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Attenzione: rocce marziane fragili! Maneggiare con cura

Studiare le rocce terrestri per aiutare il rover Perseverance con il suo lavoro su Marte

È Agosto 2021 e, con grande emozione, Perseverance sta per esaminare il suo primo campione di roccia estratto dal cratere Jezero.

Peccato che, di quel carotaggio, non rimanga che polvere. Perché?

Questa immagine scattata dal rover Perseverance della NASA il 6 agosto 2021, mostra il foro praticato in una roccia marziana in preparazione per il primo tentativo del rover di raccogliere un campione (Credits: NASA/JPL-Caltech)

Una bella domanda, visto che, al secondo tentativo, Perseverance è riuscito a raccogliere con successo un campione di roccia delle dimensioni di un gessetto, senza che questo si sbriciolasse.

 

credits NASA

Il team del JPL (il Jet Propulsion Laboratory della NASA) ha così concluso che la prima roccia che avevano scelto era così friabile che il trapano a percussione del rover probabilmente l’aveva polverizzata.

Quel primo campione di roccia, denominata Roubion, è subito divenuto oggetto di accurate indagini da parte dei ricercatori. Prima della partenza di Perseverance erano state testate dozzine di rocce di consistenza e composizione differenti e nessun tipo di queste era stata polverizzata in quel modo dal trapano in dotazione al rover.

È così che è iniziata la campagna esplorativa e una nuova serie di test su rocce terrestri per aiutare Perseverance con il suo lavoro su Marte.

Alla ricerca del “Roubion terrestre”

Ricreare le proprietà fisiche uniche di Roubion è la chiave della campagna di test.

«Tra tutte le rocce testate, Roubion è quella che ha mostrato prove evidenti di interazione con l’acqua. Motivo per cui si è sbriciolata sotto l’azione del trapano» spiega Ken Farley, geochimico del California Institute of Technology. Le rocce alterate dall’azione dell’acqua tendono infatti a disintegrarsi più facilmente: bisognerà imparare a maneggiarle con cura, in quanto sono molto preziose per la missione NASA.

Ricordiamo che Perseverance sta esplorando il cratere Jezero – un antico lago alimentato da un fiume – a caccia di segni di vita microscopica.

La campagna esplorativa presso la Ecological Reserve di Santa Margarita (Credits: NASA/JPL-Caltech)

Per trovare rocce terrestri simili al Roubion, ai ricercatori è stato concesso il permesso di cavare alcune rocce nella Ecological Reserve di Santa Margarita, a due ore di auto dal JPL. Dopo un bel lavoro di squadra per estrarre rocce di dimensioni sufficienti per diversi tipi di sperimentazione, queste sono state trasferite presso l’Extraterrestrial Materials Simulation Lab: una sorta di centro servizi che prepara i materiali per i test al JPL.

Sono state formate due squadre: un team ha lavorato con un trapano da costruzione – non da carotaggio – insieme ad altri strumenti, mentre un altro team ha utilizzato un trapano simile a quello in dotazione a Perseverance.

 

Sperimentando si impara

Le prove svolte sono state diverse, specialmente con il trapano simile a quello del rover. Gli ingegneri hanno modificato la velocità di percussione del trapano e il peso posizionato sulla punta. Hanno anche provato a perforare la roccia orizzontalmente anziché verticalmente, nel caso in cui l’accumulo di detriti fosse un fattore determinante. Hanno anche verificato che, riducendo la forza della percussione per evitare di polverizzare il campione, la punta del trapano non riusciva a penetrare la superficie. A questo punto è stato concluso che, nel caso in cui un campione di roccia dovesse resistere a percussioni più forti, questo significherebbe la sua interazione con l’acqua è stata minima.

Grazie a tutti questi test terrestri, finora Perseverance è riuscito a raccogliere con successo ben sei campioni di rocce altamente alterate dall’acqua. Le sperimentazioni su rocce terrestri continuano e gli ingegneri del JPL si tengono pronti a tutte le nuove sfide che si presenteranno!

 

 

Fonti

Testing Rocks on Earth to Help NASA’s Perseverance Work on Mars

 

 

 

 

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Quando i buchi neri giocano a nascondino

Al centro della galassia Messier 77 (nota anche come NGC 1068), avvolto da una nube di polvere cosmica, sembra nascondersi un buco nero supermassiccio.

L’oggetto è stato individuato dal Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’European Southern Observatory (ESO), e i primi risultati di queste osservazioni stanno dando l’opportunità agli astronomi di approfondire le ricerche sui “nuclei galattici attivi”, corpi celesti molto luminosi e assai misteriosi.

Immagine catturata con lo strumento MATISSE sul Very Large Telescope Interferometer dell’ESO, mostra la regione più interna della galassia attiva Messier 77. Il punto nero indica la posizione più probabile del buco nero, mentre le due ellissi mostrano l’estensione, vista in proiezione, dello spesso anello di polvere interno (tratteggiato) e del disco di polvere esteso. Credit:
ESO/Jaffe, Gámez-Rosas et al.

I nuclei galattici attivi (AGN) sono grandi fonti di energia alimentate da buchi neri supermassicci situati all’interno delle galassie. Questi buchi neri mangiano letteralmente grandi quantità di polvere e gas cosmici. Prima di essere divorato, questo materiale incomincia ad orbitare a spirale in direzione del buco nero, rilasciando grandi quantità di energia che tendono a far eclissare la luce di tutte le stelle.

 

L’interesse degli astronomi per gli AGN nasce negli anni ‘50, quando questi oggetti luminosi sono stati individuati per la prima volta. Oggi, un team di ricercatori dell’ESO, guidato da Violeta Gàmez Rosas dell’Università di Leiden nei Paesi Bassi, ha compiuto dei passi fondamentali verso la comprensione del loro funzionamento (i risultati sono stati pubblicati oggi su Nature).

Magnifico scatto del Very Large Telescope Interferometer (VLTI) della galassia spirale barrata Messier 77. Crediti: ESO

Esistono diversi tipi di AGN. Ad esempio, alcuni rilasciano esplosioni di onde radio, mentre altri brillano intensamente in luce visibile; altri ancora, come in Messier 77, risultano più attenuati. Nonostante queste differenze però, tutti gli AGN presentano la stessa struttura di base: un buco nero supermassiccio circondato da uno spesso anello di polvere (assunzione del “Modello Unificato dei nuclei galattici attivi”).

Secondo questo presupposto, le differenze presenti tra gli AGN dipendono dall’orientamento da cui gli astronomi osservano dalla Terra il buco nero e lo spesso anello di polveri. Ovvero, il tipo di nucleo galattico che vediamo dipende da quanto l’anello oscura il buco nero dal nostro punto di vista, in alcuni casi nascondendolo completamente.

Illustrazione artistica del nucleo galttico attivo di Messier 77. Credit:
ESO/M. Kornmesser e L. Calçada

In passato, gli scienziati hanno trovato delle prove a sostegno del Modello Unificato, tra cui ad esempio della polvere calda al centro di Messier 77. Nonostante questo però, rimane il dubbio se una simile polvere riscaldata possa celare del tutto un buco nero e quindi di conseguenza spiegare perché questo AGN brilla meno in luce visibile.

 

«La vera natura delle nubi di polvere cosmica e il loro ruolo come fonte d’alimentazione del buco nero sono questioni centrali nelle ricerche sugli AGN», spiega Gàmez Rosas, «Anche se il nostro singolo risultato ancora non può rispondere a tutte le domande, siamo riusciti a compiere uno step in più per contribuire alle ricerche che vanno avanti da decenni».

Le osservazioni sono effettuate grazie allo strumento MATISSE (Multi AperTure Mid-Infrared SpectroScopic Experiment) installato sull’VLTI nel deserto dell’Atacama. MATISSE combina la luce infrarossa raccolta da tutti e quattro i telescopi dell’ESO, usando una tecnica chiamata interferometria. In questo modo, gli scienziati hanno scansionato con un’alta risoluzione il centro di Messier 77, posto a 47 milioni di anni luce di distanza dalla Terra nella costellazione della Balena.

Grafico che mostra l’ubicazione della galassia attiva di Messier 77 nella costellazione della Balena. Credit: ESO, IAU and Sky & Telescope.

«MATISSE è in grado di vedere un’ampia gamma di lunghezze d’onda infrarosse, il che ci consente di vedere attraverso la polvere e di misurare con precisione le temperature», aggiunge il coautore dello studio Walter Jaffe, professore ordinario presso l’Università di Leiden, «Le immagini ottenute descrivono in dettaglio le variazioni di temperatura e l’assorbimento delle nubi di polvere intorno al buco nero».

 

Combinando quindi i cambiamenti nella temperatura della polvere (a circa 1200 °C) con le mappe di assorbimento, gli astronomi hanno costruito un quadro dettagliato della distribuzione della polvere e hanno individuato il punto in cui dovrebbe trovarsi il buco nero. La distribuzione della polvere nel centro di NGC 1068 sembra confermare il Modello Unificato.

«I nostri risultati dovrebbero portare ad una migliore comprensione del funzionamento interno degli AGN», conclude Gàmez Rosas, «Questi studi potrebbero anche aiutarci a capire meglio la storia della Via Lattea, che altrettanto ospita nel suo centro un buco nero supermassiccio».

Immagine della DSS (Digitized Sky Survey) che mostra la galassia a spirale Messier 77 e dintorni. Credit: NASA/ESA, Digitized Sjy Survey 2.

 

Bruno Lopez, Principal Investigator di MATISSE presso l’Observatoire de la Côte d’Azur di Nizza in Francia, conclude: «Messier 77 è un importante prototipo di AGN e un oggetto d’indagine interessantissimo sul quale concentrare il nostro progetto di ricerca, per ottimizzare MATISSE e altri strumenti all’avanguardia dell’ESO».

Fonti:

Release: https://www.eso.org/public/italy/news/eso2203/?lang

Nature (February 2022): “Thermal imaging of dust hiding the black hole in the Active Galaxy NGC 1068” (doi: 10.1038/s41586-021-04311-7).

L’avventurosa storia dei meteoriti ferrosi di Capo York – Prima Parte

Come il fallimento di alcune spedizioni polari portò al rinvenimento di uno dei più grandi oggetti metallici mai caduti dal cielo.

La montagna di ferro degli Inuit

Risale forse a 10.000 anni addietro l’ingresso nell’atmosfera terrestre di un frammento di nucleo asteroidale, con massa stimata intorno a qualche centinaio di tonnellate, che si frantumò in atmosfera prima di cadere su un’area del diametro di circa 20 km presso Capo York in Groenlandia. In questa località, i sei più grandi meteoriti qui scoperti raggiungono complessivamente il peso di ben 58 tonnellate.

I meteoriti recuperati da Robert Peary a Capo York, esposti al pubblico in una sala dell’American Museum of Natural History di New York (http://lesinfosdelolo.free.fr/?p=120)

I primi saranno individuati dagli Eschimesi, insediatisi intorno all’anno 1000 d.C. in questa inospitale regione artica. Vivendo in completo isolamento da altre civiltà, trassero da essi il metallo utile per fabbricare rudimentali arpioni e coltelli.

Una delle prime persone a guidare l’attenzione degli esploratori europei verso queste strane pietre fu Zakaeus, un appartenente alla comunità Inuit, che nel 1817 salì di nascosto a bordo di una baleniera ormeggiata nella Disko Bay. Raggiunta la Scozia, il giovane clandestino imparò la lingua inglese, iniziò a dipingere e conobbe l’esploratore artico John Ross che l’anno seguente lo arruolò per la spedizione diretta a Thule: località scelta come base di partenza per cercare la rotta tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico. Il tanto agognato passaggio a nord-ovest, infatti, avrebbe permesso collegamenti molto più rapidi con la costa occidentale del continente americano.

La Groelandia

Giunto nelle sperdute terre ghiacciate della Groenlandia, Ross incontrò una tribù di Inuit che utilizzava dei piccoli utensili di ferro: un fatto assai strano perché nell’area non esistevano minerali contenenti quel metallo, ma soprattutto mancavano i mezzi e la tecnologia necessari a estrarlo.

Tramite l’interprete Zakaeus, l’esploratore apprese che arpioni e coltelli erano stati ottenuti martellando a freddo i frammenti prelevati da una fantomatica “montagna di ferro” che immaginò essere un meteorite.

Uno degli arpioni utilizzati dagli Eschimesi, con la parte metallica ottenuta martellando a freddo frammenti di un grande meteorite ferroso (https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d5/Meteorite_iron_harpoon.jpg)

Le analisi eseguite su questi oggetti rivelarono elevati contenuti di nichel, elemento presente in concentrazioni piuttosto modeste nei minerali di origine terrestre. Questo confermò che le scorte metalliche degli Inuit provenivano dallo spazio.

Barattando pellicce con coltelli e arpioni portati dagli equipaggi delle baleniere, gli indigeni abbandonarono lo stretto riserbo a lungo mantenuto su tale argomento e Robert Peary riuscì a farsi accompagnare finalmente là dove si trovavano i meteoriti.

Un nucleo di ferro

I meteoriti ferrosi offrono un’opportunità unica per esaminare il nucleo di un grande asteroide differenziato: ossia di un corpo roccioso che, quando si trovava ancora allo stato fuso, ha subito una separazione legata alla differente densità dei costituenti.

Gli urti subiti da un grande asteroide, cui si riferisce questa ricostruzione di fantasia, portano alla luce il suo nucleo dal quale si possono staccare meteoriti ferrosi come quelli di Capo York (credits NASA/JPL-Caltech)

Questo processo ha portato alla formazione di un nucleo composto principalmente da ferro e nichel, circondato da un guscio costituito in prevalenza da silicati di metalli che, avvicinandosi alla superficie, sono via via più leggeri.

Gli innumerevoli urti intervenuti al termine della solidificazione, inoltre, intaccano sempre più in profondità il corpo celeste,  generando così la grande varietà di meteoriti conosciuta.

Una moltitudine di frammenti vaga nello spazio e alcuni entrano nell’atmosfera terrestre, ma le sollecitazioni termiche e meccaniche ne riducono drasticamente le dimensioni prima di toccare eventualmente il suolo.

A parità di dimensioni iniziali, però, i meteoriti ferrosi hanno normalmente una maggiore coesione rispetto a tutti gli altri e ciò spiega perché spetta proprio a loro il primato in termini di grandezza.

Il più importante rappresentante di questa categoria oggi in cattività, ossia sistemato in un luogo molto lontano da quello di arrivo, si trova insieme ad alcuni compagni di viaggio nell’apposita sala realizzata all’interno dell’American Museum of Natural History di New York.

La seconda parte del racconto, legata al ritrovamento e successivo trasferimento in America dei meteoriti di Capo York, sarà pubblicata sul nostro sito (www.coelum.com) in data 21/02

Un po’ di storia – meteoriti, tesori scesi dal cielo

Nella storia della civiltà l’impiego dei metalli scandì alcune tappe fondamentali come l’Età del bronzo (iniziata intorno al IV millennio a.C.) e l’Età del ferro a partire dal XII secolo a.C. nel Mediterraneo Orientale.

La rarità del ferro metallico in natura contribuì a mantenere ben separati questi periodi e rese necessario estendere allo spazio interplanetario l’origine delle leghe ferrose impiegate da alcune antiche civiltà, risalenti all’età del bronzo, per realizzare manufatti destinati all’uso rituale.

Sumeri e Ittiti, a conferma di tale provenienza, chiamavano il ferro “metallo del cielo”, mentre gli Assiri usavano il termine “metallo di dio” e gli Egizifulmine del cielo”. Ulteriori indicazioni giungono da un testo ittita dove si precisa che, se l’oro proviene da Birununda e il rame da Taggasta, il ferro arriva dal cielo.

In effetti, confrontando la composizione dei manufatti rinvenuti dagli archeologi negli scavi con quella dei meteoriti ferrosi, si trova una tale somiglianza da spiegare la loro apparente incongruenza storica. La collana di pietre preziose e oro trovata nel 1911 a sud del Cairo, in una tomba risalente al 3200 a.C. circa, per rammentare solo uno degli esempi più noti, ha delle perline di composizione simile a quella dei meteoriti metallici.

La lama del pugnale trovato nella sepoltura di Tutankhamon fu ricavata da un meteorite ferroso (www.history.com)

Riconduce alla medesima provenienza la lega usata per forgiare il pugnale di Tutankhamon, faraone d’Egitto nel XIV secolo a.C., dove, oltre al ferro, si trova un 10% circa di nichel e tracce di cobalto. Le decorazioni eseguite sulla lama, inoltre, rivelano la grande maestria degli artigiani nel lavorare questo metallo all’epoca molto più prezioso dell’oro e quindi destinato alla realizzazione di oggetti per i corredi funerari di personaggi molto importanti.

L’usanza di impiegare i meteoriti metallici per gioielli oppure strumenti rituali fu diffusa anche all’esterno dell’area mediterranea, come testimoniano i frammenti di collana realizzati dai nativi americani che tra il 100 a.C. e il 400 d.C. abitavano i territori compresi nell’attuale stato dell’Illinois. Recenti indagini correlano questa collana con il meteorite Anocka caduto nel Minnesota, a oltre 700 km di distanza, confermando l’importante ruolo giocato dal metallo arrivato dal cielo nelle credenze magiche delle antiche popolazioni.

Si discosta sostanzialmente da ogni ritualità, invece, l’impiego pratico dei meteoriti ferrosi di Capo York che, per secoli, gli Inuit della Groenlandia destinarono alla costruzione di arpioni e coltelli indispensabili a sopravvivere nelle proibitive condizioni ambientali del loro mondo ghiacciato.

 

Psyche: poco ferro da queste parti

Il gigante di ferro (16) Psyche sembra non essere così ricco di metallo come in realtà si pensava.

Infatti, uno studio condotto della Brown University ha rilevato che all’interno dell’asteroide ci sarebbe più roccia di quanto si fosse ipotizzato in precedenza.

(16) Psyche orbita intorno al Sole nella fascia di asteroidi della Fascia Principale tra Marte e Giove, ed è il più grande degli asteroidi di tipo M, i quali sono composti principalmente da metalli, specialmente ferro e nichel (per sapere di più sugli asteroidi del nostro Sistema Solare, andate a dare un’occhiata anche alla rubrica “Mondi in miniatura – Asteroidi, Febbraio 2022“).

Per ricavare informazioni riguardo la composizione degli asteroidi, gli astronomi studiano la luce riflessa di questi corpi. Si ipotizzava che (16)Psyche potesse essere il nucleo ferroso di un pianeta primordiale che avesse perso il mantello e la crosta rocciosa a seguito di un’antica collisione.

Illustrazione artistica della superficie metallica dell’asteroide Psyche. Credit: NASA
Tuttavia, le analisi sulla massa e la densità di Psyche raccontano una storia diversa.

La modalità con con cui la gravità dell’asteroide trascina i corpi vicini suggerisce che la massa di questo asteroide sia molto meno densa rispetto a un oggetto composto interamente di ferro. Perciò, se (16)Psyche fosse davvero tutto di metallo, in questo caso dovrebbe essere altamente poroso. Un po’ come una spugnetta di lana d’acciaio!

 

«Con questo studio volevamo vedere se fosse possibile per un ammasso di ferro come (16)Psyche mantenere una porosità vicina al 50%», afferma Fiona Nichols-Fleming, autrice dello studio (pubblicato sul JGR: Planets) e dottoranda alla Brown University, «Quello che però abbiamo scoperto è che sembra essere molto improbabile».

Il team di scienziati ha ideato un modello di calcolo, basato sulle proprietà termiche note del ferro metallico, per stimare come si sarebbe evoluta nel tempo la porosità dell’asteroide. Il modello ha mostrato che per mantenere la sua struttura “bucherellata”, la temperatura interna (16)Psyche dovrebbe scendere al di sotto di 800 Kelvin già poco dopo la sua formazione. Con temperature superiori, infatti, il ferro sarebbe così malleabile che la gravità stessa dell’asteroide potrebbe far collassare la maggior parte degli spazi presenti tra i pori, compattandolo. I ricercatori affermano anche che sia estremamente improbabile che un corpo delle dimensioni di (16)Psyche possa essersi raffreddato così rapidamente. Inoltre, qualsiasi altro evento, come un enorme collisione con un altro oggetto, avrebbe potuto riscaldare facilmente l’asteroide al di sopra di 800 K.

