L'uomo su Marte nel 2030“La questione per noi è se questo sia l’inizio o la fine di qualcosa. Io preferisco credere che sia l’inizio”: è solo uno dei passaggi del discorso tenuto il 15 aprile dal presidente Usa Barack Obama al Kennedy Space Center della NASA in Florida, ma rende bene il sapore di tutto il resto. Il Rapporto Augustine, reso pubblico a novembre dello scorso anno, aveva analizzato e messo in fila uno per uno tutti i nodi problematici dei progetti in cantiere e chiedeva alla politica di fare delle scelte. Adesso le scelte sono arrivate. Con delle scadenze precise. La più altisonante, quella che ha suggerito il titolo ai giornali di mezzo mondo, resta sicuramente l’immagine dell’uomo su Marte.
Obama ha detto chiaramente che l’esplorazione umana dello Spazio profondo è l’obbiettivo più importante e che il pianeta rosso verrà raggiunto negli anni Trenta di questo secolo. Il razzo capace di arrivare fin lassù sarà progettato nei prossimi cinque anni, mentre dal 2015 si comincerà a svilupparlo e costruirlo. Nel frattempo si lavorerà al successore dello Shuttle e verranno avviate una serie di partership strutturali coi privati per tutti i trasporti, inclusi quelli umani, nelle orbite basse. Proprio per questo verrà avviata e conclusa entro il 2012 una complessa ristrutturazione di tutto il Kennedy Space Center.
La stop al programma Constellation, che aveva generato negli Stati Uniti infinite polemiche sul futuro della NASA, non significa dunque un ritiro dall’esplorazione umana dello Spazio. Di fatto resta sicuramente escluso dal programma di rilancio della NASA solo il razzo Ares X-1, quello che avrebbe dovuto servire le orbite basse. Mentre il progetto del vettore maggiore (probabilmente assieme allo sviluppo di un propulsore ad energia nucleare) riprenderà sicuramente quota. In termini economici, al budget della NASA si aggiungeranno altri sei miliardi di dollari, di cui 3,1 dedicati proprio alla progettazione del nuovo razzo. Sul piano dell’occupazione, che sta pagando al momento un prezzo molto pesante in Florida (si calcola che il pensionamento dello Shuttle potrebbe costare circa 7mila posti di lavoro) il nuovo programma creerà nel breve termine 2500 nuovi impieghi.
“Se parliamo di esplorazione umana dello Spazio ha dichiarato il presidente dell’ASI Enrico Saggese commentando le dichiarazioni di Obama al quotidiano La Stampa il resto dell’Occidente non può fare a meno della leadership americana”. Ma portare astronauti ad orbite elevate non è certo l’unico modo per osservare l’Universo. “Al di fuori dell’esplorazione umana sottolinea Saggese, riferendosi alle missioni ESA su Marte ExoMars del 2016 e 2018 abbiamo ruoli di leader ( ) questo perché nelle missioni marziane coi robot si spende 500 volte di meno di quelle con esseri umani”. Senza dimenticare, comunque, che “nell’esplorazione umana l’Italia fornisce il 19% di quanto spende l’ESA e cura importanti esperimenti sulla Stazione Spaziale”.
Aggiornamento sulle Missioni ShuttleAggiornamento importante per quanto riguarda le ultime missioni Shuttle.
STS-132 – Atlantis.
Il carico è già in rampa e per questa notte (a partire dalla mezzanotte UTC – le 2 italiane) si prevede il rollout, lo spostamento dello stack completo composto da Orbiter, serbatoio e razzi a propellente solido, fino alla rampa 39/A. Domani è anche previsto l’arrivo dell’equipaggio per i primi test. Se tutto va bene potrebbe esserci un incrocio virtuale fra il Discovery in atterraggio e l’Atlantis in rampa. Ovviamente se il meteo peggiorasse il rollout verrebbe rinviato.
STS-133 – Discovery.
Il probabile rientro di domani porterà la navetta nell’OPF per la preparazione a questa missione che prevede anche l’allestimento del MPLM Leonardo per essere installato permanentemente sulla Stazione Spaziale. Le ultime notizie danno uno spostamento della data di lancio dal 16 settembre ad almeno la metà di ottobre. E’ stato anche annunciato da poco che a bordo della STS-133 sarà presente anche Robonaut-2 (R2), un androide che inizierà ad operare nel laboratorio Destiny per collaudare le ultime applicazioni in campo robotico. Sarà quasi un vero e proprio componente dell’equipaggio grazie alle sue capacità operative molto avanzate e al suo aspetto antropomorfo. Se la sperimentazione andrà bene, R2 potrà successivamente anche spostarsi all’interno della Stazione e in seguito eseguire delle attività extraveicolari.
STS-134 – Endeavour.
Questa è la missione più penalizzata. Il carico principale AMS-2 ha dei problemi legati al rendimento del magnete superconduttore che ne è il cuore.
Gli scienziati addetti alla preparazione si sono resi conto che il magnete della prima versione dell’esperimento era più performante e per permettere un tempo di funzionamento più lungo degli attuali 18 mesi garantiti dall’attuale magnete, hanno deciso di sostituirlo, operazione che porterà via parecchio tempo.
Alla luce di questa decisione il lancio previsto per il 29 luglio è destinato ad essere rinviato. La prima possibilità è rappresentata dal novembre 2010, anche se la contemporanea posticipazione della missione precedente renderebbe i due lanci troppo vicini. Si è quindi fatta strada la possibilità di rinviarla a febbraio 2011, data che probabilmente verrà definitivamente presa in considerazione.
In foto una curiosa situazione che si era creata il 9 agosto 1990, quando il Columbia e l’Atlantis si incrociarono sulla Crawlerway con il primo diretto in rampa ed il secondo che effettuava un rollback nel VAB.
Fonte: NASA.
Quando due galassie collidono tra loro, evento piuttosto comune in un universo ancora giovane, il buco nero supermassiccio della galassia più grande fa i salti di gioia. Si trova infatti improvvisamente a disposizione un’incredibile quantità di gas da poter inghiottire, strada facile facile per una crescita senza problemi. Logico, però, supporre che gas e polveri agiscano anche come efficace schermatura, impedendoci di osservare la frenetica attività e la connessa produzione di energia del buco nero: soltanto dopo che questa coltre si sarà dissolta saremo in grado di osservare un brillante quasar. Il gioco a nascondino era noto, un po’ meno quanto tempo durasse l’oscuramento dei quasar in quei periodi di frenetica acquisizione di materia.
I primi quasar oscurati dalle polveri vennero faticosamente scoperti solamente verso la fine degli anni Novanta e per anni, proprio per la difficoltà a individuarli, gli astronomi ritennero che si trattasse di oggetti celesti estremamente rari. Ora, fortunatamente, non è più così ed è stato dunque possibile tentare un’analisi statistica, mettendo a confronto il numero dei quasar nascosti e di quelli ormai liberatisi dal mantello di polveri. Grazie alle osservazioni di Hubble, Chandra e Spitzer, un team di astronomi è riuscito a determinare che il rapporto tra quasar oscurati e non oscurati è significativamente più elevato nel giovane universo che non in epoche più vicine a noi. Poiché in quei tempi remoti le fusioni tra galassie erano molto più frequenti, è naturale collegare a tali episodi di merging la produzione di quasar.
Mettendo poi in relazione le osservazioni telescopiche con la stima del tasso di fusioni galattiche e i relativi modelli, i ricercatori hanno potuto determinare quanto tempo occorresse perché il buco nero supermassiccio riuscisse a liberarsi dell’involucro di polveri per apparire come un brillante quasar. “Abbiamo trovato spiega Priyamvada Natarajan, docente di Astronomia a Yale e appartenente al team di ricerca che questi buchi neri attivamente impegnati a crescere trascorrono circa metà della loro esistenza nascosti tra le polveri. E’ dunque probabile che finora ci sia sfuggita circa la metà dei buchi neri che si stavano sviluppando nel giovane universo.”
La ricerca è stata pubblicata a fine marzo su Science Express.
I misteri di MimasMimas, curiosa luna di Saturno, non cessa di stupire. I dati termici rilevati dalla sonda Cassini, infatti, mostrano un andamento delle temperature completamente diverso da quello che ci si attendeva.
Perfettamente logico prevedere che per un corpo celeste le regioni che hanno il Sole proprio sulla verticale o sono nel primo pomeriggio presentino una temperatura più elevata. Per Mimas, però, non è così. Nel corso del flyby avvenuto a metà febbraio, lo strumento CIRS (Composite Infrared Spectrometer) a bordo della sonda Cassini ha rilevato le temperature di Mimas ed è emersa una distribuzione misteriosa e curiosa allo stesso tempo. Curiosa perché le immagini fanno assomigliare Mimas a un gigantesco pac-man (mitico protagonista dei videogames ideato da Tohru Iwatani esattamente trent’anni fa). Misteriosa perché proprio non è chiaro a cosa possa essere dovuta.
Si potrebbero associare le differenze di temperatura alle diverse tipologie del terreno, pesantemente modificato dall’impatto che ha creato l’enorme cratere Herschel, ma risulta comunque difficile ipotizzare che quelle variazioni non abbiano risentito del continuo bombardamento di polvere cosmica. A detta degli astronomi, però, un ruolo cruciale potrebbe giocarlo la continua caduta su Mimas di materiale ghiacciato proveniente dall’anello E di Saturno.
Comete e vitaBenché nello spazio abbondino i composti a base di carbonio (i cosiddetti composti organici), come sulla Terra si sia giunti alla sintesi degli amminoacidi e allo sviluppo della vita è ancora un mistero. Alcune teorie parlano di una sorta di brodo primordiale composto da molecole elementari sulle quali hanno agito le scariche elettriche di violenti fulmini, altre collocano la creazione delle molecole organiche direttamente nello spazio. Un recente studio pubblicato su Nature aggiunge ai possibili scenari anche l’impatto radente di una cometa.
Nir Goldman (Lawrence Livermore National Laboratory) e i suoi collaboratori hanno predisposto una serie di simulazioni computerizzate per osservare quali reazioni chimiche potessero verificarsi quando i ghiacci di una cometa fossero stati coinvolti in un evento così estremo come un impatto. Per garantire un minimo di sopravvivenza ai composti eventualmente creatisi grazie alle elevate pressioni e temperature, le simulazioni hanno previsto un impatto radente con il nostro pianeta. La composizione dei ghiacci cometari introdotta nelle simulazioni è un mix di oltre 200 molecole, tra cui acqua, metanolo, ammoniaca e ossidi di carbonio, una composizione comunemente utilizzata dai planetologi per descrivere i ghiacci cometari.
