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Ghiaccio bollente su Europa

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La luna galileiana Europa subisce un continuo stress gravitazionale. Mentre orbita attorno a Giove, la sua superficie si solleva e ricade continuamente a causa del richiamo gravitazionale del pianeta. Gli scienziati concordano sul fatto che questo processo sia in grado di generare una quantità di calore sufficiente a produrre un oceano liquido sotto alla sua crosta ghiacciata.

Un’immagine a falsi colori mostra la superficie di Europa. L’inserto mostra alcune regioni in cui le placche si separano e si muovono. Crediti: NASA/JPL

Gli esperimenti condotti da due geologi delle università statunitensi Brown e Columbia suggeriscono che questa dissipazione mareale potrebbe creare molto più calore di quanto fosse stato ipotizzato in passato. Lo studio potrebbe aiutare i ricercatori a ottenere una stima più precisa dello spessore della crosta ghiacciata di Europa.

Le lune più massicce di Giove, chiamate Europa, Io, Ganimede e Callisto, sono state scoperte da Galileo durante le sue osservazioni all’inizio del 1600. Quando la NASA ha inviato le prime sonde nei pressi di Giove, negli anni ‘70, ed è riuscita ad osservare più da vicino anche le sue lune, queste hanno tutte mostrato caratteristiche inaspettate e sorprendenti.

«Gli scienziati si aspettavano di vedere mondi freddi e privi di vita, ma sono stati immediatamente smentiti e sconvolti da ciò che hanno trovato», dice Christine McCarthy, prima autrice dello studio e professoressa presso la Columbia University. «Era chiaramente in corso un qualche tipo di attività tettonica, e su Europa c’erano punti in cui il ghiaccio sembrava sciogliersi o assumere una consistenza fluida».

L’unico modo per ottenere abbastanza calore in una regione del Sistema solare così distante dal Sole è attraverso dissipazioni mareali. Si tratta di un effetto simile a quello che si ottiene piegando più volte una gruccia di metallo, spiega McCarthy. «Se si piega più volte avanti e indietro un pezzo di metallo, è possibile sentire calore nel punto in cui è stato piegato», dice. Tuttavia, i dettagli dei processi che avvengono sulla superficie ghiacciata di Europa non sono ancora chiari, e quando i ricercatori hanno effettuato delle simulazioni per comprendere meglio queste dinamiche i risultati sono stati sorprendenti.

«Fino a ora erano stati utilizzati dei modelli meccanici semplici per descrivere le sollecitazioni subite dal ghiaccio», dice McCarthy. «Ma i calcoli suggeriscono che l’acqua liquida sotto la superficie di Europa non riceva i flussi di calore in grado di creare il tipo di tettonica osservato, così abbiamo eseguito una serie di esperimenti per cercare di comprendere meglio questo processo».

Insieme al professor Reid Cooper della Brown University, McCarthy ha sottoposto una serie di campioni di ghiaccio a carichi di pressione simili a quelli che agiscono sulla crosta di Europa. Quando tali carichi vengono applicati e rimossi, il ghiaccio si deforma e in una certa misura rimbalza. Misurando l’intervallo di tempo intercorso tra l’applicazione della sollecitazione e la deformazione del ghiaccio è possibile dedurre quanto calore viene generato durante il processo.

I modelli precedenti a questo esperimento avevano assunto che la maggior parte del calore generato provenisse dall’attrito tra i grani di ghiaccio. Questo implicherebbe che la dimensione dei grani influenza la quantità di calore prodotto. Gli esperimenti di McCarthy e Cooper hanno invece dimostrato che i risultati sono simili anche alterando in maniera sostanziale la dimensione dei grani. Questo indica che il processo attraverso il quale si genera calore è legato ai difetti formati all’interno del reticolo cristallino del ghiaccio a causa della deformazione. Tali difetti generano molto più calore di quanto stimato in precedenza.

«Christine ha scoperto che, rispetto ai modelli comunemente adottati dalla comunità scientifica, il ghiaccio sembra essere un ordine di grandezza più dissipativo di quanto pensavamo in passato», dice Cooper. Una maggiore dissipazione comporta maggiori quantità di calore, e questo potrebbe avere importanti ricadute sulla struttura interna di Europa.