Illustrazione artistica di un mantello roccioso di un asteroide. Credit: NASA
I risultati quindi suggeriscono che l’asteroide non è un corpo poroso interamente composto di ferro. È possibile piuttosto che ci sia una componente rocciosa nascosta che ne riduce la densità.

Ma allora domanda sorge spontanea: perché la sua superficie sembra essere metallica se vista dalla Terra?

«Ci sono poche possibili spiegazioni», commenta Nicholos-Fleming, «Una di queste potrebbe essere la presenza di vulcani che eruttano ferro».

 

E’ possibile che su (16)Psyche si siano verificati dei fenomeni vulcanici, durante i quali il materiale roccioso si sia differenziato dal ferro. Questa intensa attività vulcanica potrebbe aver portato in superficie grandi quantità di ferro sopra alla mantello roccioso.

Qualunque sia la soluzione al mistero, gli scienziati avranno presto un quadro più chiaro sui segreti di (16)Psyche, visto che entro la fine di questo anno, la NASA prevede di lanciare una sonda che si incontrerà con l’asteroide dopo un viaggio di quattro anni.

 

«Questa nuova missione sarà qualcosa di entusiasmante: (16)Psyche è un oggetto così bizzarro», conclude Nicholos-Fleming, «Quindi qualsiasi cosa scoprirà la missione sarà un nuovo punto di partenza per ampliare le ricerche sul Sistema Solare».

Volete saperne di più su Psyche? Il gigante di ferro torna online a Marzo con la rubrica di Coelum “Mondi in miniatura – Asteroidi di Marzo 2022”.

Fonti:

Release: https://www.brown.edu/news/2022-02-14/psyche

Advancing Earth and Space Science (February 2022):Porosity Evolution in Metallic Asteroids: Implications for the Origin and Thermal History of Asteroid 16 Psyche” by Fiona Nichols-Fleming,
Alexander J. Evans, Brandon C. Johnson, Michael M. Sori.

Bernardinelli-Bernstein: la cometa più grande mai osservata

La cometa Bernardinelli-Bernstein spodesta dal primo posto delle comete più grandi mai osservate la rivale Hale Bopp, scoperta nel 1995 con sigla 2014 UN271, infatti sembra avere un diametro di ben 137 km!

Gli astronomi Pedro Bernardinelli, studioso della University of Washington, e Gary Bernstein, cosmologo della University of Pennsylvania, la individuarono nel set di dati del Dark Energy Survey, dai loro cognomi il nome della cometa, e le prime immagini risalgono all’anno 2014, ma all’epoca la cometa era troppo distante per essere misurata adeguatamente, ed avere quindi una stima corretta delle sue reali dimensioni.

Immagine della cometa C/2014 UN271 (Bernardinelli-Bernstein) scattata dal telescopio da 1 m dell’Osservatorio Las Cumbres a Sutherland, in Sud Africa, il 22 giugno 2021. Credit: progetto LOOK, Osservatorio Las Cumbres.

L’oggetto proviene dalla Nube di Oort, ai confini del Sistema Solare e la sua orbita impiega 5,5 milioni di anni per essere completata. Bernardinelli-Bernstein sta viaggiando in questo momento in direzione del nostro Sole e si prevede che raggiungerà il punto più vicino alla Terra nel 2031.

Il team di ricerca, che ha misurato le dimensioni della cometa, è guidato da Emmanuel Lellouch, astronomo dell’Observatoire de Paris, e per le analisi sono stati sfruttati i dati catturati dall’Atacama Large Millimeter Array in Sud America, risalenti all’agosto 2021, quando la cometa si trovava a 19,6 AU di distanza (AU è la distanza media tra la Terra e il Sole crca 150 milioni di km). Per calcolarne il diametro gli astronomi si sono concentrati sulle radiazioni a microonde proveniente dalla massa dell’oggetto.

 

«E’ davvero emozionante riuscire a misurare una cometa così distante» dichiara Emmanuel Lellouch, «Quando Bernardinelli-Bernstein si avvicinerà alla Terra, probabilmente si ridurrà significativamente. Infatti, man mano che una cometa si avvicina al Sole, la sua coda di polvere e gas si espande, mentre il suo corpo principale si restringe».

In futuro la cometa non sarà visibile ad occhio nudo, ma studiandone le caratteristiche gli scienziati si aspettano di trovare indizi per conoscere meglio la Nube di Oort. Il team prevede di usare i telescopi dell’Atacama per investigare la composizione chimica, la temperatura e la forma della cometa durante il suo passaggio.

Fonti:

Astronomy & Astrophysics (January 2022): Size and albedo of the largest detected Oort-cloud object: comet C/2014 UN 271” (Bernardinelli-Bernstein) by E. Lellouch, R. Moreno, D. Bockelée-Morvan, N. Biver, P. Santos-Sanz.

STARLINK: lo spettacolo prima della fine

… dall’osservazione diretta
di Claudio Pra

Serata del 3 febbraio 2022

Sto seguendo sul canale di Space X il lancio della missione STARLINK G4-7, più volte rimandata nelle giornate precedenti. Il Falcon 9 si solleva e in breve si avvia verso l’orbita prevista. Fra poche ore, un po’ prima dell’alba, mi alzerò per guardare direttamente la cinquantina di STARLINK rilasciati nello spazio.

So infatti, per esperienza, che a poche ore dal lancio danno il massimo spettacolo perché vicinissimi fra loro, indistinguibili singolarmente, ma visibili globalmente come una scia luminosa. Odiati a ragione da astronomi e astrofili sono però affascinanti da osservare, specialmente in determinate condizioni, e così, alle 5:28 della mattina successiva, sono sotto casa con lo sguardo verso Albireo (la bellissima stella doppia del Cigno) nelle cui vicinanze sarebbero dovuti comparire i satelliti.

 

Mi aspetto come in altri casi una scia eterea e invece escono improvvisamente dall’ombra terrestre, luminosissimi, formando una scia compatta come mai avevo visto prima d’ora e che dà vita ad un treno celeste che si dirige verso l’orizzonte di nordest. Dopo un minuto circa scompaiono dietro il crinale di una montagna.

Bellissimo davvero!

Ho anche scattato una foto che li incornicia in un degno scenario. Euforico, decido di osservarli anche il giorno seguente, quando sarebbero dovuti risultare ancora piuttosto compatti, meno luminosi, ma in grado di dare ancora spettacolo.

Così sabato 5 febbraio verso le 5:30 sono ancora sotto il cielo in attesa dell’evento.

Arriva l’ora prevista e stavolta non avvisto nulla. Aspetto con pazienza ma nessuna scia luminosa, compatta o eterea compare in cielo. Strano, stranissimo, penso! Mi arriva un messaggino dell’amico Antonello, impegnato a sua volta nell’osservazione da un altro luogo. Mi scrive che non ha visto nulla e mi chiede se io ho visto invece qualcosa. Rispondo di no e concordiamo che la cosa è inspiegabile. Me ne faccio comunque una ragione dato che ho ancora negli occhi quel trenino luminoso, quasi magico, sicuramente indimenticabile del giorno precedente.

 

Solo qualche giorno dopo leggo la notizia della tempesta geomagnetica che ha colpito quel trenino facendolo deragliare, con il rientro e la distruzione in atmosfera dei suoi vagoni. Quel inutile attesa del secondo passaggio ora ha una spiegazione e acquista valore l’osservazione di quel primo e unico spettacolare transito, il più bello tra quelli che ho avuto la fortuna di osservare finora.

Evento unico ed inaspettato, che chissà quando ricapiterà!

Incontri con l’autore: in diretta con Alessandro Mura

Appuntamento il 16 Febbraio alle 21:15

In diretta con Coelum: Alessandro Mura, vice responsabile dello strumento JIRAM, spettrometro a bordo della missione NASA-JUNO.

Alessandro Mura è autore dell’articolo “JUNO – Giunone scruta sotto le nubi di Giove” pubblicato sul n. 254 di Coelum Astronomia. Una diretta imperdibile! Un’occasione per sbirciare sotto le nubi del nostro gigante gassoso.

Sarà possibile seguire la diretta sui tutti i nostri canali social!

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Parker Solar Probe fotografa Venere

L’obiettivo della missione Parker Solar Probe si sa è quello di indagare la composizione dell’atmosfera solare, nella sua traiettoria però la sonda si è avvicinata anche più volte al caldissimo pianeta Venere e dalle immagini catturate durante il fly-by del 2021 sono arrivate piacevoli sorprese. L’analisi delle indagini è stata poi pubblicata mercoledì 9 febbraio sulla rivista scientifica Geophysical Research Letters.

Immagine scattata dalla sonda Parker Solar Probe, che ha sorvolato Venere per la quarta volta nel febbraio 2021. Le telecamere di WISPR hanno catturato queste immagini, che mostrano la superficie notturna del pianeta. Credit: NASA/APL/NRL

«Siamo entusiasti delle informazioni fornite finora da Parker Solar Probe», afferma Nicola Fox, direttore della divisione per la eliofisica presso la NASA, «Parker continua a sorprenderci e siamo davvero ottimisti sul fatto che queste nuove analisi possono far avanzare la ricerca su Venere in modi inaspettati».

 

Infatti, immagini della superficie del gemello della Terra possono aiutare gli scienziati a comprendere meglio la sua geologia e l’evoluzione del pianeta.

«Venere è il terzo oggetto più luminoso che possiamo osservare nel cielo, e fino a poco tempo fa sapevamo ben poco di cosa ci fosse al di sotto della spessa atmosfera», aggiunge Brian Wood, autore principale dello studio e fisico presso il Naval Research Laboratory di Washington, DC. «Ora finalmente possiamo ammirare questa superficie misteriosa in una lunghezza d’onda visibile».

WISPR: strumentazione dai super-poteri

Wide-Field Imager ha scattato le prime immagini venusiane nel luglio del 2020, quando la sonda Parker ha intrapreso il suo terzo sorvolo sul pianeta. WISPR è stato ideato per catturare i dettagli del vento solare, ed alcuni scienziati hanno creduto che lo strumento fosse anche in grado di analizzare la sommità delle nubi di Venere.

Immagine di Venere in luce visibile del luglio 2020. Lo strumento WISPR ha rilevato un bordo luminoso attorno al pianeta, che è stata interpretata come luce emessa da atomi di ossigeno negli alti strati dell’atmosfera. Al centro dell’immagine si presenta un’ombra scura che corrisponde alla regione continentale dell’Aphrodite Terra. Mentre le scie luminose in primo piano, sono in genere causate da una combinazione di particelle cariche – chiamate raggi cosmici – , generate dalla luce solare riflessa da granelli di polvere spaziale. Credit: NASA/APL/NRL

«Inizialmente, l’obiettivo era quello di misurare la velocità delle nuvole», dichiara lo scienziato responsabile del progetto WISPR Angelos Vourlidas e ricercatore presso il Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory, «Ma WISPR è andato oltre, regalandoci le prime immagini del suolo di Venere».

Il risultato è stato talmente sorprendente che gli astronomi hanno deciso di riaccendere le telecamere al quarto passaggio di Parker nel febbraio 2021.

Ferro incandescente

Sfruttando le lunghezze d’onde che sconfinano nel vicino infrarosso, e concentrando le telecamere di Wide-Field Imager durante la fase notturna del pianeta, è stato possibile osservare che la superfice di Venere è brillante ed incandescente, come un pezzo di ferro appena uscito da una fucina.

Immagine ottenuta dai radar della missione Magellan compiuta negli anni ’90. Questi scatti hanno fornito la prima visione globale di ciò che era al di sotto delle spesse nubi venusiane. Credit: Magellan Team/JPL/USGS

«Anche di notte la superficie di Venere si trova a circa 860 °C», aggiunge Wood, «Fa così caldo che la superficie rocciosa è visibilmente luminosa».

WISPR ha raccolto una gamma di lunghezze d’onda da 470 nm a 800 nm. Parte della luce visibile individuata è il vicino infrarosso: una lunghezza d’onda che non possiamo vedere, ma ci permette di misurare il calore del suolo venusiano.

Venere sotto una nuova luce.

Le prime immagini della superficie di Venere risalgono al 1975, quando il lander Venera 9 è atterrato sul pianeta. Da quel momento negli anni ’90 sono state costruite delle mappe del suolo sfruttando dei radar, mentre la navicella spaziale Akatsuki della JAXA ha ottenuto delle immagini ad infrarosso nel 2016. Ora anche gli scatti di Parker si aggiungono a questi incredibili successi.

Immagini della superficie di Venere riprese dal programma Venera dell’Unione Sovietica negli anni ’70 e ’80. Queste foto sono state catturate dalle navicelle spaziali Venera 9 e 10. Credit: NASA/NSSDCA/Courtesy of the USSR

Le telecamere di WISPR ci hanno fornito ulteriori dettagli della regione continentale di Aphrodite Terra, dell’altopiano di Tellus Regio e le pianure di Aino Planitia. Combinando queste immagini con quelle ottenute nel passato, gli scienziati possono analizzare con più precisione la composizione mineralogica di Venere: informazioni utilissime per comprendere l’evoluzione del pianeta. Venere si è formato assieme alla Terra e a Marte, ma oggi il pianeta risulta completamente diverso dagli altri due fratelli rocciosi. Si sospetta che il vulcanismo venusiano abbia avuto un ruolo fondamentale nel plasmare la superficie e contribuire alla densa atmosfera. Le immagini di Parker potrebbero svelare nuovi misteri su questo antico processo.

 

Il futuro della ricerca su Venere

I recenti successi di Parker Solar Probe stanno ispirando altre missioni volte ad approfondire la ricerca su Venere. L’ESA e la NASA già raccolgono molti dati tramite le missioni BepiColombo e Solar Orbiter.

Per la fine del 2022 sono anche diretti verso Venere i veicoli spaziali come DAVINCI e VERITAS. Queste missioni aiuteranno a campionare con più precisione la densa atmosfera venusiana, oltre a favorire il rimappaggio della superficie con una risoluzione più elevata.

 

«Le prossime missioni su Venere avranno la necessità di rispondere alla domanda: perché la superficie venusiana è così inospitale?», afferma Lori Glaze, direttore della Planetary Science Division presso la NASA «I risultati di Parker hanno anche messo appunto una nuova tecnologia per il rilevamento da satellite, sulla quale bisogna, a nostro modesto parere, investire quanto prima».

Fonti:

Release:https://www.nasa.gov/feature/goddard/2022/sun/parker-solar-probe-captures-its-first-images-of-venus-surface-in-visible-light-confirmed

Geophysical Research Letters (Febraury 2022): “Parker Solar Probe Imaging of the Night Side of Venus” by Brian E. Wood, Phillip Hess, Jacob Lustig-Yaeger, Brendan Gallagher, Daniel Korwan, Nathan Rich, Guillermo Stenborg, Arnaud Thernisien, Syed N. Qadri, Freddie Santiago, Javier Peralta, Giada N. Arney, Noam R. Izenberg, Angelos Vourlidas, Mark G. Linton, Russell A. Howard, Nour E. Raouafi.

Starlink: 40 satelliti bruciati nell’atmosfera

Ben 40 su 49 satelliti Starlink persi a causa di una tempesta solare

Un lancio sventurato quello risalente allo scorso giovedì 3 febbraio quando, a bordo di un Falcon 9, erano partiti 49 satelliti Starlink dal Launch Complex 39A (LC-39A) presso il Kennedy Space Center in Florida.

Sfortunatamente, il giorno successivo al lancio, i satelliti appena schierati in orbita bassa sono stati investiti da una tempesta geomagnetica. I tecnici hanno immediatamente avviato le manovre per deorbitare i satelliti, portandoli in una modalità sicura in cui sarebbero volati di taglio (come se ruotassimo un foglio di carta), per ridurre così al minimo la resistenza e per “prendere riparo dalla tempesta” nel modo più efficace possibile.

Un’operazione che però non è andata a buon fine.

«L’analisi preliminare ha mostrato che l’aumento della resistenza alle basse quote ha impedito ai satelliti di lasciare la modalità provvisoria per iniziare le manovre di sollevamento dell’orbita e quindi 40 satelliti sono stati fatti rientrare nell’atmosfera terrestre» l’annuncio direttamente dalla compagnia SpaceX.

A contatto con l’atmosfera, i satelliti hanno preso fuoco e si sono disintegrati.

Immagine scattata sopra i cieli di Porto Rico: il probabile impatto infuocato dei detriti di Starlink a contatto con l’atmosfera. Credit: Sociedad de Astronomia del Caribe.

Qui il video a cura della SAC (Sociedad de Astronomia del Caribe) del probabile impatto di uno o più satelliti Starlink con l’atmosfera.

Le impetuose tempeste geomagnetiche: un problema da non sottovalutare

Queste tempeste sono un risultato dell’attività solare che va a disturbare la magnetosfera terrestre, con possibilità di creare danni alle apparecchiature tecnologiche posizionate in orbita intorno alla Terra e alle strumentazioni terrestri, oltre che rappresentare un rischio per gli astronauti a bordo della ISS.

 

«Queste tempeste provocano il riscaldamento dell’atmosfera e l’aumento della densità atmosferica alle basse altitudini», commenta SpaceX nella nota sul lancio dello scorso 3 febbraio «Il GPS di bordo ci ha suggerito che la velocità di escalation e la gravità della tempesta hanno causato un aumento della resistenza atmosferica fino al 50% in più rispetto ai lanci precedenti».

La deorbitazione dei 40 Starlink è stata totalmente controllata dai tecnici della compagnia di Elon Musk e non ha comportato alcun rischio di collisione con altri satelliti. Inoltre, per progettazione, questi “svaniscono” al contatto con l’atmosfera, quindi di fatto non sono stati creati detriti e nessuna parte dei satelliti ha colpito il terreno.

 

«Questo evento isolato dimostra quanto il team di Starlink sia competente nel garantire che il sistema sia all’avanguardia nella mitigazione dei probabili detriti in orbita», conclude SpaceX.

Illustrazione grafica della dispiegazione in orbita della flotta dei satelliti Starlink. Credit: SpaceX

Attualmente SpaceX ha lanciato sui 2000 satelliti dall’inizio del programma Starlink, anche se non tutti sono operativi. Si prevede che la “costellazione” di satelliti diventi ancora più grande, trovando poco riscontro in una buona parte del mondo astronomico, che temono, tra altre cose, anche per l’aumento dell’inquinamento luminoso.

Fonti:

Release: https://www.spacex.com/updates/

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INFN: Giornata Internazionale delle Donne nella Scienza 2022

Domani 11 febbraio è il WomenInScienceDay, ed anche quest’anno l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) celebra l’evento con una serie d’iniziative con l’intento di promuovere la equa partecipazione di donne e ragazze nelle scienze, in materia d’istruzione, formazione e occupazione.

Se volete partecipare attivamente a questa ricorrenza, ecco un elenco di proposte organizzate e promosse dall’INFN:

I Laboratori Nazionali di Frascati organizzano l’evento online “Towards Inclusive Science”, in diretta dalle 9.30 sul canale YouTube dei LNF, che vedrà donne e uomini del mondo della ricerca coinvolti a raccontare successi e sfide di studenti delle Scuole secondarie di secondo grado.

Il Gran Sasso Science Institute e l’Università degli Studi dell’Aquila organizzano la conferenza “ResearchHER, prospettive di scienza”. L’evento si terrà online alle 10.00 presso l’Auditorium dell’Università, con ospiti Lucia Votano, Direttrice dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’INFN; Giuliana Galati, fisica delle particelle, divulgatrice scientifica e membro del CICAP; Serena Giacomin, climatologa e meteorologa per le reti Mediaset e DeAgostini; e Lorenzo Gasparrini, filosofo, formatore femminista e attivista.

 

A Cagliari e presso l’Università di Roma la Sapienza si terranno delle edizioni speciali delle International Masterclasses organizzate da IPPOG. A questa edizione parteciperanno 82 studentesse e studenti provenienti dalle scuole sarde, per svolgere attività sperimentali sulla fisica delle particelle e l’astrofisica.

