove… Questo primo piano del Gigante Gassoso riprende la turbolenta regione a ovest della Grande Macchia Rossa, nella Cintura Equatoriale Sud.
La sonda della NASA Juno ha ripreso questa immagine grazie alla JunoCam, la camera dedicata alle riprese per il grande progetto di Citizen science lanciato per seguire la missione. L’immagine è stata ripresa l’11 dicembre scorso, ed è stata poi elaborata da Sergey Dushkin, che ha ritagliatol’immagine, e ne ha magistralmente calibrato i colori, per sottolineare la dinamicità delle nuvole di quella zona.
Le immagini grezze della sonda Juno si possono scaricare dal sito della community JunoCam, e possono essere elaborate e utilizzate a piacere da chiunque. Perché non ci provate anche voi? Qui sopra un altro esempio di elaborazione di un nostro lettore, il polo sud di Giove rivisitato da Vittorio Marella (Venezia), che ci scrive: «ho fatto questa immagine perché mi piace molto lavorare con i dati grezzi di Juno e volevo ottenere un'immagine migliore dell'atmosfera di Giove che fosse più definita e con colori più accesi, non ho voluto focalizzare la mia attenzione su particolari tempeste e ho usato programmi molto banali come Iphoto e Corelpainter per lavorare con le foto grezze e poi sommarle tutte assieme». Non sembra difficile no? (Cliccare per vedere l'immagine a piena risoluzione). Credits: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Vittorio Marella
Le aspettiamo anche suwww.coelum.com/photo-coelum e le più belle verranno riproposte tra le pagine di Coelum Astronomia.
Sempre nel sito della community, si potrà presto votare il target che vogliamo che Juno riprenda nel prossimo flyby, previsto per il il 27 marzo. Le votazioni inizieranno il 15 marzo e si chiuderanno il 20, in tempo per poter poi direzionare la camera sul target “vincitore”.
La sonda americana rimarrà infatti nella sua orbita preliminare attorno a Giove, dal periodo di 53 giorni, fino alla fine della sua missione.
«Abbiamo valutato molteplici scenari per portare Juno su un’orbita più bassa, ma c’era il rischio che un’altra manovra potesse risultare in un’orbita più pericolosa,» spiega Rick Nybakken della NASA. «Alla fine, la manovra rappresenta solo un rischio per il raggiungimento degli obiettivi scientifici di Juno».
Secondo il piano di volo iniziale, la sonda si sarebbe dovuta calare a un’orbita in media molto più bassa, con un periodo di soli 14 giorni, ma la manovra di riduzione del periodo era stata rimandata a tempo indeterminato in seguito ad una serie di guasti. Ad ottobre 2016, durante la pressurizzazione dei serbatoi, gli ingegneri avevano rilevato un comportamento anomalo in due delle valvole di sistema ad elio.
La decisione di lasciare Juno nella sua orbita attuale, secondo gli scienziati, non dovrebbe comportare una perdita di dati scientifici. La manovra di riduzione del periodo orbitale, infatti, avrebbe solamente abbassato l’apogiovio di Juno – il punto più alto della sua orbita – lasciando il perigiovio a circa 4100 chilometri di quota. Dato che quasi tutti gli esperimenti scientifici vengono eseguiti attorno al perigiovio, Juno dovrebbe comunque essere in grado di raggiungere tutti gli obiettivi della sua missione.
«Juno è in ottimo stato di salute, i suoi strumenti scientifici sono del tutto operativi, e i dati e le immagini che abbiamo ricevuto sono davvero straordinari,» spiega Thomas Zurbuchen della NASA. «La decisione di rinunciare alla manovra è la scelta giusta e permetterà a Juno di proseguire le sue scoperte».
Rimanendo nella sua orbita attuale, Juno potrà inoltre esplorare le propaggini della magnetosfera gioviana – una regione che è inaccessibile da orbite più basse.
«Un altro vantaggio di rimanere su un’orbia più ampia sarà che trascorreremo meno tempo nelle intense fasce di radiazione che avvolgono Giove,» spiega Scott Bolton, a capo della missione. «Le radiazioni sono il fattore più importante nel pianificare la missione di Juno».
Juno rimarrà operativa fino al luglio 2018, per un totale di 12 orbite scientifiche, con la possibilità di un’estensione di missione.
Dai primi passi della radioastronomia in Italia, al mastodontico FAST, il radiotelescopio cinese di 500 metri. È disponibile online Coelum Astronomia 209 di marzo! Sempre in formato digitale e gratuito…
La mappa mostra il percorso di (29) Amphitrite tra le stelle della costellazione del Leone. Il suo compagno di viaggio sarà, nello stesso periodo, (16) Psyche. Le condizioni del cielo si riferiscono alle ore 22:00 per una località posta alle coordinate 42° N e 12° E.
La mappa mostra il percorso di (29) Amphitrite tra le stelle della costellazione del Leone. Il suo compagno di viaggio sarà, nello stesso periodo, (16) Psyche. Le condizioni del cielo si riferiscono alle ore 22:00 per una località posta alle coordinate 42° N e 12° E.
Cercando (29) Amphirite, nel corso del mese, potremo però imbatterci anche in ben altri 5 asteroidi che si muovono nello stesso campo stellare.
Il più luminoso di questi è senza dubbio (41) Daphne, che raggiungerà la magnitudine di +9,56, quindi poco meno di (29) Amphitrite.
Nelle vicinanze sempre di Amphirite, potremo trovare anche (16) Psyche (mag. +10,26), meno luminoso ma i due asteroidi viaggeranno, prospetticamente, a poca distanza tra loro per incrociarsi negli ultimi giorni di marzo.
Un’occasione per catturare due asteroidi con una sola osservazione!
4 marzo: Osserviamo il Cielo – serata a Montecassino 9 marzo: LIFT-OFF – Diretta streaming di esplorazione spaziale 16 marzo: Corso di astrofotografia on line 30 marzo: Diretta streaming di aggiornamento astronomico
La mostra Astronomia e Fisica a Firenze dalla Specola ad Arcetri ricostruisce, attraverso documenti, fotografie e strumenti, le tappe fondamentali delle due discipline scientifiche, dall’apertura al pubblico dell’Imperiale e Reale Museo di Fisica e Storia Naturale, nel 1775, alla vigilia del secondo conflitto mondiale.
Le cattedre di Astronomia e Fisica, stabilite presso il Museo negli anni Trenta dell’Ottocento, ebbero un ruolo determinante nella nascita dell’Istituto Superiore di Studi pratici di Perfezionamento, trasformato nel 1924 in Università.
L’esposizione ripercorre inoltre le tappe della carriera scientifica di Donati. Pioniere della spettroscopia astronomica ha contribuito alla nascita dell’astrofisica: suo è il primo tentativo di catalogo spettrale delle stelle mai realizzato, sua la prima osservazione dello spettro di una cometa. In mostra a disposizione dei visitatori le pubblicazioni e i documenti riguardanti la grande cometa da lui scoperta nel 1858, le osservazioni degli spettri di stelle e comete, le osservazioni delle eclissi solari e gli spettroscopi da lui concepiti e realizzati dalla Officina Galileo, che contribuì a fondare.
La mostra, curata da Fausto Barbagli, Simone Bianchi, Roberto Casalbuoni, Daniele Dominici, Massimo Mazzoni, Giuseppe Pelosi è organizzata dal Museo di Storia Naturale, dal Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università degli Studi di Firenze e da INAF– Osservatorio Astrofisico di Arcetri, in collaborazione l’Archivio Storico del Comune di Firenze, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, la Biblioteca di Scienze dell’Università di Firenze, il Museo Galileo, l’Istituto Nazionale di Ottica e Pianeta Galileo.
Il percorso espositivo nel Museo “La Specola” si articola in tre sezioni che comprendono due splendidi monumenti di gusto neoclassico fondamentali per la storia dell’Astronomia e della Fisica a Firenze: la Tribuna di Galileo e il Torrino della Specola.
Tribuna di Galileo: L’Imperiale e Reale Museo di Fisica e Storia Naturale e le prime osservazioni astronomiche
1° piano – ingresso libero Collezione Zoologica/Corridoio Mostre Temporanee: La Fisica dalla Specola ad Arcetri
2° piano: ingresso € 6/3 Torrino: La Strumentazione astronomica: visite guidate: ore 11; 12.30; 15. La visita è inclusa nel biglietto di ingresso. (Max 25 p. I gruppi si formano alla biglietteria del 2° piano. Non è richiesta la prenotazione).
Questa immagine composita in colori saturati, realizzata con i dati raccolti dalla framing camera a bordo della sonda Dawn della NASA, mostra l'area attorno al cratere Ernutet (cliccare per l'immagine a dimensione intera). I punti rosso brillante evidenziano effettivamente le zone di superficie con un colore più arrossato (anche se non così tanto) rispetto al resto della superficie di Cerere che, come rilevato dallo studio, coincidono con le zone più ricche di materiale organico. Image Credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA
La missione DAWN della NASA ha permesso agli scienziati di studiare approfonditamente Cerere. Grazie a uno studio pubblicato su Science il 17 febbraio scorso, coordinato da Maria Cristina De Sanctis, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, abbiamo appreso che sulla superficie dell’oggetto più grande della fascia principale ci sono tracce di materiale organico.
➜ leggi le ultime scoperte su Cerere su Aggiornamenti dal Sistema Solare di Pietro Capuzzo in Coelum Astrnomia 209 di marzo 2017
A spiegare al meglio la scoperta per noi sono stati, in un’intervista doppia, la stessa ricercatrice De Sanctis e il suo collaboratore Andrea Raponi, ricercatore INAF e grande esperto di Cerere.
Abbiamo visto che tanti media hanno ripreso la notizia delle tracce di materiale organico in modo non completamente corretto. Può spiegarci cosa si intende per materiale organico?
Maria Cristina De Sanctis – Parliamo di composti CH, molecole di carbonio e idrogeno.
Andrea Raponi – Per materiale organico si intendono composti del carbonio, e solitamente idrogeno, ossigeno e azoto. Il termine è spesso frainteso con materiale biologico a causa dell’origine del suo nome, che lo lega in effetti alla vita. Oggi sappiamo che materiale organico, come ad esempio il metano, può essere di origine biologica e non.
Perchè è importante precisare che si tratta di materiale costituito da composti alifatici? Quali sono le principali caratteristiche di questi composti?
Maria Cristina De Sanctis – le molecole alifatiche sono costituite da catene di legami CH. Nei composti alifatici gli atomi di carbonio possono legarsi dando vita a catene lineari o ramificate.
Andrea Raponi – Gli alifatici sono composti di carbonio e idrogeno a catena lineare. La peculiarità sta nel fatto che questi elementi possono formare molecole molto complesse, come sono ad esempio le molecole alla base della vita.
Come è stato possibile ritrovare il materiale e quali strumenti hanno maggiormente contribuito alla scoperta?
Maria Cristina De Sanctis – Il materiale è stato individuato studiando la luce riflessa dalla superficie. Detto semplicemente, ogni oggetto, a seconda della sua composizione, riflette diversamente la luce solare ed è possibile, studiando tali riflessioni (ovvero lo spettro di riflettanza), capire la composizione. Lo strumento che ha individuato tali composti è uno strumento italiano VIR. Uno spettrometro a immagine che lavora nell’intervallo di lunghezze d’onda in cui si possono individuare tali composti.
Andrea Raponi – Il materiale è stato rilevato dallo spettrometro a immagine (VIR) nel canale infrarosso a bordo della sonda NASA Dawn. Il principio base dello strumento è l’acquisizione della luce riflessa dalla superficie del pianeta nano, e la sua scomposizione nelle diverse lunghezze d’onda (lo spettro). Dalla forma di quest’ultimo si può derivare la composizione grazie alla presenza di cosiddette firme spettrali caratteristiche di ciascun composto.
Il Cratere Ernutet su Cerere. Misura circa 53 km in diametro e si trova nell'emisfero Nord del pianeta nano. L'immagine è stata ripresa il 29 gennaio 2016, quando la sonda si trovava a 385 km dalla superficie. La risoluzione è di 35 metri per pixel. Image Credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA
Il materiale è stato trovato in prossimità delcratere Ernutet. Perchè secondo lei proprio in quella posizione? Come fanno i ricercatori, in questo tipo di missioni, a selezionare le aree da studiare approfonditamente?