«La fisica alla base del comportamento del ghiaccio che ricopre Europa è di fondamentale importanza per comprendere quanto la sua crosta sia spessa», spiega Cooper. «Lo spessore della crosta, a sua volta, ha implicazioni importanti sulla chimica e la dinamica interna della luna gioviana. E siccome ci sono numerosi indizi circa la possibile presenza di vita all’interno di Europa, la chimica dei suoi strati più profondi è un aspetto fondamentale da conoscere».

McCarthy e Cooper sperano che i teorici facciano tesoro del loro risultato, e che si arrivi presto a una conoscenza più approfondita degli oceani di Europa. «Il nostro studio fornisce ai teorici una nuova fisica da applicare ai loro modelli», conclude McCarthy.

Per saperne di più:

CONTEST! Realizza la visual identity della Notte Europea dei Ricercatori 2016/17

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Ora è ufficiale! Frascati Scienza organizzerà per l’undicesimo anno consecutivo la Notte Europea dei Ricercatori, progetto promosso dalla Commissione Europea. Frascati sarà l’epicentro di un grande evento nazionale che il 30 settembre 2016 vedrà protagonisti i ricercatori, i cittadini, i giovani, gli studenti contemporaneamente nelle città di Roma, Ferrara,Trieste, Bologna, Milano, Ferrara, Catania, Pisa, Bari, Cagliari, Pavia, Firenze, Napoli, Genova, Sassari, Parma, Palermo, Gorga, Grottaferrata, Monteporzio Catone e in centinaia di città europee.

La manifestazione è dedicata alla centralità della figura del ricercatore e all’importanza della ricerca scientifica. Lo Slogan delle prossime due edizioni previste a settembre 2016 e 2017 e’ “MADE IN SCIENCE”, con l’obiettivo di ribadire l’importanza della “filiera della scienza” che, come ogni eccellenza, si distingue per qualità, identità, creatività, sicurezza, transnazionalità, competenze e responsabilità.

La visual identity dovrà pubblicizzare la “Notte Europea dei Ricercatori 2016-17”, manifestazione destinata ai ricercatori, alle scuole e al pubblico generico di tutte le età. Il progetto vincitore riceverà un premio di 500 €.

Tra gli obiettivi da raggiungere:

  • • I ricercatori sono persone il cui lavoro di straordinaria bellezza, gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della società
  • • Fare ricerca è divertente ed eccitante
  • • Made in Science è la rete di enti di ricerca e università di alto valore scientifico che si distingue per qualità, identità, creatività, sicurezza, transnazionalità, competenze e responsabilità.

Possono partecipare al concorso tutti i creativi che lo richiedono. La partecipazione al concorso avviene per auto-candidatura da parte dei partecipanti, attraverso   la   compilazione   del   modulo   di   presentazione   allegato   al  regolamento. In caso di partecipazione di minori e’ necessaria anche la firma di uno dei genitori. La partecipazione al concorso è ammessa in forma individuale o di raggruppamento non legalmente costituito, allegando in quest’ultimo caso una autodichiarazione sottoscritta da tutti i componenti del gruppo dalla quale risulti il soggetto che ha la rappresentanza del gruppo stesso.

Ogni concorrente, sia singolo che in gruppo, può presentare un solo progetto.

La visual identity deve essere inviata in formato digitale su CD con annessa una copia stampata formato poster maggiore o uguale a 50 x 70 cm. Alla visual identity dovrà essere affiancato un documento di spiegazione della visual identity creata.

Il concorso termina il 10 maggio 2016.

Scarica il bando ufficiale del contest
Scarica il modulo di adesione

Polvere interstellare nel raccolto della Cassini

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Tra i milioni di particelle di polvere analizzate dalla missione ESA-NASA-ASI Cassini attorno a Saturno, trentasei provengono dall’esterno del nostro Sistema solare. Crediti: NASA/JPL-Caltech
Tra i milioni di particelle di polvere analizzate dalla missione ESA-NASA-ASI Cassini attorno a Saturno, trentasei provengono dall’esterno del nostro Sistema solare. Crediti: NASA/JPL-Caltech

La sonda americana Cassini, in orbita attorno a Saturno dal 2004, è riuscita a catturare delle particelle di polvere di origine interstellare. L’analisi di queste polveri ha permesso agli scienziati di ricostruire le condizioni della nube interstellare locale, la nostra attuale casa nella Via Lattea.