In alcuni casi i ricercatori hanno notato la formazione di numerose molecole caratterizzate da legami tra azoto e carbonio, tra cui l’acido cianidrico e l’urea, e numerosi idrogenioni. Cosa più interessante, le simulazioni hanno mostrato anche composti molto simili alla glicina (il più semplice degli amminoacidi) con appiccicate molecole di anidride carbonica. Secondo Goldman tali composti potrebbero reagire spontaneamente con gli idrogenioni producendo glicina, acqua e anidride carbonica.
In via teorica il meccanismo funziona, ma ora ci si aspetta si vedere grazie a ulteriori calcoli le reali probabilità del suo verificarsi. Senza comunque dimenticarci che le comete in viaggio verso la Terra avrebbero già potuto trasportare al loro interno tali preziosissimi elementi chimici. In tal caso l’unico elemento davvero necessario sarebbe un impatto il meno energetico e distruttivo possibile.
La corsa dei flussi solariIl moto del plasma solare non è completamente caotico. All’interno del Sole, infatti, vi sono due imponenti correnti di plasma una nell’emisfero settentrionale e l’altra in quello meridionale denominate Great Conveyor Belt. Secondo gli astrofisici sarebbero queste circolazioni di materia a regolare il ciclo delle macchie solari.
Recenti misurazioni della velocità di circolazione della corrente nord effettuate da David Hataway (NASA) grazie agli strumenti dell’osservatorio solare orbitante SOHO (Solar and Heliospheric Observatory) hanno mostrato i valori più alti degli ultimi cinque anni. Abituati in ambito astronomico a valori limite, conviene subito quantificare la velocità di questo flusso di plasma per evitare fraintendimenti: si parla di valori compresi tra i 10 e i 15 metri al secondo (tra i 36 e i 54 km/h), velocità che un buon pedalatore potrebbe tranquillamente sostenere. Per completare un ciclo completo, insomma, ciascuna delle due correnti impiega una quarantina d’anni.
Le misure di Hataway, però, hanno portato con sé un paio di grosse sorprese. La prima riguarda proprio le macchie solari. Secondo i modelli correnti sarebbero queste correnti di plasma a determinare la produzione di macchie e una velocità più elevata dovrebbe coincidere con una maggiore produzione di macchie. Qualcosa, però, non quadra: il Sole, infatti, sta attraversando un lunghissimo periodo caratterizzato dalla pressoché completa assenza di macchie solari. La Great Conveyor Belt, insomma, non sarebbe la causa delle macchie solari, ma agirebbe piuttosto come inibitore della loro produzione.
La seconda sorpresa riguarda la componente più profonda della corrente di plasma. Benché si tratti di misurazioni estremamente delicate (riguardano flussi di plasma a 200 mila chilometri di profondità), si è visto con chiarezza che mentre la componente superiore scorre a velocità record, quella inferiore è caratterizzata da velocità estremamente basse. Una misteriosa contraddizione, dunque.
Come ha sottolineato lo stesso Hataway, insomma, i nuovi dati sfidano gli attuali modelli del ciclo solare e impongono di provare a proporne di alternativi.
Dato che circa il 23% dell’universo è costituito dalla enigmatica materia oscura, riuscire a tracciarne la presenza sarebbe un gran bel colpo per gli astronomi. Xavier Hernandez e William Lee, astronomi dell’UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico), hanno appena pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society uno studio teorico che potrebbe risultare davvero molto utile.
Attraverso simulazioni numeriche i due ricercatori hanno provato a determinare in che modo i buchi neri massicci posti al centro delle galassie possano assorbire la materia oscura e hanno scoperto che il ritmo di assorbimento è molto sensibile alla quantità di materia oscura che si trova nei pressi del buco nero. Se tale concentrazione supera la densità critica di sette masse solari per anno luce cubico, la massa del buco nero cresce così rapidamente e il quantitativo di materia oscura ingoiato è così elevato da rendere in breve tempo l’intera galassia irriconoscibile.
Le simulazioni, inoltre, mostrerebbero che la densità della materia oscura nelle regioni centrali delle galassie tenderebbe a un valore costante. Secondo Hernandez e Lee, però, qualche differenza tra le loro conclusioni e i modelli correnti di evoluzione dell’universo potrebbero rendere necessario un aggiustamento delle modalità di comportamento della materia oscura.
La caccia alla vera natura della materia oscura, insomma, è ancora piuttosto lontana dalla sua conclusione.
L'affidabilità del CO e del Calcio IINello studio dell’evoluzione dell’universo è fondamentale saperne il più possibile dei meccanismi che hanno portato alla costruzione delle galassie. Una tra le proprietà critiche di cui poter disporre è la massa delle galassie, un parametro che si può dedurre studiando il moto delle stelle che le compongono.
Le misure solitamente impiegate, soprattutto per le galassie più splendenti nell’infrarosso (le cosiddette LIRG Luminous InfraRed Galaxies e ULIRG Ultra Luminous InfraRed Galaxies), coinvolgono osservazioni delle linee di CO nel vicino infrarosso. Tali osservazioni, però, portano a valutazioni molto dissimili da quelle ottenute nel dominio visibile osservando le linee del tripletto del calcio II. Le osservazioni infrarosse, infatti, forniscono sistematicamente una valutazione inferiore della massa e il dubbio degli astronomi era se questo fosse dovuto a una particolare caratteristica delle LIRG e ULIRG studiate oppure dipendesse dalle osservazioni del CO.
Per venirne a capo, Barry Rothberg e Jacqueline Fischer (Naval Research Laboratory) si sono affidati alla vista acuta del telescopio Gemini e al suo spettrografo GNIRS (Gemini Near-InfraRed Spectrograph). Le loro osservazioni, recentemente pubblicate su Astrophysical Journal, hanno mostrato che all’origine delle differenti valutazioni sono proprio alcune particolarità delle valutazioni del CO nel vicino infrarosso, risultate inaffidabili per ricostruire la massa delle LIRG e delle ULIRG. Le intense emissioni infrarosse di questi sistemi, infatti, provengono dall’ambiente polveroso che accompagna la formazione stellare e, poiché le misurazioni del CO sono estremamente sensibili a queste stelle più giovani, si finisce col rilevare solo le curve di rotazione di queste ultime, giungendo così a una valutazione della massa della galassia sensibilmente inferiore.
Le osservazioni del tripletto del calcio II, invece, non riescono a penetrare la coltre polverosa delle regioni centrali, dunque le misurazioni delle velocità di dispersione conducono a una massa più corretta. Una volta sparita l’influenza delle giovani stelle e della regione polverosa che le avvolge, le valutazioni suggerite dal CO e dal calcio sono consistenti tra loro.
Una sconvolgente catastrofeLa galassia SMM J1237+6203 si trova in direzione della costellazione dell’Orsa Maggiore. E’ talmente lontana che la sua luce ha impiegato 10 miliardi di anni per giungere fino a noi. Un lunghissimo viaggio per riuscire a portarci la notizia, almeno stando alla ricostruzione di un team di astronomi, di una catastrofe senza precedenti.
Utilizzando il Gemini NIFS (Near-Infrared Integral Field Spectrometer), Dave Alexander (Durham University) e i suoi collaboratori hanno misurato le velocità dei materiali di quella galassia. Hanno così scoperto l’esistenza di flussi talmente intensi da permettere al gas che alimenta la formazione stellare di sfuggire all’attrazione gravitazionale della galassia. Secondo i ricercatori questi flussi di materia sono talmente vasti e le energie in gioco talmente elevate da riuscire a bloccare definitivamente in SMM J1237 ogni processo di formazione stellare.
All’origine di quelle potenti espulsioni di materia vi sarebbe una serie ininterrotta di spaventose deflagrazioni che hanno squassato la galassia per milioni di anni al ritmo forsennato di un’esplosione al secondo. Sul banco degli imputati potremmo far sedere sia il supermassiccio buco nero centrale della galassia, sia una terribile sequenza di supernovae.
“Di fatto – ha commentato Alexander – quella galassia ha attivato un meccanismo di regolazione della sua crescita e non si tratta di un evento isolato. Siamo infatti convinti che anche altre galassie nell’universo ancora giovane hanno visto bloccata la loro crescita da meccanismi analoghi”.
Un ulteriore promemoria che l’universo non è affatto quel posticino tranquillo che potremmo essere indotti a pensare, magari sviati dalle bucoliche condizioni che sperimentiamo qui sulla Terra.
Gliese 710 in agguatoFinalmente un nuovo filone di catastrofismo astronomico. Ormai gli asteroidi killer sono passati di moda e manca davvero poco al flop della fantastica accoppiata tra Nibiru e il calendario dei Maya. A far sorgere un nuovo filone purtroppo con un fondamento di verità ci hanno pensato la correzione delle misure di distanza del satellite Hipparcos e le simulazioni numeriche di Vadim V. Bobylev (Pulkovo Astronomical Observatory).
La vicenda inizia una decina d’anni fa, allorché Joan García-Sánchez (Jet Propulsion Laboratory) e altri ricercatori si accorsero che Gliese 710, una piccola stella arancione di decima magnitudine nella costellazione del Serpente, sarebbe passata dalle parti del nostro Sistema solare. I calcoli, basati sulle distanze determinate dal satellite Hipparcos, indicavano che tra circa un milione e mezzo di anni Gliese 710 sarebbe transitata a 1,3 anni luce dal Sole. La distanza e le ridotte dimensioni della stella (poco più della metà del nostro Sole) mettevano i nostri discendenti abbastanza al sicuro. García-Sánchez e il suo team stimarono che la perturbazione indotta nella Nube di Oort da quell’incontro avrebbe aumentato solo del 10% le probabilità per il nostro pianeta di finire nel mirino di una cometa a lungo periodo. Nulla di particolarmente eclatante, dunque.
Recentemente, però, le distanze di Hipparcos sono state corrette e Vadim Bobylev si è preso la briga di fare nuovamente due conti sull’avvicinamento di Gliese 710. Le numerosissime simulazioni computerizzate effettuate dall’astronomo russo hanno confermato una probabilità dell’86% di un passaggio attraverso la Nube di Oort, ma hanno anche indicato uno scenario ben più allarmante. Dai dati numerici, infatti emerge anche la possibilità di un incontro molto più ravvicinato: un transito a soli 0,02 anni luce, dunque a circa un migliaio di unità astronomiche dal Sole.