Le Sezioni INFN di Roma3, Napoli e il Gruppo Collegato di Cosenza organizzano le International Masterclasses for girls. Quest’anno i partecipanti potranno assistere da remoto alla presentazione della fisica e sociologa Ilenia Picardi, dal titolo “Equità di genere nella scienza: le sfide per le ragazze nelle STEM”.

L’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, in collaborazione con la Sezione INFN di Roma 2, proporranno agli studenti l’incontro online “STEM: Protagoniste di una grande storia”, a cura dell’associazione ValoreD.

La ricercatrice Carla Aramo, delle Sezione INFN di Napoli, parteciperà alla campagna online organizzata dalla Collaborazione Pierre Auger; mentre Iaia Masullo parteciperà all’evento “Scienza: sostantivo femminile”, organizzato dall’Associazione di Promozione sociale Social Project, presso Villa Bruno a San Giorgio a Cremano.

 

A Pavia sarà organizzato un side-event della Notte dei Ricercatori. L’iniziativa è ideata da Silvia Bortolussi, ricercatrice della Sezione INFN di Pavia e dell’Università di Pavie, e Ilaria Canobbio, ricercatrice dell’Università di Pavia.

La Sezione INFN di Lecce, in collaborazione con il dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università del Salento, celebrerà la giornata con l’evento “Dottorande nella scienza: conversazione online”, che sottolinea l’importanza del ruolo delle donne e delle giovani ragazze all’interno della comunità scientifica e nel settore tecnologico.

Alle 17.00 di venerdì 11 febbraio l’European Gravitational Observatoru (EGO) e la Collaborazione Virgo celebreranno la giornata con un evento online dal titolo “Women listening to cosmo. A Q&A with Virgo scientist”.

Per saperne di più:

Release: https://home.infn.it/it/news-infn/4697-le-iniziative-infn-per-la-giornata-internazionale-delle-donne-nella-scienza-2022

 

 

 

 

 

 

 

 

Proxima Centauri: scoperto nuovo esopianeta

Tramite il Very Large Telescope (VLT) in Cile, gli astronomi dell’European Southern Observatory (ESO) hanno individuato un nuovo pianeta intorno a Proxima Centauri, la stella più vicina al nostro Sistema Solare.

Si classifica come terzo pianeta rilevato attorno questa stella.

Con solo 1/4 della massa terrestre, è anche uno degli esopianeti più leggeri mai trovati.

Immagine del cielo intorno alla stella luminosa Alpha Centauri AB, che mostra anche la stella nana rossa molto più debole, Proxima Centauri. L’illustrazione è stata creata da immagini raccolte dal Digitized Sky Survey 2. Credit: ESO

«La scoperta mostra che il nostro vicino stellare più prossimo sembra essere pieno di nuovi mondi interessanti, alla portata di ulteriori studi ed esplorazioni future», spiega João Faria, ricercatore presso l’Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço in Portogallo, e autore principale dello studio pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics.

 

Proxima Centauri è la stella più vicina al Sole, situata a poco più di quattro anni luce di distanza. Il pianeta scoperto è stato chiamato Proxima d, ed orbita attorno alla sua stella ad una distanza di circa quattro milioni di chilometri, ovvero a meno di un decimo della distanza tra Mercurio e il Sole. Il pianeta orbita tra la stella e la zona abitabile del sistema (l’area attorno ad una stella dove può esistere acqua liquida sulla superficie di un pianeta) e sembra impiegare solo cinque giorni per completare un’orbita attorno a Proxima Centauri.

Una lista di nuovi esopianeti

Questo sistema planetario ospita già altri due pianeti: Proxima b, un pianeta con una massa paragonabile a quella della Terra che ruota intorno alla stella ogni 11 giorni, e Proxima c, che possiede un’orbita della durata di almeno cinque anni.

Il grafico mostra la grande costellazione meridionale del Centauro (Il Centauro), mettendo in evidenza la maggior parte delle stelle visibili ad occhio nudo in una notte chiara e buia. La posizione della stella Proxima Centauri è contrassegnata da un cerchio in rosso. Credit: ESO

Proxima b è stato scoperto alcuni anni fa utilizzando lo strumento HARPS, installato su un telescopio da 3,6 m. Successivamente la scoperta è stata confermata nel corso del 2020, quando gli scienziati hanno osservato il sistema con uno strumento installato sul VLT, che permetteva di avere una migliore risoluzione: l’Echelle Spectrograph for Rochy Exoplanets and Stable Spectroscopic Observations (ESPRESSO).

 

E’ stato proprio durante queste osservazioni che gli astronomi hanno individuato i primi segnali di Proxima d. Il segnale però era troppo debole, e il team ha dovuto effettuare un follow-up con ESPRESSO, per confermare se si trattasse o meno di un pianeta o semplicemente di qualche cambiamento di Proxima Centauri.

Un pianeta piuma

Quindi con un quarto della massa della Terra, Proxima d è l’esopianeta più leggero mai misurato, superando per giunta un altro pianeta recentemente scoperto nel sistema planetario L 98-59. Per le osservazioni è stata utilizzata la tecnica della velocità radiale, la quale tende a rilevare le minuscole oscillazioni nel movimento di una stella, create dall’attrazione gravitazionale di un pianeta in orbita. L’effetto della gravità di Proxima d è così piccolo che fa sì che Proxima Centauri si muova avanti e indietro a circa 40 cm al secondo (1,44 km all’ora).

Illustrazione artistica di Proxima d all’interno del sistema planetario di Proxima Centauri. Si ritiene che il pianeta sia roccioso e che abbia una massa di circa un quarto di quella della Terra. Credit: ESO

«Questo è un risultato estremamente importante», afferma Pedro Figueira, scienziato responsabile della manutenzione e applicazione di ESPRESSO in Cile, «Mostra che la tecnica della velocità radiale ha il potenziale per svelare una nuova popolazione di pianeti che potrebbero potenzialmente ospitare la vita come la conosciamo».

Il lavoro di ESPRESSO sulla ricerca di altri mondi sarà completata dall’Extremely Large Telescope (ELT), attualmente in costruzione nel deserto di Atacama, che sarà cruciale per scoprire e studiare molti altri pianeti intorno alle stelle a noi più vicine.

Fonti:

Release: https://www.eso.org/public/news/eso2202/?lang

Astronomy & Astrophysics (February 2022): “A candidate short-period sub-Earth orbiting Proxima Centauri”, DOI: 10.1051/0004-6361/2021142337

Fusione nucleare: è record! Creata una mini-stella

«Abbiamo dimostrato che possiamo creare una mini-stella all’interno della nostra macchina, tenerla lì per cinque secondi e ottenere prestazioni elevate, il che ci apre a possibilità davvero nuove»

Sempre più vicini alla fusione nucleare: l’energia che alimenta le stelle

Un grande passo avanti per la ricerca scientifica, con un record senza precedenti.

La notizia ci giunge dal Culham Centre for Fusion Energy con sede a Oxfordshire, nel Regno Unito, in particolare dal JET (Joint European Torus) un enorme reattore a fusione nucleare, attualmente il più grande al mondo.

Battendo un suo precedente record del 1997, all’interno del JET sono stati prodotti 59 megajoule di energia in cinque secondi (11 megawatt di potenza): più del doppio del precedente primato del ’97. Non è un’enorme produzione di energia, puntualizzano gli scienziati, ma può dimostrare il potenziale delle centrali elettriche e il ruolo cruciale nell’affrontare i cambiamenti climatici attraverso un’energia sicura e sostenibile a basse emissioni di carbonio.

Guarda il video “Making a mini-star on Earth” (credits: www.euro-fusion.org)

«Gli esperimenti JET ci hanno avvicinato di più all’energia da fusione», ha affermato il dott. Joe Milnes, capo delle operazioni presso il laboratorio del reattore, che parla della creazione di una mini-stella all’interno del reattore.

L’obiettivo? Produzione di energia “pulita”

credits: ec.europa.eu

Per energia di fusione intendiamo infatti quella che alimenta le stelle. Questo risultato da record ci avvicina sempre di più a valutare la fusione nucleare come mezzo sicuro, efficiente e a basse emissioni di carbonio, come fonte di energia da utilizzare per affrontare la crisi climatica.

«Il risultato ottenuto è pienamente in linea con le previsioni teoriche e che conferma le motivazioni alla base del progetto ITER per garantire energia sicura, sostenibile e a bassa emissione di CO2» è stato affermato ieri in conferenza stampa.

ITER è un progetto unico che mira a costruire la macchina per la fusione più grande al mondo.

Cofinanziato dalla Commissione Europea, il consorzio Eurofusion [consorzio europeo per lo sviluppo della fusione nucleare] vede la partecipazione di 4.800 tra esperti, studenti e personale in staff da tutta Europa, con una forte presenza di ricercatori italiani.

Fonti

Major breakthrough on nuclear fusion energy
Fusion energy record demonstrates powerplant future

Detriti in caduta libera

Divoratrice di pianeti

Cosa accade a un sistema planetario alla morte della sua stella ospite?

Utilizzando raggi X (in grado di rilevare materiale roccioso e gassoso) un team di scienziati della University of Warwick ha osservato per la prima volta i detriti dei pianeti distrutti precipitare in una nana bianca. I risultati della ricerca sono stati pubblicati oggi 9 febbraio su Nature e corrispondono alla prima misurazione diretta dell’accrescimento di materiale roccioso attorno una nana bianca, confermando decenni di prove indirette.

Un fato segnato

Il destino di molte, compreso il nostro Sole, è quello di diventare una nana bianca.

Quando una stella muore, il sistema planetario che vi ruotava attorno viene travolto dall’atmosfera della stella in espansione questo dice la teoria ed è quanto veniva confermato da osservazioni spettroscopiche a lunghezze d’onda ottiche e ultraviolette in grado di rilevare nelle atmosfere delle stelle agenti inquinanti ferrosi.

Rappresentazione grafica del disco di detriti in orbita intorno a G29-38. Credit: NASA/JPL-Caltech

Per decenni, gli astronomi hanno raccolto solamente prove indirette con le indagini spettroscopiche arrivando a dimostrare che le atmosfere di quasi la metà delle nane bianche osservate contenesse elementi pesanti come ferro, calcio e magnesio.

 

Oggi, invece, grazie a questa nuova ricerca sono state raccolte e confermate le prime vere e proprie osservazioni dirette.

«Abbiamo finalmente visto del materiale entrare nell’atmosfera di una nana bianca. Mai è stata fatta un’osservazione simile ed è un risultato piuttosto notevole», dichiara il dott. Tim Cunningham del Dipartimento di Fisica della University of Warwick, «Una nana bianca è una stella che ha consumato tutto il suo carburante, distruggendo e sconvolgendo la vita di qualsiasi corpo che le orbita intorno. Quando il materiale residuale di questi corpi viene attirato nella stella ad una velocità sufficientemente alta, colpisce la superficie, formando del plasma riscaldato. Questo plasma si deposita poi sulla superficie e mentre si raffredda emette raggi X che possono essere rilevati dai nostri strumenti».

Strumenti all’avanguardia

I raggi X sono creati da elettroni che si muovono molto velocemente, e in astronomia sono fondamentali per rilevare oggetti particolari come buchi neri e stelle di neutroni. Purtroppo però sono molto fragili e nel percorso fino alla Terra possono subire molte deviazioni.

 

E’ per tale motivo che per questa ricerca gli astronomi di Warwick hanno dovuto sfruttare il potente telescopio a raggi X Chandra puntato sulla nana bianca G29 – 38.

Rappresentazione grafica di detriti planetari in viaggio verso una nana bianca. Credit: University of Warwick/Mark Garlick

Cunningham conclude: «La cosa davvero eccitante di questo nuovo studio è che stiamo lavorando ad una lunghezza d’onda completamente diversa rispetto al passato, che ci consente di accedere a nuove scoperte. Oggi finalmente abbiamo le prove concrete che confermano la teoria sulla fine dei sistemi planetari vicini alle stelle morenti. Una nuova tecnica d’indagine che ci permetterà di intuire il destino di altri migliaia di sistemi planetari conosciuti, incluso quello del nostro Sistema Solare »

Fonti:

Nature (Febraury 2022): “A white drawf accrediting planetary material from X-ray obersavations” DOI: 10.1038/s41586-021-04300.

N.B: La ricerca ha ricevuto finanziamenti dal Levehulme Trust; il Science and Technology Facilities Council (STFC), dal UK Research and Innovation e dal European Research Council.

Vortici e aurore pulsanti su Saturno

A caccia di aurore! … sì, ma su Saturno

Enormi e spettacolari aurore planetarie rilevate sul pianeta Saturno e alimentate da un meccanismo atmosferico sconosciuto.

È quanto rivela uno studio della University of Leicester, pubblicato recentemente sul Geophysical Research Letters.

Generalmente le aurore vengono formate da potenti correnti che fluiscono nella magnetosfera. Queste correnti possono essere supportate dall’interazione con le particelle cariche provenienti dal Sole (come sulla Terra) o da materiale vulcanico eruttato da un satellite in orbita intorno al suo pianeta (come per Giove).

 

Ma questa ultima scoperta potrebbe cambiare quanto già si conosceva sulle aurore planetarie e, allo stesso tempo, rispondere ai misteri sollevati nel 2004 dalla sonda Cassini della NASA: perché non siamo in grado di misurare la durata di un giorno su Saturno?

Leggi anche: L’ultimo saluto a Cassini di Coelum Astronomia

Esempio di vortici all’interno dell’alta atmosfera di Saturno che spingono la ionosfera a muoversi. Questo sistema ruota attorno al polo del pianeta, guidando le correnti, che poi si estendono nella magnetosfera circostante, producendo l’aurora luminosa e i cambiamenti del campo magnetico osservati da Cassini. Credit: This animation generated by James O’Donoghue at JAXA and Tom Stallard at the University of Leicester.

Non perdere l’animazione della NASA dei vortici di Saturno direttamente sul nostro canale YouTube!

(credits: NASA/JPL-Caltech/SSI/Cassini Huygens imagery)

Imprevedibili moti di rotazione

Durante il suo primo viaggio, Cassini tentò di misurare la velocità di rotazione del pianeta tramite gli “impulsi” di emissioni radio emessi dall’atmosfera. Allora si scoprì che la velocità sembrava essere cambiata nel corso di due decenni, ovvero da quando Voyager2 nel lontano 1981 aveva sorvolato il pianeta gassoso.

Nahid Chowdhury, dottorando presso la University of Leicester e membro del Planetary Science Group della School of Physics and Astronomy afferma: «La velocità di rotazione interna di Saturno deve essere costante, ma numerose ricerche portate avanti negli anni hanno rilevato che numerose proprietà periodiche del pianeta tendono a cambiare nel tempo. La nostra comprensione della fisica di questi pianeti ci dice che la vera velocità di rotazione non può cambiare così rapidamente: qualcosa di unico e sconosciuto sta accadendo all’interno di Saturno».

 

La ricerca degli scienziati di Leicester rappresenta la prima ed indiscussa rilevazione del driver alla base del moto di rotazione del pianeta ad anelli, fornendo spiegazioni alle forze che si nascondono dietro alle aurore planetarie.

Sembra che le aurore di Saturno vengano alimentate da dei vortici posti ai poli del pianeta, responsabili anche della velocità di rotazione variabile nel tempo.

I ricercatori ritengono che il sistema sia guidato dall’energia della termosfera, con venti presenti nella ionosfera che si muovono tra 0,3 e 3,0 km/s.

Figura semplificata che mostra la direzione dei venti all’interno degli strati dell’atmosfera di Saturno. Credit: Nahid Chowdhury/University of Leicester

Il dott. Tom Stallard, professore associato di astronomia planetaria presso la University of Leicester, aggiunge: «Abbiamo osservato come le aurore planetarie pulsino e oscillino all’interno del campo magnetico, espandendosi nello spazio ed evidenziando una velocità di rotazione apparentemente mutevole. Per diversi anni si è speculato sul fatto che la luna vulcanica Encelado, o le interazioni con la densa atmosfera della luna Titano, potessero essere la causa scatenante dei vortici; ma ora gli studi si stanno concentrando solo su quante accade nell’atmosfera superiore di Saturno».

Simili scelte d’indagine hanno permesso finalmente di eliminare molta della confusione che si aveva rispetto alle variazioni sul moto di rotazione del pianeta.

 

Gli scienziati hanno misurato le emissioni ad infrarossi d’alta quota utilizzando l’Osservatorio Keck alle Hawaii e hanno incominciato a mappare i flussi variabili della ionosfera dal 2017.

In questo modo l’University of Leicester si è aperta allo studio del Sistema Solare e si prefigge di andare ancora oltre, sperando di svelare i segreti di oggetti celesti ancora più lontani.

Fonti:

Geophysical Research Letters (Dicember 2021): “Saturn’s Weather-Driven Aurorae Modulate Oscillations in the Magnetic Field and Radio Emission” by M. N. Chowdhury, T. S. Stallard, K. H. Baines, G. Provan, H. Melin, G. J. Hunt, L. Moore, J. O’Donoghue, E. M. Thomas, R. Wang, S. Miller, S. V. Badman.

Fuller Moon

Le straordinarie immagini del fotografo Andrew McCarthy offrono uno spettacolo incredibile della superficie lunare, cogliendo dettagli mai osservati fino ad ora. Gli scatti sono stati ottenuti utilizzando un software 3D e 200.000 foto, sovrapposte poi l’una sull’altra per rivelare ogni grotta o montagna del paesaggio lunare.

Le fotografie mostrano ogni montagna e grotta nel paesaggio lunare, rendendo la luna più accessibile all’occhio umano. Credit: Andrew McCarthy

Il fotografo americano ha dichiarato: «Estrapolando ogni imperfezione della superficie della Luna, si può realmente mostrare quanto sia variegato il suolo lunare. Gli altopiani sono completamente craterizzati, mentre i mari si presentano con un basalto liscio ed uniforme. Con questi scatti spero d’interessare il grande pubblico ai futuri viaggi d’esplorazione sul nostro satellite».

Il fotografo americano Andrew McCarthy

Per realizzare le immagini finite, McCarthy ha sovrapposto le foto nel suo software tridimensionale tramite dei dati raccolti direttamente dalla NASA.

 

«Ho effettuato gli scatti durante le due settimane di luna crescente del mese di gennaio», conclude McCarthy, «Scegliendo le immagini con il maggior contrasto, ho allineato i diversi frame per evidenziare la ricca varietà della superficie. Non è stata una impresa facile! Giorno dopo giorno la Luna cambiava posizione, e ho dovuto quindi mappare le immagini su una sfera 3D per assicurare che tutti gli scatti fossero allineati correttamente».

L’astrofotografo McCarthy ha allineato migliaia di immagini delle fasi lunari per ottenere una risoluzione mai vista prima. Credit: Andrew McCarthy

Il suo lavoro sta affascinando un vastissimo pubblico di appassionati.

 

Potete trovare le foto della FULLER Moon sul profilo Instagram @cosmic_background, oppure sul sito di Andrew McCarthy: https://cosmicbackground.io/search?q=fuller+moon&options%5Bprefix%5D=last

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En route to the Moon again. This time to stay there! Pt. 2

The Transfer Lunar Injection is one of the most critical phases of the Artemis Mission.

The timing in the ignition of the engines is in fact essential to intercept the Moon along its orbit around the Earth. In this way, the spacecraft can enter the lunar gravitational sphere of influence, a region of space in which the attraction of our satellite is dominant compared to that of the Earth. A delay (or an advance) of a few minutes in the Transfer Lunar Injection maneuver can lead to a trajectory error such that the spacecraft will not enter the lunar gravitational sphere but will be lost drifting beyond the orbit of our satellite. The exact moment in which to start the engines to perform the Transfer Lunar Injection is for this reason calculated with great care by the engineers in the years before the mission, taking into account the lunar motions.

After this real topical moment, the third stage will be abandoned and the phase of the trip, called Transfer Lunar Orbit, will start, which within three days will bring the capsule insight of our satellite. At that point, the engines will be turned on again to slow down the spacecraft and to put it into circumlunar orbit. This maneuver is called Lunar Orbit Insertion.