Maria Cristina De Sanctis– Il motivo per cui è stato individuato in quella zona non è ancora chiaro. Apparentemente è una zona “comune”, non ha delle caratteristiche geologiche particolari rispetto ad altre zone della superficie, come sono ad esempio le zone chiare che punteggiano la superficie di Cerere. La missione Dawn, su cui VIR è imbarcato, ha osservato gran parte della superficie di Cerere, quindi noi abbiamo analizzato moltissime zone e questa vicino al cratere Ernutet è dove abbiamo riscontrato questa grande quantità di organici.
Andrea Raponi – In missioni come questa solitamente tutta la superficie viene scandagliata dagli strumenti, proprio perché in principio non si può sapere il luogo che riserverà le maggiori sorprese (per definizione stessa della parola “sorpresa”!). La posizione del ritrovamento di organici non ha caratteristiche peculiari: vicino un cratere come ce ne sono molti su Cerere. Il motivo per cui gli organici si trovano proprio lì è ancora al vaglio di varie possibilità: origine esogena (cioè portato dall’impatto con un altro corpo), o endogena (cioè processato dal materiale stesso di cui è composto mediamente Cerere). Quest’ultima ipotesi è leggermente favorita, dal momento che la sua posizione non sembra direttamente collegata alla formazione del cratere Ernutet.
Su Cerere c’è la possibilità di trovare tracce di chimica prebiotica?
Maria Cristina De Sanctis – Quello che possiamo dire è che non è un ambiente ostile per diversi motivi, tipo la presenza di ghiaccio, le temperature non eccessivamente rigide, la presenza di alcuni materiali che si formano tipicamente in ambienti idrotermali.
Andrea Raponi – Su Cerere sono stati trovati minerali contenenti tutti gli elementi base della vita (Carbonio, Idrogeno, Azoto, Ossigeno) e non è esclusa la presenza di acqua liquida nel sottosuolo, almeno nel passato. E’ quindi possibile trovare tracce di chimica prebiotica, come la formazione di amminoacidi. Tuttavia dagli amminoacidi alle proteine, o ad una molecola complessa come il DNA, c’è un abisso. Colmare questo abisso per spiegare la vita sulla Terra rappresenta tuttora una delle più grandi sfide per la scienza.
Quali misteri ci nasconde ancora la fascia principale degli asteroidi? Come sta contribuendo l’Italia in queste ricerche?
Maria Cristina De Sanctis – Di certo c’è ancora molto da scoprire. La fascia contiene oggetti formati in condizioni diverse e che hanno anche subito evoluzioni diverse. Mi aspetto ancora notevoli sorprese da una futura esplorazione.
Andrea Raponi – La fascia degli asteroidi è la più grande riserva di corpi minori del sistema solare (assieme alla cintura di Kuiper e la nube di Oort, che però hanno lo svantaggio di essere molto lontani). I corpi minori sono in gran parte corpi primitivi, che quindi conservano traccia del passato del sistema solare. Il mistero che celano è quindi la storia di formazione ed evoluzione del sistema solare, la quale a sua volta ci può dire molto sulle condizioni che hanno dato luogo all’origine della vita sulla Terra, e ci può dire molto anche sull’origine di tutti i sistemi planetari che da pochi anni si stanno iniziando a scoprire (l’ultimo dei quali ha fatto particolarmente scalpore vista la presenza simultanea di ben sette pianeti simili alla terra di cui tre nella zona abitabile).
L’Italia è impegnata nella progettazione, costruzione e gestione di strumenti di cui ormai possiede molta esperienza come quello a bordo della sonda Dawn, e contestualmente è promotrice con la sua comunità scientifica di nuove possibili missioni.
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Dai primi passi della radioastronomia in Italia, al mastodontico FAST, il radiotelescopio cinese di 500 metri. È disponibile online Coelum Astronomia 209 di marzo! Sempre in formato digitale e gratuito…
Le fasi della Luna in marzo, calcolate per le ore 00:00 in TMEC. La visione è diritta (Nord in alto, Est dell’osservatore a sinistra). Nella tavola sono riportate anche le massime librazioni topocentriche del mese, con il circoletto azzurro che indica la regione del bordo più favorita dalla librazione.
A marzo, la nostra prima proposta è per la serata del giorno 3 a partire dalle ore 19, con la Luna in fase di 5 giorni a un’altezza iniziale di +47°, quando andremo a osservare il settore est del mare Serenitatis col cratere Posidonius (diametro 100 km) e l’interessante zona circostante tra cui il cratere ad anfiteatro Le Monnier (diametro 63 km) e le lunghe dorsali in Serenitatis. Da notare che alle ore 21:50 il nostro satellite si troverà già a un’altezza di soli 20°, quando poi tramonterà alle 23:57.
La seconda proposta è suddivisa in due serate fra il 6 e il 7 marzo a partire dalle ore 19:00 con altezza iniziale della Luna rispettivamente di +62°/+57°, per osservare l’“Uncino di Plato” con buone speranze di poterlo individuare, e la sera successivail fondo di Plato completamente illuminato dalla luce solare (vedi approfondimento).
Come terza e ultima proposta per il mese in corso, ma non per questo la meno importante, questa volta consigliamo l’11 marzo quando a partire dalle ore 20:30 (fase lunare di 13,2 giorni e altezza iniziale di +31°) l’obiettivo della nostra osservazione sarà una ristretta zona lungo il bordo orientale della Luna che verrà a trovarsi in condizioni di librazione favorevole.
Nelle serate del 6 e 7 marzo ci troveremo nelle condizioni ideali per effettuare dettagliate osservazioni della superficie lunare in una delle più interessanti e frequentate (dagli astrofili…) regioni della Luna: il cratere Plato e le sue immediate vicinanze, situato nel settore settentrionale fra le scure distese basaltiche dei mari Imbrium e Frigoris.
Certamente, come per qualsiasi altro cratere lunare, l’osservazione di Plato potrebbe essere frettolosamente archiviata anche in una singola seduta osservativa, ma per chi intende approfondire l’argomento, cogliendo tutti i vari e mutevoli aspetti della sua particolare morfologia (non ancora compresa a fondo), allora sarà importante programmare osservazioni sia visuali che con acquisizione di immagini dal sorgere del Sole fino al Plenilunio, estendendo eventualmente questo progetto osservativo anche alle successive lunazioni.
Infatti come è veramente spettacolare cogliere il momento in cui i primi raggi del Sole illuminano i bastioni della parete est di Plato, interessando poi gradualmente tutta la cinta montuosa intorno al cratere, mentre la platea è ancora parzialmente in ombra, altrettanto spettacolare sarà l’osservazione delle lunghe ombre alla ricerca dell’enigmatico “Uncino di Plato Gamma” e dei piccoli craterini, fino al famoso “Settore” osservabile in Luna Piena. Se poi ci mettiamo anche le principali strutture nella zona immediatamente adiacente, troveremo il tempo trascorso al telescopio veramente coinvolgente e stimolante.
Facendo però attenzione a non commettere l’errore di voler osservare tutto e subito, data l’enorme quantità di dettagli a nostra disposizione. La Luna è sempre lì, almeno per qualche miliardo di anni…
Individuiamo il Cratere Plato
Caratteristiche e Struttura
6 marzo: l’Uncino di Plato Enigmi di Plato e Fenomeni Transienti 7 marzo: i crateri del fondo di Plato Plato-3: un misterioso spunto per l’osservazione
Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Marzo
Tutti consigli per l’osservazione del cielo di marzo su Coelum Astronomia 209
Per 26 anni, il telescopio spaziale Hubble – missione congiunta Nasa ed Esa – ha espanso i nostri orizzonti cosmici. Grazie alle sue innumerevoli immagini, Hubble ha svelato nel dettaglio la bellezza, la meraviglia e la complessità dell’Universo, condividendole con il grande pubblico. E ora, dal primo febbraio, la mostra Our Place in Space apre le sue porte a Venezia offrendo non solo un viaggio visivo mozzafiato attraverso il nostro Sistema Solare e ai confini dell’Universo conosciuto, ma anche i lavori di alcuni artisti italiani ispirati proprio dalle immagini di Hubble.
La nuova mostra itinerante Our Place in Space sarà aperta al pubblico a Venezia dal primo febbraio al 17 aprile 2017, a Palazzo Cavalli Franchetti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, lungo il Canal Grande. Grazie a un’integrazione perfettamente riuscita tra le diverse prospettive offerte da artisti e astronomi, la mostra invita a riflettere nel profondo sul posto occupato dall’umanità nel grande schema dell’Universo.
La cartina riporta la situazione del cielo, in una vista ad ampio campo, come appare nei primi due giorni del mese di marzo alle ore 19:30. Guardando verso ovest, si noterà la congiunzione tra la brillantissima Venere e il più debole Marte, accompagnati da una sottile falce di luna (fase = 12%). Nell’immagine, per esigenze di rappresentazione grafica, la Luna appare ingrandita.
La cartina riporta la situazione del cielo, in una vista ad ampio campo, come appare nei primi due giorni del mese di marzo alle ore 19:30. Guardando verso ovest, si noterà la congiunzione tra la brillantissima Venere e il più debole Marte, accompagnati da una sottile falce di luna (fase = 12%). Nell’immagine, per esigenze di rappresentazione grafica, la Luna appare ingrandita.
All’inizio del mese una sottilissima falce di Luna in fase crescente (fase = 12%), sarà protagonista di una bella congiunzione con i pianeti Venere (mag. –4,6) e Marte (mag. +1,3): i tre astri saranno visibili a occhio nudo guardando verso ovest-sudovest a una ventina di gradi di altezza sopra l’orizzonte. La separazione angolare tra Venere e la Luna sarà di circa 13°, mentre quella tra il nostro satellite naturale e Marte sarà all’incirca di 5°.
Attraverso un telescopio si può tentare l’osservazione di Urano (mag. +5,9), circa 1° e mezzo più a sud di Marte (e soli 3° e mezzo a nordovest della Luna).
Il giorno successivo la Luna si sposterà a nordest dei pianeti, a circa 11° da Marte, comunque una magnifica occasione di scattare qualche fotografia a grande campo includendo elementi del paesaggio.
Da segnalare anche il fatto che in questi stessi giorni le condizioni della Luna sono tali da favorire la visibilità della luce cinerea.
Una vista 360 sul campo di dune, ripresa dalla NavCam di Curiosity il 5 febbraio 2017. Crediti: NASA/JPL-Caltech
Una vista 360 sul campo di dune, ripresa dalla NavCam di Curiosity il 5 febbraio 2017. Crediti: NASA/JPL-Caltech
Il vento ha scolpito il volto del pianeta per miliardi di anni e continua a farlo oggi.
La base del Monte Sharp, un vero scrigno della storia geologica di Marte. Crediti: NASA/JPL-Caltech/MSSS)
Gale è un bacino di quasi 160 chilometri di diametro scavato da un impatto più di 3,6 miliardi di anni fa, e la sua stranezza è l’avere al centro una montagna di roccia sedimentaria. Come spiegarne la presenza?
Nel corso degli anni il bacino è stato parzialmente riempito da sabbia, limo e detriti, in parte trasportati da un sistema di canali che un tempo dovevano sfociare dai fianchi più alti del cratere. Le evidenze fin’ora testimoniano che fino a 3 miliardi di anni fa Marte dovesse avere acqua liquida sulla superficie, e il cratere Gale potesse essere un lago fino a un punto di svolta. Probabilmente fu il momento in cui qualcosa accadde nel clima del pianeta, che lo ha reso il pianeta arido che conosciamo oggi, permettendo così ai venti di modellare il materiale che ormai l’aveva riempito.
Una delle prime teorie proposte, suggeriva infatti che l’alto tumulo centrale, il Monte Sharp, sia stato modellato dai venti quando il bacino era già completamente riempito. Le osservazioni del Mars Reconnaissance Orbiter hanno confermato i modelli. E la nuova ricerca, sempre in accordo con i modelli eolici orbitali della zona, ha addirittura calcolato il volume di materiale rimosso: 64 000 chilometri cubi soffiati via dall’azione del vento nell’arco un miliardo di anni o più.