Le probabilità che questo accada sono solamente una su 10 mila, sufficienti comunque a indurci con terrore a immaginare quello che tra un milione e mezzo di anni potrebbe capitare al nostro Sistema solare. Per i futuri abitanti della Terra tornerebbero all’improvviso di moda le comete e gli asteroidi killer…
Una stella davvero anticaPer determinare quanto vecchia possa essere una stella, gli astronomi cercano di risalire alla sua composizione chimica. Il loro obiettivo è valutare quale sia l’abbondanza dei metalli, cioè gli elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. Poichè tale abbondanza rispecchia la disponibilità di questi elementi chimici al momento della formazione della stella, più una stella è antica e più risulterà povera di metalli.
Andare a caccia di stelle così vecchie, però, non è impresa facile. Anna Frebel (Harvard-Smithsonian CfA) e i suoi collaboratori, convinti che i metodi finora impiegati non fossero completamente affidabili, hanno provato a seguire una strada differente. Anzichè osservare una stella per volta, hanno ideato un sistema che permettesse loro di stimare in un unico colpo le abbondanze metalliche di un gran numero di stelle. Hanno poi rivolto la loro attenzione alla popolazione stellare della galassia nana dello Scultore, posta a 290 mila anni luce di distanza. All’origine della scelta il fatto che, essendo le galassie nane i blocchi elementari dai quali si sono formate quelle più grandi, è altamente probabile che contengano anche la popolazione stellare più antica.
Il nuovo metodo ha dato i suoi frutti: in mezzo alle vecchie stelle di quella galassia, infatti, i ricercatori hanno individuato un astro di gran lunga più vecchio degli altri. Le misure spettroscopiche di una stellina di 18a magnitudine denominata S1020549 effettuate con il telescopio Magellan-Clay a Las Campanas in Cile hanno indicato che si era in presenza di un astro incredibilmente povero di metalli. In S1020549, infatti, l’abbondanza di metalli era cinque volte inferiore a quella rilevata finora nelle stelle di una galassia nana, circa 6000 volte inferiore a quella che si osserva per il Sole.
“E’ probabile che questa stella sia vecchia quasi come lo stesso universo” – ha commentato la Frebel. Forse non è proprio così: S1020549 non può certo appartenere alla prima generazione di stelle, ma le probabilità che appartenga a quella immediatamente successiva sono davvero molto elevate.
La magnetar non si svelaEntrato ufficialmente in servizio nel luglio scorso, il Gran Telescopio CANARIAS detiene il record del più grande telescopio ottico al mondo (10,4 metri di diametro). La sua sensibilità eccezionale ne fa lo strumento ideale per osservare gli oggetti più elusivi, tra i quali figurano a pieno titolo le magnetar.
Con questo termine (sostanzialmente “stelle magnetiche”) vengono indicate rarissime stelle di neutroni caratterizzate da un campo magnetico eccezionalmente intenso. Nella nostra galassia ne conosciamo sei e si presume ve ne possa essere al massimo una ventina. La loro individuazione è dovuta a spaventosi sussulti che ne squarciano la crosta più esterna quando il campo magnetico si riconfigura. In tale occasione la magnetar emette incredibili energie soprattutto nel dominio X e gamma.
Lo scorso giugno i due osservatori spaziali Swift e Fermi hanno rilevato un’intensa emissione proveniente dalla magnetar SGR 0418+5729, una ghiotta occasione per osservarne l’emissione anche nell’ottico e carpirne qualche segreto. Occasione che Paolo Esposito (IASF-INAF di Milano) e il suo team internazionale non si sono lasciati sfuggire. La campagna osservativa ha tenuto sotto controllo un’ampia gamma di lunghezze d’onda e si è protratta per 160 giorni. Nonostante l’impiego del telescopio più grande al mondo e del suo fantastico spettrografo OSIRIS (Optical System for Imaging and low-Intermediate-Resolution Integrated Spectroscopy), però, la radiazione luminosa di SGR 0418+5729 è risultata troppo debole per essere registrata.
Un apparente buco nell’acqua, dunque. Ma la cosa non ha affatto scoraggiato Esposito: “Anche il fatto di non aver osservato nell’ottico questo oggetto – ha commentato – è per noi fonte di preziose informazioni su di esso”. Queste indagini, le più approfondite mai ottenute finora per una simile sorgente, possono infatti fornire agli astronomi preziose e stringenti informazioni sui limiti delle caratteristiche fisiche di questa elusiva classe di corpi celesti.
L'Enterprise tornerà a volareCome saprete tutti, gli Space Shuttle sono alla fine della loro onorata carriera ed una volta eseguito il loro ultimo volo verranno consegnati a dei musei per entrare definitivamente nella storia passata.
Uno degli orbiter, nella fattispecie il Discovery, è già stato assegnato allo Smithsonian di Washington.
Ma in quel museo hanno già la prima navetta che abbia mai volato: l’Enterprise. Anche se ha eseguito solo dei voli atmosferici, è stato il primo veicolo spaziale alato a volare in atmosfera ed atterrare come un aliante.
E alla NASA si sono chiesti: cosa se ne fa lo Smithsonian di due orbiter?
Nulla!
Allora uno dei due lo possiamo assegnare ad un altro museo.
Altro problema: come lo portiamo via di lì?
L’Enterprise è fermo dal 1985, anno in cui è stato consegnato al museo per essere esposto al pubblico e non è detto che sia ancora in grado di sopportare il viaggio in groppa al 747 SCA, quindi è necessario verificare tutti i punti di aggancio e i dispositivi dell’avionica di bordo necessari per il volo di trasferimento. E per far questo sono stati inviati 12 tecnici dal Kennedy Space Center, 12 dei migliori che si occupano da anni della manutenzione alle navette, e li hanno mandati a Washington per controllare Enterprise.
Dopo due settimane di controlli hanno detto che lo Shuttle è in perfetta forma e che 25 anni di fermo non gli hanno assolutamente fatto perdere lo smalto di un tempo.
Non è ancora stato deciso dove verrà inviato Enterprise, ma ora sappiamo che potrà sicuramente volare ancora una volta.
Nella Foto: il battesimo del primo Shuttle, l’Enteprise, quando era presente quasi tutto l’equipaggio della USS-Enterprise NCC-1701, cioè quella di Star Trek.
Fonte: NASA.
Grandi stelle e campi magneticiDa tempo gli astronomi sanno che i campi magnetici sono fondamentali nella formazione delle stelle di piccola massa come il nostro Sole. Il sospetto era che questa azione così importante fosse presente anche per le stelle più massicce, ma mancava la prova. Grazie alle osservazioni radioastronomiche del team di Wouter Vlemmings (Università di Bonn), però, sembra proprio che ora queste prove siano finalmente arrivate.
Per determinare la struttura tridimensionale del campo magnetico di una grande stella in formazione, i ricercatori hanno utilizzato MERLIN (Multi-Linked Radio Interferometer Network), la rete di sette radiotelescopi distribuiti intorno al Regno Unito controllata dall’Osservatorio di Jodrell Bank. La stella presa di mira da Vlemmings e collaboratori è Cepheus A HW2, una massiccia protostella distante 2300 anni luce appartenente alla regione di formazione stellare Cepheus A. Precedenti osservazioni avevano rivelato la presenza di un disco di gas i cui materiali cadevano verso HW2. Le nuove osservazioni hanno permesso di scoprire che, nonostante questo massiccio trasferimento di materia, il campo magnetico è sorprendentemente regolare, chiara indicazione che è proprio il campo magnetico a fare da controllore del processo.
La determinazione della distribuzione del campo magnetico è stata possibile raccogliendo e analizzando la sua azione sull’emissione dei maser al metanolo attivi nella nube intorno alla protostella. Anche in presenza di campi magnetici molto intensi la traccia lasciata nell’emissione maser è davvero debole e solo l’impiego dell’interferometria con MERLIN ha reso possibile la corretta identificazione.
“Grazie alle nuove tecniche impiegate – ha sottolineato Huib Jan van Langevelde, coautore dello studio e direttore del JIVE (Joint Institute for Very Long Baseline Interferometry in Europe) – è stato possibile per la prima volta misurare il campo magnetico attorno a una protostella di grande massa. E abbiamo potuto vedere come la sua struttura sia sorprendentemente simile a quella presente nella formazione delle stelle più piccole.”
Per ulteriori conferme sono già state proposte altre campagne osservative rivolte a protostelle di grande massa in diversi stadi della loro formazione. Queste nuove osservazioni, tra l’altro, potranno contare sulle aumentate potenzialità della rete di radiotelescopi (MERLIN diventerà e-MERLIN), in grado di offrire una sensibilità dieci volte superiore.
Phobos da vicinoLa campagna di Phobos è entrata nel vivo. Il piano di volo della Mars Express prevede ben 12 sorvoli del misterioso satellite di Marte e la speranza è quella di venire a capo delle sue incongruenze. A prima vista Phobos sembra un oggetto compatto e massiccio, ma le analisi dei dati raccolti in occasione di precedenti incontri con sonde spaziali indicano che è tutt’altro che compatto.
Secondo i calcoli dei planetologi avrebbe una “porosità” del 25-35%. Si tratterebbe, cioè, di un agglomerato di materiali rocciosi di ogni dimensione nel quale sarebbero però presenti grandi e numerose cavità. Una struttura molto diffusa tra gli asteroidi: gli astronomi la indicano con il termine di “rubble pile”, mucchio di detriti.
L’idea corrente è che Phobos appartenga alla seconda generazione degli oggetti del Sistema solare. Non si sarebbe formato, cioè, dalla nube di polveri originaria che circondava il Sole e dalla quale è nato il suo pianeta, ma sarebbe apparso solo in un secondo tempo. Ancora da chiarire, comunque, la regione della sua formazione. I dati spettrali, infatti, indicherebbero una composizione molto simile a quella degli asteroidi di classe C o D, il che suggerirebbe una sua cattura da parte del Pianeta rosso.
Il sorvolo da parte della Mars Express avvenuto nei primi giorni marzo ha portato la sonda a transitare a soli 67 chilometri dalla superficie di Phobos e i dati raccolti in tale occasione si spera riescano a rispondere alle domande che riguardano sia la formazione di questa misteriosa luna sia la sua struttura interna.
Se la nascita di Phobos è avvolta nel mistero, non così la sua fine. Nel futuro di questo satellite, infatti, vi è un lento ma inesorabile avvicinamento al suo pianeta finchè, disgregato dalle forze mareali di Marte, ritornerà quel nugolo di detriti che fu in origine.