There may be slightly different trajectories depending on the mission but in any case, the approach used is the one just described for a simple reason: the safety of the crew. In case a malfunction of the propulsion system prevents the spacecraft to enter into lunar orbit, with this type of trajectory the spacecraft will be able to return to earth spontaneously, without the need of any propulsive action but simply using the lunar gravity with a Gravity Assist maneuver. In this case, we speak of the free-return trajectory.

Immagine dell’allunaggio della missione Apollo. Credit: NASA

The Apollo missions from 8 to 11 all flew on this type of trajectory, while the subsequent ones used hybrid trajectories. The reason for this change was that the free-return trajectories, while safer, only allowed descent to the Moon at the equatorial region. Since the landing sites of the missions following 11 were located at higher latitudes, it was necessary to adopt this type of solution. In a hybrid trajectory, the spacecraft initially flies a common free-return, but during the crossing it is abandoned to enter an optimal trajectory depending on the desired landing site. As soon as the free-return is abandoned, the spacecraft loses the great advantage of being able to count on a spontaneous return to earth.

The idea behind this strategy, which was used in the Apollo program, was to remain on a free-return orbit until all systems were verified and it was ensured that there was no malfunction. If any anomaly had occurred during these checks, the spacecraft would still have been able to return spontaneously by performing a fly-by with the Moon.

After checking the status of all systems, the free-return was abandoned and the spacecraft would enter on a different trajectory that would allow it to reach the predetermined landing sites. In case some problem occurred in this second phase, it would still be possible to put the spacecraft back on a free-return using the propulsion system of the Lunar Module (LEM), as a backup to the propulsion system of the service module.

Immagine del Lunar Module (LEM) che sorvola la superficie lunare. Credit: NASA

An example of the effectiveness of this strategy is the Apollo 13 accident. In that case, the loss of the command module occurred when the spacecraft had already left the free-return trajectory, so the crew used the Lunar Module to return to it. Actually, on that occasion the LEM engines were turned on also during the spontaneous return, to shorten the return of 10 hours and to move the landing point from the Indian Ocean to the Pacific, where most of the American help was concentrated.

In short, after more than fifty years things have not changed at all; the first Artemis mission will see the Orion capsule reach the Moon using the same trajectories of that time.

With one difference …

after having circumnavigated our satellite, releasing at the same time the 13 Cubesat satellites, which represent the secondary scientific payload, Orion will enter on a particular orbit, called Distant Retrograde Orbit.

This orbit, never used before, is extremely stable with respect to orbital perturbations because it interacts with the Lagrangian points L1 and L2 of the Earth-Moon system, and it will be the orbit that in the next missions will follow the Lunar Gateway, the Lunar Space Station, which will be built starting from 2023. This station will support all Artemis missions starting from Artemis 4 and will provide support for all future missions to the Moon and then to Mars.

The presence of the lunar station will allow to completely change the approach to landings compared to the Apollo era. In the past, in fact, the spacecraft used by the Apollo astronauts were able to carry a much greater amount of propellant than the Orion. This resulted in a greater thrust provided by the engines that allowed, with the Lunar Orbit Insertion maneuver, to reach a very low lunar orbit, from which to start directly the descent maneuvers. The philosophy of the Artemis program will be instead to dock the Orion with the Gateway on a much higher orbit and from there descend to the surface with a dedicated vehicle (provided by SpaceX).

The orbital variant will take Orion 60,000 km away from the Moon. Thus beating the distance record achieved by Apollo 13 in 1970.

Immagine di un ritratto da astronauta. Credit: NASA

After six days, the Orion capsule will exit the Distant Retrograde Orbit with another lunar flyby, finally pushing it back on course for home.

After the usual three-day journey, near the Earth, the spacecraft will shed its Service Module and dive into our planet’s atmosphere travelling at 11 km per second. The heat shield of the capsule, so far never tested, will have to withstand temperatures of about 2,700 degrees Celsius.

After more than three weeks and a total distance covered over two million kilometers, the mission will end with a landing off the coast of Baja, California.

Will everything go well?

Of course, it will, and from the moment Commander Moonikin Campos emerges safely from the capsule we will begin to count the months until the launch of Artemis II, the mission that will take men to circumnavigate the Moon for the first time since 1972.

A mission that reminds us very closely of the fantastic feat of Apollo 8 at Christmas 1968.

So yes, we are convinced… Everything will be fine.

Pietro di Tillio, un italiano “su Marte”

Prove generali per la missione umana su Marte

«Un pezzo di sogno che si concretizza».

Ad affermarlo è Pietro di Tillio, geologo, pescarese alla nascita e dal 2012 residente in America, selezionato dalla NASA con altri 3 volontari per partecipare al programma HERA: simulerà un viaggio verso Marte.

«Mi rende orgoglioso il fatto che tra dieci anni, quando la NASA inizierà a lanciare le missioni ufficiali verso Marte, avrò contribuito nel mio piccolo alla realizzazione di questo evento. Per quanto riguarda un futuro volo spaziale, è ciò che davvero vorrei realizzare. Ho fatto anche domanda come astronauta, alle proprie aspirazioni non bisogna mai porre limiti».

HERA ha avuto inizio il 28 gennaio e i volontari non avranno contatto con il mondo esterno (salvo rare eccezioni e comunicazioni con il centro di comando) fino al 16 marzo.

In cosa consiste il programma HERA?

HERA, acronimo di Human Exploration Research Analog: una simulazione, il più realistica possibile, dell’habitat dove gli astronauti vivranno nel lungo viaggio verso Marte. Si svolge al Johnson Space Center (JPL) della NASA a Houston, in Texas.

«Nonostante si tratti di una simulazione, l’obiettivo è quello di essere estremamente realistici, così da non avere sorprese nella vera missione», racconta Pietro di Tillio «HERA durerà 45 giorni, durante i quali i quattro membri dell’equipaggio, me compreso, saranno rinchiusi all’interno del modulo dove replicheranno la routine di lavoro e di vita degli astronauti diretti su Marte».

AD MAIORA SEMPER! – Pietro di Tillio, immagine da lui pubblicata e che lo ritrae accanto il modulo della missione HERA

In realtà il viaggio verso il pianeta rosso durerà ben oltre 45 giorni (dai 6 ai 9 mesi, ndr), ma ai fini della ricerca questo è stato giudicato un tempo ragionevole per valutare scenari specifici dell’impresa.

I ricercatori della NASA si concentreranno su quattro fattori principali: stress psicologico, lavoro di squadra, difficoltà di comunicazione con la Terra e, naturalmente, parametri medici. I test includono anche: l’utilizzo di nuove tecnologie, apparecchiature robotiche, veicoli, habitat, comunicazioni, produzione di energia, mobilità, infrastrutture e stoccaggio. Si osserveranno anche effetti comportamentali, come isolamento e confinamento, dinamiche di squadra, affaticamento nella dieta.

Comunicazioni “con la Terra” in ritardo anche di 5 minuti

«Il livello di resilienza psicologica richiesta da missioni di lunga durata come quelle dirette su Marte è piuttosto alto» specifica di Tillio «Lo spazio in cui l’equipaggio dovrà vivere e lavorare è molto limitato, e quindi sarà necessario capire come quattro persone, per quanto preparate, reagiranno alla reclusione prolungata. Un secondo fattore di complessità è la distanza dalla famiglia, con collegamenti estremamente ridotti e ritardati».

In una recente intervista, spiega che le comunicazioni con la sua famiglia (moglie e due figli) siano limitate a una volta a settimana e per soli 10 minuti. Inoltre verranno aggiunti graduali ritardi nella comunicazione, volti a simulare l’allontanamento progressivo dalla Terra. Si arriverà a un massimo di 5 minuti di ritardo.

«Cruciale, quindi, sarà l’interazione tra i membri del team. Il lavoro di squadra è fondamentale poiché l’equipaggio non dovrà solo condividere gli spazi della propria vita quotidiana, ma soprattutto collaborare per il successo della missione e per lo svolgimento dei vari esperimenti scientifici associati».

Banco di prova per missioni future

Il programma HERA è volto a simulare future missioni umane su Marte o sulla sua luna Phobos. Queste simulazioni realistiche implementano anche l’utilizzo della realtà virtuale, grazie ad appositi visori, e analizzano un ampio spettro di fattori influenti in questa tipologia di viaggio, tra cui la privazione della luce solare per tutto il tempo della missione. I volontari di Hera saranno monitorati 24 ore su 24, registrando l’evoluzione dei parametri biologici man mano che la missione procede.

La selezione dei membri della missione è stata durissima e, secondo di Tillio, un elemento che ha giocato molto è suo favore è stata la sua formazione da geologo.

«Le attuali missioni su Marte, infatti, studiano campioni della superficie marziana alla ricerca di tracce di acqua e vita (passata o presente) utilizzando i metodi della geologia. Ma poi di nuovo, tutte le scienze sono coinvolte in questo sforzo perché, alla fine, c’è un intero pianeta da scoprire

L’articolo di approfondimento sull’esperienza di Pietro di Tillio in arrivo sul Coelum, con un’intervista al termine della sua missione!

ISS dismessa per il 2031

Dopo numerosi annunci e consecutivi rimandi, è stata finalmente decisa la conclusione della Stazione Spaziale Internazionale, definendo precise coordinate spazio-temporali. Lo scorso 31 gennaio, la NASA ha rilasciato un documento in cui spiega le modalità con cui l’ISS rimarrà attiva fino al 2031.

Sembra che diremmo addio alla stazione tramite un vero e proprio spettacolo: dal report si evince che la ISS precipiterà nell’Oceano Pacifico meridionale, in particolare presso il “Point nemo”, un’area marina ad est della Nuova Zelanda, dove già sono stati abbandonati altri veicoli spaziali “in pensione”.

Scatto della Terra compiuto dalla Stazione Spaziale in orbita: Credit: NASA

Storia dell’ISS

La Stazione Spaziale Internazionale è stata iniziata nel 1998 da una collaborazione tra la NASA, l’ESA, il programma spaziale russo Roscomos, l’Agenzia spaziale canadese e l’Agenzia di esplorazione aerospaziale giapponese. Fino ad oggi è stata la sede di un vero e proprio laboratorio in orbita, che fornisce molti sviluppi scientifici e tecnologici.

 

La sua permanenza nell’orbita terrestre dura da più di due decadi, e fino ad ora ha raccolto più di 3.000 attività scientifiche, a cui hanno collaborato ben oltre 4.200 ricercatori da 110 paesi di tutto il mondo.

Immagine della ISS dallo spazio. Credit: NASA

In un primo momento, l’avventura della stazione doveva concludersi nel 2024, ma a causa delle buone condizioni della struttura, l’amministrazione Biden ha deciso di prolungare la sua vita fino al 2030. In questo modo, la ISS è entrate nella sua terza decade, che la NASA annuncia essere il decennio dedicato all’avanzamento della ricerca scientifica, alla transizione commerciale e alla partnership internazionale, coinvolgendo ormai tutti i paesi che hanno preso parte al progetto.

POINT NEMO: il cimitero delle navicelle spaziali

Ma nel 2031 quale sarà la sorte dell’ISS dopo più di trent’anni di onorato servizio? Come qualsiasi altro satellite la stazione verrà rallentata, in modo tale da uscire dall’orbita terrestre, per poi precipitare attraverso l’atmosfera.

Illustrazione grafica di “Point Nemo”, cimitero marino per serbatoi di carburante in titanio e altri detriti spaziali ad alta tecnologia. Credit: NOAA

A questo punto l’ISS si inabisserà in un’area remota dell’Oceano Pacifico, ad est della Nuova Zelanda, chiamata “Point nemo”. Questo è il luogo ideale per far collassare simili strutture. Infatti, la zona marina d’interesse, essendo lontana da qualsiasi civiltà umana, è già luogo di deposito di diversi rottami spaziali: un vero e proprio “cimitero”.

 

Se mai vorremmo ancora ammirare quello che resta della Stazione Spaziale, nel 2031 non resterà altro che improvvisarsi subacquei e nuotare tra i detriti dell’ex-avamposto.

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Il cielo del 1985

Preparate le Reebok pump che oggi si vola nel 1985, quando tutto era possibile e i film erano fighissimi. In questo anno, mentre Etienne Navarre rincorreva in una struggente storia d’amore Isabeau in Ladyhawke, tre ragazzini, gli explorers, inventavano una formula per il computer, e costruirono artigianalmente un veicolo spaziale.

Altri ragazzini invece erano intenti a cercare il tesoro di Willy l’Orbo, ma non vi dico il nome del film perché sarebbe come chiedere quanto fa 1+1. Ora, sulla scia di Marty McFly, che tornava indietro nel tempo per la prima volta sul grande schermo, anche noi oggi ci spariamo uno degli anni più belli del decennio più incredibile del secolo scorso. Vediamo cosa succedeva nello spazio.

Scienziati veri, non quelli della NASA con i RayBan e la camicia bianca con le maniche arrotolate, misuravano per la prima volta il diametro di Plutone. L’astronomo Edward E. Tedesco di Terrasystems Inc. in quegli anni ebbe l’intuizione di approfittare di un’eclisse del pianeta da parte del suo satellite Caronte per ricavare il valore dell’estensione del suo disco: poco più di 3000 km, contro il valore vero di circa 2360 km. Il 2 luglio dello stesso anno venne lasciata la sonda interplanetaria Giotto, sparata nell’universo per osservare la cometa di Halley. Sempre nel 1985, gli studi di Raymond Davis Jr e Masatoshi Koshiba dimostrarono che il flusso dei neutrini emessi dal Sole era nettamente minore di quello che ci si sarebbe aspettato dalle leggi della fisica nucleare.

 

Questo scosse la cosmologia dell’epoca, facendo guadagnare ai due scienziati, nel 2002, il Nobel per la fisica. Grazie ai progressi della tecnologia, venne inoltre sviluppato il supercalcolatore CRAY-2, progettato da Seymour Cray ed in grado di eseguire un miliardo di operazioni matematiche al secondo. Mediamente oggi, un processore da 3.2 GHz può elaborare 3.2 miliardi di operazioni (o cicli) al secondo. Negli anni Novanta tale supercalcolatore venne utilizzato per simulare fenomeni fisici molto complessi, come la distribuzione delle galassie nell’Universo.

Il puzzle dell’astronomia acquisiva tasselli importanti in quegli anni. Nel 1985 fu persino scoperto il primo fullerene C60! Sì, esatto, quello a forma di pallone da calcio, una struttura a icosaedro tronco, composta da 12 anelli pentagonali e 20 anelli esagonali, che fu individuata nel vapore prodotto per irradiazione mediante laser della grafite. E mentre il buco nell’ozono continuava ad aumentare, e negli abissi del mare veniva individuato il relitto del Titanic, lo Shuttle Atlantis, il quarto orbiter della flotta americana dello Space Shuttle, iniziava la sua prima missione nello spazio. Durante la sua vita operativa, Atlantis orbiterà intorno alla Terra per un totale di 4848 volte, viaggiando per quasi 203 milioni di chilometri, più di 525 volte la distanza dalla Terra alla Luna. Ed ora che è quasi finito il 1985 uscite a giocare a palle di neve che, fidatevi, una nevicata così non la vedrete più per molti anni, quindi godetevela, inzuppatevi fino alle mutande, ridete e divertitevi, che gli anni ’80 sono già a metà.  Ora vado che devo finire una partita di Space Harrier sul SEGA. Ciao belli!

LUNA: la palestra ad hoc per gli astronauti

La collaborazione tra l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e il Centro aerospaziale tedesco (DLR) ha dato vita al progetto ESA-DLR LUNA, che fornirà uno spazio di addestramento per gli astronauti che si accingeranno ai futuri viaggi sulla Luna del programma Artemis.

Modello VR dell’esterno dell’edificio LUNA: l’ingresso principale della struttura e il modulo abitativo adiacente, chiamato Future Lunar Exploration Habitat (FLEXHab). Credit: ESA/DRL

Juergen Schultz, responsabile del progetto, afferma: «La prima idea per la struttura risale al 2015, ma a causa di alcuni incidenti di percorso (iterazioni della progettazione e specie infestanti in prossimità dell’area in costruzione dell’edificio) puntiamo ad avere l’edificio completo per la fine dell’estate 2022».

Un simulatore di regolite

LUNA avrà una sala principale che conterrà un’area di 700 m², ricoperta di regolite, ottenuta con un simulatore di polvere lunare chiamato EAC-1. Questa sala sarà dotata di un’illuminazione controllabile per replicare il più fedelmente possibile le condizioni del nostro satellite. A questa bisognerà aggiungere ulteriori stanze di simulazione, infrastrutture di supporto e un laboratorio, che faranno estendere l’edificio fino a circa 1000 m².

Modello VR della sala principale di LUNA contenente l’area del banco di prova della regolite. Credit: ESA/DRL

Al fianco di LUNA, verrà adibito un modulo abitativo, noto come Future Lunar Exploration Habitat (FLEXHab). Questo rappresenterà la base dove potrebbero vivere e lavorare gli astronauti. Sia FLEXHab che LUNA saranno alimentati da sistemi ad energia solare.

Rappresentazione del Future Lunar Exploration Habitat (FLEXHab) che ospiterà attività ed esperimenti scientifici. Situato al di fuori della struttura analogica ESA-DLR LUNA, fornirà un collegamento diretto alla superficie di regolite riprodotta. Credit: ESA/DRL

Una vera e propria palestra!

Il contesto abitativo fornirà una serie di attività, ideate per allenare i futuri esploratori della Luna. Si spazierà dall’esplorazione della superficie del nostro satellite alla verifica dei sistemi robotici, dall’applicazione di esperienze in realtà aumentata (AR) allo sviluppo e ricerca di nuovi materiali.
Infatti, lo scopo del progetto è quello preparare i futuri astronauti, fornendo un ambiente che simuli al meglio le condizioni della superficie lunare. Per raggiungere questo obiettivo, LUNA beneficerà della presenza dell’Istituto di Operazioni Spaziali e dell’Istituto di Medicina Aerospaziale, in aggiunta all’ESA e al DLR tedesco.

 

Juergen aggiunge: «LUNA andrà a colmare le lacune di un addestramento già preesistente per gli astronauti, così che possono essere pronti per sfide lunari eccezionali come le capacità di trasporto, la mobilità sulla superficie, le configurazioni per le comunicazioni, e prove per l’ambiente ostile del nostro satellite».

Immagine del modello VR dell’atrio principale di LUNA, con l’EAC visibile sul lato opposto. Credit: ESA/DRL

LUNA, rientrando nel programma Artemis, vuole suscitare l’interesse di altre agenzie internazionali che già si preparano a viaggi al di fuori dell’orbita terrestre.

«Con LUNA, l’ESA e DLR mirano a mettere l’Europa non solo in lista per i preparativi per la Luna, ma che per i prossimi viaggi su Marte», conclude Juergen.

 

Fonti: 

Release: https://www.esa.int/Space_in_Member_States/Italy/LUNA_sta_prendendo_forma

Tempeste solari nel ghiaccio

Impresso nel ghiaccio.

È possibile trovare le prove di un’enorme e antica tempesta solare nel ghiaccio?

È proprio quello che hanno scoperto i ricercatori della Lund University in Svezia grazie ai campioni di alcuni carotaggi provenienti dalla Groenlandia e dall’Antartide. E ciò che ha sorpreso ancor di più gli scienziati è il fatto che la tempesta si sia verificata in una fase relativamente tranquilla del Sole, durante la quale si ritiene che la Terra sia stata meno esposta a tali eventi.

Immagine da satellite della costa ghiacciata della Groelandia. Credit: NASA

L’attività del Sole è un prerequisito fondamentale per la vita del nostro pianeta, ma intense esplosioni possono generare un’energia tale da generare delle tempeste geomagnetiche che possono causare interruzioni di corrente e disturbi ai mezzi di comunicazione.

 

Tempeste cicliche

Prevedere simili tempeste è piuttosto difficile. In ogni caso, le ricerche indicano che questi eventi siano più probabili durante una forte attività solare, che spesso corrisponde al ciclo delle macchie solari. Tuttavia, il nuovo studio (pubblicato su Nature Communications lo scorso 26 gennaio) dimostra che l’eventualità che si manifesti una tempesta anche durante una fase di attività relativamente debole non è poi così remota.