Il Monte Sharp è quindi stato modellato dal vento, ma le correnti odierne all’interno del cratere sono diverse da quelle del passato… ora è la montagna stessa ad aver modificato il percorso dei venti che l’hanno plasmata.
Ma altri dati, ancora più mirati, arrivano da Curiosity che, per la seconda volta nel corso della sua missione, si trova ad indagare un campo di dune attive.
Gli effetti del vento sulle dune di sabbia ripresi dal Mars Descent Imager (MARDI) di Curiosity. Scatti ripresi a un giorno di distanza l'uno dall'altro dello stesso pezzo di terreno mostrano piccole increspature di sabbia spostarsi di circa un pollice (2,5 centimetri) sottovento. L'immagine riprende una zona di circa un metro di larghezza. Crediti: NASA/JPL-Caltech/MSSS
Il rover incontrò il primo campo di sabbia tra la fine 2015 e l’inizio 2016.
Le immagini orbitali ad alta risoluzione riprese con la fotocamera HiRISE a bordo della sonda Mars Reconnaissance Orbiter (MRO) avevano mostrato uno spostamento di queste dune di circa un metro ogni anno terrestre e la loro composizione non uniforme.
Gli scienziati utilizzano il movimento di queste strutture per studiare la circolazione dei venti all’interno del cratere, mettere a punto modelli meteorologici e comprendere come si ordinano di conseguenza le particelle di sabbia su un pianeta con meno atmosfera e gravità rispetto al nostro.
Un dust devil passa davanti alla NavCam di Curiosity il 4 febbraio 2017. Credits: NASA/JPL-Caltech/TAMU
Le dune che Curiosity sta analizzando ora, però, hanno una forma diversa rispetto alla mezzaluna della campagna precedente: sono nastriformi e lineari.
«In queste dune lineari, la sabbia viene trasportata lungo il percorso del nastro, mentre il nastro può oscillare avanti e indietro da un lato all’altro», ha spiegato nel reportNathan Bridges, del team Curiosity presso la Johns Hopkins University Applied nel Maryland .
Inoltre, ora nel cratere Gale è estate, quindi il periodo dell’anno più ventoso e il momento migliore dell’anno marziano per studiare dune di sabbia attive.
«Stiamo tenendo Curiosity impegnato in una zona sabbiosa mentre intorno soffia un sacco di vento. Vogliamo scoprire come vengono smistati i granelli con composizioni diverse. Questo ci aiuta ad interpretare tanto le dune moderne quanto le arenarie più antiche di Marte», ha detto il Project Scientist della missione Ashwin Vasavada.
Un altro dust devil in lontananza del 17 febbraio 2017 Crediti: NASA/JPL-Caltech/TAMU
Dopo aver completato le osservazioni pianificate, Curiosity procederà verso il “Vera Rubin Ridge“, in direzione sud e in salita (potete seguire gli spostamenti del rover con i “Mission Log” di marco Di Lorenzo), dove il Mars Reconnaissance Orbiter ha identificato alcuni depositi di ematite.
Mentre il rover è impegnato con le dune di sabbia, il team continua a lavorare sull’anomalia intermittente manifestata in diverse occasioni dal trapano per la raccolta di campioni. I test diagnostici continuano a puntare il dito su uno dei meccanismi frenanti che regolano il movimento della punta, forse bloccato da un detrito. Nel frattempo, si è aggiunto un altro piccolo inconveniente che coinvolge la fotocamera Mars Hand Lens Imager (MAHLI) il cui copriobiettivo, dopo essere stato chiuso per precauzione e proteggere le ottiche dalla polvere eccessiva, è rimasto bloccato in posizione semi-aperta dal 24 febbraio.
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Per approfondire
Leggi l’articolo Arte su Marte: il meraviglioso paesaggio marzianopubblicato su Coelum Astronomia 205, in cui Lori Fentonci racconta come il vento sia il principale artefice delle strutture marziane e di come lo studio di queste ci fornisca informazioni necessarie a comprendere i meccanismi che agiscono nell’atmosfera marziana.
Dai primi passi della radioastronomia in Italia, al mastodontico FAST, il radiotelescopio cinese di 500 metri. È disponibile online Coelum Astronomia 209 di marzo! Sempre in formato digitale e gratuito…
Aspetto del cielo per una località posta a Lat. 42°N - Long. 12°E La cartina mostra l’aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 marzo > 23:00 - 15 marzo > 22:00 - 30 marzo > 22:00
Aspetto del cielo per una località posta a Lat. 42°N - Long. 12°E La cartina mostra l’aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 marzo > 23:00 - 15 marzo > 22:00 - 30 marzo > 22:00
Niente a che vedere con l’impressionante lucentezza delle costellazioni invernali, ma c’è da tener conto del fatto che, in primavera, la porzione di cielo che si offre ai nostri occhi è quello che sta al di fuori del piano della Via Lattea, dove le stelle sono molto più rare e il cielo è dominato da oggetti extragalattici percepibili soltanto al telescopio.
Più a est, Vergine, Boote ed Ercole, in successione, saranno già in viaggio verso il meridiano, annunciando quest’ultima addirittura un sapore di estate.
Ricordiamo, inoltre, due importanti eventi nel corso di questo mese: prima di tutto, nella notte tra il 25 e il 26 marzo si tornerà all’ora legale estiva (TU+2). In quella data, a partire dalle ore 02:00 locali, bisognerà portare gli orologi avanti di un’ora.
Inoltre, la Luna sarà Nuova il 28 marzo e quindi si realizzeranno le condizioni migliori per tentare la Maratona Messier, ovvero l’osservazione in un’unica notte di tutti (o quasi) i 110 oggetti del celebre catalogo, nel fine settimana del 25-26 marzo o, infrasettimanalmente, il 29 marzo.
20 marzo, ore 05:30 – Equinozio di primavera: inizia la primavera astronomica.
L’equinozio di primavera può cadere solo il 19, 20 (come quest’anno) o 21 marzo. Nel 19° e nel 20° secolo si è verificato sempre il 20 o il 21 marzo, mentre per 15 volte è caduto il 19 nella seconda metà del 17° secolo e 5 volte alla fine del 18°; e ciò accadrà di nuovo solo il 19 marzo del 2044! C’è poi da ricordare che nel 21° secolo l’equinozio si è verificato il 21 solo nel 2003 e nel 2007, e che la cosa non si ripeterà fino al 2102.
E ancora…
➜ Il Cielo di Marzo: pianeti, congiunzioni e i principali eventi del cielo da non perdere!
Iniziano a febbraio i due nuovi corsi rivolti a tutti:
Corso completo di Fotografia Astronomica: 10 lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per imparare a fotografare il cielo con qualsiasi strumentazione (che sia una semplice reflex o un telescopio). Il corso copre ogni aspetto della fotografia: dalla teoria all’esperienza sul campo all’elaborazione al computer, per realizzare immagini mozzafiato e di valore scientifico di panorami galattici, pianeti e altri oggetti celesti. Non è richiesto possesso di attrezzatura né una preparazione preliminare.
– Il corso si terrà tutti i giovedì sera dalle 21 alle 22.30, le attività pratiche si svolgeranno di sabato e saranno concordate in base al meteo. Corso teorico di astronomia generale:un ciclo di 9 conferenze che offre uno sguardo su argomenti raramente trattati nei corsi divulgativi. Si vedrà quali leggi fisiche agiscono nei più importanti fenomeni astronomici per comprendere l’universo e la scienza che lo studia: approfondimenti di grandissimo interesse per gli appassionati. Un modulo riguarderà anche la meccanica quantistica.
– Gli incontri si svolgeranno tutti i lunedì dalle 21 alle 22.30 presso la nostra sede: sala conferenze San Gregorio Barbarigo, di fronte alla Metro B.
– Lunedì 27 febbraio: “Le leggi di Keplero”: Ne vedremo la formulazione, l’avvincente derivazione dai principi primi, e l’incredibile utilità in astronomia e astrodinamica. Nonchè una famosa e cruciale eccezione dovuta alla misteriosa materia oscura.
Ecco come si presenterà la congiunzione tra Marte e Urano del 26 febbraio alle 20:00 nel campo dell’oculare di un piccolo telescopio, con un ingrandimento di circa 12x (FOV 2,7°). I due pianeti (nell’immagine sono fuori scala rispetto alle altre stelle del campo) saranno separati di circa 38’.
Ecco come si presenterà la congiunzione tra Marte e Urano alle 20:00 nel campo dell’oculare di un piccolo telescopio, con un ingrandimento di circa 12x (FOV 2,7°). I due pianeti (nell’immagine sono fuori scala rispetto alle altre stelle del campo) saranno separati di circa 38’.
Questa congiunzione rappresenta decisamente una sfida, a causa della differenza di luminosità tra Marte (mag. +1,3) e Urano (mag. +5,9): la minima distanza la raggiungeranno il 26 febbraioalle 20:00 e sarà di soli 38′. I due astri saranno alti poco meno di una ventina di gradi sull’orizzonte ovest.
Questo faciliterà la ricerca di Urano, perché si troverà nello stesso campo visivo di Marte se osservato attraverso un telescopio da 20 cm di apertura a 35 ingrandimenti.
Attenzione però che le ottiche del telescopio siano ben collimate, altrimenti c’è il rischio di scambiare Urano per una stella di fondo, specialmente se si aumentano gli ingrandimenti.
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Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio
Immagine ottenuta dallo Hubble Space Telescope della upernova 1987A nella Grande Nube di Magellano. Crediti: NASA, ESA, R. Kirshner (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics e Gordon and Betty Moore Foundation), M. Mutchler e R. Avila (STScI)
Immagine ottenuta dallo Hubble Space Telescope della upernova 1987A nella Grande Nube di Magellano. Cliccare l'immagine per vederla nelle dimensioni e risoluzion originali. Crediti: NASA, ESA, R. Kirshner (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics e Gordon and Betty Moore Foundation), M. Mutchler e R. Avila (STScI)La copertina di Coelum di febbraio, dedicata alla SN 1987A! Allìinterno del numero: tutto sulla SN 1987A, altre possibili supernovae vicine e la ricerca amatoriale di supernovae, con approfondimenti e testimonianze. Clicca sull'immagine per accedere al numero in formato digitale e completamente gratuito!
Quella notte Oscar Duhalde non se la sarebbe mai più dimenticata. E la comunità mondiale degli astrofisici nemmeno. Era la notte a cavallo fra il 23 e il 24 febbraio 1987. Oscar, operatore allo Swope telescope da un metro a Cerro Las Campanas, sulle Ande cilene, di turno per le osservazioni, era uscito qualche minuto all’aria aperta per prendersi una pausa e aiutarsi a tenere gli occhi aperti. E proprio con i suoi occhi – ben spalancati e allenati come pochi – intravide, osservando il cielo in direzione della Grande Nube di Magellano, brillare una stella che lì non aveva mai notato prima. Senza rendersene pienamente conto, fu il primo essere umano al mondo a vedere – per di più a occhio nudo – la supernova più studiata di sempre, quella più vicina a noi (163mila anni luce) dall’epoca della stella di Keplero, esplosa nella nostra galassia del 1604. A capire di cosa si trattava fu invece un astronomo canadese, Ian Shelton – pure lui lì a Las Campanas, quella notte, a pochi metri da Duhalde – il quale, però, la morte della stella che sarebbe presto diventata celebre con la sigla Sn 1987A la vide solo indirettamente e a posteriori, studiando le lastre fotografiche impresse durante le osservazioni.
In questi giorni, a trent’anni esatti di distanza da quella notte indimenticabile, per celebrare la ricorrenza e fare il punto sulla svolta che ha impresso allo studio delle supernove, astrofisici da tutto il mondo si sono incontrati – dal 20 al 24 febbraio – sull’isola di La Réunion, al largo del Madagascar, per un meeting su Sn 1987A, 30 years later – Cosmic Rays and Nuclei from Supernovae and their aftermaths. Ed è lì che, per capire l’importanza scientifica di questa supernova, Media Inaf ha raggiunto telefonicamente Salvatore Orlando, ricercatore all’Inaf di Palermo e primo autore – insieme ad altri tre colleghi dello stesso istituto: Marco Miceli, Maria Letizia Pumo e Fabrizio Bocchino – nel 2015 di uno studio fondamentale su SN 1987A.