Per lo Shuttle non tutto è perdutoQualcuno aveva affermato l’impossibilità di estendere il Programma Shuttle dato che le linee dei componenti erano ormai definitivamente chiuse. Il Responsabile del Programma ha detto martedì che è “un grande equivoco”, aprendo quindi la porta ad un eventuale estensione dei voli shuttle oltre l’attuale limite di pensionamento, stabilito in settembre 2010.
In effetti la richiesta è partita dal congresso per ottenere un allungamento dell’operatività delle navette, ma il costo corrispondente sarebbe di circa 200 milioni di dollari al mese, equivalenti a 2,4 miliardi all’anno.
Le linee di produzione dei componenti potrebbero ripartire, anche se ci vorrebbero circa due anni da quando si ha la richiesta ufficiale al completamento del primo serbatoio esterno.
Attualmente sono previste ancora 4 missioni Shuttle e i componenti per una quinta sono già disponibili (quelli per un eventuale lancio di soccorso per l’ultima missione) quindi dilatando un po’ i tempi si riuscirebbe a rendere più costante la presenza americana nello spazio: in fondo 5 missioni in due anni non sono un cattivo risultato, sicuramente migliore di nessuna missione in cinque anni
La chiusura del programma Space Shuttle è stata stabilita dal presidente Bush nel 2004 quando ha dato il via al programma Constellation. Da allora sono cambiate molte cose, l’ultima delle quali è stata la cancellazione del Constellation a causa dei ritardi e della poca innovazione di questo sistema.
La cancellazione voluta da Obama e sancita nel bilancio ufficiale previsto per il 2011, ha però reso evidenti quei problemi di ritardo nello sviluppo di un nuovo trasporto umano verso lo spazio.
Dal canto suo, la presidenza ha dato il via alle aziende private aprendo i finanziamenti per chi decide di sviluppare dei sistemi di trasporto spaziale da offrire poi alla NASA. Questo sprone dovrebbe innescare un sistema virtuoso in cui una sorta di concorrenza spinge diverse aziende a creare il veicolo più sicuro ed economico da proporre all’agenzia spaziale americana. Anche i 9000 esuberi alle attività produttive interne alla NASA stessa, dovrebbero venir assorbiti dalla maggior richiesta proveniente dall’ambito privato.
Teniamo presente che il famoso Budget 2011 previsto, non ha subito nessun taglio, anzi è stato incrementato rispetto a quello dell’anno precedente. Gli investimenti che non fanno più parte dei programmi cancellati saranno reindirizzati sulla ricerca e sviluppo delle tecnologie necessarie per fare in modo che i futuri sistemi di trasporto possano basarsi su reali innovazioni, in grado di portarci nello spazio in modo più veloce, più sicuro e più economico.
Ricapitolando, John Shannon, lo Shuttle Program Manager al Johnson Space Center di Houston dice chiaramente che gli unici problemi sono il riavvio delle catene di produzione dei componenti e la ricertificazione degli Orbiter.
Per il primo problema non c’è nessun grosso impedimento grazie al fatto che i grossi appaltatori del sistema Shuttle sono tutte industrie che non lavorano esclusivamente per la NASA. Per esempio la North Carolina Foam Industries, quella che costruisce il rivestimento in schiuma del serbatoio esterno, è uno dei principali produttori continentali di materiali d’isolamento termico e quindi per loro il contratto con la NASA è una parte trascurabile della loro produzione. E così per molte altre aziende. Per loro si tratterebbe solo di ripristinare delle linee di produzione e nulla più.
Per la ricertificazione delle navette occorre aprire una piccola parentesi che riguarda la richiesta iniziale effettuata dalla commissione d’inchiesta sull’incidente del Columbia. Ufficialmente il CAIB (Columbia Accident Investigation Board) ha richiesto chiaramente che le navette dovevano essere ricertificate se avessero dovuto volare dopo il 2010. Però dal 2005 i cicli di manutenzione applicati agli Shuttle sono giunti a livelli di precisione e scrupolosità da garantirne una ricertificazione continua, infatti molti particolari vengono sostituiti durante ogni intervento che si esegue normalmente fra una missione e l’altra. Ad ogni ciclo di manutenzione vengono aggiunti una media di 23 nuovi punti di ispezione fra i componenti degli Shuttle. Sotto questo aspetto le vecchie navette possono essere paragonate a dei B-52 che sono operativi da oltre 50 anni e rimangono dei veicoli estremamente sicuri.
Vedremo cosa succederà. Per ora queste affermazioni si uniscono alle centinaia che abbiamo già sentito negli ultimi mesi, anche se, pronunciate dal Manager del Programma Shuttle, hanno un certo peso.
E a quanto pare il fatto di restare senza quella sudata supremazia spaziale inizia a dare fastidio a molti Americani!
Intanto ad aprile è previsto un viaggio di Obama in Florida per una conferenza incentrata sul nuovo approccio della sua amministrazione verso i voli spaziali abitati.
Il dubbio era se il tasso più elevato di produzione stellare nelle giovani galassie dipendesse da una maggiore disponibilità di materiale oppure se, in qualche modo misterioso, l’evoluzione dei sistemi stellari avesse portato con sé una minore efficienza dei meccanismi fisici che governano la formazione stellare.
Per provare a vederci più chiaro, un team internazionale di ricercatori ha utilizzato le informazioni raccolte in precedenti studi – un’indagine riguardante circa 50 mila galassie – per selezionarne un campione che potesse correttamente rappresentare una popolazione media di galassie.
Successivamente hanno puntato su questo campione numerosi telescopi, non limitandosi al solo dominio visibile ma spingendosi anche nell’infrarosso e oltre. Osservare queste galassie nell’infrarosso e analizzare il loro spettro radio, infatti, era l’unico modo per i ricercatori di riuscire a rendere “visibile” la loro componente gassosa, assolutamente invisibile nel dominio ottico.
Lo studio, pubblicato su Nature in febbraio, ha mostrato che le galassie più antiche della Via Lattea potevano contare su una disponibilità di gas superiore a quella attuale della nostra galassia. Secondo i ricercatori, una tipica galassia nel giovane universo poteva contenere una quantità di gas molecolare da tre a dieci volte maggiore di quanto si osserva nelle galassie attuali.
Non c’è bisogno, dunque, di invocare leggi fisiche diverse per la produzione stellare nelle antiche galassie, più semplicemente c’era una maggiore quantità di materia prima alla quale attingere.
Orbital Test Vehicle 1 in FloridaL’Orbital Test Vehicle, lo spazioplano delle forze aeree statunitensi ha raggiunto la base di Cape Canaveral a bordo di un aereo cargo.
Inizia ora la preparazione finale per il lancio previsto per il 19 aprile. Lungo nove metri e largo 4,5 verrà inserito nel fairing da 5 metri di diametro ed agganciato al vettore Atlas 5.
Lo sviluppo dell’X-37B (così si chiamava in origine il progetto NASA) è iniziato nel 1999 e nel 2001 alcuni prototipi in scala eseguirono già dei test di collaudo. Ed è qui che si inserisce l’aviazione americana; infatti nel settembre 2004 il progetto si sposta all’Air Force e passa sotto il controllo del DARPA.
E non venne abbandonato. Nel 2007 vennero eseguiti una serie di test di rientro partendo dall’aereo madre della Scaled Composites, il Whithe Knight.
Questa sarà la prima missione di una nuova classe di veicoli, i piccoli spazioplani non abitati e quindi esclusivamente pensati per il trasporto cargo.
Dopo la partenza effettuerà manovre orbitali e al termine porterà le sue cinque tonnellate di peso a planare dolcemente sulla pista della base di Vandenberg.
Nessuna risposta dalla Phoenix Mars LanderOrmai per Phoenix Mars Lander il peggio dovrebbe essere passato. I dati che Mars Odissey sta trasmettendo indicano che la situazione ambientale sta migliorando e i ghiacci superficiali depositatisi nel corso del lungo e rigido inverno marziano stanno lentamente scomparendo. Dovrebbe dunque essere il momento del risveglio per il lander, sempre ammesso che i suoi circuiti abbiano superato indenni l’ardua prova invernale.
Giunto su Marte il 25 maggio 2008, Phoenix si è comportato ottimamente riuscendo a lavorare per quasi due mesi oltre il termine fissato per la sua missione originaria. Il sopraggiungere dell’inverno e la ridotta insolazione, con la conseguente impossibilità di ricaricare correttamente le batterie, hanno poi imposto la cessazione di ogni attività in attesa del ritorno della bella stagione.
Benché Phoenix non sia stato espressamente progettato per resistere alle basse temperature dell’inverno marziano, il suo software prevede comunque che, nel caso in cui il lander riesca a disporre di energia sufficiente, lanci periodicamente un segnale radio. La speranza è che quel segno di risveglio dal letargo possa essere raccolto da un orbiter di passaggio e ritrasmesso a Terra.
Finora, purtroppo, i sorvoli da parte di Mars Odissey della zona in cui ha svernato Phoenix non hanno portato a nessun risultato. Se i 60 sorvoli previsti nelle prime due fasi di questa campagna di ascolto non avranno portato buone notizie bisognerà attendere i primi giorni di aprile. Per quell’epoca il Sole sarà costantemente sopra l’orizzonte e Phoenix, se ancora operativo, non dovrebbe avere più problemi di ricarica delle sue batterie.
Se neppure ad aprile, poi, dal lander non dovesse giungere l’atteso segnale, avremmo purtroppo l’amara conferma che l’inverno marziano è stato per Phoenix una prova al di là delle sue possibilità.
Le due aurore di SaturnoOgni 15 anni, per effetto della sua orbita intorno al Sole e dell’inclinazione del suo asse, Saturno si presenta alla nostra osservazione con gli anelli praticamente invisibili offrendoci inoltre la possibilità di scorgere entrambe le sue regioni polari. Una situazione rara e scientificamente ricca di opportunità che gli astronomi non si sono lasciata sfuggire.
Utilizzando il telescopio spaziale Hubble, infatti, hanno catturato una sequenza di immagini che hanno permesso loro di confrontare il comportamento dei due poli di Saturno scoprendo caratteristiche finora sconosciute. Tra gennaio e marzo 2009, dunque, Hubble ha raccolto dati importanti sulle caratteristiche aurore polari del pianeta, dati che ci consegnano informazioni cruciali sulla natura del campo magnetico di Saturno e sui meccanismi che accendono questi spettacoli luminosi.
Neppure per il nostro pianeta possiamo per il momento disporre di una simile copertura osservativa e per questo gli astronomi confidano di poter ottenere dall’analisi della situazione di Saturno preziose informazioni valide anche per la Terra.