Scatto di un esplosione sulla superficie del Sole. Credit: NASA

«Per arrivare a queste conclusioni, abbiamo compiuto delle trivellazioni nel ghiaccio della Groelandia e dell’Antartide», afferma Raimund Muscheler, geologo presso la Lund University, «Abbiamo scoperto tracce di una massiccia tempesta, che deve aver colpito la Terra circa 9.200 anni fa, durante una delle fasi passive della nostra stella».

I ricercatori hanno analizzato le carote di ghiaccio alla ricerca dei picchi di alcuni isotopi radioattivi (berillio-10 e cloro-36). Tali picchi sono prodotti da particelle cosmiche ad alta energia, che possono essere conservate nel ghiaccio e nei sedimenti.

Immagine in laboratorio durante le analisi delle carote di ghiaccio. Foto: Raimund Muscheler

«Una simile ricerca richiede molto tempo e denaro. Pertanto, siamo rimasti piacevolmente sorpresi quando abbiamo riconosciuto che il picco indicava una gigantesca tempesta solare finora sconosciuta in relazione a una bassa attività solare», dice Raimun Muscheler.

 

E se qualcosa di simile si verificasse oggi?

Le conseguenze potrebbero essere severe.

Oltre alle interruzioni di corrente e al danneggiamento dei satelliti, potrebbe esserci un serio pericolo per il traffico aereo e gli astronauti, nonché il collasso di vari sistemi di comunicazione.

Non perderti il nostro articolo: Il Sole si è svegliato. Brillamenti e tempeste geomagnetiche

«Questi giganteschi eventi sono inclusi in relative categorie di rischio», conclude Muscheler, «È della massima importanza studiare in maniera approfondita il tema per comprendere sempre di più a quali rischi vanno incontro le nostre apparecchiature tecnologiche, e quindi proteggerci nel dovuto modo».

Ora, gli autori dello studio, sono concordi sul fatto che è essenziale compiere ulteriori analisi sulle carote di ghiaccio, per spiegare perché una simile tempesta si sia verificata quando il Sole era poco attivo. Forse esiste un diverso scherma rispetto all’ormai conosciuto ciclo di 11 anni della nostra stella, probabilità ora piuttosto concreta.

Fonti:

Release: https://www.lunduniversity.lu.se/article/ancient-ice-reveals-mysterious-solar-storm

Nature Communications (January 2022):Cosmogenic radionuclides reveal an extreme solar particle storm near a solar minimum 9125 years BP” by Chiara I. Paleari, Florian Mekhaldi, Florian Adolphi, Marcus Christl, Christof Vockenhuber, Philip Gautschi, Jürg Beer, Nicolas Brehm, Tobias Erhardt, Hans-Arno Synal, Lukas Wacker, Frank Wilhelms, Raimund Muscheler.

Il saluto a Tito Stagno, la voce che ci accompagnò sulla Luna

«Ha toccato! Ha toccato in questo momento il suolo lunare»

Questa frase risuona ancora per molti italiani che hanno assistito in diretta allo sbarco sulla Luna del 20 luglio 1969.

Ad accompagnarci fu lui, Tito Stagno, storico giornalista del servizio pubblico. Si è spento ieri, il 1 Febbraio, all’età di 92 anni.

credit foto: ansa

Tito Stagno fu volto e voce tra i più noti di Rai1. Nel 1957 si era appassionato alla vicenda dello Sputnik, lanciato in quell’anno: «Me ne occupai io e da allora quel settore in ascesa divenne un po’ il mio» così raccontava.

Passò alla storia per la diretta di oltre 25 ore dallo studio 3 di via Teulada, in collegamento con Houston dove c’era Ruggero Orlando, per seguire lo sbarco sul nostro satellite. È diventata “leggenda” la storia del “battibecco” avuto proprio con Orlando durante la telecronaca dell’allunaggio. «Eravamo molto molto amici: comunque, anche per motivi tecnici, io diedi la notizia 20 secondi prima di lui» ricordava Stagno con un sorriso.

Di quella storica diretta il giornalista ricordava spesso con nostalgia il sentore di «una stagione di entusiasmi, di coraggio, di desiderio di conoscenza che si rivelò poi troppo breve».

 

«Ho un ricordo fortissimo di Tito Stagno, la notte dell’allunaggio nel luglio 1969, avevo 6 anni ed ero già innamorato dello spazio» racconta presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, Giorgio Saccoccia «Ho un solo rammarico: non essere riuscito a farmi una chiacchierata con lui. Più volte ho sfiorato l’opportunità di incontrarlo ma non sono riuscito».

«Ho conosciuto Tito Stagno ed è stato un incontro simpatico, abbiamo partecipato ad una iniziativa insieme: era entusiasta dello spazio come fosse un giovanotto nonostante l’età, abbiamo chiacchierato per un bel po’» ricorda l’ex astronauta italiano Umberto Guidoni.

«Sono dispiaciutissimo per la scomparsa di Tito Stagno che è stato testimone di un’epoca» le parole di Franco Malerba, primo astronauta italiano.

Coelum Astronomia si unisce all’ultimo saluto di questa iconica voce del giornalismo italiano.

 

Fonti

https://www.rainews.it/
https://www.lastampa.it/

Misterioso segnale radio nella Via Lattea

Puntuale come un orologio svizzero

18 minuti.
Anzi, a voler essere precisi: 18 minuti e 18 secondi.

È questa la cadenza di un insolito segnale captato dal radiotelescopio australiano Murchison Widefield Array, che sembra derivi da una sorgente misteriosa.

Il primo a individuarlo è stato uno studente universitario australiano, Tyrone O’Doherty, durante il lavoro per la tesi di laurea, analizzando dati raccolti dal 3 gennaio al 28 marzo 2018.

«L’impulso arriva ogni 18 minuti e 18 secondi, puntuale come un orologio svizzero», afferma l’astrofisica Natasha Hurley-Walker, che ha condotto l’indagine dopo la scoperta dello studente «Di solito oggetti nell’universo, come le pulsar, si accendono e si spengono con regolarità, ma questa è una frequenza con una precisione tale che non mai stata osservata prima».

Telescopio Murchison Widefield Array nel deserto dell’Australia occidentale. Credit: MWA

Gli astronomi che hanno osservato il fenomeno lo hanno definito come “qualcosa di un po’ inquietante”. Ora il team sta cercando scoprire la natura dell’oggetto.

Ordinando i dati raccolti, gli scienziati sono riusciti a stabilire che l’oggetto si trova a circa 4.000 anni luce dalla Terra. Sembra essere incredibilmente luminoso e ha un campo magnetico estremamente forte, ma ci sono ancora molti misteri di risolvere.

«Considerando le regole della matematica fino ad ora conosciute, tale oggetto non dovrebbe avere tutta questa potenza per poter emettere onde radio ogni 20 minuti circa», prosegue Hurley-Walker, «La sua esistenza sarebbe quasi impossibile».

I ricercatori sostengono che l’oggetto potrebbe essere qualcosa di già teorizzato, ma non ancora osservato: una “magnetar di periodo ultra lungo” (ultra-long period magnetar). Ovvero una tipologia di stella di neutroni che ruota lentamente e la cui esistenza è prevista dalla teoria, ma che nessuno si aspettava di rilevare direttamente. In particolare, i ricercatori non si aspettavano fosse così brillante.

Questa immagine mostra la Via Lattea vista dalla Terra. L’icona a forma di stella mostra la posizione del misterioso segnale ripetuto. Credits: Dott.ssa Natasha Hurley-Walker (ICRAR/Curtin).

Oppure un’altra ipotesi è che si tratti di una nana bianca (residuo di una stella collassata).

«Ma anche questa ipotesi è piuttosto insolita. Conosciamo solo una pulsar nana bianca, che comunque non è in grado di rilasciare un simile energia», spiega la Hurley-Walker, «Potrebbe essere infatti qualcosa di completamente nuovo. Ulteriori rilevamenti saranno utili per comprendere se questo sia stato un caso isolato, o se ci troviamo di fronte ad una nuova classe di oggetti celesti».

La scoperta è stata recentemente pubblicata su Nature.

Fonti:

Nature (January 2022): “A radio transient with unusually slow periodic emission” by N. Hurley-Walker, X. Zhang, A. Bahramian, S. J. McSweeney, T. N. O’Doherty, P.J. Hancock, J. S. Morgan, G. E. Anderson, G. H. Heald & T. J. Galvin.

SUPERNOVAE: aggiornamenti di Febbraio 2022

La stavamo aspettando da molti mesi e finalmente la tanto sospirata scoperta amatoriale italiana è arrivata. Mancava dal 23 novembre 2020 con la SN2020aavb scoperta da Paolo Campaner e Fabio Briganti. A mettere a segno il “colpaccio” ed ormai ad oggi, solo così possiamo definire un successo che permette di battere sul tempo gli infallibili o quasi programmi professionali di ricerca supernoave, sono stati Franco Cappiello, astrofilo lombardo di Noviglio (MI) e Salvo Massaro, astrofilo siciliano abitante a Palermo.

I due scopritori della SN2022abq in NGC5117, Franco Cappiello a sinistra e Salvo Massaro a destra.

I due amici hanno realizzato l’osservatorio Stazione Astronomica G. Bruno, situata al Passo del Brallo in provincia di Pavia, al confine fra la Lombardia e la Liguria. L’osservatorio ospita un telescopio Ritchey-Chretien da 50cm F.7,4 che viene utilizzato in remoto con il programma Ricerca 7 realizzato dallo stesso Massaro. Nella notte del 21 gennaio hanno individuato una nuova stella di mag.+16,2 nella galassia a spirale barrata NGC5117 posta nella costellazione dei Cani da Caccia al confine con quella della Chioma di Berenica e distante circa 110 milione di anni luce. Nella notte seguente la scoperta gli astronomi dell’Osservatorio di Asiago, guidati da Lina Tomasella e Paolo Ochner e coadiuvati dal nostro Claudio Balcon (ISSP), con il telescopio Galileo di 1,22 metri, hanno ottenuto lo spettro di conferma evidenziando che eravamo di fronte ad una supernovae di tipo II molto giovane, cioè scoperta pochi giorni dopo l’esplosione. Alla supernovae è stata perciò assegnata la sigla definitiva SN2022abq.

Immagine della SN2022abq in NGC5117 realizzata da Franco Cappiello e Salvo Massaro con un telescopio Ritchey-Chretien da 50cm F.7,4 ed esposizione di 260 secondi.

Nei giorni seguenti la scoperta la luminosità del transiente è aumentata, raggiungendo una luminosità vicino alla mag.+15. Per i due astrofili si tratta della prima scoperta ed immaginiamo quanto grande sia stata la loro gioia e soddisfazione. A loro vanno i nostri più sinceri complimenti per un successo così importante e veramente difficile da ottenere.

Sul versante italiano abbiamo il piacere di evidenziare anche un’altra importante scoperta. A metterla a segno, nella notte del 21 gennaio, è stato ancora una volta il veterano astrofilo romagnolo Mirco Villi, che continua la sua proficua collaborazione con i professionisti americani del CRTS Catalina. Come già detto in passato, questa scoperta possiamo definirla ibrida poiché è stata ottenuta da un astrofilo, ma utilizzando una strumentazione professionale.

Il successo infatti è stato ottenuto analizzando un’immagine realizzata con il telescopio Cassegrain di 1,5 metri di diametro dell’osservatorio americano sul Mount Lemmon in Arizona. Il debole oggetto, che al momento della scoperta mostrava una mag.+19,9 è stato individuato nella galassia a spirale barrata UGC9476 posta nella costellazione del Bootes a circa 160 milioni di anni luce di distanza. Al momento in cui scriviamo nessun osservatorio professionale ha ottenuto uno spettro di conferma e pertanto a questa possibile supernova è stata assegnata la sigla provvisoria AT2022aeg.

Immagine di scoperta della AT2022aeg in UGC9476 ottenuta dal Catalina con il telescopio Cassegrain da 1,5 metri.

Non contento di questo successo, Mirco Villi si è concesso il lusso di un fantastico bis a distanza soli sei giorni dalla prima scoperta. Nella notte del 27 gennaio ha infatti individuato un debole oggetto di mag.+20,3 sempre analizzando un’immagine realizzata con il telescopio Cassegrain di 1,5 metri, nella piccola galassia PGC31434 posta nella costellazione del Leone a circa 360 milioni di anni luce distanza. Anche per questo secondo transiente, al momento in cui scriviamo, nessun osservatorio professionale ha ottenuto uno spettro di conferma e pertanto a questa possibile supernova è stata assegnata la sigla provvisoria AT2022amg.

Immagine di scoperta della AT2022amg in PGC31434 ottenuta dal Catalina con il telescopio Cassegrain da 1,5 metri.

Nel mese di gennaio dobbiamo segnalare altre due nuove scoperte amatoriali. Sono state realizzate entrambe dai cinesi del programma XOSS Xingming Observatory Sky Survey, capitanati da Xing Gao, che con queste due nuove scoperte raggiunge quota 57, occupando la decima posizione della Top Ten mondiale amatoriale. Il primo transiente è stato individuato nella notte del 6 gennaio nella piccola galassia denominata LEDA2547211, posta nella costellazione dell’Orsa Maggiore e distante circa 450 milioni di anni luce. Al momento della scoperta, il nuovo oggetto brillava di mag.+17,6 ed i primi ad ottenere lo spettro di conferma sono stati gli astronomi italiani dell’Osservatorio di Asiago. Nella notte dell’8 gennaio, utilizzando il telescopio Copernico da 1,82 metri hanno classificato la SN2022eb, questa la sigla definitiva assegnata, come una supernova di tipo Ib scoperta intorno al massimo di luminosità.

Immagine di scoperta della SN2022eb realizzata dal team di Xing Gao con un riflettore da 30cm F.3,6

Ed infatti il 9 gennaio la luminosità era già calata alla mag.+18,3 come evidenziato da osservazioni di follow-up realizzate dal programma professionale americano denominato ATLAS. Sempre il 9 gennaio, anche gli astronomi cinesi dello Yunnan Observatory con il telescopio Lijiang da 2,4 metri hanno ottenuto lo spettro di questa supernova, confermando la classificazione di Asiago come tipo Ib. Questo tipo di supernovae viene originato dal collasso del nucleo di stelle massicce, che hanno perduto gli strati esterni di idrogeno. Le supernovae di tipo Ib sono meno luminose delle Ia ed anche molto più rare. Basti pensare che nel 2021 sono state classificate 1550 supernove di tipo Ia e solo 40 di tipo Ib.

Immagine di follow-up della SN2022eb realizzata dal team di Xing Gao con un telescopio Ritchey-Chretien da 60cm F.8

La seconda supernova scoperta dei cinesi del team di Xing Gao è stata individuata la notte del 9 gennaio nella galassia a spirale IC4040 situata nella costellazione della Chioma di Berenice, distante circa 340 milioni di anni luce. IC4040 fa parte dell’ammasso di galassie della Chioma di Berenice, dove spiccano galassie più appariscenti come NGC4489, NGC4874 e NGC4921. Questa è una zona del cielo dove, con una ripresa a largo campo, si possono inquadrare e quindi monitorare numerose galassie con una singola immagine. Anche questo secondo transiente, al momento della scoperta, era molto debole a mag.+18,1.

Immagine di scoperta della SN2022jo realizzata dal team di Xing Gao con un Celestron C14 da 35cm

Se nella precedente supernova gli astronomi cinesi dello Yunnan Observatory erano stati battuti sul tempo dagli astronomi di Asiago, per questa supernova sono stati più rapidi, ottenendo per primi lo spettro di conferma nella notte dell’11 gennaio. La SN2022jo, questa la sigla definitiva assegnata, è una supernova di tipo II molto giovane, cioè scoperta pochi giorni dopo l’esplosione.

Immagine di follow-up della SN2022eb realizzata dal team di Xing Gao con un telescopio Ritchey-Chretien da 60cm F.8

Il nostro ISSP Italian Supernovae Search Project collabora con i cinesi del programma XOSS e perciò abbiamo contattato l’astrofilo Mi Zhang, che è uno dei membri più attivi del team di Xing Gao, il quale ci ha fornito le immagini di scoperta delle due supernovae realizzate rispettivamente con riflettore da 30cm F.3,6 e con un Celestron C14 da 35cm e le due immagini di follow-up realizzate con il telescopio Ritchey-Chretien da 60cm F.8 che rappresenta lo strumento principale dei tre osservatori di Xing Gao.

Il mitico ricercatore del Sol Levante Koichi Itagaki poteva restare a guardare? Naturalmente no e nella notte del 27 gennaio mette a segno anche lui la sua prima scoperta del 2022 raggiungendo quota 166 e riprendendosi la terza posizione nella Top Ten Mondiale a scapito del neozelandese Stuart Parker fermo a quota 165. Il famoso giapponese ha individuato il nuovo oggetto a mag.+17,3 nella galassia a spirale barrata NGC1255 posta nella costellazione della Fornace a circa 70 milioni di anni luce di distanza. La notte seguente la scoperta, dal Gemini Observatory sul Cerro Pachon in Cile con Gemini South Telescope da 8,1 metri di diametro è stato ripreso lo spettro di conferma.

Immagine di scoperta della SN2022ame in NGC1255 ottenuta da Koichi Itagaki con un telescopio Schmidt-Cassegrain da 35cm F.11

La SN2022ame, questa la sigla definitiva assegnata, è una supernova di tipo II molto giovane scoperta appena 4 giorni dopo l’esplosione. Purtroppo è presente una forte estinzione da polveri della galassia ospite, che toglierà da due a tre magnitudini, impedendo alla supernova di raggiungere una notevole luminosità. NGC1255 aveva visto esplodere al suo interno un’altra supernova conosciuta, la SN1980O scoperta il 30 ottobre del 1980 dall’astronomo tedesco Hans-Emil Schuster.

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Transiti notevoli ISS per il mese di Febbraio 2022

La ISSStazione Spaziale Internazionale sarà rintracciabile nei nostri cieli nel tardo pomeriggio nella prima parte del mese e a orari antelucani nella seconda. Avremo ben sei transiti notevoli con magnitudini elevate durante il mese, auspicando come sempre in cieli sereni!

Si inizierà il giorno 1 Febbraio dalle 18:41 alle 18:47, osservando da NO a ENE.

La ISS sarà ben visibile da tutto il Paese con una magnitudine massima si attesterà su un valore di -3.1.

Si replica il 3 Febbraio dalle 18:48 (verso ONO) alle 18:55 (verso SE).

Visibilità migliore da tutto il Paese per questa occasione, con magnitudine di picco a -3.7.
Uno dei migliori transiti del mese: imperdibile, meteo permettendo!

Passiamo al giorno 4 Febbraio dalle 18:03 in direzione NO alle 18:13 in direzione ESE.

Osservabile da tutta Italia, con una magnitudine massima di -3.8.
Un altro bel transito da non perdere!

Saltiamo di circa due settimane e giungiamo al 20 Febbraio, dove avremo il miglior transito mattutino del mese.

Visibile da nord a sud del nostro Paese, dalle 06:22 (verso OSO) alle 06:32 (verso NE), con magnitudine massima di -3.7.
Sicuramente un passaggio che vale la sveglia anticipata!

Il penultimo transito del mese avverrà il 21 Febbraio dalle 05:42 alle 05:50 da SO a ENE. Magnitudine massima di -3.5, con visibilità ottimale da tutta la nazione.

L’ultimo transito, il 24 Febbraio, sarà invece un passaggio parziale con magnitudine massima di -3.3, visibile al meglio dal Nord Italia. Avverrà dalle 05:15 alle 05:20, da NO a NE.

N.B. Le direzioni visibili per ogni transito sono riferite ad un punto centrato sulla penisola, nel centro Italia, costa tirrenica. Considerate uno scarto ± 1-5 minuti dagli orari sopra scritti, a causa del grande anticipo con il quale sono stati calcolati.

En route to the Moon again. This time to stay there! Pt. 1

The journey to the Moon is surely the most extreme ever undertaken by a human being.

It is incredible to think how the Apollo astronauts managed to reach our satellite aboard a spacecraft which on board computer had the computing power of a pocket calculator.

Despite the technological limitations of the time, they were able to demonstrate the feasibility of a journey until then considered impossible. Today, more than fifty years later, with Artemis 1 we are preparing again to make this incredible crossing.