Salvatore Orlando, astrofisico all’Inaf di Palermo. Media INAF
«La supernova 1987A ci sta offrendo un’occasione unica: l’opportunità di studiarne in dettaglio tutta l’evoluzione, dall’esplosione fino alla formazione del resto di supernova. La peculiarità è che si è potuto osservare il fenomeno praticamente in tutte le bande spettrali. Lo abbiamo monitorato di continuo, dall’ottico all’infrarosso all’X, per cui la quantità di dati che abbiamo ottenuto – dati di altissima qualità – sta permettendo di vincolare i modelli», spiega Orlando. «Io e i miei colleghi, in particolare, abbiamo prodotto un modello numerico – dal quale poi è stata tratta anche l’animazione dello Hubble Stsci – che ci ha permesso, da una parte, di ricostruire la struttura e la geometria del mezzo ambiente, e dall’altra ci sta dando informazioni sulla fisica della supernova. Quindi, da un lato le osservazioni e dall’altro i modelli, ci ha permesso di vincolare – occasione davvero unica – la fisica che governa l’intero fenomeno».
Guarda l’animazione e ascolta l’intervista nel servizio di Inaf Tv:
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Dai primi passi della radioastronomia in Italia, al mastodontico FAST, il radiotelescopio cinese di 500 metri. È disponibile online Coelum Astronomia 209 di marzo! Sempre in formato digitale e gratuito…
This artist’s impression shows the view from the surface of one of the planets in the TRAPPIST-1 system. At least seven planets orbit this ultra cool dwarf star 40 light-years from Earth and they are all roughly the same size as the Earth. They are at the right distances from their star for liquid water to exist on the surfaces of several of them. This artist’s impression is based on the known physical parameters for the planets and stars seen, and uses a vast database of objects in the Universe. Credit: ESO/M. Kornmesser/spaceengine.org
Questa impressione artistica mostra la vista che si godrebbe dall'orbita di uno dei pianeti del nuovo sistema stellare TRAPPIST-1 . Un sistema stellare di almeno sette pianeti a solo 40 anni luce dalla Terra, e tutti di taglia simile a quella terrestre, alcuni dei quali nella cosidetta zona di abitabilità, dove cioè si ha possibilità di avere acqua liquida in superficie. Credit: ESO/M. Kornmesser/spaceengine.org
Ed ecco la notizia, che ormai quasi di regola si è rimbalzata tra embarghi rispettati e meno, hanno annunciato in conferenza stampa dai quartier generali della NASA a Washington.
Dopo solo un anno dalla scoperta di tre pianeti attorno alla stella TRAPPIST-1, utilizzando il telescopio TRAPPIST-Sud dell’ESO di La Silla, il Very Large Telescope (VLT) al Paranal e il telescopio spaziale NASA Spitzer, e numerosi altri telescopi in tutto il mondo, gli astronomi hanno confermato che i pianeti in orbita attorno alla fredda nana rossa sono almeno sette. Tutti i pianeti, etichettati TRAPPIST-1b, c, d, e, f, g e h (in ordine crescente di distanza dalla loro stella madre), hanno dimensioni simili alla Terra.
Le curve di luce della stella TRAPPIST-1 in occasione del transito di ognuno dei sette pianeti. Che si tratti di un'occasione straordinaria ce lo dice anche il fatto di trovarci in una posizione privilegiata per riuscire a vedere il sistema "di taglio" in modo da poter rilevare i pianeti nel loro moto davanti alla stella. Credit: ESO/M. Gillon et al.
Cali di luminosità della luce proveniente dalla stella, causate da ciascuno dei sette pianeti in transito di fronte ad essa, hanno permesso di dedurre informazioni sulle loro dimensioni, la loro composizione e orbita. Così si è scoperto anche che almeno sei dei sette pianeti sono paragonabili, per dimensioni e temperatura, alla Terra.
L’autore dello studio, pubblicato oggi su Nature, Michaël Gillon dell’Istituto STAR presso l’Università di Liegi, in Belgio, è chiaramente felice del risultati:
«Si tratta di un sistema planetario incredibile – non solo perché abbiamo trovato così tanti pianeti, ma perché sono tutti sorprendentemente simili per dimensioni a Terra!»
Nell'immagine, a confronto le dimensioni di TRAPPIST-1 e dei suoi pianeti con il Sole e i corpi del Sistema solare. Come si può vedere tutti i sette pianeti hanno dimensioni paragonabili a quelle della Terra. Credit: ESO/O. Furtak
Con solo l’8% della massa del Sole, TRAPPIST-1 è una stella molto piccola – solo di poco più grande del pianeta Giove – e anche se a soli 40 anni luce da noi, nella costellazione dell’Acquario, ci appare molto debole. Ci si aspettava che tali nane rosse potessero ospitare pianeti delle dimensioni della Terra in orbite molto strette, e sono per questo diventate bersagli promettenti per la ricerca di vita extraterrestre, ma TRAPPIST-1 è il primo sistema del genere a essere stato fin’ora osservato.
Co-autore dello studio è Amaury Triaud: «La produzione di energia di stelle nane come TRAPPIST-1 è molto più debole di quella del nostro Sole. I pianeti hanno bisogno di essere in orbite molto più vicine di quanto accade nel Sistema solare, perché possa esserci acqua in superficie. Fortunatamente, sembra che questo tipo di configurazione compatta sia proprio quello che abbiamo visto attorno a TRAPPIST-1!».
Tutti i pianeti individuati in questo nuovo sistema stellare sono di dimensioni simili alla Terra e Venere e le misurazioni di densità suggeriscono che almeno i sei più interni siano con molta probabilità di natura rocciosa.
Qui invece a confronto sono le orbite del sistema di TRAPPIST-1, con il sistema di lune galileiane attorno a Giove e quello dei pianeti interni del nostro Sistema Solare. Differenze enromi controbilanciate però dalle ridotte dimensioni e energia della piccola nana rossa. Credit: ESO/O. Furtak
Le orbite sono non più grandi di quelle del sistema di lune galileiane di Giove, e molto più piccole rispetto all’orbita di Mercurio. Tuttavia, le piccole dimensioni di TRAPPIST-1 e la sua bassa temperatura portano a far avere ai suoi pianeti energia comparabile a quella che il Sole offre ai nostri pianeti interni. In particolare TRAPPIST-1c, d e f ricevono una quantità di energia simile a quella che ricevono Venere, Terra e Marte, rispettivamente.
Sebbene tutti e sette i pianeti potrebbero potenzialmente avere acqua allo stato liquido sulla loro superficie, i modelli climatici suggeriscono che i pianeti più interni, TRAPPIST-1b, c, d, siano con ogni probabilità troppo caldi, mentre quello più esterno, TRAPPIST-1h, troppo distante e freddo – sempre assumendo l’assenza di processi di riscaldamento alternativi.
TRAPPIST-1e, f, g, invece, rappresentano il Santo Graal per gli astronomi a caccia di pianeti abitabili: orbitano nella zona di abitabilità della stella e potrebbero quindi ospitare oceani di acqua di superficie.
Pur non potendo dare per scontato che davvero almeno uno dei sette pianeti risulti simile alla Terra, sono comunque tutti elementi che rendono TRAPPIST-1 un obiettivo estremamente importante per i prossimi studi sulla ricerca di esopianeti e vita extraterrestre.
Nell'infografica, il ritratto (artistico ma basato sui dati raccolti e sulle conoscenze ottenute fin'ora, che vedete indicate in calce a ogni pianeta) di come potrebbero apparire i sette pianeti in orbita attorno alla piccola nana rossa TRAPPIST-1 — inclusa la probabilità che ciascuno di essi abbia o meno un oceano di acqua liquida — sempre a cofronto con i più familiari pianeti del Sistema solare interno. Credit: NASA
Il Telescopio Spaziale Hubble (ESA/NASA) è già allo studio delle atmosfere dei pianeti e il team guidato da Emmanuel Jehin è comprensibilmente entusiasta: «Con la prossima generazione di telescopi, come l’European Extremely Large Telescope dell’ESO e il James Webb Space Telescope di NASA/ESA/CSA, saremo presto in grado di cercare evidenze della presenza di acqua e, forse, anche la prova dell’esistenza di forme di vita su questi mondi».
I fratelli Nicholas sulle note di Jumping Jive di Cab Calloway nel film ‘Stormy Weather’ del 1943. Crediti: Photofest.
Il nome del progetto europeoJumping Jive che prende ufficialmente il via oggi a Leiden, in Olanda, si ispira a una musica scatenata di fine anni ‘30, che metteva le ali piedi a virtuosi ballerini di tip tap, infracchettati come da prammatica. Più posati e informali risultano certamente i radioastronomi provenienti da 8 diversi paesi, tra cui l’Italia, che si sono messi di buona lena per far fare un salto qualitativo allo European Vlbi Network (Evn), una rete mondiale di radiotelescopi, distribuiti tra un cuore europeo, diverse propaggini asiatiche e un avamposto sudafricano, oltre a una rappresentanza americana. Il network Evn è gestito dal Jive, il Joint Institute for Vlbi Eric, situato a Dwingeloo, sempre in Olanda.
Nonostante si trovino collocati anche molto distanti tra loro – anzi, proprio grazie a questo – i radiotelescopi partecipanti a questa rete possono funzionare come se fossero un’unica grande antenna, sfruttando una tecnica di sincronizzazione denominata interferometria su lunghissima base (Vlbi). Il progetto Jumping Jive, dal valore complessivo attorno ai 3 milioni di euro, nasce per migliorare ulteriormente i risultati ottenibili con questo lavoro di squadra, e la sua parola d’ordine è globalizzazione, secondo diverse declinazioni.
Come riferisce a Media Inaf, direttamente da Leiden, Tiziana Venturi, dell’Istituto di Radioastronomia Inaf di Bologna, responsabile nel progetto del work package sul futuro Vlbi. «Questo progetto ha l’ambizione di espandere la rete Vlbi battendo diverse strade», spiega Venturi. «Innanzitutto, cercando nuovi partner; poi, facendo un lavoro di training sia scientifico che tecnologico e operativo al personale che farà funzionare le antenne della futura Avn, la rete Vlbi africana; ancora, creando fin da ora un link con Ska».
Ska, lo Square kilometre array, è il progetto – da realizzare nel prossimo decennio – per il più grande radiotelescopio al mondo, dislocato tra i deserti dell’Australia occidentale e dell’Africa meridionale. Lo sviluppo della rete africana di singole parabole da mettere in rete Vlbi è considerato propedeutico a Ska; la prossima antenna a entrare in funzione, riconvertita dall’uso per telecomunicazioni, dovrebbe essere la parabola da 32 metri del Ghana, del tutto simile a quella Inaf in funzione dal 1983 a Medicina, vicino Bologna.
Le disclocazioni dei radiotelescopi partecipanti alla rete Evn. Crediti: Jive
«Un altro scopo fondamentale del progetto», prosegue Venturi, «è quello di implementare piattaforme comuni di software ai vari radiotelescopi, nonché di iniziare un intenso lavoro di divulgazione sull’argomento, rivolto sia al grande pubblico, che alla platea di astronomi non specialisti del campo. Last but not least, cruciale in questo progetto sarà ridisegnare la roadmap della scienza Vlbi per il decennio 2020-2030, quando si entrerà a pieno regime nella fase Ska e si avranno a disposizione ormai buona parte delle antenne Avn».
Progetti scientifici come questo, che guardano al futuro, sono scossi da brividi di puro terrore di fronte ad altri progetti, altrettanto innovativi ma che mettono in forse la possibilità stessa di tenere accesi i radiotelescopi. Come l’ambizioso programma della società spaziale SpaceX di Elon Musk per fornire una copertura wifi globale tramite una miriade di satelliti, accecando le frequenze radio utilizzate dalla radioastronomia.
«Sì, questa eventualità è molto preoccupante», conferma Marcello Giroletti, dello stesso istituto Inaf e coinvolto nel progetto Jumping Jive. «Se davvero quest’ipotesi diventasse realtà, le idee di sviluppo della radioastronomia che sono al cuore di Jumping Jive perderebbero completamente di significato. Ma ancor peggio, temo che ci sarebbe ben poco da salvare per la radioastronomia in toto».