Nei suoi dodici anni trascorsi in orbita attorno al gigante gassoso, Cassini ha campionato milioni di granelli di polveri e ghiaccio, quasi tutti formatisi sui fondali oceanici della luna Encelado ed eruttati nello spazio profondo attraverso geyser e pennacchi. Tuttavia, una nuova analisi rivela che una minuscola popolazione di queste particelle – appena 36 granelli – è con ogni probabilità di origine extrasolare.

La prima identificazione in situ di granelli interstellari fu effettuata negli anni ’90 dalla missione Ulysses, seguita poco più tardi dalla missione Galileo. Le analisi dell’epoca avevano individuato nella nube interstellare locale la più probabile sorgente delle particelle campionate.

“In seguito a quella scoperta, abbiamo sempre sperato di poter rilevare questi intrusi interstellari anche con Cassini nel sistema di Saturno. Sapevamo che, se avessimo guardato nella giusta direzione, li avremmo trovati,” spiega Nicolas Altobelli dell’ESA. “In media, abbiamo catturato una manciata di granelli ogni anno, viaggiando ad alta velocità e su una traiettoria abbastanza diversa da quella lungo cui raccogliamo i normali granelli ghiacciati attorno a Saturno.”

Eccetto per una ristretta popolazione di granelli caratterizzati da una composizione isotopica unica, gran parte del materiale originale della nebulosa che collassò a formare il Sole e i pianeti – il cosiddetto materiale presolare – è andato perduto o contaminato. Non è ancora chiaro se i pochi granelli presolari sopravvissuti fino a oggi siano simili, in dimensione e composizione, ai granelli che popolano il mezzo interstellare.

“Siamo molto emozionati per questo risultato, dato che il nostro strumento era progettato principalmente per misurare le polveri all’interno del sistema di Saturno,” spiega Marcia Burton della NASA.

Secondo la ricostruzione degli scienziati, le polveri provenienti dalla nube interstellare locale sarebbero entrate nel Sistema solare in un flusso più o meno allineato rispetto all’eclittica, a una longitudine e a una latitudine eclittiche eliocentriche di 79 e -8 gradi, rispettivamente.

L’analisi si è basata sui dati raccolti da Cassini nei suoi primi dieci anni di missione, da una distanza da Saturno compresa fra 9 e 60 raggi saturniani. L’arco temporale dei dati, secondo gli scienziati, è stato particolarmente favorevole per la raccolta di questi granelli, in quanto nel 2010 il vettore della velocità di Saturno risultava allineato alla direzione di scorrimento del flusso di particelle interstellari. La frequenza degli impatti misurati dalla sonda è indicativa di un flusso di 0.00015 particelle per metro quadrato per secondo (!), mentre la massa media dei granelli è di circa dieci femtogrammi, ovvero cento bilionesimi di grammo. Tenendo conto del fatto che il rilevatore di Cassini è progettato per studiare le polveri meno massicce, in realtà il flusso potrebbe essere fino al doppio del valore da loro calcolato. L’assenza di granelli meno massicci – il limite inferiore di Cassini è di 100 attogrammi – suggerisce che questi siano stati filtrati dall’eliopausa e dall’eliosfera interna.

A svelare la natura interstellare di questi granelli sono state le loro proprietà dinamiche, ovvero la loro direzione e la loro elevatissima velocità: al momento della cattura, i granelli stavano sfrecciando attraverso il sistema di Saturno ad oltre 72 mila chilometri orari. A causa della loro straordinaria velocità, i granelli sono stati polverizzati dall’impatto con il rilevatore.

A differenza di Ulysses e Galileo, Cassini è anche riuscita a ricostruire la composizione chimica dei granelli. Con grande sorpresa degli scienziati, la sonda ha osservato ben poco ghiaccio e, al contrario, una grande quantità di cationi di elementi come ossigeno, sodio, magnesio, potassio, calcio, ferro e rodio. Traducendo queste concentrazioni di cationi nei loro elementi originali, tenendo conto di un gran numero di fattori – ad esempio, il fatto che è cinque volte più probabile che il magnesio formi cationi rispetto al silicio – si è potuta individuare un’abbondanza di magnesio, silicio, ferro e calcio, tutti presenti in concentrazioni simili a quelle riscontrate nel resto del cosmo. Al contrario, i dati evidenziano una scarsità di zolfo e carbonio rispetto alla media cosmica.