We will use the same trajectories born in that golden age of space exploration, but we will have the support of much more advanced knowledge in the field of astrodynamics that will allow us to exploit in a much more efficient way the gravitational laws of orbital mechanics. And in the near future, such a journey may become less and less exceptional, and more and more normal.

Illustration of SpaceX Starship human lander design that will carry the first NASA astronauts to the surface of the Moon under the Artemis program.
Credits: SpaceX

But never entirely easy and without danger!

Unlike atmospheric flight, space flight is in fact characterized by extremely limited freedom of movement. If an airplane can reach the same destination by making hundreds of different routes, the routes to the Moon are much less. The reason is that the motion of bodies in space is bound to very precise laws dictated by gravitation.

Exploiting these laws, the engineers of the Apollo program studied in the sixties, for the first time, the transfer trajectories to the Moon that are still used today. But the Artemis Mission will travel new ones.

Believe me. It will be a return to the “Apollo Spirit”, it will be something formidable, not to be missed.

So what would you say, in order not to be caught unprepared by the events and to follow at best a three-week space adventure, to do together a nice review of all phases of the mission?

Would you like to?

The exact day we do not know yet, but now we are sure to be in the home stretch. Whether it will be in next December or January, soon will finally start the mission that will open the doors of human exploration of the Solar System.

From Launch Complex 39B at Kennedy Space Center is in fact about to be launched Artemis 1, which in addition to being the first mission of the Artemis program, will also be the first flight for both the heavy Space Launch System and the Orion capsule.

Precisely because of the need to still test these means, onboard Artemis 1 there will be no astronauts. As a result, life support, displays, and control instrumentation have been removed from the capsule. In its place have been inserted sensors and scientific instruments capable of detecting every single parameter inside the capsule, such as radiation levels, pressures, and temperatures. Onboard, however, there will be dummies, on which sensors are placed to monitor all the levels of radiation they will undergo.

The name chosen for the main dummy (“Commander Moonikin Campos”) pays homage to the famous engineer of the Apollo 13 mission, the one who played a key role in bringing back safely to Earth the astronauts Jim Lovell, Jack Swigert, and Fred Haise, after an explosion in the service module not only thwarted the moon landing but also put a strain on the simple re-entry.

Moon’s surface. Credit: NASA

Moonikin Campos will wear the same spacesuit that will be used by the astronauts and will be equipped with a series of sensors that can measure several useful parameters, such as the values of acceleration during the various phases of the trip, the vibrations to which the crew members will be subjected and the level of radiation. Campos will not be alone, to keep him company there will be Zolgar and Helga, two human torsos similar to those normally used for simulations of ballistic trauma.

The service module, which will provide propulsion, electrical power, temperature control, and life support to the crew module, will be developed by the European Space Agency.

The Space Launch System rocket is designed for missions carrying crew or cargo to the Moon and beyond, and will produce 4 million kilograms of thrust during lift-off and ascent to carry a vehicle weighing 2,700 tons into orbit.

Lifted by a pair of boosters and four engines, the rocket will reach its period of maximum thrust within ninety seconds. After throwing the boosters, service module panels, and launch abort system overboard, the main stage engines will shut down and the main stage will separate from the spacecraft, consisting of the Orion capsule, the European Space Agency-provided Service Module, and the rocket’s second stage (the Interim Cryogenic Propulsion Stage). The ESA module is placed under the actual capsule, and will accompany it throughout the journey to and from the Moon.

Only before Orion returns to Earth this module will be undocked. Inside are the capsule’s main engines, gas and propellant tanks, and various secondary engines. The Space Launch System will bring the Orion capsule, together with the second stage and into a parking orbit at an altitude of about 200 km. After a couple of revolutions around the Earth, at the appropriate time will be deployed the solar panels and then turned on the engines of the second stage, which will produce an increase in speed that will allow the spacecraft to leave the parking orbit. This maneuver is called Transfer Lunar Injection and it will bring the spacecraft on the right course towards the Moon.

To be continued …

Il cielo di Febbraio 2022

Il mese di febbraio ci offre ancora un’ampia panoramica sulle costellazioni invernali che occupano la volta celeste con i loro astri dominanti.

Già dalla prima serata è  ben visibile il leggendario cacciatore Orione, fiammeggiante al suo fianco l’occhio rosso del Toro (la stella Aldebaran), presenti inoltre Auriga e i Gemelli che con le stelle Castore e Polluce ci accompagnano per tutta la notte, splendono alti in direzione Sud-Ovest e tramontando infine poco prima dell’alba.

Per approfondire: Le Costellazioni di Febbraio 2022 a cura di Teresa Molinaro

COSA OFFRE IL CIELO

Effemeridi pianeti Febbraio 2022

Mercurio

Presente poco prima del sorgere del Sole, verso fine mese si avvicinerà a Saturno sempre più, fino a giungere a poco più di 3° di separazione il 28/02. La congiunzione avverrà all’approssimarsi delle prime luci dell’alba e i due pianeti saranno bassi all’orizzonte (quindi difficilmente osservabili).

Venere

Il giorno 12/02 il pianeta condividerà con Marte la stessa ascensione retta, con 6° 34’ di separazione. Un bella congiunzione osservabile da intorno le 5:30 del mattino, accompagnandoci fino al sorgere del Sole (alle 07:09).

Poco dopo le 5:30 del 27/02 segnaliamo una bella congiunzione Marte-Luna, con Venere che sovrasterà il pianeta rosso sulla stessa linea del nostro satellite.

Non perdetevi l’approfondimento sul Falcetto di Venere immortalato il 13 Gennaio a cura del nostro autore Claudio Pra


Tra sogno e realtà – Falcetto di Venere

Marte

Per tutto il mese, Marte si mostrerà nei cieli mattutini a sudest, anticipando di poco l’alba del Sole.

Il giorno 05/02, all’interno della costellazione del Sagittario avremo un bel quadro celeste con Marte “affiancato” a M22 intorno le 6 del mattino. Un’osservazione non facile, trovandoli bassi all’orizzonte e in prossimità del sorgere del Sole, ma tentar non nuoce!

Degna di nota la già citata congiunzione Marte e Venere del giorno 12/02. Mentre, il 27/02, con soli 3°29’, Marte si accosterà a una sottilissima falce di Luna calante, con Venere a vegliare sopra di loro.

Giove

Visibile alle ultime luci del giorno fino intorno il 17 del mese, anticipando sempre di più il suo tramonto.

Si affiancherà a una sottilissima Luna il secondo e terzo giorno del mese, ma la sua vicinanza al Sole ne permetterà la visione solo tramite apposito filtro.

Disponibile sull’ultimo n.254 di Coelum Astronomia l’approfondimento su Juno – Giunone scruta sotto le nubi di Giove

Saturno

Già dai primi giorni del mese si affiancherà al Sole seguendone il moto nell’arco del cielo. In particolare, il 04/02, sarà in congiunzione con la nostra stella con una separazione di soli 0°51’.

Oltre a rimanere inosservabile per diverse settimane, il pianeta si presenterà anche alla sua minore luminosità, trovandosi al suo punto più lontano dalla Terra (a una distanza di 10,90 UA).

Urano e Nettuno

Urano sarà osservabile al tramonto per tutto il mese, il giorno 07/02 segnaliamo una bella congiunzione con la Luna; in particolare alle 20:30 i due astri si troveranno a solo 1°20’ di separazione.

Nettuno, all’inseguimento di Giove per tutto il mese, parteciperà all’affiancamento Luna-Giove del giorno 2 e 3 febbraio (inosservabile).

SOLE

Effemeridi Sole Febbraio 2022

Iniziamo questo mese di Febbraio con la nostra stella presente nella costellazione del Capricorno, dove sosterà fino al giorno 16 febbraio quando transiterà nella costellazione dell’Acquario.

Le giornate inizieranno ad allungarsi: avremo infatti un aumento di luce di 1 ora e 10 minuti dall’inizio del mese.

LUNA

Effemeridi Luna Febbraio 2022

Anche per il cielo di Febbraio 2022, il nostro autore Francesco Badalotti ci offre un’approfondita panoramica sull’osservazione del nostro satellite.

Per approfondire: Luna di Febbraio 2022

COMETE

Disponibile un approfondimento sulle comete visibili in questo mese a cura di Claudio Pra: Le comete di Febbraio 2022

Tra le altre, la C/2017 K2 PanSTARRS, cometa tra l’altro molto interessante dato che è stata scoperta quando si trovava a quasi due miliardi e mezzo di distanza dal Sole, si prospetta come l’oggetto più luminoso del 2022.

Pronti a delle levatacce per provare già a cercarla?

ASTEROIDI

È consultabile anche la rubrica dedicata agli asteroidi del cielo di Febbraio 2022, curata dal nostro autore Marco Iozzi che ci introduce a questo meraviglioso micromondo in maniera magistrale!

Per approfondire: Mondi in miniatura – Asteroidi, Febbraio 2022

TRANSITI NOTEVOLI ISS

A caccia della ISS!

Per questo cielo di Febbraio 2022 avremo ben sei transiti notevoli con magnitudini elevate: segnateli sul calendario per non perdene nemmeno uno!

La rubrica di approfondimento a cura di Giuseppe Petricca: Transiti notevoli ISS per il mese di Febbraio 2022

Cieli sereni a tutti!

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Tra sogno e realtà – Falcetto di Venere

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Osservare Venere nei giorni che precedono e seguono la congiunzione inferiore con il Sole (ma possibilmente anche nel giorno in cui si verifica) è davvero interessante e suggestivo.

Trovandosi alla minima distanza dalla Terra, le dimensioni del pianeta sono cospicue (attorno al primo d’arco) e la fase minima: prerogative di sicuro spettacolo! L’osservazione è però resa difficile (e anche pericolosa, attenzione!) dalla vicinanza prospettica alla nostra stella, che con la sua abbagliante luce tende a fagocitare Venere.

Quest’anno la congiunzione inferiore è avvenuta nelle primissime ore del 9 gennaio e io ho potuto seguirla per bene, favorito da condizioni meteo e prospettiche ideali, nonché aiutato dalla muraglia rocciosa che si erge davanti al paesino dove abito. Questa ha infatti occultato il Sole negli istanti in cui invece Venere, posto ad una declinazione più alta, si rendeva già visibile per alcuni minuti prima dello scollinamento dell’astro diurno.

Posizione di Venere (credits: Claudio Pra, 13 gennaio 2022)

Inoltre, pur trovandosi a declinazione abbondantemente negativa, mi ha favorito anche l’orario della comparsa del pianeta (attorno alle 11.00), quando la sua altezza in cielo era vicina al massimo, con un sicuro vantaggio in fatto di seeing. Infine, l’avere un punto di riferimento ben preciso, costituito dalla cresta rocciosa, mi ha aiutato in modo determinante: mi è bastato infatti individuare il pianeta alcuni giorni prima della congiunzione inferiore, quando era ancora relativamente distante dal Sole, prendendo nota del punto della montagna in cui sorgeva. Nei giorni seguenti la sua posizione sarebbe mutata di pochissimo ogni giorno.

La preparazione

Dopo averlo ammirato nel cielo del post-tramonto per lungo tempo, ho cominciato a seguirlo assiduamente dal 2 gennaio, osservandolo poi, meteo permettendo, quasi tutti i giorni fino a fine mese.

L’8 gennaio, giorno in cui la fase e l’elongazione si sono ridotte al minimo (0,33% la prima e 4,49° la seconda), mi è stato possibile osservare per bene l’esilissima falce. Poi, nei giorni seguenti, le cose sono risultate man mano più facili per l’allontanamento, sia pur lento, dal Sole.

Una volta raggiunto l’obbiettivo di coglierlo nel momento della congiunzione inferiore, mi sono posto un’altra “missione“: riprendere Venere a ingrandimento spinto nello scenario montano che lo circondava.

Fondere assieme cielo e Dolomiti è infatti un’altra mia grande passione a cui mi dedico da decenni. In questo caso occorreva scegliere un contesto che esaltasse lo scatto e quindi non certo una delle immense pareti “sorvolate” da Venere, che avrebbe reso il pianeta quasi insignificante. Alcune guglie poste sulla Cima di Terranova, non distante dalla grandiosa e celebre parete del Monte Civetta chiamata in ambito alpinistico “la Parete delle Pareti“, sembravano l’ideale.

Proprio quei pinnacoli, che avevo adocchiato al binocolo e ritenuti perfetti per le dimensioni di Venere, avrebbero valorizzato un magnifico incontro tra cielo e terra. Dai miei calcoli il pianeta sarebbe passato di lì entro pochi giorni ed è cominciata quindi l’attesa, quasi un appostamento. Giorno per giorno ho tenuto d’occhio lo spostamento del falcetto, favorito quasi sempre dal meteo favorevole, fino al passaggio sui pinnacoli. Un primo tentativo, compiuto nella mattinata del 12 gennaio, ha portato ad un parziale successo, ma il seeing pessimo ha in parte deturpato l’immagine. Non soddisfatto del tutto ho così riprovato il giorno successivo, l’ultimo a disposizione per ritrarre Venere sulle guglie rocciose. È andata decisamente meglio con Venere (fase 1,17%) che è sbucato su una forcelletta e ha cominciato l’arrampicata della guglia più grande e spettacolare, regalandomi uno scatto fantastico ed un’emozione indescrivibile.

Falcetto di Venere (credits: Claudio Pra, 13 gennaio 2022)

Pur cimentandomi da tempo nell’osservazione delle fasi di Venere, mai ero riuscito ad arrivare al risultato di quest’anno in fatto di fase minima e minima distanza prospettica dal Sole. Ciliegina sulla torta poi, la foto quasi irreale di quel sottilissimo brillante falcetto tra le rocce, addirittura facilmente osservabile con un piccolo binocolo 10×50. Un’esperienza indimenticabile, che mi resterà negli occhi e nel cuore.

Note:

Nella prima foto a grande campo, segnalata dalla freccia, la posizione in cui si trovava Venere quando ho scattato la foto.

Nella seconda foto, scattata applicando la fotocamera al fuoco diretto di un telescopio da 80 mm di diametro e 600 mm di focale portati a 100 tramite un moltiplicatore di focale, la sottile falce di Venere nei pressi delle guglie della Cima di Terranova.

Per approfondire:

Un articolo, sempre a cura di Claudio Pra, su come osservare Venere nei giorni che precedono e seguono la congiunzione inferiore con il Sole, nel n. 224 pag. 140 di Coelum Astronomia: Gobba a levante… Venere Crescente!

Le Comete di Febbraio 2022

TANTE COMETE IN CIELO

19P/Borrelly

La Borrelly passa al perielio nel primo giorno del mese, raggiungendo la presumibile massima luminosità che dovrebbe aggirarsi attorno all’ottava magnitudine, risultando l’oggetto più luminoso della sua categoria. Sarà comodamente osservabile già in prima serata, non appena il cielo si fa completamente buio, all’interno della costellazione dei Pesci durante la prima decade e poi nell’Ariete, deve incontrerà Urano sfilandogli ad una manciata di gradi di distanza. Ho avuto modo di osservarla a inizio gennaio, trovandola bella e facile grazie al sua aspetto compatto che permette di scorgerla anche con strumenti dal diametro modesto.

Nella cartina la posizione della Borrelly è calcolata per le 19.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 8

C/2019 L3 ATLAS

Pur essendo già passata al perielio varrà la pena cercare la ATLAS, che nel corso di gennaio è scesa di poco al di sotto la nona magnitudine risultando una cometa molto interessante. In allontanamento ed in calo si manterrà comunque al di sotto della decima magnitudine, cosa che sommata alla sua favorevole posizione ed al comodo orario di osservazione invoglia a cercarla. Altissima in cielo, la troveremo all’interno dei Gemelli e dunque già osservabile dall’inizio della notte astronomica e poi per gran parte della stessa. Osservandola a gennaio l’ho trovata decisamente cresciuta rispetto ai mesi precedenti.

Nella cartina la posizione della ATLAS è calcolata per le 19.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 9

104P/Kowal

Altra cometa visibile all’inizio della notte astronomica alta in cielo. Si muoverà per poco meno di metà mese nella Balena per poi trasferirsi nel Toro, terminando la sua corsa mensile nei pressi di Aldebaran. Fu scoperta il 27 gennaio 1979 dall’astronomo statunitense Charles Thomas Kowal, colui che scoprì l’enigmatico e massiccio Chirone, oggetto ritenuto inizialmente un asteroide ma che mostra un’attività cometaria, catalogato quindi come 95P/Chirone. La Kowal dovrebbe brillare di una magnitudine vicina alla decima. Personalmente l’ho osservata a inizio gennaio, quando era molto più bassa in declinazione, riuscendo a scorgerla con difficoltà perché molto diffusa e trasparente.

Nella cartina la posizione della Kowal è calcolata per le 19.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 8

67P/Churyumov-Gerasimenko

Passata al perielio da tempo, la 67/P si mantiene abbastanza luminosa ed al di sotto della decima magnitudine anche in febbraio (o per parte del mese). È il tempo di salutarla e per farlo occorrerà puntare gli strumenti tra le stelle del Cancro, comodamente in prima serata.

Nella cartina la posizione della 67P è calcolata per le 19.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 10

C/2017 K2 PanSTARRS

Prosegue l’avvicinamento della C/2017 K2 PanSTARRS, posizionata tra le stelle dell’Ofiuco ed osservabile prima dell’alba. Prosegue anche la sua lenta progressione luminosa anche se i valori rimangono ancora modesti, attorno all’undicesima magnitudine. Lo scorso mese, consultando la curva di luce, l’avevamo preannunciata di decima grandezza a fine gennaio ed invece la sua crescita va un po’ a rilento. L’undici gennaio, quando l’ho osservata per la prima volta, era ancora di dodicesima magnitudine, visibile al limite in un riflettore da 30 cm. sotto un cielo molto buio.

Nella cartina la posizione della PanSTARRS è calcolata per le 5.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 11

Speriamo in una pausa prima di una ripresa poiché, come ricordato lo scorso mese, questo oggetto è annunciato come il più luminoso del 2022, con il raggiungimento della sesta/settima magnitudine entro pochi mesi. Cometa tra l’altro molto interessante dato che è stata scoperta quando si trovava a quasi due miliardi e mezzo di distanza dal Sole. Solitamente a quelle profondità una cometa non mostra ancora attività ed invece la PanSTARRS era già circondata da una estesa chioma. Purtroppo a metà luglio, momento del suo massimo avvicinamento al nostro pianeta, passerà molto distante (circa 270 milioni di km.) raggiungendo secondo le attuali previsioni un valore compreso tra la sesta e la settima grandezza. Poi resterà a lungo su questa luminosità essendo il perielio previsto per il 19 dicembre, quando da noi non sarà però più visibile. Ad ogni modo avremo parecchi mesi a disposizione per osservarla e tutta l’estate per ammirarla mentre risplende al presumibile massimo delle sue potenzialità. Per chi vuole anticipare i tempi (come il sottoscritto), a febbraio si prepari ad una o più levataccie…

 

Le Costellazioni di Febbraio 2022

LE COSTELLAZIONI DEI GEMELLI E DEL CANE MAGGIORE NEL CIELO DI FEBBRAIO

Il mese di febbraio ci offre ancora un’ampia panoramica sulle costellazioni invernali che occupano la volta celeste con i loro astri dominanti.

Già dalla prima serata è ben visibile il leggendario cacciatore Orione, fiammeggiante al suo fianco l’occhio rosso del Toro (la stella Aldebaran), presenti inoltre Auriga e i Gemelli che con le stelle Castore e Polluce ci accompagnano per tutta la notte, splendono alti in direzione Sud-Ovest e tramontando infine poco prima dell’alba.

La costellazione boreale dei Gemelli transita al meridiano proprio nel mese di febbraio (il giorno 20) ed è protagonista di questo periodo invernale con le sue stelle principali Castore e Polluce, che rappresentano le teste dei due gemelli zodiacali.

Castore, con magnitudine 1,6 distante circa 52 anni luce da noi, anche se indicata come α Geminorum è in realtà meno luminosa della “gemella” con cui si accompagna. Inoltre l’astro è in realtà composto da 3 coppie di stelle aventi una complessa interazione gravitazionale tra loro.