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Tornano anche quest’anno I Venerdì dell’Universo, organizzati dal Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’Università degli studi di Ferrara e dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in collaborazione con il Gruppo Astrofili Columbia e Coop. Sociale Camelot. L’iniziativa, nata come una serie di seminari di approfondimento e aggiornamento su temi di Astronomia e Astrofisica, si è progressivamente evoluta diventando una manifestazione dedicata alla divulgazione scientifica nel senso più ampio del termine. I Venerdì dell’Universo si rivolgono a tutta la cittadinanza, in particolar modo ai giovani, nella speranza che possano aiutarli a maturare non solo curiosità ma anche spunti per i loro studi professionali e amatoriali.
03.02: “Onde gravitazionali: come si rivelano, cosa potremo imparare” di Francesco FIDECARO.
10.02: “Uomini, Web-Bot e Robot: chi controlla chi? Dino LEPORINI.
24.02: “Origine e conseguenze del sisma in Italia centrale” di Mario TOZZI.
10.03: “Interfacce tra il cervello e i computer” di Luciano FADIGA.
24.03: “Antartide: un anno su Marte Bianco, tra curiosità e scienza” di Luciano MILANO.
31.03: “Nello spazio alla ricerca dell’universo invisibile” di Giuseppe MALAGUTI.
Per informazioni: Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra via G. Saragat, 1 – Tel. 0532/ 974211 – venerdiuniverso@fe.infn.it – fst.unife.it – www.fe.infn.it
Iniziano a febbraio i due nuovi corsi rivolti a tutti:
Corso completo di Fotografia Astronomica: 10 lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per imparare a fotografare il cielo con qualsiasi strumentazione (che sia una semplice reflex o un telescopio). Il corso copre ogni aspetto della fotografia: dalla teoria all’esperienza sul campo all’elaborazione al computer, per realizzare immagini mozzafiato e di valore scientifico di panorami galattici, pianeti e altri oggetti celesti. Non è richiesto possesso di attrezzatura né una preparazione preliminare.
– Il corso si terrà tutti i giovedì sera dalle 21 alle 22.30, le attività pratiche si svolgeranno di sabato e saranno concordate in base al meteo. Corso teorico di astronomia generale:un ciclo di 9 conferenze che offre uno sguardo su argomenti raramente trattati nei corsi divulgativi. Si vedrà quali leggi fisiche agiscono nei più importanti fenomeni astronomici per comprendere l’universo e la scienza che lo studia: approfondimenti di grandissimo interesse per gli appassionati. Un modulo riguarderà anche la meccanica quantistica.
– Gli incontri si svolgeranno tutti i lunedì dalle 21 alle 22.30 presso la nostra sede: sala conferenze San Gregorio Barbarigo, di fronte alla Metro B. Info: Tel 349 7245167, eventi@ accademiadellestelle.org Facebook: www.facebook.com/accademia.dellestelle www. accademiadellestelle.org
Di primo acchito potrebbe sembrare l’incipit di una fiaba nordica, in realtà è il filo conduttore che lega uno dei tanti misteri ancora legati alla limitata conoscenza che abbiamo dell’atmosfera.
Stiamo parlando dei blue jets e dei red sprite, fenomeni elettro-ottici legati alla presenza di temporali di forte intensità, soprattutto nelle aree tropicali, per i quali prima del 2015 non esistevano riscontri scientifici ma solo alcuni video ripresi dalla ISS e da aerei commerciali in volo d’alta quota in vista di fronti temporaleschi. Per anni la loro esistenza è stata oggetto di discussioni fra gli scienziati senza che si avessero dati sufficienti ad andare oltre blande ipotesi, mai realmente suffragate da vere e proprie prove scientifiche.
Il quadro generale dei fenomeni elettrici nell’atmosfera – (c) Wikipedia
Folletti e spettri rossi
I red sprite sono fenomeni che si sviluppano a quote comprese fra 60 ed 80 km al di sopra di zone temporalesche ed è associato alla ionizzazione dell’aria, cioè presenza di particelle cariche elettricamente.
Consiste di scariche di energia associate ai fulmini: lo spettro rosso va dall’alto verso il basso, in quello opposto i blue jets.
La differente forma dei getti blu e degli spettri rossi rispetto ai fulmini è dovuta alle diverse caratteristiche dell’atmosfera attraversata (composizione, densità, e temperatura). La colorazione è dovuta alla forte presenza nell’atmosfera terrestre dell’azoto, la cui concentrazione aumenta avvicinandosi al suolo.
Ciò spiega il cambiamento di colore degli sprite, che dal rosso passano al viola ed infine al blu verso la troposfera.
I red sprite sono tanto enormi quanto deboli, e si manifestano come lampi luminosi che appaiono sopra una cellula temporalesca. La loro intensità luminosa è paragonabile, anche se inferiore, a quella delle aurore boreali.
Solo nell’1% dei casi sono associati a fulmini che non possono essere utilizzati come marker per questi eventi.
La regione più luminosa si trova nella gamma di altitudine 65-75 km, e s’ipotizza un loro coinvolgimento nei meccanismi di scambio di gas ad effetto serra tra la troposfera e la stratosfera.
Blue jets
La scoperta dei blue jets è avvenuta solo da un paio di decenni perché questi fenomeni sono spesso brevi, quasi casuali e nascosti agli osservatori terrestri a causa delle nubi.
Come suggerisce il loro nome, i blue jets sono espulsioni di lampi dalla parte superiore dei nuclei di cellule temporalesche, e possono verificarsi anche senza che un fulmine si sviluppi nella direzione opposta.
Uno cumulonembo ripreso dalla ISS – Crediti: NASA
Dopo la loro uscita dalla parte superiore, si propagano verso l’alto in un cono ampio circa 15 gradi, con velocità verticali di circa 100 km/s (300 volte la velocità del suono), poi si aprono a ventaglio e si dissolvono ad altezze comprese fra 40 e 50 km. Questi fenomeni non sono allineati alle linee di forza del campo magnetico terrestre. L’evento non dura più di qualche millesimo di secondo (3-10 ms) e può anche essere osservato ad occhio nudo purché ci si trovi in condizioni di totale oscurità e ad una distanza ottimale, non superiore ai 200 km.
L’osservazione simultanea di blue jets e red sprite ha suggerito agli scienziati l‘ipotesi che i temporali a più forte intensità, esercitino una maggiore influenza sulla stratosfera in misura maggiore di quanto ipotizzato finora, e ciò ha dato avvio ad una ricerca specifica a bordo della Stazione Spaziale Internazionale.
L’esperimento THOR a bordo della ISS
Varie missioni ESA e NASA, tra le quali l’esperimento MEIDEX a bordo dello Space Shuttle, il satellite ISUAL e la missione americano-taiwanese ROCSAT-3, hanno provato a studiare questi eventi, ma il loro angolo di visione e le orbite di volo si sono mostrati meno che ideali.
L’esperimento THOR (Turbulence Heating ObserveR), imbarcato sulla ISS, è stato portato avanti tra il 2 e l’11 settembre 2015 durante la missione IRISS del primo astronauta ESA di nazionalità danese, Andreas Mogensen. Gli obiettivi scientifici della sperimentazione erano lo studio della formazione e dell’evoluzione dei cumulonembi, dei processi elettrici ad alta quota, e l’analisi dei fenomeni legati alle condizioni d’instabilità degli intensi moti convettivi interni alle tempeste. Un team scientifico a terra, attraverso modelli matematici di previsioni meteorologiche, aveva il compito di individuare possibili attività temporalesche fino a 3 giorni in anticipo, creando finestre temporali di osservazione per i sorvoli della ISS. Grazie a THOR Andreas Mogensen è riuscito a catturare i misteriosi blue jets mentre sorvolava il golfo del Bengala, nell’oceano Indiano.
I lampi blu che si vedono brillare nelle bellissime immagini raccolte dall’astronauta danese si trovano ad una quota di circa 18 chilometri di altezza, raggiungendo i 40 chilometri di altezza nel caso dei lampi pulsanti. Mogensen ha anche immortalato 245 blue jets originatisi da un cumulonembo alla deriva nella stessa zona.
La fotocamera prescelta è stata una Nikon D4 con sensibilità fissata a 6.400 ISO ed una velocità di scatto di 24 fotogrammi al secondo, con una definizione di 1920 × 1080 pixel. L’ottica installata aveva una focale di 58 mm e diaframma f1.2, dando un campo visivo di 34,4 ° × 19,75 °.
I risultati dell’elaborazione dei dati e le relative conclusioni sono state pubblicate sulla rivista “Geophisical Reasearch Letters“ (Volume 44, Issue 1, 16 gennaio 2017, a firma di Chanrion, Neubert, Mogensen, Yair, Stendel, Singh, Siing) a cura dell’Agenzia Spaziale Danese.
Dalla lettura dell’articolo scientifico si evince che i blue jet ed i red sprite sono manifestazioni di una parte poco conosciuta della fenomenologia e delle dinamiche della nostra atmosfera. I temporali di maggiore intensità sarebbero in grado di raggiungere gli strati più esterni della stratosfera e potrebbero giocare un ruolo fondamentale nella fisica dei meccanismi protettivi della nostra atmosfera dalle radiazioni. Si crede infatti che possano giocare un ruolo importante nelle reazioni chimiche di formazione e circolazione dell’ozono nella mesosfera (50-85 km) e stratosfera (20-50 km).
THOR tornerà a colpire
Naturale prosecuzione dell’esperimento THOR, alla fine del 2017 l’ESA lancerà ASIM (Atmosphere Space Interactions Monitor), esperimento attualmente in fase di test e consistente in un osservatorio climatico progettato per rilevare blue jets,red sprite e lampi gamma di origine terrestre. Una volta giunto a destinazione sulla ISS, ASIM sarà installato al di fuori del modulo europeo Columbus, con il compito di monitorare costantemente i temporali e raccogliere informazioni sugli eventi luminosi transitori grazie ai suoi sensori in grado di rilevare raggi X e gamma.
Le ipotesi sul tavolo degli scienziati concordano sul fatto che questi fenomeni debbano essere osservati non tanto nel contesto di sistemi temporaleschi localizzati, quanto considerando un sistema di fenomeni elettrici a livello globale. Inoltre, se fosse possibile legare i dati raccolti oggi con quelli in possesso dei paleo-climatologi, si potrebbero trovare connessioni con fenomeni climatici avvenuti nel passato remoto del nostro pianeta, o correlazioni con quelli in corso su altri pianeti del nostro Sistema Solare in fase di esplorazione.
Negli studi saranno anche coinvolte l’università di Stanford ed il New Mexico Tech.
Per gli astrofili mattinieri ecco una interessante congiunzione tra una falce di Luna calante (fase del 28%) e Saturno (mag. +0,53), quest’ultimo visibile al confine tra le costellazioni di Ofiuco e Sagittario, a circa 3° e mezzo a ovest-sudovest della Luna.
I due astri sorgeranno dall’orizzonte est attorno alle 3:30 e all’ora indicata saranno ancora piuttosto bassi, si troveranno a una decina di gradi sull’orizzonte sudest e sarà possibile osservarli fino all’incirca un’ora prima del sorgere del Sole, sia a occhio nudo sia attraverso un binocolo o telescopio, per poterne apprezzare la differente natura.
La stessa porzione di cielo in cui si trovano Saturno e la Luna, poco più in basso, è ricchissima di oggetti deepsky, come ad esempio gli ammassi stellari aperti M 23 e M 24, oppure le nebulose M 8 (Nebulosa Laguna) e M 20 (Nebulosa Trifida), spettacolari se osservati attraverso un telescopio da 20 cm di diametro a 35 ingrandimenti.
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Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio
Questa è la terra al tempo in cui i dinosauri popolavano un pianeta lussureggiante e fertile, ma un asteroide di sei miglia di diametro cambiò tutto per sempre. Colpì con la forza di diecimila testate nucleari… un trilione di tonnellate di frammenti e detriti si innalzò nell’atmosfera, creando una soffocante cortina di polvere che per mille anni il sole non riuscì a penetrare… è avvenuto in passato, avverrà di nuovo, la questione è solo quando.” [dal film Armageddon]
Si è tenuta ieri, 14 febbraio, la conferenza stampa in occasione dell’edizione 2017 di Asteroid Day. In diretta da Città del Lussemburgo, Berlino, Silicon Valley, Bucarest e Londra l’anteprima degli eventi del 2017.