Benché in prima analisi le aurore polari di Saturno possano sembrare simmetriche, i dati di Hubble hanno indicato sottili differenze tra i due emisferi. L’ovale dell’aurora settentrionale, infatti, è leggermente più piccolo e più intenso di quello meridionale, una asimmetria che indica un campo magnetico planetario non uniforme, più intenso al nord che al sud. Questa differente intensità fa sì che al nord le particelle cariche vengano accelerate a energie più elevate rispetto a quanto avvenga in corrispondenza del polo meridionale.
Quasar binari e incontri di galassieDa tempo gli astronomi erano convinti che i quasar binari, come pure gli altri quasar, fossero un risultato diretto dei fenomeni di fusione tra galassie. Questa convinzione, però, non poteva appoggiarsi su nessuna osservazione concreta: finora, infatti, non era mai stata individuata la presenza di quasar binari in galassie che erano sicuramente coinvolte in processi di merging.
Recenti immagini acquisite dal telescopio Baade-Magellan, in servizio presso l’osservatorio cileno di Las Campanas, hanno però colmato questa lacuna. Le riprese acquisite da John Mulchaey (Carnegie Institution), infatti, hanno dimostrato che i due quasar noti come SDSS J1254+0846 si trovano all’interno di due galassie caratterizzate da due “code” allungate, chiaro risultato della reciproca interazione gravitazionale. Una ulteriore conferma è venuta anche da dettagliate analisi spettrali.
Una teoria che sta riscuotendo sempre più consensi prevede che siano proprio i fenomeni di merging tra le galassie, moltiplicando il tasso di accrezione del materiale da parte dei buchi neri che risiedono al loro centro, i diretti responsabili della creazione di energetici quasar. Poiché, però, tali aggregazioni tra le galassie sono avvenute nel lontano passato, la loro individuazione richiede osservazioni davvero al limite delle possibilità strumentali.
Una conferma indiretta che le due galassie sono realmente coinvolte in un processo di merging è venuta anche dalle simulazioni computerizzate predisposte da Thomas Cox (Carnegie Observatories). I modelli computerizzati, infatti, mostrano strutture caratteristiche davvero molto simili a quelle osservate nelle immagini raccolte dal telescopio Baade-Magellan.
Endeavour: missione compiutaLo Shuttle Endeavour, con a bordo il suo equipaggio di sei astronauti, è regolarmente rientrato al Centro Spaziale Kennedy di Cape Canaveral il 22 febbraio alle 22:20, quando in Italia erano le 4:20. La missione Sts-130, cominciata due settimane fa con un ritardo di 24 ore dovuto alle avverse condizioini metereologiche, si è dunque conclusa nel migliore dei modi. Gli astronauti Bob Behnken e Nicholas Patrick avevano terminato l’ultima delle tre passeggiate spaziali in programma alle 9:03 del 17 febbraio scorso (ora italiana), perfezionando le operazioni di aggancio e istallazione dei due nuovi elementi della Stazione Spaziale Internazionale. Il nodo Tranquillity e la Cupola erano stati spostati dal payload alle 9:49, sempre ora italiana, del 12 febbraio scorso.
Lo Shuttle, lanciato dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral, si era regolarmente agganciato alla Stazione Spaziale Internazionale due giorni dopo, alle 6:06 del 10 febbraio. “Davvero un bel lancio – commentava l’Associated administrator per le missioni spaziali della NASA Bill Gestermaier – e un grande inizio di una missione così complessa”. Il direttore generale dell’ESA Jean-Jacques Dordain ha ringraziato la NASA, il team di terra e l’equipaggio, sottolineando che “si tratta di un evento particolarmente importante perché lo Shuttle stavolta è pieno di hardware europeo”. Quello di lunedì scorso è stato l’ultimo lancio in notturna dello Shuttle: le prossime quattro missioni partiranno tutte di giorno.
A bordo il suo preziosissimo carico: il terzo modulo per la Stazione, il Nodo-3 ribattezzato “Tranquillity” la scorsa primavera in omaggio alla missione Apollo 11. Un cilindro lungo 7 metri e largo 4,6 pieno di tecnologia e corredato di una gran quantità di cose: da una vera e propria palestra a un sistema per ricavare acqua potabile dall’urina e un avanzatissimo impianto di ricondizionamento dell’aria. Ma soprattutto dotato di una spettacolare Cupola a sette finestre che spalancherà alla vista degli inquilini della ISS un panorama spaziale a 360 gradi mai visto prima.
Tranquillity è stato interamente realizzato negli stabilimenti torinesi di Thales Alenia Space ed è parte dell’accordo NASA-ESA del 1997 (firmato proprio nel capoluogo piemontese) che impegnava l’Agenzia Spaziale Europea a fornire alla ISS il secondo e terzo dei tre moduli abitativi previsti. Così, non appena le operazioni di “aggancio” saranno ultimate, l’Italia potrà legittimamente farsi vanto di aver realizzato metà dello spazio abitabile sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Il modulo aveva lasciato Torino lo scorso 17 maggio ed era stato ufficialmente consegnato alla NASA il 20 novembre con una solenne cerimonia svoltasi al Kennedy Space Centre in Florida, negli Stati Uniti. Il lancio, schedulato per febbraio 2010 fin da prima della consegna, era stato messo in forse proprio all’inizio di quest’anno. Ma questa volta le condizioni meteo e la navetta non avevano alcuna responsabilità. Sul banco degli imputati è invece salito il manicotto di una conduttura che fa parte delsistema di controllo termico del modulo. Una serie di malfunzionamenti sarebbero infatti emersi quando il pezzo, che deve trasportare ammoniaca, era ancora dal produttore ogni qual volta veniva sottoposto a sollecitazioni gravose, simili a quelle di esercizio.
Plutone come non lo si era mai vistoIn attesa che la sonda News Horizon arrivi fin laggiù e al termine di un viaggio di nove anni faccia finalmente luce su tante domande, alla NASA hanno deciso di festeggiare il compleanno dello scomparso scopritore di Plutone. Clyde William Tombaugh, che individuò questo piccolo e lontanissimo planetoide nel lontano 18 febbraio 1930, era infatti nato a Streator il 4 febbraio del 1906.
Così all’Agenzia Spaziale Usa hanno lavorato a lungo sulle tante “foto” che dal 1994 il supertelescopio orbitante Hubble ha scattato a Plutone, fornendone un ritratto decisamente inedito. Un po’ un riscatto, dopo il declassamento deciso nel 2006 dall’Unione Astronomica Internazionale, che ha tolto a Plutone la qualifica di “pianeta” per classificarlo come “pianeta-nano” o, meglio, “oggetto trans-nettuniano”.
La definizione delle immagini non è sufficiente a fornire informazioni di carattere orografico, ma ne da invece moltissime di tipo cromatico. Così, nonostante il periodo orbitale plutonico sia lunghissimo (248,09 anni terrestri) l’intervallo di tempo in cui Hubble ha potuto guardare il “pianeta-nano” è bastato a mostrarci un caleidoscopio di sfumature tra il grigio, il marrone e l’arancione. Tutti colori che mutano con l’illuminazione del Sole, che per quanto in quella estrema periferia del nostro sistema solare arrivi fioca, è comunque sufficiente a far sciogliere il ghiaccio ai poli nella faccia esposta alla luce.
Ma per saperne di più, bisogna aspettare ancora cinque anni, quando News Horizon che ha imbarcato simbolicamente a bordo le ceneri di Tombaugh – comincerà il flyby sul pianeta-nano.
Nodo-3 e Cupola: completata l'installazione alla ISS
Nodo-3 e Cupola: completata l'installazione alla ISSGli astronauti Bob Behnken e Nicholas Patrick hanno terminato anche l’ultima delle tre passeggiate spaziali in programma nella missione Sts-130. Dopo cinque ore e quarantotto minuti di lavoro, alle 9:03 del 17 febbraio (ora italiana) i due hanno perfezionanto le operazioni di aggancio e installazione dei due nuovi elementi della Stazione Spaziale Internazionale. Il nodo Tranquillity e la Cupola erano stati spostati dal payload alle 9:49, sempre ora italiana, del 12 febbraio scorso. Si avvia a terminare dunque nel segno della massima “tranquillity” il compito degli uomini partiti a bordo dell’Endeavour lunedì scorso alle 10 e 14 (ora italiana) dopo un rinvio di 24 ore dovuto alle condizioni meteo.
Lo Shuttle, lanciato dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral, si era regolarmente agganciato alla Stazione Spaziale Internazionale due giorni dopo, alle 6:06 del 10 febbraio. “Davvero un bel lancio – commentava l’Associated administrator per le missioni spaziali della NASA Bill Gestermaier – e un grande inizio di una missione così complessa”. Il direttore generale dell’ESA Jean-Jacques Dordain ha ringraziato la NASA, il team di terra e l’equipaggio, sottolineando che “si tratta di un evento particolarmente importante perché lo Shuttle stavolta è pieno di hardware europeo”. Quello di lunedì scorso è stato l’ultimo lancio in notturna dello Shuttle: le prossime quattro missioni partiranno tutte di giorno.
A bordo il suo preziosissimo carico: il terzo modulo per la Stazione, il Nodo-3 ribattezzato “Tranquillity” la scorsa primavera in omaggio alla missione Apollo 11. Un cilindro lungo 7 metri e largo 4,6 pieno di tecnologia e corredato di una gran quantità di cose: da una vera e propria palestra a un sistema per ricavare acqua potabile dall’urina e un avanzatissimo impianto di ricondizionamento dell’aria. Ma soprattutto dotato di una spettacolare Cupola a sette finestre che spalancherà alla vista degli inquilini della ISS un panorama spaziale a 360 gradi mai visto prima.
Tranquillity è stato interamente realizzato negli stabilimenti torinesi di Thales Alenia Space ed è parte dell’accordo NASA-ESA del 1997 (firmato proprio nel capoluogo piemontese) che impegnava l’Agenzia Spaziale Europea a fornire alla ISS il secondo e terzo dei tre moduli abitativi previsti. Così, non appena le operazioni di “aggancio” saranno ultimate, l’Italia potrà legittimamente farsi vanto di aver realizzato metà dello spazio abitabile sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Il modulo aveva lasciato Torino lo scorso 17 maggio ed era stato ufficialmente consegnato alla NASA il 20 novembre con una solenne cerimonia svoltasi al Kennedy Space Centre in Florida, negli Stati Uniti. Il lancio, schedulato per febbraio 2010 fin da prima della consegna, era stato messo in forse proprio all’inizio di quest’anno. Ma questa volta le condizioni meteo e la navetta non avevano alcuna responsabilità. Sul banco degli imputati è invece salito il manicotto di una conduttura che fa parte del sistema di controllo termico del modulo. Una serie di malfunzionamenti sarebbero infatti emersi quando il pezzo, che deve trasportare ammoniaca, era ancora dal produttore ogni qual volta veniva sottoposto a sollecitazioni gravose, simili a quelle di esercizio.