Polluce (β Geminorum) è una gigante di colore arancione avente magnitudine 1,15 e situata a circa 34 anni luce da noi, classificandola così come la gigante a noi più vicina.

CASTORE E POLLUCE: GEMELLI DIVERSI

Un po’ controversa è la classificazione delle due stelle alfa e beta della costellazione: benché Polluce sia più brillante – tanto da occupare il 17° posto nella lista delle 20 stelle più luminose del cielo notturno – come già anticipato, è Castore la stella alfa della costellazione. Gemelli diversi stando alle loro sostanziali differenze e considerando i 10 anni luce che li separano.

Costellazione dei Gemelli

Fin dalla mitologia è sempre Castore ad essere nominato prima di Polluce e anche l’autore del primo atlante celeste, Johann Bayer, decise di assegnare il ruolo di stella alfa dei Gemelli proprio a Castore, “rifilando” così il posto di stella beta a Polluce, eterno secondo tra i due fratelli.

Ma Polluce in realtà è secondo solo sulla carta; il gemello dello Zodiaco, oltre a essere rivestito di maggior luce, si è preso nel tempo le sue rivincite: si tratta infatti di una delle poche stelle visibili attorno a cui ruota un pianeta.

Circa dieci anni fa infatti è stato scoperto un pianeta gigante gassoso simile a Giove, che compie un’orbita completa attorno alla sua stella in 590 giorni, a cui è stato dato il nome di Polluce b.

ALTRE STELLE E OGGETTI NON STELLARI NELLA COSTELLAZIONE DEI GEMELLI

Nella costellazione dei Gemelli si trovano anche altre stelle molto più luminose di Castore e Polluce, ma più distanti quindi meno brillaneti, come Alhena e Mebsuta. La prima è una stella subgigante bianca di magnitudine 1,93 distante 105 anni luce da noi; la seconda è una supergigante gialla di magnitudine assoluta – 4,15 distante circa 903 anni luce da noi.

Nella costellazione sono collocati degli oggetti celesti non stellari: stiamo parlando dell’ammasso aperto M35, gli ammassi aperti IC 2157 e NGC 2158 e la bellissima Nebulosa Medusa (IC 443), un resto di supernova esploso in un periodo tra i 3.000 e i 30.000 anni fa.

Nebulosa Medusa (IC 443). Credit: NASA

Attraverso l’impiego di un buon telescopio e camera di ripresa, questi oggetti possono essere osservati e fotografati anche da astrofili appassionati del cielo profondo: già con un binocolo M35 può essere individuato come l’ammasso più brillante della costellazione dei Gemelli, composto da circa 250 stelle. Utilizzando invece un telescopio, ai nostri occhi si rivelerà un maggior numero di stelle.

Interessante soggetto per gli astrofotografi è sicuramente la Nebulosa Medusa, che si rivela agli appassionati attraverso il telescopio (e a un lavoro di post produzione necessario, come sempre in astrofotografia, per definirne tutti i dettagli).

I GEMELLI NELLA MITOLOGIA

I due gemelli per antonomasia sono protagonisti di varie pagine di mitologia greca: al centro delle vicende c’è sempre Zeus, il padre degli dei e inguaribile seduttore.

Quando una donna diventava oggetto delle sue brame, Zeus era disposto a tutto e spesso ricorreva al metodo delle metamorfosi in animali.

Avendo perso la testa per Leda, nipote di Ares e regina di Sparta, si trasformò in cigno e la possedette mentre la giovane donna passeggiava sulle rive del fiume; dall’uovo concepito (anzi, presumibilmente due uova) vennero alla luce quattro bambini, ma poiché Leda quella stessa notte giacque con suo marito il re Tindaro, non v’è certezza sulla reale paternità e quindi divinità dei gemelli.

Furono così attribuiti a Zeus i gemelli immortali Polluce ed Elena (di Troia), mentre Tindaro assunse la mortale paternità di Castore e Clitennestra.

Nonostante questa assegnazione, Castore e Polluce furono appellati sia come Dioscuri (cioè figli di Zeus) sia come Tindaridi (figli di Tindaro).

Castore era un grande domatore di cavalli, mentre Polluce era un pugile formidabile. Entrambi nutrivano un forte sentimento fraterno l’uno per l’altro ed erano inseparabili: sempre insieme presero anche parte alla famosa spedizione degli Argonauti e, tra le tante avventure, sfidarono persino Teseo.

Ma ci furono degli eventi fatali che li videro coinvolti a un’altra coppia di gemelli, per storie di donne e bestiame: i fratelli Ida e Linceo. In un duello fu Castore ad avere la peggio e Polluce, unico sopravvissuto, dilaniato dal dolore per la morte del suo amato fratello, implorò suo padre Zeus affinché potesse lasciare la Terra insieme a lui. Zeus, impietosito, concesse quindi a Polluce di poter condividere con Castore un abbraccio eterno impresso sul manto celeste nell’omonima costellazione.

LA COSTELLAZIONE DEL CANE MAGGIORE

Un’altra menzione d’onore nel cielo di febbraio, è per la costellazione del Cane Maggiore (Canis Major) con la sua scintillante stella alfa: Sirio. Questa costellazione si accompagna al Cane Minore ed entrambi rappresentano i due fedeli cani da caccia che seguono Orione.

Costellazione del Cane Maggiore

Nonostante si tratti di una costellazione poco appariscente, il Cane Maggiore è facilmente individuabile partendo dalla cintura di Orione e tracciando una linea verso Sud-Est che conduce direttamente a Sirio. Questo astro, insieme a Betelgeuse e Procione, vanno a costituire i vertici del Triangolo Invernale.

Mirzam, Adhara, Wezen, Aludra, Furud sono stelle blu e supergiganti blu che compongono la costellazione del Cane Maggiore che ci appaiono meno luminose rispetto alla stella alfa poiché più distanti.

SIRIO E IL SUO SISTEMA BINARIO

Sirio si trova a soli 8,6 anni luce da noi e con il suo intenso bagliore bianco-azzurro, freddo e scintillante, e la sua magnitudine apparente di -1,47, illumina le notti dell’inverno boreale: Sirio è una stella bianca con una massa 2,1 volte quella del Sole e la sua luminosità è 25 volte superiore a quella della nostra stella.

L’astro è in realtà un sistema binario: attorno alla componente principale, Sirio A, orbita una nana bianca di nome Sirio B che compie una rivoluzione attorno alla componente primaria ogni 50 anni.

Osservare e immortalare Sirio B è un’impresa ardua ma non impossibile, a patto che si disponga di una buona attrezzatura e di tanta pazienza! La difficoltà è data dalla importante luminosità della stella principale che prevarica sulla più debole componente secondaria e che quindi genera non pochi ostacoli al tentativo di isolare la nana bianca.

OGGETTI NON STELLARI NELLA COSTELLAZIONE DEL CANE MAGGIORE

Trovandosi in una porzione di cielo attraversata dalla Via Lattea, la costellazione del Cane Maggiore ospita interessanti oggetti del campo profondo.

M41 è un ammasso aperto a più di 2000 anni luce dalla Terra e con una magnitudine di 4,5; in condizioni ottimali di visibilità e osservando sotto cieli bui e privi di inquinamento luminoso, l’oggetto può essere individuato anche ad occhio nudo, mentre osservando con un binocolo sarà possibile scorgere molte più stelle tra quelle che compongono l’ammasso.

Altri oggetti situati nella costellazione sono ammassi aperti, nebulose e galassie: con l’utilizzo di telescopi e tecniche fotografiche a lunghe esposizioni, è possibile catturare NGC 2362, NGC 2354, NGC 2359, la Nebulosa Gabbiano, le galassie interagenti NGC 2207 e IC 2163, le galassie NGC 2217 e NGC 2280 oltre alla Galassia Nana Ellittica del Cane Maggiore, una galassia satellite vicina alla Via Lattea.

Luna di Febbraio 2022

Essendo ormai accertato che anche nel corso del 2022 potremo ammirare il nostro satellite naturale nelle sue evoluzioni giornaliere strettamente legate all’avvicendarsi delle sue fasi (e ci mancherebbe!!, con tutti gli sconvolgimenti che ne deriverebbero in fatto di maree, instabilizzazione dell’asse terrestre ed altri disastri vari…), non è poi così banale considerare il continuo allontanamento della Luna dal nostro pianeta al ritmo attuale di circa 3 cm ogni anno che, su scala “umana” potrebbe apparire come un dato irrilevante ma, qualora il nostro caro satellite decidesse veramente di cambiare aria dopo avere accompagnato la Terra nella sua orbita intorno al Sole per oltre quattro miliardi di anni (e chi gli darebbe torto?), il problema consisterebbe nell’individuare l’eventuale punto di rottura dell’equilibrio del sistema Terra-Luna il cui centro di massa si trova alla profondità di 1740 km sotto la superficie terrestre, a 4635 km dal centro del nostro pianeta. Pertanto Terra e Luna ruotano intorno a questo “centro di massa” il quale descrive una ellisse intorno al nostro Sole.

Cosa Osservare …

Venendo finalmente alla Luna di Febbraio, vediamo che proprio nella prima notte del mese, alle ore 06:46 del giorno 1, si avrà il Novilunio col nostro satellite che rivolgerà alla Terra il suo emisfero completamente in ombra. Contestualmente il progressivo avvicendarsi delle fasi porterà il nostro satellite nelle migliori condizioni osservative che culmineranno nel Primo Quarto alle ore 14:50 del 08 Febbraio.

Nel caso specifico la Luna, dopo essere sorta alle ore 11.01, transiterà in meridiano alle ore 18:22 a +61° rendendosi visibile fino alle prime ore della notte successiva quando scenderà sotto l’orizzonte. Per eventuali osservazioni col telescopio basterà attendere le 18:30 circa della medesima serata e, nonostante Febbraio sia un mese ancora pienamente invernale salvo sorprese, si potrà concentrare l’attenzione sul settore settentrionale e precisamente lungo il terminatore con le spettacolari vedute sulle Alpi con la Valle Alpina, sui monti Caucasus e sulla parte più settentrionale degli Appennini ammirando inoltre anche i vasti crateri Aristoteles (90 km, 3700 mt), Eudoxus (70 km, 3400 mt) e l’antichissimo Alexander (85 km molto danneggiato, periodo geologico Pre Imbriano da 4,5 a 3,8 miliardi di anni) situati immediatamente a nord dei monti Caucaus ed il cratere Cassini (60 km, 1200 mt) appena a sud delle Alpi. Altrettanto interessanti potranno risultare l’estremità nordest del mare Frigoris ed il bacino da impatto del mare Serenitatis (303000 kmq, diametro 670 km, periodo geologico Nectariano da 3,8 miliardi di anni) con la sua forma circolare ricoperto da rocce basaltiche molto scure.

Terminata la fase crescente, alle ore 17:57 del 16 Febbraio la Luna sarà in Pleniunio in fase di 15,4 giorni alla distanza di 391475 km dalla Terra, con diametro apparente di 30,52′ e ad un’altezza di +3°32′ (appena sorta alle 17:30), rivolgendo al nostro pianeta il suo emisfero completamente illuminato. Nel caso specifico sarà ampia la possibilità di effettuare osservazioni col telescopio, risultando perfettamente visibile per tutta la serata e la notte successiva fino al suo tramonto, contestuale al sorgere del Sole.

Osservare al telescopio la Luna Piena significa anche cercare di individuare i grandi sistemi di raggiere che si sviluppano radialmente intorno a determinati crateri, tipologia di strutture la cui osservazione viene facilitata col Sole alto sull’orizzonte lunare, condizione osservativa in cui vengono esaltate le differenze di albedo a discapito di gran parte dei dettagli che ben conosciamo. Infatti risulterà abbastanza semplice notare come dai crateri Tycho, Copernicus, Proclus, Kepler, Herodotus/Aristarchus si estendano in varie direzioni lunghe raggiere i cui principali segmenti raggiungono anche parecchie centinaia di chilometri attraverso la superficie lunare, mentre altrettanto interessanti risulteranno le interconnessioni tra i vari sistemi come nell’area dei crateri Copernicus, Kepler ed Herodotus/Aristarchus.

Contestualmente al Plenilunio ripartirà anche la fase calante che porterà il nostro satellite in Ultimo Quarto alle ore 23:32 del 23 Febbraio ma a -23° sotto l’orizzonte. Chi intendesse dedicarsi a qualche osservazione notturna di questa interessante fase lunare dovrà attendere solo qualche ora, infatti alle 02:00 la Luna sorgerà in fase di 23,7 giorni visibile fino alle prime luci dell’alba quando alle 06:34 transiterà sul meridiano ad un’altezza di +20°. A prescindere dall’auspicabile clemenza del meteo nonostante l’inverno abbia sempre il compito (non solo teorico…) di rispettare il calendario, lungo la linea del terminatore sarà possibile effettuare osservazioni in alta risoluzione partendo dai crateri Plato (104 km, periodo geologico Imbriano Superiore di all’incirca 3,8/3,2 miliardi di anni) ed Eratosthenes (60 km, periodo geologico Eratosteniano da 3,2 a 1 miliardo di anni fa).

Ancora più a sud lo spettacolare terzetto formato dall’antichissimo Ptolemaeus (158 km, Pre Nectariano da 4,5 a 3,9 miliardi di anni fa), Alphonsus (121 km, periodo geologico Nectariano, 3,9 miliardi di anni fa), Arzachel (104 km, Imbriano Inferiore, 3,8 miliardi di anni fa). Da qui in avanti la visibilità del nostro satellite sarà sempre più relegata alle ore notturne andando così a chiudere il mese di Febbraio con una sottile falce 27,7 giorni, in attesa del Novilunio del 2 Marzo da cui ripartirà un nuovo ciclo lunare, ma ne riparleremo tra un mese.

Le Falci lunari di Febbraio

Per chi va a caccia di falci di Luna appuntamento per il tardo pomeriggio del 2 Febbraio con una sottile falce di 1,5 giorni in fase crescente visibile fino alle ore 18:59 quando scenderà sotto l’orizzonte fra le stelle dell’Acquario, seguita a breve distanza (6,3°) dal pianeta Giove.

La sera successiva, il 3 Febbraio, una più comoda falce tramonterà alle ore 20:15 ed il tempo a disposizione sarà sufficiente per alcune veloci osservazioni. Nel caso specifico ci si potrà dedicare alle scure aree basaltiche dei mari Humboldtianum (a nordest) e Marginis, Undarum e Smythii ad est del mare Crisium, il quale starà uscendo solo parzialmente dalla notte lunare.

Per quanto riguarda la fase di Luna Calante l’appuntamento è per la tarda nottata del 28 Febbraio con una falce di 27 giorni che sorgerà alle ore 06:10 preceduta dai pianeti Venere e Marte e seguita da Mercurio e Saturno. Considerata l’esigua finestra temporale prima che la luce del Sole cancelli il sorgere della Luna oltre che dei quattro pianeti citati, eventuali riprese fotografiche dovranno essere effettuate in modo da non intercettare la luce solare. Per questa tipologia di osservazioni, oltre agli ormai noti parametri osservativi, risulterà determinante disporre di un orizzonte il più possibile libero da ostacoli.

Librazione di Febbraio

(In ordine di calendario, per i dettagli vedere le rispettive immagini). Si precisa che, per ovvi motivi, non vengono indicati i giorni in cui i punti di massima Librazione si discostano dalla superficie lunare illuminata dal Sole.

Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.

Librazioni Regione Nordest-Est:

  • 02 Febbraio: Fase 01,51 giorni – Massima Librazione mare Humboldtianum
  • 03 Febbraio: Fase 02,60 giorni – Massima Librazione est cratere Endymion
  • 04 Febbraio: Fase 03,62 giorni – Massima Librazione est cratere Mercurius
  • 05 Febbraio: Fase 04,62 giorni – Massima Librazione est Lacus Spei
  • 06 Febbraio: Fase 05,62giorni – Massima Librazione est cratere Gauss
  • 07 Febbraio: Fase 06,62 giorni – Massima Librazione est cratere Cleomedes
  • 08 Febbraio: Fase 07,62 giorni – Massima Librazione est mare Marginis

Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.

Librazioni Regione Sud-Sudovest-Ovest:

  • 11 Febbraio: Fase 10,70 giorni – Massima Librazione sud cratere Wilson
  • 12 Febbraio: Fase 11,70 giorni – Massima Librazione sud cratere Bailly
  • 13 Febbraio: Fase 12,70 giorni – Massima Librazione sudovest cratere Pingre
  • 14 Febbraio: Fase 13,70 giorni – Massima Librazione sud cratere Pingre
  • 15 Febbraio: Fase 14,70 giorni – Massima Librazione ovest cratere Pingre
  • 16 Febbraio: Fase 15,70 giorni – Massima Librazione ovest cratere Pingre
  • 17 Febbraio: Fase 16,70 giorni – Massima Librazione ovest cratere Pingre
  • 18 Febbraio: Fase 17,70 giorni – Massima Librazione ovest cratere Phocylides
  • 19 Febbraio: Fase 18,70 giorni – Massima Librazione ovest cratere Inghirami
  • 20 Febbraio: Fase 19,70 giorni – Massima Librazione ovest cratere Schickard
  • 21 Febbraio: Fase 20,70 giorni – Massima Librazione ovest mare Humorum

Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.

Librazioni Regione Nordovest-Nord:

  • 24 Febbraio: Fase 23,70 giorni – Massima Librazione ovest Sinus Iridum
  • 25 Febbraio: Fase 23,80 giorni – Massima Librazione nord cratere Carpenter
  • 26 Febbraio: Fase 24,80 giorni – Massima Librazione calotta polare nord
  • 27 Febbraio: Fase 25,80 giorni – Massima Librazione calotta polare nord
  • 28 Febbraio: Fase 26,70 giorni – Massima Librazione est cratere Petermann

 

Accadde oggi: Galileo scopre Nettuno

28 gennaio 1613

Galileo Galilei si ritrova a disegnare tra i suoi appunti quella che credeva essere una stellina. Ciò che ancora non sapeva è che quella semplice “stellina” fosse in realtà un lontano pianeta del Sistema Solare non ancora scoperto.

Galileo in quel periodo puntava il suo cannocchiale verso Giove per osservare ed annotare in un taccuino le posizioni dei satelliti Medicei da lui scoperti tre anni prima.

Galileo osserva Nettuno. Immagine a cura di Daniele Tosalli

In un suo disegno (riprodotto in alto a destra dell’immagine qui sopra), troviamo la data del giorno 28 e l’ora 6 italica o alla romana, ovvero circa le 23 attuali secondo analisi fatte anni fa dagli astronomi Charles Kowal e Stillman Drake, impegnati in ricerche storiche a riguardo.

Nel disegno viene indicata la stella fissa “a” sulla sinistra dello stesso, designata da Galileo come distante 29 semidiametri gioviani dal pianeta. Questa fu identificata come l’unica stellina percepibile in quel relativo campo inquadrato e denominata SAO119234.

Invece la “b” sottostante la “a”, che Galileo ha riportato dall’altra parte del foglio per chiari motivi di spazio, si è rivelato essere il pianeta Nettuno, come riscontrato in fondo l’illustrazione.

Dettagli tecnici

Nella stessa immagine grafica qui sopra, ai piccoli corpi designati e colorati sono stati sovrapposti, in un buon accordo geometrico, quelli a “macchia” che simulano visioni dirette con strumenti amatoriali (un’acquisizione caratteristica generata col programma Stellarium).

I punti indicati da crocette bianche sono invece quelli riportati di misura dal disegno di Galileo per un esplicito confronto posizionale.

Con un righello la stima da “b” ad “a” porta “b” a 32,5 semidiametri da Giove. Nel grafico Nettuno è a 36, poco più di un primo d’arco di differenza, ma la misura non essendo stata etichettata da Galileo come le altre, forse la separazione tra “a” e “b”, fu stimata solo in modo più approssimativo.

Data l’ottica usata da Galileo, ossia uno dei cannocchiali di sua speciale realizzazione, caratterizzato allora da un ridotto campo visivo di pochi ingrandimenti e affetto da inevitabili aberrazioni ottiche, sono comprensibili certe discrepanze di misure verosimilmente fatte con un micrometro artigianale, ovvero un probabile dispositivo a griglia abbinato al cannocchiale da traguardare con l’altro occhio.