Il rischio che asteroidi precipitino sulla Terra c’è, ma non pensate alle catastrofi che avete visto al cinema: nella realtà non sarà Bruce Willis a portare una squadra sull’asteroide più pericoloso per salvare il pianeta, come accadeva in Armageddon (1998).
Si tratta piuttosto di individuare innanzitutto gli asteroidi a rischio e poi di studiare a livello internazionale una soluzione, che, verosimilmente, preveda la deviazione del corpo roccioso “impazzito”. Per fare questo è necessario uno studio coordinato volto a gestire l’emergenza di un impatto. Pensandoci, possibilmente, molto prima che accada.
Il rischio di impatto è remoto, ma c’è. La minaccia è reale, «meglio non dormire, ma tenerla presente e studiarla». Lo ha spiegato bene Gianluca Masi, astrofisico, ideatore del Virtual Telescope Project e coordinatore per l’Italia dell’International Asteroid Day. Esiste anche un asteroide che porta il suo nome, ma lui ha assicurato che non è “malintenzionato”. Quali sono, allora, gli asteroidi che dobbiamo temere? Come intervenire, allora, in caso di possibile impatto?
La minaccia che arriva dal cielo non è stata ancora identificata in maniera netta. Se infatti è semplice individuare “i pesci grossi”, sono gli asteroidi più piccoli a far temere per la loro pericolosità. Asteroid Day, un movimento globale in continua crescita per proteggere il pianeta, le famiglie, le comunità e le generazioni future dagli asteroid pericolosi, ha tenuto la Conferenza Stampa Globale del 14 febbraio, per annunciare nuovi partner, sponsor, attività e presentare un’anteprima degli eventi di Asteroid Day organizzati nel mondo per il prossimo 30 giugno 2017.
Asteroid Day si tiene infatti ogni anno nell’anniversario del più importante impatto asteroidale sulla Terra nella storia recente, l’evento di Tunguska del 1908, che distrusse un’area di circa 1000 chilometri quadrati in Siberia. La conferenza si svolge invece alla vigilia dell’anniversario dell’evento di Chelyabinsk, il più recente impatto asteroidale, che nel 2013 ferì circa 1500 persone. Asteroid Day è stato co-fondato nel 2014 dal regista Grig Richters, dall’imprenditrice della Silicon Valley Danica Remy, dall’astronauta dell’Apollo 9 Rusty Schweickart e dal Dr. Brian May, astrofisico e chitarrista dei Queen e numerosi altri esponenti della scienza, dell’industria e dello spettacolo (vedi elenco completo).
Dichiarazione delle Nazioni Unite: il 7 dicembre 2016, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ufficialmente riconosciuto Asteroid Day come un evento annuale, dichiarando il «30 giugno International Asteroid Day per commemorare ogni anno, a livello internazionale, l’anniversario dell’impatto di Tunguska sopra la Siberia, in Russia, del 30 giugno 1908 e incrementare la pubblica consapevolezza del rischio di impatto asteroidale».
I tre astri, Luna, Giove e Spica, sorgeranno dall’orizzonte est attorno alle 22:30 e, all’ora indicata in cartina, si troveranno a un’altezza di circa 10° gradi sull'orizzonte. Si potranno osservare tranquillamente anche a occhio nudo. Saranno quindi visibili per tutta la notte, culminando attorno alle 4:00 (a un’altezza di circa 40°) per svanire nel crepuscolo mattutino, prima di tramontare dietro l’orizzonte ovest.
I tre astri, Luna, Giove e Spica, sorgeranno dall’orizzonte est attorno alle 22:30 e, all’ora indicata in cartina, si troveranno a un’altezza di circa 10° gradi sull'orizzonte. Si potranno osservare tranquillamente anche a occhio nudo. Saranno quindi visibili per tutta la notte, culminando attorno alle 4:00 (a un’altezza di circa 40°) per svanire nel crepuscolo mattutino, prima di tramontare dietro l’orizzonte ovest.
Se guarderete tra le stelle della Vergine, in direzione est, durante la notte tra il 15 e il 16 febbraio, potrete notare un oggetto molto luminoso, di mag. –2,3: si tratta del pianeta Giove, protagonista di una bella congiunzione assieme alla Luna e alla stella Spica, la stella alfa della Vergine (mag. +1,0).
I tre astri saranno disposti a formare un triangolo quasi rettangolo, con Giove in corrispondenza del vertice dell’angolo retto, Spica a circa 3° e mezzo da Giove e la Luna a una distanza angolare di poco più di 4° da Giove. La distanza angolare tra la Luna e Spica sarà sui 6° e mezzo.
All’ora indicata la Luna si troverà a circa 10° di altezza sull’orizzonte, un’ottima occasione per scattare delle belle fotografie che coinvolgono il paesaggio. Con il passare dei minuti i tre astri incrementeranno via via la loro altezza.
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Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio
L’agenzia spaziale li ha scelti in una rosa di otto candidati, al termine di un seminario di tre giorni a Monrovia, in California. Il “vincitore” sarà annunciato solo un anno, o due, prima del lancio, attualmente previsto per luglio 2020. La posizione nella mappa dei tre candidati, che può essere vista anche nell'animazione in apertura. Crediti immagini: NASA. Didascalie delle immagini by Polluce Notizie (http://www.pollucenotizie.net/2017/02/12.html).
I tre finalisti sono: il cratere Jezero, che deve aver ospitato un lago in almeno due occasioni più di 3,5 miliardi di anni fa e potrebbe quindi conservare tracce di vita microbica; la regione nord-est di Syrtis Major Planum, dove l’attività vulcanica creò flussi di acqua calda sotterranei che avrebbero potuto sostenere un ambiente abitabile e Columbia Hills, la zona già esplorata dal Mars Exploration Rover Spirit che, tuttavia, non ha raccolto troppi consensi. Uno dei sostenitori è Matthew Golombek, scienziato planetario del Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA: «è l’unico luogo su Marte dove è presente un’antica sorgete idrotermale confermata», ha dichiarato.
Mars 2020 avrà il compito di cercare tracce di vita microbica passata. La NASA, quindi, dovrebbe prediligere un sito di atterraggio dove la presenza dell’acqua nella storia del pianeta sia ormai comprovata, proprio per aumentare le probabilità di scoprire composti organici, biomarcatori o micro-fossili. A Columbia Hills, nel cratere Gusev, Spirit aveva scoperto un terreno ricco minerali formatesi in presenza di acqua idrotermale.
In generale, la destinazione finale sarà scelta secondo i seguenti criteri:
• aver avuto le giuste condizioni ambientali passate per sostenere la vita
• presentare una certa varietà di rocce e terreni; processi storici geologici ed ambientali, incluse interazioni con l’acqua
• presentare tipi di roccia in grado di conservare tracce della vita passata
• consentire di raggiungere tutti gli obiettivi scientifici prefissati per la missione • essere adatta all’atterraggio e favorire gli spostamenti del rover
Il primo dei tre finalisti è il cratere Gusev, teatro dell'atterraggio del rover Spirit nel 2004. Il cratere, largo 160 chilometri, è dimora delle Columbia Hills, dove Spirit identificò depositi di silice forse dovuti ad un antico sistema idrotermale. Numerosi indizi suggeriscono che il cratere abbia in passato ospitato un bacino di acqua liquida.
Peccato che tra gli esclusi ci sia Nili Fossae, un gruppo di graben concentrici nella zona di Syrtis Major. Qui la superficie è stata modellata dagli impatti e dallo scorrere delle faglie. Dall’orbita sono state rilevate grandi quantità di silice ed argille ma, soprattutto, è uno di quei punti enigmatici in cui le osservazioni terrestri hanno mostrato tracce di metano in atmosfera, un gas la cui presenza su Marte è molto discussa e che potrebbe avere un’origine biologica.
In ogni caso, la missione Mars 2020 deve ancora superare un lungo percorso ad ostacoli.
Secondo un rapporto pubblicato il 30 gennaio dall’Office of Inspector General (OIG) della NASA, il lancio rischia di essere rimandato a causa di una serie di problemi tecnici e di ritardi relativi ai vari contributi realizzati dai partner internazionali.
Il secondo sito è il cratere Jezero, un ottimo esempio della natura episodica e discontinua della presenza di acqua liquida su Marte. Oltre 3,5 miliardi di anni fa, l'esondazione di un sistema di fiumi ricoprì il cratere di acqua, formando un vasto lago e trasportando minerali argillosi e carbonati all'interno del cratere. Dopo essersi asciugato, il cratere venne ricoperto da almeno un'altra esondazione, prima di andare definitivamente in secca.
Lo scoglio più grande sarebbe proprio il sistema di campionamento, il fulcro del programma, che dovrebbe raccogliere e conservare i campioni per rispedirli un domani a Terra, la cui progettazione sembra essere più complessa del previsto. «Rischia di non essere pronto per l’integrazione ed il collaudo a maggio 2019», hanno dichiarato i project manager della missione.
Altre perplessità riguardano, invece, il design del rover, la cui revisione è prevista questo mese nonostante manchino all’appello ancora molti elaborati progettuali.
Il terzo e ultimo sito corrisponde alle propaggini nord-orientali di Syrtis Major Planum. Questa regione era un tempo riscaldata da attività vulcaniche che potrebbero aver alimentato eventi idrotermali, sciogliendo i ghiacci presenti e creando bacini di acqua liquida. La presenza di ricche stratificazioni geologiche offrirebbe agli scienziati un comodo accesso alla cronologia delle interazioni tra l'acqua e i minerali marziani.
Gli ingegneri hanno anche rimesso mano alle ruote nel tentativo di proteggerle dall’usura ed evitare il deterioramento osservato su Curiosity. Quelle di Mars 2020 saranno spesse il doppio, aggiungendo però 10 chilogrammi alla massa del nuovo rover. La massa complessiva dovrà, comunque, risultare inferiore ai 1050 chilogrammi, eventualmente a discapito di altri elementi, come l’eliminazione del piccolo drone che avrebbe dovuto fare da scout per scegliere i percorsi ottimali e scovare luoghi di interesse (potete approfondire l’argomento “Come muoversi meglio su Marte” nell’ultimo articolo di Marco Di Lorenzo).
In ultimo, altri due strumenti, The Mars Oxygen ISRU Experiment (MOXIE) e Mars Environmental Dynamics Analyzer (MEDA), hanno sofferto nelle varie fasi: il primo ha visto un aumento dei costi di oltre il 50 per cento rispetto alla stima iniziale; il secondo ha subito ritardi a causa di una “ristrutturazione finanziaria” dell’Instituto Nacional de Tecnica Aeroespacial spagnolo, responsabile per la suite.
Cinquanta anni fa, a Faenza, moriva Giovanni Battista Lacchini(1884-1967), grande astronomo osservatore e studioso di stelle variabili, tra i soci fondatori dell’AAVSO (American Association Variable Star Observer). Per onorarne la memoria, il Comune di Faenza e il gruppo Astrofili Faentini “G.B. Lacchini”, a partire dal 9 marzo, propongono un nutrito calendario di eventi, che coinvolgeranno gli astrofili, le scuole e gli appassionati tutti.
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L’INVITO ALLA FOTOGRAFIA DELL’ASTEROIDE
Gli astrofili che dispongono di una attrezzatura osservativa adeguata (un telescopio con camera CCD di almeno 30 cm, sotto un buon cielo), possono onorare la memoria di Lacchini riprendendo l’asteroide145962 che lo scopritore, Silvano Casulli, ha proposto alla IAU affinché gli venga attribuita la denominazione ufficiale: “LACCHINI”.
COME TROVARE L’ASTEROIDE?
L’asteroide può essere ripreso già ora e le effemeridi per rintracciarlo nel periodo osservativo proposto sono scaricabili QUI.
Le immagini andranno poi inviate entro il 26 febbraio a info@asteroidsmarathon.net, utilizzando il servizio gratuito per invii di file pesanti Wetransfer.
Astrofili e astronomi professonisti hanno già iniziato a riprendere le immagini dell’asteroide, fallo anche tu!