STS-131 Shuttle Discovery - Rinvio del lancioA causa delle temperature molto basse al Kennedy Space Center, è stato deciso di rinviare il trasferimento nel VAB (Vehicle Assembly Building, ovvero edificio assemblaggio dei veicoli) dello Space Shuttle Discovery che dovrà eseguire la Missione STS-131 per trasportare il Multi-Purpose Logistics Module (MPLM) Leonardo sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Attualmente la data più probabile per lo spostamento è il 22 febbraio, con almeno 10 giorni di ritardo. La precedente data prevista per il lancio era il 18 marzo, e a causa di questo inconveniente dovrebbe passare al 25-28 marzo. Data la partenza prevista di una Soyuz per il 2 aprile, e ferma restando la norma che impedisce che qualsiasi veicolo si avvicini o si allontani durante il periodo di ormeggio di uno Shuttle, la STS-131 è costretta a spostarsi al dopo attracco della Soyuz alla ISS.
La nuova data prevista è il 5 aprile, Lunedì dell’Angelo. Dato inoltre che ogni giorno di ritardo nel decollo comporta un anticipo nella finestra lancio di circa 24 minuti, si avrebbe nuovamente un lancio notturno. L’ora prevista è infatti fissata per le 6:27 di mattina locali, 41 minuti prima dell’alba. Per noi sarebbero le 12:27.
Tutto il calendario di questa missione avrebbe quindi il seguente svolgimento:
22 febbraio rollover verso il VAB
2 marzo rollout verso il pad
5 marzo prova countdown
26 marzo Flight Readiness Review
5 aprile (12:27 CEST) lancio
18 aprile (6:30 CEST) atterraggio
Resta da vedere il possibile impatto sul resto delle missioni: le STS-134 ed STS-133 non dovrebbero risentirne, ma la STS-132 è a rischio rinvio, anche se di poco.
Nell’immagine l’equipaggio e lo stemma della missione STS-131
Supernova al VLALa chiave di questa curiosa vicenda sono le osservazioni radio della supernova SN2009bb compiute con le antenne del VLA (Very Large Array) di Socorro nel New Mexico. Da queste osservazioni è emersa la presenza di materiale espulso dalla supernova a velocità relativistiche, una situazione che, solitamente, si riscontra nelle supernovae associate a emissione di lampi gamma. Nel caso di SN2009bb, però, la radiazione gamma non è mai stata individuata.
“E’ pur vero – sottolinea Alicia Soderberg, ricercatrice dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics – che la rilevazione dei lampi gamma non è una caratteristica costante delle esplosioni di supernova, ma la possibilità di individuare simili eventi grazie a osservazioni radio è estremamente interessante”. Lo studio su SN2009bb, tra i cui autori figura anche la Soderberg, è stato pubblicato su Nature a fine gennaio.
Vi sono almeno un paio di ottimi motivi che possono spiegare la mancata rilevazione di emissione gamma. Il primo – e più banale – è legato alla geometria dell’evento. Poiché i lampi gamma vengono emessi in fasci molto collimati, se questi fasci non sono allineati con la Terra la loro individuazione ci sarà inesorabilmente preclusa. Una seconda e più intrigante possibilità è che la radiazione gamma venga in qualche modo “ammorbidita” quando prova ad abbandonare la stella, una situazione che metterebbe fuori gioco i satelliti gamma che solitamente ci permettono di individuare e riconoscere queste supernovae.
Essere riusciti a individuare che SN2009bb appartiene a questa particolare categoria di supernovae grazie allo studio della sua emissione radio ci offre dunque una possibile valida alternativa per il riconoscimento di questi eventi.
Differenze pesantiDifficile trovare qualche somiglianza tra Ganimede e Callisto, le due principali lune di Giove. Paragonabili come dimensioni e certamente molto simili nella loro composizione, ma davvero molto differenti non solo nell’aspetto esteriore, ma anche nella struttura interna.
Fin dalle prime analisi ravvicinate delle sonde Voyager – confermate appieno anche dall’epico lavoro della sonda Galileo – i planetologi si trovarono di fronte a una bella gatta da pelare: pur essendosi formati nella stessa regione del Sistema solare e dunque condividendo la medesima materia prima e le medesime condizioni ambientali, Ganimede e Callisto avevano seguito due strade evolutive differenti. Qual era la chiave di questa differenza? Mistero davvero fitto, tanto che finora a nessuno era mai riuscito di giustificare in modo sufficientemente condivisibile una simile situazione.
In uno studio pubblicato online su Nature Geoscience a fine gennaio, però, si ipotizza una spiegazione che potrebbe risultare vincente. Amy C. Barr e Robin M. Canup, ricercatrici del SwRI Planetary Science Directorate, hanno infatti creato un modello matematico in cui si mostra come i cammini evolutivi di Ganimede e Callisto divergano circa 3,8 miliardi di anni fa, nel corso del periodo che i planetologi chiamano il Late Heavy Bombardment. Come dice il nome, si tratta del periodo primordiale dell’evoluzione della famiglia del Sole caratterizzato da violenti impatti provocati dal caotico e pericoloso intersecarsi delle orbite dei corpi asteroidali e cometari che popolavano il sistema.
Per Ganimede e Callisto si trattò di un vero tiro al bersaglio, reso ancora più drammatico dalla potente azione gravitazionale di Giove. A causa della differente distanza dal pianeta gigante, però, le due lune sperimentarono un destino diverso. Ganimede, più vicino a Giove, venne colpito dal doppio dei proiettili cometari che colpirono Callisto e per di più quei proiettili cosmici erano dotati di velocità più elevate. Il risultato di tale bombardamento fu un riscaldamento talmente intenso e profondo che sfociò nella completa fusione del satellite, rendendo in tal modo completamente differente la sua struttura interna da quella del gemello Callisto.
“E’ incredibilmente importante – ha sottolineato Amy Barr – comprendere come mai questi due corpi praticamente gemelli sono diventati così diversi l’uno dall’altro. In queste differenze si nascondono preziosi indizi sull’evoluzione iniziale del nostro Sistema solare.”
Quelle galassie a spirale che forse non c'eranoUna nuova “prima volta”dell’Hubble Space Telescope. Hubble ha compiuto un “censimento demografico”sulle galassie visibili nell’Universo attuale fino a quelle formatesi circa sei miliardi di anni fa (poco più di un miliardo di anni prima della formazione del nostro Sistema Solare).
Contrariamente a quanto si pensava, i dati rivelano che a quell’epoca dovessero esistere meno galassie a spirale rispetto a quelle che si osservano oggi, mentre quelle classificate come “galassie peculiari” dovevano essere molto più numerose. Quest’ultime, sono oggetti che per forma, dimensione, luminosità e composizione non sono classificabili come spirali, ellittiche, lenticolari o irregolari. Da questo studio si è arrivato a ipotizzare nel passato recente l’esistenza di collisioni e fusioni di moltissime galassie, studio che fornisce pure preziose informazioni sullo stato della nostra Galassia.
La morfologia e la formazione delle galassie sono fonte di numerosi dibattiti tra i ricercatori. In particolare, un importante strumento nell’analisi della loro morfologia è dato dal diagramma detto “sequenza di Hubble”, una classificazione schematica di tutte le galassie realizzato da Edwin Hubble nel 1926 sulla base delle immagini di varie galassie ottenute dalle lastre fotografiche, che divideva, quelle regolari in tre classi principali: le ellittiche, le lenticolari e le spirali.
Un gruppo di ricercatori europei guidati da François Hammer dell’Observatoire de Paris, per la prima volta ha completato un censimento demografico delle galassie in base ai tipi morfologici in due diversi momenti nella storia dell’Universo, creando in definitiva, su un campione di 116 galassie locali e 148 galassie lontane, due sequenze di Hubble che permettono di spiegare come si siano formate le galassie. Emerge chiaramente che la sequenza di Hubble sei miliardi di anni fa era molto differente da quella che gli astronomi osservano oggi.
“Sei miliardi di anni fa, c’erano molte più galassie peculiari di oggi, un risultato davvero sorprendente” ha affermato Rodney Delgado-Serrano, primo autore dell’articolo pubblicato recentemente su Astronomy & Astrophysics (R. Delgado-Serrano, et al, 2010, How was the Hubble Sequence, 6 Giga-years ago?, Astronomy & Astrophysics, 509, A78). “Questo implica che negli ultimi sei miliardi di anni, queste galassie peculiari devono essere diventate spirali normali, mostrandoci un’immagine dell’Universo recente più drammatica rispetto a quella nota”.
Si pensa che queste galassie peculiari siano divenute galassie a spirale attraverso numerose collisioni e fusioni. Il tracciare la storia della formazione delle galassie permette di avere un’idea dell’Universo attuale. Andando indietro nel tempo, deve esserci stato un periodo molto caotico seguito da un periodo più tranquillo, dove galassie nascenti collidevano facilmente con altre permettendone la nascita di nuove. Sebbene finora si ritenesse corretta l’idea che la fusione delle galassie dovesse essere diminuita sensibilmente circa otto miliardi di anni fa, il nuovo risultato porta a credere che le fusioni dovessero essere ancora in atto a quell’epoca e fossero molto frequenti da quel momento in poi fino a circa quattro miliardi di anni fa.
“Il nostro obiettivo è quello di trovare uno scenario che possa connettere l’immagine attuale dell’Universo con le morfologie delle vecchie lontane galassie in modo da far combaciare i vari pezzi del puzzle sull’evoluzione delle galassie” ha affermato Hammer.
Inoltre, contrariamente all’opinione più diffusa secondo la quale dalla fusione delle galassie ellittiche si formerebbero galassie minori, Hammer e il suo gruppo hanno portato avanti uno scenario nel quale le collisioni darebbero come risultato galassie a spirale. In un altro articolo pubblicato su Astronomy & Astrophysics (F. Hammer et al., 2009, The Hubble Sequence: just a vestige of merger events?, Astronomy & Astrophysics, 507, 1313) scavando più a fondo sulla loro ipotesi di “ricostruzione delle galassie a spirale”, i ricercatori hanno proposto che le galassie peculiari nelle fusioni con enormi quantità di gas, solo più lentamente rinascono come spirali giganti con dischi e bulge centrali.