Si noti l’accuratezza di introdurre una scala di riferimento: una misura di 24 semidiametri che Galileo ha tracciato orizzontalmente sotto Giove, e poi le relative misure che riguardano la posizione di tre satelliti, le quali sono tutte proporzionalmente appena un po’ più corte di quelle esibite nel grafico. I satelliti disegnati da Galileo si susseguono con Ganimede a 5,50 semidiametri, poi Europa etichettato 8,40 ma è a 8,70 e il più lontano Callisto a 20,40 raggi (circa 40 secondi d’arco in meno del riferimento).

Molte volte per arrivare ad osservare i corpi verso i margini in quel ristretto campo mostrato dell’arcaico cannocchiale bisognava anche spostare l’occhio dietro a quell’unica lente divergente che faceva da oculare, l’unico vantaggio è che raddrizzava l’immagine. Il quarto satellite Io, considerando il modesto strumento d’osservazione, non gli fui possibile percepirlo poiché dalle 22:40 iniziava transitare sul luminoso Giove.

In fondo al suo foglietto Galileo poi spiega anche che il giorno precedente, il 27 (di cui si notano le annotazioni sulla parte superiore dello stesso foglietto, ma senza indicazione al riguardo) le due stelle allineate sembravano tra loro più lontane: un’inconsapevole testimonianza del moto del pianeta.

Egli fu piuttosto coinvolto nell’annotare i sui Medicei, inoltre in quel periodo pare fosse comune pensare che l’ultimo dei pianeti del sistema solare dovesse essere Saturno. Fu davvero un peccato che Galileo scambiò il pianeta di passaggio per una stellina, malgrado l’avesse annotato anche su altri due precedenti schizzi, e gli sfuggì quella che poteva essere anche la sua grande scoperta di quel pianeta, anticipandola di ben oltre due secoli.

La scoperta mancata

La sfortuna volle anche che, forse per via del nuvolo o cattivo tempo, Galileo non puntò il cannocchiale su Giove nelle notti a cavallo dell’inizio anno, proprio quando Nettuno molto avvicinato a Giove finì addirittura occultato dallo stesso nella notte tra giovedì 3 e venerdì 4 gennaio. Il raro fenomeno è quello che motivò i due astronomi citati precedentemente a concentrare la loro ricerca storica sui lavori di Galileo in quel lontano periodo.

In un altro disegno riguardante la mattina di domenica 6 gennaio, c’è segnata una macchiolina poco più in là del satellite Io, riscontrata intenzionale da Anna Maria Nobili nell’esaminarla con un microscopio, sembrò proprio disegnata in un punto in buon accordo con la posizione di Nettuno.

Di tre disegni al riguardo, in quello precedente del 28 dicembre 1612 (quando il pianeta si trovava solitario in un punto un po’ più lontano da Giove), Galileo lo marcò su un breve tratteggio orientato giusto, ma verso un punto che non poteva entrare di misura nel foglietto. In quel caso lo indicò solo con “fixa” ossia come una stella fissa.

Per concludere, bisogna riconoscere come Galileo Galilei sia stato il più grande astronomo di quel tempo, soprattutto per aver riprodotto innumerevoli schizzi, disegni lunari e solari, di stelle e, tra le sue pubblicazioni, il famoso “Sidereus Nuncius”.

Un’indubbia genialità, grande intuizione e un po’ di benevola furbizia, lo hanno portato a creare cannocchiali e osservare e annunciare cose che altri ancora non riuscivano. Purtroppo dovette anche scontrarsi col rassodato doppio millennio d’indottrinamento aristotelico e tolemaico, che però non riuscì a spegnere la luce del suo genio indiscusso.

Scoperta una nuova stella variabile dal Gruppo Astrofili Palidoro

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È stata chiamata MaCoMP_V1, nome derivante dagli acronimi degli scopritori, la nuova stella variabile a 13.500 anni luce da noi nella costellazione del Cefeo

Un’incredibile scoperta da parte del Gruppo Astrofili Palidoro, approvata e certificata dall’American Association of Variable Star Observers (AAVSO) [bollettino consultabile qui].

Un’avventura di 3 anni

credits: Gruppo Astrofili Palidoro www.astrofilipalidoro.it

È il 2019 e alcuni soci del Gruppo Astrofili Palidoro stanno effettuando delle sessioni di ripresa per fotografare la Nebulosa Wizard nella costellazione del Cefeo.

Impiegano circa un mese per ottenere svariate centinaia di immagini che poi in seguito saranno elaborate opportunamente per produrre l’ottima visione finale dell’oggetto NGC7380 ritratto qui sotto.

[Nell’immagine di lato, invece, il telescopio Apocromatico Evostar 80ED con camera ASI 387-MCC utilizzato in questa prima fase d’indagine]

NGC7380 (credits: Gruppo Astrofili Palidoro www.astrofilipalidoro.it)

E’ abitudine tra i componenti del gruppo setacciare tutto il materiale realizzato per scopi di studio e ricerca scientifica e quindi, anche in questo caso, tutti i frame a disposizione ottenuti sul campo della Nebulosa Wizard vengono analizzati minuziosamente.

Una stella “sospetta”

C’è una stella, in particolare, che desta quasi subito l’attenzione. Questa, anche piuttosto luminosa tra le tantissime altre visibili nel campo stellare, mostra, con misure fotometriche, una variazione di luminosità nell’arco di tempo di circa un mese delle sessioni fotografiche.

credits: Gruppo Astrofili Palidoro www.astrofilipalidoro.it

Si rende quindi necessario riprendere ad effettuare riprese sul campo per capire se la variazione di luminosità intravista sia reale o semplicemente un’impressione. A questo punto si mette in campo un telescopio più potente, il Meade LX200R 8”, e camera ATIK TitanMono.

Le riprese proseguiranno per altri 2 anni, registrando più volte significative variazioni di luminosità per quell’anonima stellina dando così il via allo studio del periodo di variazione (tempo di ripetizione ciclico di un fenomeno), utile per la rappresentazione della variabilità in un grafico in funzione della fase (cicli).

 

La scoperta ufficializzata

Ci vorrà circa un anno per studiare il periodo di variazione della luminosità, in quanto, sin da subito, più di un valore risulterà essere valido, mostrando una curva di luce ben definita e inequivocabile.

Per tale motivo si rende quindi necessario un confronto diretto con alcune Survey presenti in letteratura, in particolare le Survey ASAS-SN e ZTF che sono rispettivamente le osservazioni di All-Sky Automated Survey della Ohio State University e le osservazioni del Palomar Observatory in California che confermeranno la veridicità del fenomeno di variazione, suggerendo inoltre univocamente un periodo che si andrà ad amalgamare con le misure effettuate.

L’analisi dei dati termina così a inizio 2022 con l’invio di tutto il lavoro all’American Association of Variable Star Observers (AAVSO) dove sarà analizzato e poi approvato il 25 gennaio 2022.

Gli autori Paolo Giangreco Marotta, Giuseppe Conzo e Mara Moriconi scoprono così una nuova stella variabile a 13.500 anni luce da noi nella costellazione del Cefeo, denominata ora con l’acronimo MaCoMP_V1

credits: Gruppo Astrofili Palidoro www.astrofilipalidoro.it

La stella, secondo il catalogo GAIA, è una gigante rossa e la fotometria effettuata ha rivelato che essa varia la sua luminosità in un lasso di tempo di 24 giorni 18 ore e 14 minuti.

Il lavoro del Gruppo Astrofili Palidoro però non finisce qui, perché partirà uno studio sui dati raccolti che si spera porti alla luce la motivazione di tale variazione di luminosità, oltre a svelare le dimensioni della stella scoperta e altre importanti informazioni su di essa.

Complimenti per questa scoperta da parte di Coelum Astronomia!

Mondi in miniatura – Asteroidi, Febbraio 2022

Antica testimonianza della formazione del sistema Solare, con diametri che vanno da pochi metri fino a raggiungere le centinaia di chilometri, gli asteroidi variano molto in forma, dimensione e conformazione.

Gli asteroidi più grandi [come (4) Vesta] sono plasmati dalla forza di gravità e si pensa possano essere oggetti “differenziati” con una struttura interna a livelli, in cui gli elementi metallici più pesanti si trovano condensati al centro e ne costituiscono un vero e proprio nucleo. Al di sopra del nucleo si ipotizza la presenza di un mantello roccioso, che è a sua volta ricoperto da uno strato più sottile di polvere e frammenti di roccia, la cosiddetta Regolite.

Gli asteroidi più piccoli, quelli con diametro fino ai 150 metri, sono per lo più corpi solidi monolitici di forma irregolare, nati dalla frammentazione a seguito di un impatto di un più grande asteroide progenitore.

Asteroide “Rubble Pile” (credits www.planetpailly.com)

Sopra questa dimensione (tra i 200 metri e i 10 km di diametro) troviamo i cosiddetti asteroidi Rubble Pile, che si ritiene essere principalmente degli agglomerati di polvere e roccia, poco  densi e scarsamente coesi, tenuti insieme da una tenue forza di gravità [(101955) Bennu ne è un esempio]. I Rubble Pile sono nati a seguito di eventi catastrofici, nei quali i frammenti, generati a seguito di un impatto, non sono andati dispersi ma si sono riaggregati, dando così vita ad un nuovo asteroide.

In quest’ultima classe di oggetti le forze che li mantengono coesi sono così deboli che il periodo di rotazione deve essere superiore alle 2,5 h, pena una nuova frantumazione!

Asteroidi binari

Un altro fenomeno interessante è quello degli asteroidi binari (asteroidi accompagnati da un satellite) e la loro origine può essere molto diversa a seconda della zona in cui si sono formati.

Gli asteroidi binari che popolano la fascia sono perlopiù il prodotto di una collisione di natura catastrofica, seguita dalla reciproca cattura dei singoli frammenti a causa della mutua attrazione gravitazionale, oppure di in un grande evento di craterizzazione, con un riaccumulo in orbita di parte del  materiale espulso con l’impatto.

Diversa si ritiene sia l’origine degli asteroidi NEO binari (parleremo più approfonditamente dei Near Earth Object in uno dei prossimi articoli), nei quali, a fronte dell’irraggiamento solare e della successiva riemissione termica (effetto YORP), si può verificare un progressivo aumento della velocità di rotazione, seguita da una dispersione di materiale che viene poi a riaccumularsi in orbita sotto forma di satellite.

Per una piccola percentuale di NEO si pensa che nella formazione di un satellite possa essere implicato un processo di distruzione mareale del corpo, al quale fa quindi seguito  una  fase di riaggregazione.

Immagine ripresa dalla sonda Galileo 14 minuti dopo il passaggio ravvicinato del 28 Agosto 1993. Dactyl è visibile sul lato destro di Ida. Image Credit: NASA/JPL

(243) Ida [32 Km di diametro], asteroide di Fascia Principale scoperto da Johann Palisa il 29 settembre 1884, è stato il primo asteroide conosciuto per avere un satellite naturale, individuato per la prima volta nel 1993 dalla Sonda Galileo e battezzato in seguito Dactyl [1.4 Kilometri di diametro].

(243) Ida è anche membro della famiglia degli asteroidi Koronis, i cui componenti si ritiene siano i frammenti di un più grande asteroide frantumatosi a seguito di una collisione catastrofica, avvenuta pochi milioni di anni fa.

L’osservazione degli asteroidi

Il mese scorso abbiamo accennato a due modalità di ripresa, che consentono rispettivamente di mantenere l’asteroide di aspetto puntiforme, oppure di trasformarlo in una suggestiva striscia luminosa che ne metta in risalto il movimento.

Oggi introduciamo un’ulteriore opzione.

Come ben sappiamo gli asteroidi hanno una velocità angolare che deve essere tenuta in considerazione: prepareremo quindi la nostra sessione osservativa come di consueto, scaricando le effemeridi dal sito dell’MPC (oppure ci affideremo a quelle calcolate da un programma per planetario al quale avremo cura di aggiornare gli elementi orbitali) e all’atto della ripresa calibreremo i tempi di esposizione in modo da mantenere la forma puntiforme dell’oggetto.

In fase di elaborazione delle immagini utilizzeremo però una tecnica di integrazione leggermente differente, che consiste nella somma delle pose sul moto orario (noto) dell’asteoride, invece che sulle stelle. Così facendo otterremo un interessante risultato: con un tempo di ripresa sufficiente, diciamo almeno una 40ntina di minuti, nelle nostre immagini vedremo l’asteroide spiccare come l’unico oggetto di aspetto puntiforme, circondato da un tripudio di piccole striscie luminose (le stelle di campo).

N.B. Il tempo di integrazione appena suggerito si applica bene agli asteroidi di Fascia principale. Nel caso di asteroidi più veloci e meno luminosi (como i NEO), utilizzeremo  tempi di esposizione e di integrazione differenti.

Cosa osservare a Febbraio 2022

L’orbita di (11) Parthenope e la sua posizione al 14/2/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=11-parthenope-a850-ja)

(11) Parthenope

(11) Parthenope è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.400 giorni (3,83 anni) ad una distanza compresa tra le 2,21 e le 2,70 unità astronomiche (rispettivamente, 330.611.293 km al perielio e 403.914.249 km all’afelio).

Deve il suo nome a Parthenope, una delle Sirene nella mitologia Greca che, si narra in una tarda leggenda, morì gettandosi in mare assieme alle sorelle per l’insensibilità del prode Ulisse al loro Canto.

Scoperto da Annibale Gasparis l’11 Maggio 1850, questo grande asteroide (149 km di diametro) sarà in opposizione il 10 Febbraio del 2022. In questo frangente raggiungerà la massima brillantezza con una magnitudine di 10.1. Ipotizziamo quindi di volerlo riprendere tra le notti del 9 e del 13 (Febbraio) quando solcherà il cielo muovendosi di 0,65 secondi d’arco al minuto. Per far si che l’oggetto mantenga un aspetto puntiforme nelle  nostre immagini, dovremo utilizzare dei tempi di esposizione non superiori ai 4/5 minuti. Al fine di ottenere invece la bella traccia che metta in risalto il movimento, dovremo poter esporre (o integrare) per un tempo più lungo e con 40 minuti di posa vedremo (11) Parthenope trasformarsi in una bella striscia luminosa di 26 secondi d’arco.

L’orbita di (20) Massalia e la sua posizione al 4/2/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=20-massalia-a852-sa)

(20) Massalia

(20) Massalia è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.370 giorni (3.75 anni) ad una distanza compresa tra le 2,06 e le 2,75 unità astronomiche (rispettivamente, 308.171.612 km al perielio e 411.394.143 km all’afelio).

È il progenitore della famiglia di asteroidi Massalia che popola le regioni interne della Fascia Principale. Scoperto da Annibale Gasparis il 19 Settembre 1852, questo grande asteroide (145 km di diametro) sarà in opposizione il 4 Febbraio del 2022, momento nel quale raggiungerà la massima luminosità brillando di magnitudine di 8,5.

Il suo moto sarà di 0,65 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto mantenga un aspetto puntiforme nelle  nostre immagini, anche in questo caso, potremo utilizzare tempi di esposizione fino a 4/5 minuti. Per ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (20) Massalia trasformarsi in una bella striscia luminosa di 26 secondi d’arco.

L’orbita di (19) Fortuna e la sua posizione al 22/2/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=19-fortuna-a852-qa)

(19) Fortuna

(19) Fortuna è un asteroide di Fascia Principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.390 giorni (3,81 anni) ad una distanza compresa tra le 2,06 e le 2,83 unità astronomiche (rispettivamente, 308.171.612 km al perielio e 423.361.972 km all’afelio).

Deve il suo nome alla divinità romana Fortuna, dea del caso e del destino. Scoperto da John Russell Hind il 22 Agosto 1852, con i suoi 225 km di diametro è più tra i più grandi asteroidi ad oggi conosciuti. Sarà in opposizione il 22 Febbraio del 2022 brillando ad una magnitudine di 10,6.

Come nei due casi precedenti, il  moto dell’oggetto sarà di 0,65 secondi d’arco al minuto, quindi, con tempi di esposizione fino a 4/5 minuti ne preserveremo l’aspetto puntiforme. Volendo ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (19) Fortuna trasformarsi in una bella striscia luminosa di 26 secondi d’arco.

Acqua liquida su Marte

Il geofisico David Stillman del Southwest Research Institute ha tentato di misurare le proprietà fisiche di alcune miscele di ghiaccio e salamoia al di sotto della calotta glaciale del Polo Sud marziano, ad una temperature di circa – 98 ºC, per provare a confermare l’esistenza di acqua salata in questa area del pianeta. Le misurazioni sono state supportate dal radar MARSIS, montato sulla sonda ESA Mars Express. I risultati sono stati pubblicati recentemente sulla rivista Earth and Planetary Science Letters.

Immagine di Marte con il Polo Sud ghiacciato. Credit: NASA

MARSIS è stato sviluppato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), in collaborazione con la NASA, e con un’antenna di 39,6 m il radar sorvola il pianeta rosso, facendo rimbalzare le sue onde radio sull’area presa in esame. Qualsiasi campione di acqua liquida sulla superficie dovrebbe inviare un chiaro e forte segnale luminoso, a differenza di ghiaccio o roccia che inviano segnali riflessi più piccoli.

A causa delle bassissime temperature della calotta polare, molti scienziati hanno messo in dubbio la presenza di acqua liquida su Marte. L’argilla, sali idrati e ghiaccio salino potrebbero essere invece la spiegazione alla ricezione delle forti fonti luminose catturate da MARSIS. Ma il team internazionale sembra aver trovato un’altra soluzione.

«Sulla Terra laghi di acqua liquida al sotto dei ghiacciai delle regioni artiche e antartiche sono effettivamente presenti», afferma Stillman, «Agglomerati di sali idrati hanno delle incredibili proprietà antigelo e consentirebbero a miscele di ghiaccio e salamoia di rimanere allo stato liquido anche a – 75 °C. Per confermare questa ipotesi, abbiamo studiato la natura di questi sali in laboratorio, verificando quale tipo di segnale avrebbero inviato al radar».

Illustrazione grafica che prova a spiegare come le miscele e ghiacciaio e salamoia riescono a rimanere allo stato liquido nonostante le basse temperature marziane. Credit: NASA

Stillman ha oltre un decennio di esperienza nella misurazione delle proprietà dei materiali a basse temperature. Per il progetto ha studiato le caratteristiche di alcune salamoie di perclorato, settando un sistema di analisi che tenta di riprodurre le temperature di azoto liquido a pressioni simili a quelle di Marte.

«Le ricerche hanno dimostrato che al di sotto del Polo Sud di Marte potrebbero esserci delle salamoie di perclorato e cloruro tra i granelli di ghiaccio, che invierebbero una forte risposta dielettrica al radar MARSIS», prosegue Stillman, «Questo fenomeno è simile a quello che accade sul nostra pianeta, quando l’acqua marina satura i granelli di sabbia sulla costa».

Immagine della calotta polare sud marziana. Credit: NASA

Se la presenza di acqua liquida fosse confermata, si potrebbero anche aprire nuove prospettive per la ricerca di vita extra-terrestre.

Stillman conclude: «’Seguire l’acqua’ ci ha permesso di raggiungere luoghi così freddi da sembrare inospitali per la vita. Sappiamo però che batteri e protozoi (se presenti) possono riservarci parecchie sorprese. Sarà interessante scoprire quali percorsi evolutivi tali microrganismi potrebbero aver intrapreso per sopravvivere in un condizioni ambientali così difficili».

Fonti:

Press Release: https://www.swri.org/press-release/swri-scientist-helps-confirm-liquid-water-beneath-martian-south-polar-cap

Earth and Planetary Science Letters (January 2022): “Assensing the role of clay and salts on the origin of MARSIS basal bright reflections” by Elisabetta Mattei, Elena Pettinelli, Sebastina Emanuel Lauro, David E. Stillman, Barbara Cosciotti, Lucia Marinangeli, Anna Chiara Tangari, Francesco Soldovieri, Roberto Orosei, Graziella Caprarelli.

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