Immagine dell’asteroide ottenuta da Andrea Mantero il 29 gennaio scorso al Bernezzo Observatory
L’asteroide fotografato dal Gruppo Astrofili di Schio che ha utilizzato un telescopio in remoto di 43cm posto a Mayhill (USA)
In questa pagina invece verranno caricate tutte le immagini che arriveranno agli organizzatori, in qualsiasi formato vorrete inviarle (immagini, animazioni, dati grezzi, file fits, etc). Le immagini verranno poi elaborate da Paolo Bacci, responsabile della Sezione Asteroidi UAI, e presentate al pubblico durante la serata inaugurale della manifestazione dedicata a G.B. Lacchini.
E dedicata agli asteroidi è la rubrica di Claudio Pra su Coelum Astronomia.
Questo mese tanti gli asteroidi in opposizione, quale momento migliore per cominciare le tue osservazioni per entrare nel Club dei 100 asteroidi?
Semplicemente clicca qui sotto e leggi …è gratuito!
Iniziano a febbraio i due nuovi corsi rivolti a tutti:
Corso completo di Fotografia Astronomica: 10 lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per imparare a fotografare il cielo con qualsiasi strumentazione (che sia una semplice reflex o un telescopio). Il corso copre ogni aspetto della fotografia: dalla teoria all’esperienza sul campo all’elaborazione al computer, per realizzare immagini mozzafiato e di valore scientifico di panorami galattici, pianeti e altri oggetti celesti. Non è richiesto possesso di attrezzatura né una preparazione preliminare.
– Il corso si terrà tutti i giovedì sera dalle 21 alle 22.30, le attività pratiche si svolgeranno di sabato e saranno concordate in base al meteo. Corso teorico di astronomia generale:un ciclo di 9 conferenze che offre uno sguardo su argomenti raramente trattati nei corsi divulgativi. Si vedrà quali leggi fisiche agiscono nei più importanti fenomeni astronomici per comprendere l’universo e la scienza che lo studia: approfondimenti di grandissimo interesse per gli appassionati. Un modulo riguarderà anche la meccanica quantistica.
– Gli incontri si svolgeranno tutti i lunedì dalle 21 alle 22.30 presso la nostra sede: sala conferenze San Gregorio Barbarigo, di fronte alla Metro B. Info: Tel 349 7245167, eventi@ accademiadellestelle.org Facebook: www.facebook.com/accademia.dellestelle www. accademiadellestelle.org
Nel disegno il primo concept di quello che potrebbe essere il lander robotico che atterrerà sulla superficie di Europa. Image credit: NASA/JPL-Caltech
Nei primi mesi del 2016, il Planetary Science Division della NASA ha iniziato una fase preliminare di studio per definire il valore scientifico e studiare la progettazione di una futura missione su Europa, luna ghiacciata di Giove.
La NASA, prima dell’inizio di ogni missione, svolge ordinariamente questo tipo di analisi, noto con il nome di Science Definition Team report (SDT), per valutare la fattibilità e il potenziale delle missioni.
Nel mese di giugno 2016, 21 scienziati sono stati incaricati di redigere il SDT report per la futura esplorazione di Europa.
Da allora, la squadra ha individuato tre obiettivi scientifici della missione presentando, lo scorso 7 febbraio, una relazione alla Nasa.
Europa ripresa dalla sonda della NASA Galileo. Crediti: NASA/JPL-Caltech/ SETI Institute
L’obiettivo primario è la ricerca di tracce di vita su Europa. Le altre priorità sono la valutazione dell’abitabilità della luna gioviana, attraverso la raccolta e l’analisi del materiale sulla sua superficie, e la descrizione della superficie e del sottosuolo in vista di una futura esplorazione robotica del satellite naturale e del suo mare. Il rapporto descrive anche alcuni strumenti teorici che potrebbero essere utilizzati per svolgere misurazioni a sostegno di tali obiettivi.
Gli scienziati sono concordi nel ritenere che Europa, leggermente più piccola della Luna della Terra, abbia un oceano di acqua salata sotto la sua superficie ghiacciata, con almeno il doppio dell’acqua di tutta quella racchiusa negli oceani terrestri, il che rafforzerebbe l’ipotesi di condizioni favorevoli per la vita.
Europa – insieme a Encelado, luna di Saturno – rappresentano gli unici due luoghi del sistema solare in cui un oceano sembrerebbe in contatto con un fondale roccioso. Questa rara circostanza rende la luna gioviana uno degli obiettivi prioritari della ricerca di tracce vita oltre la Terra.
Data la sottile atmosfera di Europa, il team, lavorando a stretto contatto con gli ingegneri, ha elaborato un sistema di atterraggio della futura sonda robot sulla superficie ghiacciata senza il supporto tecnologico di scudi termici o paracadute.
Il mosaico mostra le più dettagliate immagini della superficie di Europa riprese dalla sonda Galileo della NASA. I singoli fotogrammi hanno una risoluzione di 12 metri per pixel, ma il primo in alto è l'immagine a più alta risoluzione ottenuta dalla missione (6 metri per pixel), la riga nera al centro del fotogramma è il risultato di dati persi, non trasmessi dalla sonda. Al link, sul sito del JPL, trovate l'immagine scaricabile a piena risoluzione: http://www.jpl.nasa.gov/spaceimages/details.php?id=PIA21431 Image credit: NASA/JPL-Caltech
Il percorso della cometa 45P/Honda - Mrkos - Pajdusakova durante il mese di febbraio. Si noti il suo notevole moto da est verso nordovest che le permetterà ben presto di alzarsi in cielo, fino a culminare poco dopo mezzanotte a fine mese. La sua velocissima corsa mensile avrà inizio dalla costellazione dell’Aquila per terminare nel Leone dopo oltre 130° di spostamento attraverso ben 9 costellazioni!
La cometa 45P ripresa la sera del 22 dicembre da Rolando Ligustri e Fabrizio Romanello, la foto è stata fatta dall'Osservatorio di Circolo Astrofili Talmassons CAST. strumenti: NW 500/1620 ottica Fausto Giacometti ccd STXL11002 in bin 2 L=2z2' RGB=1' campo inq 46'x80' La cometa è visibile molto bassa sull'orizzonte e in una finestra temporale molto stretta, nella ripresa la cometa era soli 7 gradi sull'orizzonte, con enormi problemi di seeing ed estinzione atmosferica... ma come vedete, può dare soddisfazione anche alle nostre latitudini.
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45P/Honda – Mrkos – Pajdusakova
Il percorso della cometa 45P/Honda - Mrkos - Pajdusakova durante il mese di febbraio. Si noti il suo notevole moto da est verso nordovest che le permetterà ben presto di alzarsi in cielo, fino a culminare poco dopo mezzanotte a fine mese. La sua velocissima corsa mensile avrà inizio dalla costellazione dell’Aquila per terminare nel Leone dopo oltre 130° di spostamento attraverso ben 9 costellazioni!
Cominciamo con la 45P/Honda- Mrkos-Pajdusakova, che a fine dicembre è passata al perielio ed è stata valutata attorno alla settima magnitudine. In seguito è scomparsa alla nostra vista, fagocitata dalla luce solare che ha nascosto il suo avvicinamento al nostro pianeta. La ritroveremo però al termine della notte astronomica nei primissimi giorni di febbraio, bassissima sull’orizzonte orientale. Il suo notevole moto da est verso nord ovest le permetterà ben presto di alzarsi in cielo, fino a culminare poco dopo mezzanotte a fine mese. L’11 febbraio passerà a 0,084 UA dal nostro pianeta, toccando la distanza minima. In quell’istante dovrebbe aver raggiunto il massimo splendore di questa apparizione (si prevede che possa raggiungere la sesta magnitudine). [continua a leggere]
Una finestra sul cielo per osservare la cometa ce la offre SLOOH a partire dalle ore 04:30 del giorno 11 (solo lingua inglese).
Fotogramma della “palla di fuoco” del Trinity Test scattato 25 ms dopo l’esplosione. Crediti: US Govt. Defense Threat Reduction Agency
Fotogramma della “palla di fuoco” del Trinity Test scattato 25 ms dopo l’esplosione. Crediti: US Govt. Defense Threat Reduction Agency
Lunedì 16 luglio 1945, ore 05:29. Per la prima volta nella storia dell’umanità, viene fatto esplodere un ordigno nucleare: una bomba al plutonio, identica a quella che nemmeno un mese più tardi sarà sganciata su Nagasaki. Il luogo è un lembo di deserto noto come Jornada del Muerto, nella contea di Alamogordo, in New Mexico. E il nome in codice del test – scelto personalmente da J. Robert Oppenheimer – è Trinity.
Ora, a distanza di oltre settant’anni dall’alba di quel lunedì, che segnò uno spartiacque tanto di successo per il Progetto Manhattan quanto tragico per la storia dell’uomo, un team di ricercatori guidato da James Day, geochimico alla Ucsd (University of California, San Diego), è tornato sul luogo del delitto per raccogliere indizi utili a chiarire i contorni di un altro evento devastante – questa volta, però, del tutto naturale – avvenuto più o meno 4,5 miliardi di anni fa: il gigantesco impatto fra la proto-Terra e un corpo celeste dalle dimensioni simili a quelle di Marte. Impatto dal quale, stando a una fra le teorie più accreditate, ebbe origine la Luna.
James Day al lavoro nello Scripps Isotope Geochemistry Laboratory. Crediti: Scripps Institution of Oceanography / UC San Diego
Cos’avrebbero in comune il Giant Impact e il Trinity Test è presto detto: un analogo frazionamento isotopico, vale a dire “firme” simili per quanto riguarda l’abbondanza di alcuni isotopi – per esempio quelli dello zinco. Firme che i ricercatori di Ucsd hanno rinvenuto, da una parte, sui campioni di rocce lunari, e dall’altra, appunto, nei residui vetrosi raccolti a Jornada del Muerto nei dintorni del sito del test, il Trinity site. Come illustrato nello studio pubblicato oggi da Day e colleghi su Science Advances, la composizione del materiale di questi frammenti, noto fra gli esperti come trinitite, varia a seconda della loro distanza dal punto esatto dell’esplosione. Più ci si avvicina a ground zero, più i frammenti vetrosi risultano carenti di elementi volatili, come se fossero stati “asciugati”. Lo zinco, in particolare, mostra anche un’abbondanza isotopica relativamente ai suoi isotopi più pesanti, con un frazionamento che riflette la distanza dal punto in cui esplose quel primo ordigno atomico.
«I risultati mostrano che l’evaporazione a temperature elevate, simili a quelle presenti all’origine della formazione dei pianeti, conduce – nei residui lasciati dall’evento – alla perdita di elementi volatili e all’arricchimento in isotopi pesanti», spiega Day. «Un esito suggerito anche dal senso comune, ma del quale abbiamo ora una prova sperimentale».
Il fatto che un’analoga abbondanza isotopica e l’assenza di liquidi – acqua in testa – caratterizzino anche le rocce lunari suggerisce, dicono i ricercatori, che il materiale della Luna sia stato oggetto di trasformazioni simili. I campioni analizzati mostrano come gli elementi volatili subiscano identiche reazioni chimiche durante eventi nei quali si raggiungono temperature e pressioni estreme, sia che avvengano sulla Terra sia nello spazio esterno. Risultati che depongono, dunque, a favore della teoria dell’impatto gigante.
Fondazione Culturale Hermann Geiger
Piazza Guerrazzi 32, Cecina (LI)
Tutti i giorni dalle 16 alle 20. Ingresso libero
Un percorso alla scoperta dell’Universo, inteso come luogo reale e come frontiera del fantastico. La mostra, organizzata dalla Fondazione Culturale Hermann Geiger, percorre la storia dell’astronomia attraverso l’esposizione di strumenti scientifici e antiche mappe celesti e di opere letterarie, cinematografiche e artistiche ispirate dall’immaginario sullo spazio, prima ancora che l’uomo potesse davvero raggiungerlo. Nell’ultima sezione presenta invece la conquista fisica delle frontiere del cosmo, dimostrando che talvolta la realtà raggiunge e supera le aspettative della fantasia. 11.02, ore 18:00: “L’esplorazione del Sistema solare e la scoperta dei pianeti che ruotano intorno a stelle lontane”. Relatore: Ruggero Stanga. Presso il Palazzetto dei Congressi.