Sebbene la nostra Galassia sia di tipo a spirale, sembra sia stata risparmiata dal dramma giovanile; la sua formazione pare sia avvenuta in modo più tranquillo e che non si siano svolte collisioni violente in tempi astronomici recenti. Tuttavia, la galassia di Andromeda che si trova nelle vicinanze della nostra, non deve essere stata così fortunata e sembra seguire meglio lo scenario della “ricostruzione delle galassie a spirale”. I risultati futuri permetteranno di chiarire meglio quale delle ipotesi sarà da confermare e quale da smentire.
Hammer e il suo gruppo hanno utilizzato i dati della Sloan Digital Sky Survey gestiti dall’Apache Point Observatory, New Mexico, (USA), da GOODS e dall’Hubble Ultra Deep Field grazie in particolare all’Advanced Camera for Surveys (ACS) a bordo di Hubble.
STS-130 - Space Shuttle Endeavour: partito!Lo Space Shuttle Endeavour ha lasciato la rampa 39/A del Kennedy Space Center in perfetto orario alle 0914:08 UTC in questo secondo tentativo di lancio.
Trasporta il Nodo 3 e la Cupola, elementi costruiti in Italia, che rappresentano il completamento della sezione non Russa della Stazione.
Il Nodo 3, battezzato Tranquility, rappresenterà un volume abitabile aggiuntivo per la Stazione e permetterà di avere altri punti di aggancio per altre eventuali estensioni. La Cupola invece sarà una finestra sul Mondo, con la visione mozzafiato del panorama della nostra Terra.
L’attracco con la ISS avverrà alle 05:53 UTC di mercoledì 10 febbraio.
Secondo i programmi l’Endeavour mollerà gli ormeggi il 19 febbraio per rientrare a Terra al KSC il 21 alle 4:48 italiane.
Data Lancio: 8 febbraio 2009.
Ora Lancio: 0914:08 UTC.
Sito di Lancio: Torre 39A Kennedy Space Center, Florida.
Codice Lancio: 2010-004.
Esito: Successo.
Vettore.
Modello: United States Space Shuttle Orbiter.
Specifica: OV-105 Endeavour.
Tracce di impatti cometariDifficile riuscire a stabilire il tasso con cui il nostro pianeta è stato colpito – e può esserlo tutt’ora – da oggetti cosmici. E’ ben noto come la statistica risenta notevolmente della rilevazione incompleta degli episodi passati dovuta soprattutto all’azione erosiva dell’ambiente terrestre. Le tracce degli impatti, infatti, vengono ben presto nascoste dall’azione dei fenomeni atmosferici (vento, pioggia,…) e da quella della vegetazione. Riuscire dunque a scoprirne l’esistenza diventa spesso impossibile. Adrian Melott (University of Kansas) e i suoi collaboratori, però, ritengono di aver individuato un possibile metodo per superare questa difficoltà e lo hanno illustrato al meeting invernale dell’American Geophysical Union tenutosi a San Francisco lo scorso dicembre.
Alla base del nuovo metodo vi è un’accurata analisi dei carotaggi di ghiaccio per individuare anomale abbondanze di nitrati e ammoniaca. Che un’elevata presenza di nitrati si possa ricollegare a impatti cosmici è un’idea già ben nota a chi si occupa di questi eventi, mentre è una novità assoluta il collegamento di un impatto cosmico con picchi di ammoniaca atmosferica. Secondo Melott la formazione di questo gas sarebbe riconducibile alle elevate pressioni e temperature associate agli impatti, condizioni che, unite alla notevole disponibilità di acqua nel caso in cui il proiettile cosmico sia una cometa, permetterebbero il verificarsi del cosiddetto processo Haber, un metodo comunemente utilizzato per produrre industrialmente l’ammoniaca che utilizza azoto e idrogeno come reagenti.
Per verificare questa ipotesi i ricercatori hanno analizzato i carotaggi di ghiacci corrispondenti a due possibili impatti cometari: il ben noto evento di Tunguska del 1908 e quello – ancora piuttosto dibattuto e risalente a 13 mila anni fa – conosciuto come Younger Dryas Event, un impatto ritenuto responsabile del crollo della cultura preistorica di Clovis nell’America del Nord. Ebbene, in entrambi i casi il gruppo di ricerca di Melott ha trovato l’evidenza che il processo Haber si sia davvero verificato su larga scala.
Permane ancora, però, qualche dubbio e sono gli stessi ricercatori a sottolinearlo. Poichè, solitamente, i carotaggi vengono campionati a intervalli di cinque anni, tale risoluzione non è la più adeguata per ricercare eventuali picchi di ammoniaca: gli eventi atmosferici, infatti, dissipano molto rapidamente la sua concentrazione.
Un campionamento più accurato, dunque, potrebbe ovviare a tale lacuna e il metodo proposto da Melott potrebbe rivelarsi davvero un ottimo strumento per ricostruire i passati impatti cometari con il nostro pianeta.
Pianeta vulcanicoQuando il satellite CoRoT (Convection, Rotation and Planetary Transits) individuò a 480 anni luce dalla Terra il pianeta CoRoT-7 b, la notizia della scoperta venne seguita con grande attenzione da chi si occupa di pianeti extrasolari. L’esopianeta, infatti, era il primo corpo celeste roccioso – dunque di tipo terrestre – ad essere scoperto al di fuori del nostro Sistema solare.
Le fantasie di chi vedeva in quel pianeta un gemello della Terra, però, vennero quasi subito bloccate dalle proibitive condizioni ambientali che regnano sulla sua superficie. L’orbita di CoRoT-7 b, infatti, si sviluppa molto vicino alla sua stella e questa vicinanza fa sì che la sua faccia illuminata si riscaldi fino a 2200 °C, mentre l’emisfero in ombra sperimenti gelide temperature di 210 °C sotto lo zero.
Un ulteriore colpo alle speranze di chi immaginava CoRoT-7 b una potenziale culla per la vita sono venute da alcune speculazioni sulle condizioni superficiali del pianeta proposte al Meeting della American Astronomical Society tenutosi a Washington qualche settimana fa. Punto di partenza di tali speculazioni è l’estrema vicinanza del pianeta al suo Sole (solamente 2,5 milioni di chilometri, cioè 60 volte più vicino della Terra al Sole) e la scoperta che l’orbita di CoRoT-7 b non è perfettamente circolare, probabilmente a causa di un oggetto planetario più esterno. Queste due condizioni fanno ragionevolmente ritenere che la superficie del pianeta sia caratterizzata da fenomeni estremi di vulcanesimo, molto più intensi di quelli osservati su Io, il satellite di Giove che, con i suoi oltre 400 vulcani attivi, è il corpo celeste geologicamente più attivo del nostro Sistema solare. Se la speculazione ha colto nel segno, dunque, la superficie di CoRoT-7 b si presenterebbe come una distesa incandescente di colate laviche continuamente alimentate da un gran numero di bocche vulcaniche.
Davvero estremamente difficile riuscire a inserire in tale scenario la possibilità che la vita trovi un angolo dove svilupparsi.
Collisione nella Fascia principale?Non aveva destato grande interesse la scoperta annunciata lo scorso 7 gennaio all’osservatorio LINEAR di una nuova cometa: un astro chiomato di mag. +20 individuato tra gli asteroidi della Fascia Principale lungo un’orbita che non lo avrebbe mai portato nei dintorni della Terra. La P/2010 A2 (LINEAR) sembrava quindi una cometa piuttosto anonima, una delle tante scoperte dall’osservatorio del New Mexico.
Ma appena le osservazioni si sono fatte più sistematiche, la determinazione dei parametri orbitali ha evidenziato per P/2010 A2 una rara peculiarità: si tratta infatti di un oggetto che presenta delle caratteristiche orbitali simili a quelle degli asteroidi unite a quelle fisiche delle comete. Il che ne fa il quinto membro di quella speciale classe di oggetti denominata “Main Belt Comets”.
Le immagini riprese dimostrano infatti l’esistenza di una coda lunga circa 180 000 km in fase di progressivo sviluppo, con la mancanza però di una chioma ben definita.
A questo quadro già di per sé inusuale si è aggiunta di recente una scoperta del tutto inattesa: nel tentativo di ottenere immagini più definite dell’oggetto con il Nordic Optical Telescope delle Canarie, l’astronomo spagnolo Javier Licandro avrebbe individuato un piccolo asteroide (posizionato due secondi d’arco ad est dalla cometa), che sembra accompagnarla (stesso moto proprio rispetto alle stelle) lungo la sua orbita. Questo, oltre al fatto che la cometa non mostra alcuna condensazione centrale o traccia di attività del nucleo, ma soltanto una lunga scia di materiale che sembra originarsi quasi dal nulla, ha portato qualcuno ad ipotizzare che si stia assistendo “in diretta” alle conseguenze di una collisione tra due asteroidi, il più piccolo dei quali avrebbe strappato all’altro il mantello di rocce e polveri, mettendo allo scoperto lo strato di sostanze volatili sottostante. Il fatto poi che l’oggetto si trovi ad orbitare nella regione più calda della fascia asteroidale, quella delimitata dalla cosiddetta “frostline” (posta a 2,7 UA dal Sole), spiegherebbe la rapida degassificazione della sua superficie.
Per risolvere questo ed altri dubbi, gli astronomi hanno deciso di puntare i maggiori strumenti, compresi i telescopi spaziali Hubble e Spitzer, verso la “strana coppia”, nella speranza di poter confermare sia la natura cometaria della LINEAR (per esempio, rilevando l’impronta spettrale di gas tipici delle comete, come gli ossidi di carbonio), sia di poter ricostruire la dinamica dell’evento, con la conferma dell’avvenuta collisione.
E proprio in questi giorni è stata resa pubblica la ripresa effettuata da Hubble, che mostra in grande dettaglio la testa della cometa e l’inviluppo di polveri che si origina dal piccolo asteroide. La strana forma della chioma, a forma di X disegnata dalle parti più luminose, potrebbe indicare che altri frammenti più piccoli (e quindi inosservabili) stanno contribuendo al rilascio delle polveri.
Il fenomeno è alla portata anche di una buona strumentazione amatoriale, come dimostrato dalle immagini della “cometa” realizzate dal collaboratore della rivista Rolandro Ligustri, in pubblicazione nel prossimo numero di Coelum
Caccia ai pianetini killerIl progetto di rilevare l’80% degli oggetti fino a 140 metri di diametro (chiamato George Brown Near-Earth Object Survey) dovrebbe essere completato entro il 2020, ma con gli attuali finanziamenti (circa 4 milioni di dollari all’anno) non si riuscirà a completarlo.