“Le polveri cosmiche vengono prodotte quando le stelle muoiono, ma con l’ampia gamma di stelle nell’universo, ci aspettiamo di incontrare un’enorme vastità di tipi di polveri,” spiega Frank Postberg dell’Università di Heidelberg.

Le analisi di Cassini rivelano inoltre che le polveri, larghe in media 200 nanometri, sono particolarmente uniformi e omogenee. Si sta ancora indagando sul meccanismo che ha contribuito a renderle tali: una possibile spiegazione potrebbe essere che i granelli siano stati distrutti e si siano poi ricondensati più volte a causa delle continue onde d’urto rilasciate da stelle morenti.

“I granelli passerebbero dalla calda nube interstellare, ovvero le regioni a bassa densità intagliate dalle supernove, al caldo mezzo diffuso, accessibile tramite osservazioni spettroscopiche, e infine alle fredde nubi molecolari, che sono regioni di formazione stellare,” scrivono i ricercatori. “Assumendo che il 5% del materiale di una nube molecolare sia consumato dai nuovi sistemi stellari e planetari, i granelli compierebbero un ciclo dal mezzo caldo a quello freddo in 125 milioni di anni. Nonostante i processi di distruzione e devolatilizzazione prevalgano nel mezzo caldo a causa delle elevate velocità dei granelli e delle onde d’urto delle supernove, la ricondensazione può avvenire nel mezzo freddo.”

In definitiva, “la lunga durata della missione Cassini ci ha consentito di usarla come un osservatorio di micrometeoriti,” conclude Altobelli, “offrendoci un accesso privilegiato alle polveri provenienti da oltre il Sistema Solare che non avremmo mai potuto ottenere in alcun altro modo.”

Per saperne di più:

Leggi l’articolo “Flux and composition of interstellar dust at Saturn from Cassini’s Cosmic Dust analyzer” di N. Altobelli et al., publbicato sulla rivista Science

Gruppo Astrofili William Herschel

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Quest’anno il gruppo astrofili William Herschel propone un corso di astrofotografia: Leonardo Orazi, astrofotografo (www.starkeeper.it/), introdurrà, in cinque conferenze, gli strumenti e le tecniche per ottenere splendide immagini degli oggetti celesti!
Ingresso libero.
Gli incontri si terranno nei giorni 16 e 22 febbraio, 15 e 22 marzo, 19 aprile a partire dalle ore 21:30, presso la sala riunioni della Parrocchia Immacolata Concezione e San Donato ini Via Saccarelli 10, Torino.
Per informazioni: info@gawh.net
www.gawh.net

Mille vele per Alpha Centauri

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Attraversare lo Spazio con minuscole e velocissime astronavi “a vela” (spaziale) capaci di raggiungere Alpha Centauri in appena 20 anni: è la fantascientifica scommessa appena lanciata a New York da Breakthrough Starshot. Dietro c’è uno dei più grandi fisici teorici del ‘900, Stephen Hawking, non nuovo a ‘stravaganze’ di ogni genere in questo scorcio di nuovo millennio; al suo fianco, il magnate ’emergente’ del web Yuri Milner (miliardario russo celebre per gli investimenti in aziende innovative come Facebook, Twitter e Spotify… e anche lui fisico).

L’idea di partenza è naturalmente proprio di Hawking, tra le altre cose anche ex-professore lucasiano di matematica della prestigiosa Università di Cambridge – la stessa cattedra occupata da Sir Isaac Newton. E la scommessa ha già radunato un buon numero di ‘puntatori’: al momento sono stati raccolti circa 100 milioni di dollari, ottenendo – tra gli altri – il supporto del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, su cui i media di mezzo mondo hanno subito ricamato i titoli della notizia.

Il concept prevede, infatti, l’uso di queste tre tecnologie per creare un nanocraft. Piccolo quanto un francobollo, un cosiddetto StarChip è in grado di portare con sè fotocamere, equipaggiamento di navigazione e trasmissione dati, propulsore e batterie. Sempre attaccato ad una vela spaziale, detta LightSail. “Questo è l’approccio alla ‘Silicon Valley’ del volo spaziale”, spiega Yuri Milner, “potendo essere prodotto in massa al costo di uno smartphone.”Questo ardito – a dir poco – progetto (raggiungere una meta distante 4,37 anni luce viaggiando ad una velocità pari a circa il 20% di quella, appunto, della luce) sarebbe possibile grazie ad alcuni recenti sviluppi in tre specifici ambiti tecnologici: la microfabbricazione di tessuti, la nanotecnologie e la fotonica.