Con la collaborazione di Osservatorio EGO dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare all’Osservatorio
Astrofisico di Arcetri; MUFANT, Museo del Fantastico e della Fantascienza di Torino; Maison d’Ailleurs di
Yverdon-les-Bains (Svizzera). Per informazioni: info@fondazionegeiger.org / 0586 635011
Il mosaico qui sopra, ottenuto da immagini riprese dalla MastCam a bordo di Curiosity, mostra le formazioni geologiche della Yellowknife Bay, all'interno del Cratere Gale. Lo studio di queste rocce ha portato alla nascita di un paradosso, indicano senz'altro che era presente un lago, ma l'anidride carbonica nell'aria era troppo poca per poter mantenere l'acqua del lago liquida. L'immagine è solo una porzione di un mosaico ottenuto con 111 immagini acquisite il 24 dicembre 2012 (137 SOL per Curiosity). Credit: NASA/JPL-Caltech/MSSS
È al centro dell’attenzione da quando Curiosity ha toccato la superficie di Marte, il 6 agosto 2012, e ora, dopo le nuove analisi effettuate dal rover della NASA, si sta presentando come un rompicapo per gli studiosi che cercano di chiarire la sua condizione nel lontano passato del pianeta.
Si tratta del Gale Crater, i cui sedimenti, in base alle ultime indagini, non mostrano segni di biossido di carbonio nella quantità minima indispensabile per sostenere, anticamente, la presenza di acqua liquida.
Il responso dell’attività investigativa in situ di Curiosity ha suscitato non pochi interrogativi, dato che precedenti analisi di quest’area avevano messo in rilievo tracce di minerali – quali argille e solfati – riconducibili invece ad una condizione ambientale che implicava acqua liquida a contatto con il suolo.
I ricercatori hanno tentato di dare una risposta a questa discrepanza e il frutto delle loro conclusioni è l’articolo“Low Hesperian PCO2 constrained from in situ mineralogical analysis at Gale Crater, Mars”, pubblicato ieri sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America).
Il team di ricerca, coordinato da Thomas Bristow della NASA (Principal Investigator dello strumento CheMin di Curiosity), ha supposto che, 3 miliardi e mezzo di anni fa, il livello del biossido di carbonio nell’atmosfera di Marte doveva essere troppo basso per poter creare dei depositi sedimentari. L’esistenza di acqua liquida, ipotizzata in base alle tracce di argille e solfati, ha fatto tuttavia pensare a una situazione climatica caratterizzata da temperature calde connesse alla presenza di CO2 nell’atmosfera.
Di conseguenza, secondo gli studiosi, i sedimenti del cratere Gale dovrebbero essersi formati quando il clima del Pianeta Rosso era molto rigido e il livello di biossido di carbonio era inferiore tra 10 a 100 volte rispetto al minimo necessario perché vi fossero le condizioni per la presenza di acqua liquida.
Il gruppo di lavoro, quindi, ritiene che nel remoto passato di Marte il Gale Crater dovesse ospitare un lago ghiacciato, anche se al momento il rover non ha individuato formazioni geologiche caratteristiche di questo genere di bacini. Tuttavia, per il team della ricerca doveva essere presente anche acqua allo stato liquido: la formazione di argille e solfati si sarebbe verificata a seconda del variare delle stagioni oppure in laghi ricoperti da una coltre glaciale.
Per Curiosity, la cui missione ha avuto inizio con il lancio del 26 novembre 2011, si prospettano quindi ulteriori scenari di ricerca, ‘a caccia’ degli ambienti umidi marziani e dei loro segreti.
Tornano anche quest’anno I Venerdì dell’Universo, organizzati dal Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’Università degli studi di Ferrara e dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in collaborazione con il Gruppo Astrofili Columbia e Coop. Sociale Camelot. L’iniziativa, nata come una serie di seminari di approfondimento e aggiornamento su temi di Astronomia e Astrofisica, si è progressivamente evoluta diventando una manifestazione dedicata alla divulgazione scientifica nel senso più ampio del termine. I Venerdì dell’Universo si rivolgono a tutta la cittadinanza, in particolar modo ai giovani, nella speranza che possano aiutarli a maturare non solo curiosità ma anche spunti per i loro studi professionali e amatoriali.
03.02: “Onde gravitazionali: come si rivelano, cosa potremo imparare” di Francesco FIDECARO.
10.02: “Uomini, Web-Bot e Robot: chi controlla chi? Dino LEPORINI.
24.02: “Origine e conseguenze del sisma in Italia centrale” di Mario TOZZI.
10.03: “Interfacce tra il cervello e i computer” di Luciano FADIGA.
24.03: “Antartide: un anno su Marte Bianco, tra curiosità e scienza” di Luciano MILANO.
31.03: “Nello spazio alla ricerca dell’universo invisibile” di Giuseppe MALAGUTI.
Per informazioni: Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra via G. Saragat, 1 – Tel. 0532/ 974211 – venerdiuniverso@fe.infn.it – fst.unife.it – www.fe.infn.it
Jim Dexter of the Lisle Police Department in Lisle, Illinois saw a meteor moving through the sky, and quickly turned on the dashboard camera in his car to capture the event. Credit: Lisle Police Department
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Una meteora eccezionalmente luminosa ha attraversato i cieli sul lago Michigan negli Stati Uniti, intorno alle 8:25 (ora italiana) del 6 febbraio, 2017. Qui sopra i due video ripresi da Jim Dexter, del Dipartimento di Polizia di Lisle e da una webcam sul tetto dell’Università del Wisconsin-Madison. Cliccare sull’immagine per far partire il video. Crediti: Lisle, IL Police Department/Space Science and Engineering Center (SSEC) and Department of Atmospheric and Oceanic Sciences, University of Wisconsin-Madison/mash mix: Space.com
Un bolide dalla brillante luce verde ha illuminato letteralmente a giorno il cielo appena a nord di Milwaukee, la mattina del 6 febbraio, e sembrerebbe che si sia disgregato in una pioggia di meteoriti caduta nel lago Michigan. Secondo Mike Hankey, dell’American Meteorological Society (AMS), la meteora è bruciata nel cielo da 16 a 32 chilometri circa a nord di Milwaukee, 160 km a nord di Chicago.
La maggior parte delle testimonianze oculari sono arrivate da persone tra Chicago e Milwaukee, e nei loro dintorni, ma si hanno segnalazioni anche da Michigan, Indiana, Ohio, Iowa, New York, Kentucky, Minnesota e Ontario. Almeno una dozzina di video della corsa della palla di fuoco attraverso il cielo sono apparsi online o sono stati inviati all’AMS. [5 video stupefacenti del bolide]
Jim Dexter del Dipartimento di Lisle (Illinois) ha visto le meteora attraversare il cielo e, velocemente, ha acceso la camera sul cruscotto della sua auto per riprenderla. Credit: Lisle Police Department
Due straordinari video del bolide, che vedete in apertura, sono stati catturati da Jim Dexter, del Dipartimento di Polizia di Lisle (Illinois). Dexter ha visto il lampo luminoso muoversi attraverso il cielo e ha rapidamente acceso la fotocamera sul cruscotto della sua auto per catturare l’evento. Il secondo video della firball che attraversa il cielo è stato invece ripreso da una telecamera sul tetto della University of Wisconsin-Madison’s atmospheric, oceanic and space sciences.
I vari video dell’evento mostrano una meteora eccezionalmente luminosa, tanto da meritarsi la qualifica di “fireball” (palla di fuoco) e la NASA Meteor Watch scrive in un post: «Le telecamere nella regione mostrano che la meteora è diventata visibile all’incirca 100 km sopra West Bend, Wisconsin, e ha viaggiato verso nordest a circa 61 mila chilometri all’ora». In seguito la meteora si è disgregata in parti più piccole «circa 34 km sopra il Lago Michigan, a circa 14 km a est della città di Newton».
La fireball è stata qui catturata da una camera del campus dell'Università del Wisconsin-Madison. Credit: Space Science and Engineering Center (SSEC) and Department of Atmospheric and Oceanic Sciences, University of Wisconsin-Madison.
E’ sempre Mike Hankey a raccontarci che la palla di fuoco nella sua corsa ha anche prodotto un boom sonico, suono che si verifica quando un oggetto si muove più velocemente delle onde sonore nell’atmosfera terrestre. Solitamente le fireball non danno luogo a boom sonici, perché si disintegrano o si frammentano in piccoli pezzi nella alta atmosfera, mentre per creare un boom sonico l’oggetto deve sopravvivere intatto abbastanza a lungo da arrivare a quote relativamente basse, dove l’atmosfera terrestre è sufficientemente densa. Ma in questo caso, sempre secondo la pagina NASA Meteor Watch, il boom sonico è stato «registrato da una stazione di infrasuoni in Manitoba [Canada], a circa 965 km di distanza» e indica che l’esplosione della meteora ha rilasciato un’energia energia equivalente ad almeno 10 tonnellate di TNT (non tutte le segnalazioni arrivate, ci fa notare Hankey, sono di chi ha sentito il boom sonico, chi stava osservando l’evento può invece aver sentito l’esplosione della meteora).
Tutte le informazioni raccolte hanno dato modo ai ricercatori di ricostruire la traiettoria e fare ipotesi sulla natura della meteora prima di entrare nella nostra atmosfera. Si è probabilmente trattato di un frammento di asteroide «del peso di almeno 272 kg e di 60 cm di diametro». Questo secondo la pagina NASA Meteor Watch, mentre Hankey ritiene possa essere più grande.
Animazione della presunta orbita e dell’avvicinamento della fireball del 6 febbraio 2017.
Sulla base delle rilevazioni radar, è probabile che i pezzi della meteora (meteoriti) siano arrivati a terra. Tuttavia, le rocce spaziali sarebbero piovute sul lago Michigan, e quindi non potranno essere raccolte per essere studiate.
Il fenomeno però “fortunatamente” (finché accade in zone lontane dai centri abitati) non è rarissimo, è sempre Mike Hankey a dirci che una meteora grande abbastanza da lasciare meteoriti sul terreno arriva sugli Stati Uniti circa tre o quattro volte l’anno.
La meteora potrebbe anche essere stata individuata via radar dall’ufficio del National Weather Service di Milwaukee. Sul loro profilo twitter si può vedere un’immagine radar che mostra la probabile posizione della meteora sul lago Michigan, alle 01:31 CST. Sarah Marquardt, meteorologo presso l’ufficio di Milwaukee, spiega che la loro strumentazione radar è utilizzata per rivelare le gocce d’acqua nell’atmosfera, in questo caso i piccoli oggetti identificati nell’area non erano né ghiaccio né acqua, quindi, con molta probabilità indicano la posizione della meteora nel momento in cui si è disintegrata in pezzi molto piccoli.
Da notare inoltre che la magnitudine penombrale di questa eclisse (0,988) sarà leggermente maggiore rispetto alla precedente del 16/09/2016 (0,908) (vedi il Cielo del Mese di Coelum Astronomia n.203 a pagina 116) e quindi dovrebbe risultare discreta la percezione della differenza di luminosità, in modo particolare in prossimità della fase massima di questo evento, fase in cui si potranno concentrare le osservazioni visuali e riprese fotografiche.
Circostanze per una località post in Centro Italia. Da notare inoltre che la magnitudine penombrale di questa eclisse (0,988) sarà leggermente maggiore rispetto alla precedente del 16/09/2016 (0,908) e quindi dovrebbe risultare discreta la percezione della differenza di luminosità, in modo particolare in prossimità della fase massima di questo evento, fase in cui si potranno concentrare le osservazioni visuali e riprese fotografiche.
Fra la tarda serata del 10 febbraio e le prime ore dell’11 febbraio l’appuntamento da non perdere sarà con una nuova eclisse lunare parziale di penombra perfettamente osservabile in tutte le sue fasi da tutta l’Italia.
Infatti, considerando la latitudine di Roma, l’inizio della penombra è previsto per le ore 23:32 con altezza della Luna di 59°, la fase massima la notte successiva alle ore 01:43 con la Luna a 56°, mentre alle ore 03:55 dell’11 febbraio col nostro satellite a un’altezza di 36° è prevista la fine di questa eclisse parziale di penombra con una durata complessiva di 4 ore 23 minuti.
Per l’evento del 10/11 febbraio la frazione oscurata del disco lunare (definita “magnitudine di penombra”) sarà di 0,988 [continua a leggere].
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Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio
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