Per ottenere questo risultato servirebbero almeno 50 milioni di dollari l’anno in modo da costruire dei telescopi appositi e lanciare dei satelliti di sorveglianza. Certo che con 250 milioni di dollari all’anno si potrebbe ottimizzare il tutto eseguendo anche dei test di impatto e esplosione per collaudare le tecniche di eventuale deviazione, nel caso che si scoprisse un oggetto in rotta di collisione con il nostro pianeta.
Attualmente il progetto Spaceguard permette di rilevare il 90% degli oggetti fino ad 1 km di diametro, piccoli asteroidi che potrebbero causare danni su scala globale.
I 140 metri di questo nuovo sistema di sicurezza mondiale salverebbero da potenziali danni su scala continentale, mentre oggetti più piccoli potrebbero provocare danni su scala locale. Ricordiamoci che l’esplosione di Tunguska che all’inizio del secolo scorso si è verificata nella Siberia russa, ha distrutto migliaia di chilometri quadrati di foresta ed è stata provocata da un oggetto di circa 30 metri di diametro. Se avesse colpito una zona densamente popolata, sarebbe stata una strage.
Gli oggetti NEO finora scoperti sono oltre 6’700, 800 dei quali superano il chilometro di diametro. Quindi una grande quantità di oggetti è già stata catalogata, ma moltissimi altri restano sconosciuti, senza considerare gli oggetti provenienti dallo spazio profondo, che non sono periodici o lo sono con periodi estremamente lunghi.
Il problema principale è il tempo intercorrente fra la scoperta e l’impatto. Se i tempi sono sufficientemente lunghi sarà possibile organizzare un qualsiasi tipo di difesa, anche solo una evacuazione della zona che verrà coinvolta dal disastro.
Agli attuali ritmi il progetto potrebbe completarsi entro il 2030, ma sono speculazioni che lasciano il tempo che trovano.
Forse sarebbe necessario stanziare un po’ più di quattrini in queste tecnologie: ne va della salvezza di tutti…
Marte alla minima distanza dalla TerraOgni circa 26 mesi Marte raggiunge l’opposizione, portandosi così alla minima distanza dalla Terra consentita in quel periodo dalla geometria delle orbite dei due pianeti.
Un pianeta esterno si dice in opposizione quando si trova opposto al Sole rispetto alla Terra e cioè quando, nell’ordine, Sole, Terra e Pianeta (nel nostro caso Marte) si trovano allineati. Quando un pianeta è in opposizione si trova nelle migliori condizioni di osservabilità, essendo nel punto più vicino alla Terra e diametralmente opposto al Sole, è visibile per tutta la notte ed ha un diametro apparente ed una luminosità maggiori che in altri periodi.
A causa della notevole eccentricità orbitale (e=0,093) del pianeta, le opposizioni di Marte possono portare a delle minime distanze che variano tra un minimo assoluto di circa 55,8 milioni di chilometri (raggiunto nella storica “grande opposizione” del 27 agosto 2003) a quello di circa 100 milioni di chilometri, proprio delle cosiddette opposizione afeliche (quelle che si verificano con Marte nei pressi del suo afelio).
Quella presente sarà per l’appunto un’opposizione afelica, non molto favorevole dal punto di vista del diametro angolare del pianeta (circa 14″), ma in qualche modo sostenuta dal fatto che Marte si troverà quasi alla sua massima declinazione e quindi molto alto nel cielo (circa +70° di altezza) al momento del transito in meridiano.
Il 28 gennaio Marte raggiungerà una distanza dalla Terra di 99,3 milioni di chilometri, la minima nel periodo dal gennaio 2008 al marzo 2014. L’opposizione propriamente detta, quella legata alla massima elongazione dal Sole, verrà invece raggiunta il giorno dopo e regalerà al pianeta una luminosità apparente di mag. 1,28, tipica delle opposizioni afeliche (in quelle perieliche Marte può arrivare fino a una magnitudine di 2,9).
La caratteristica principale di questa opposizione sarà legata al fatto che per la prima volta da 13 anni a questa parte l’inclinazione dell’asse del pianeta rosso favorirà l’osservazione della calotta polare nord, invisibile da Terra fin dal lontano 1997.
Tra gennaio e febbraio, infatti, avanzerà la stagione primaverile nell’emisfero nord del pianeta e oltre allo scioglimento progressivo della calotta potremmo seguire molti fenomeni meteorologici svilupparsi tra le regioni equatoriali e temperate, come la presenza di spesse nubi di vapore acqueo e lo sviluppo di tempeste di sabbia.
Spirit e Opportunity su MarteSpirit
La tecnica tentata all’inizio di gennaio (Sol 2136), vale a dire lo sterzare le ruote per spostare il terreno prima di tentare i movimenti, sembra aiutare i tentativi. Altri drive sono stati effettuati durante i Sol 2138, 2140 e 2142, ma i progressi sono stati minimi: se non altro non è affondato ulteriormente.
A questo punto è stato deciso di invertire la direzione di marcia. Finora i tentativi di spostamento sono stati effettuati sempre in marcia avanti per ritornare nella direzione da cui Spirit era arrivato nella zona di sabbia soffice (ricordo che il rover si muoveva normalmente in marcia indietro a causa della ruota anteriore destra bloccata).
Durante il Sol 2145 si è deciso di avanzare all’indietro, sempre dopo aver spazzato con lo sterzo nelle buche. Ebbene, Spirit si è mosso, ma soprattutto si è sollevato leggermente, cosa che finora non era ancora successa. Con i movimenti dei Sol 2145, 2147 e 2150 il rover si è mosso fra i 3 e i 4 centimetri e si è arrampicato. Ogni sessione di movimento prevedeva 6 tranche di 5m ciascuna. Tre centimetri di spostamento il primo giorno (e 1 verso l’alto) e 3,5 di spostamento durante il secondo (e 0,3 verso l’alto). Purtroppo durante il tentativo del Sol 2150 la ruota centrale destra (l’ultima funzionante di quel lato) è andata in sovracorrente bloccando il movimento.
Si stanno eseguendo dei test diagnostici per capire se è un guasto vero e proprio o se la ruota è incappata in una roccia.
Il team ha anche preso in considerazione di sfruttare la spinta del braccio robotico, ma può solo spingere per 30N, assolutamente ininfluente sulla dinamica attuale del rover. Oltretutto si rischierebbe di spaccarlo, ma serve ancora, anche se Spirit restasse fermo: fin dove arriva potrebbe analizzare tutto il terreno e vederne le modificazioni con il passare del tempo.
Durante il Sol 2143 la produzione energetica dei pannelli solari è stata di 225 Wh, mentre durante il Sol 2150 è stata di 211 Wh. L’inverno si avvicina e il numero di tentativi per liberarsi diminuisce di Sol in Sol.
Opportunity
Si sta dirigendo velocemente verso un recente cratere da impatto, risalente a circa 1000 anni fa, chiamato Concepcion. Il rover eseguirà una circumnavigazione del catino largo una decina di metri per verificarne le caratteristiche.
Superati anch’esso i 6 anni terrestri sulla superficie marziana, ha anche superato i 19 chilometri (per la precisione 19’216,21 metri) percorsi sulle distese polverose del Pianeta Rosso.
La sua produzione energetica al Sol 2130 è stata di 304 Wh.
In foto il team del JPL durante i test nella “sand box” l’area dove provano i drive prima di applicarli sul vero rover. A destra alla consolle Paolo Bellutta, l’italiano che fa parte del gruppo dei driver.
Fonte: JPL.
Phoenix: notizie non buone.Nessuna trasmissione proveniente da Phoenix.
Negli ultimi giorni la sonda Odyssey, in orbita intorno a Marte, si è messa in ascolto sulla banda UHF durante i 30 passaggi che ha effettuato nei cieli del Phoenix Mars Lander, ma non ha ricevuto nessuna chiamata.
Per questo primo tentativo d’ascolto non era neanche convinto il controllo missione che la sonda potesse chiamare, il Sole è ancora troppo basso e tramonta ancora. Ci saranno sicuramente momenti migliori, dato che fra un mese si tenterà nuovamente, così come a marzo. Da aprile il Sole non tramonterà più su Phoenix, ma le probabilità che il lander si risvegli sono bassissime.
In tutto questo si inserisce anche il problema monetario: sono stati interrotti i finanziamenti per Phoenix e quindi se non verranno riattivati si rischia di abbandonare tutto, comprese le analisi sui dati ricevuti.
Attualmente il team sta chiedendo alla NASA di dirottare una parte dei fondi per i programmi di ricerca e il governo garantisce che dovrebbero essere rifinanziate le analisi sui dati ricevuti.
Ci mancherebbe solo che Phoenix riuscisse a risvegliarsi in Lazarus Mode e non trovasse nessuno ad ascoltarlo…
Il più piccolo oggetto della Fascia di KuiperL’Hubble Space Telescope ha scoperto il più piccolo oggetto mai visto prima in luce visibile nella cosiddetta Fascia di Kuiper, il vasto anello di asteroidi o frammenti rocciosi ghiacciati che circonda il Sistema Solare, al di là dell’orbita di Nettuno.
Si può definire questo oggetto come “un ago nel pagliaio” in quanto le sue dimensioni sono dell’ordine del chilometro (0,97 per la precisione) e ad una distanza di circa 6,75 miliardi di chilometri dal Sole. Il più piccolo oggetto della Fascia di Kuiper osservato prima in luce riflessa era dell’ordine dei 48 chilometri come dimensione, ossia circa 50 volte più grande.
Nell’immagine, una rappresentazione artistica del nuovo oggetto nella Fascia di Kuiper osservato dall’Hubble Space Telescope. Fonte NASA.
Le osservazioni compiute dall’Hubble Space Telescope delle stelle vicine mostrano che un certo numero di esse presentano una fascia di asteroidi simile alla Fascia di Kuiper (che porta il nome del primo astronomo che ne ipotizzò l’esistenza intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso). Queste dischi non sono altro che il residuo della formazione planetaria, ossia oggetti che probabilmente sono stati espulsi dalle regioni interne della nube proto planetaria dal pianeta Giove, a causa della sua forte azione gravitazionale e, inoltre, oggetti che non si sono aggregati a formare un pianeta al di là di Nettuno a causa della debole azione gravitazionale a tali distanze.
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