Rappresentazione delle antenne che dovrebbero emettere i laser per alimentare il nanocraft Crediti: Breakthrough Initiatives

La spinta per viaggiare ad altissime velocità arriverebbe da numerosi raggi laser emessi dalla Terra. Installando una serie di antenne, si unirebbero tutti i raggi per creare un potente laser diretto sulla LightSail. Alimentata in questo modo, secondoHawking la nano-navicella riuscirebbe a raggiungere il 20% della velocità della luce (come cerca di spiegare questo video).

“Sarà 1000 volte più veloce rispetto a uno spacecraft odierno oun milione di volte più veloce di una macchina in autostrada”, continua Milner. Nulla a che vedere rispetto ai sistemi propulsivi di oggi, con i quali sarebbero necessari 30.000 anni per raggiungere Alpha Centauri.

In questo modo, invece, in 20 anni un viaggio interstellare di centinaia o migliaia di questi nanocraft raggiungerebbe la stella più vicina a noi, trasmettendo dati scientifici verso  la Terra suAlpha Centaurii suoi pianeti e i campi magnetici in un raggio di luce.

Rappresentazione del raggio laser che alimenta la vela spaziale del nanocraft Crediti: Breakthrough Initiatives

La tecnologia delle vele solari, alternativa al propellente chimico oggi utilizzato nei viaggi spaziali, è ancora in fase embrionale. Intanto la NASA, che studia come cavalcare il vento solare per raggiungere i limiti del Sistema Solare, ha recentemente mostrato un forte interesse per queste ricerche. E anche in Europa, Italia inclusa, non si sta a guardare.

Secondo Hawking & Milner si farebbe uso di tecnologie già esistenti, o disponibili nel breve periodo. Quel che è certo è che le ‘sfide’ tecnologiche non manchino. Sul sito del progetto sono presentate le 19 sfide ancora da superare, chiedendo al pubblico “una mano”. Trattandosi di un concept, è naturalmente fuori luogo ipotizzare una data di lancio.

Breakthrough Starshot è stata comunque presentata come una iniziativa globale, per tutto il pianeta Terra, un “grande balzo verso il futuro” (sic). Che, promettendo trasparenza open data access, ambisce ad unire gli sforzi di tutta la comunità internazionale per rendere il viaggio interstellare una realtà.

Editoriale del presidente ASI su La Stampa (14 aprile 2016): “Come restringere l’Infinito”


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La NASA sperimenta una nuova tecnologia di propulsione elettrostatica

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Una nuova tecnologia di propulsione che potrebbe consentire trasferimenti interplanetari rapidi senza bisogno di carburante è attualmente in fase di sperimentazione presso il centro spaziale Marshall della NASA nell’Alabama. Il sistema, noto come HERTS, consiste in una sonda dotata di una serie di aste di alluminio elettricamente cariche disposte in maniera radiale. Ad accelerare la vela, soprannominata E-Sail, sarebbe lo scambio di momento innescato dalla repulsione di natura elettrostatica tra i protoni del vento solare, il flusso di particelle cariche emesso dal Sole, e le aste.

“Il Sole rilascia protoni ed elettroni nel vento solare a velocità molto elevate, da 400 a 750 chilometri al secondo,” spiega Bruce Wiegmann, a capo del progetto. “La E-Sail userebbe questi protoni per accelerare la sonda.”
Il progetto attualmente prevede che E-Sail sia dotata di 10-20 aste di alluminio, spesse appena un millimetro e lunghe all’incirca 20 chilometri l’una. Le aste sarebbero mantenute in estensione dalla forza centrifuga generata dalla lenta rotazione della sonda – circa un giro ogni ora.
I test a cui la sonda sarà sottoposta nell’arco dei prossimi anni sono mirati a valutare la frequenza delle collisioni tra le particelle cariche del vento solare e le aste della sonda. Un parametro importante da misurare sarà la quantità di elettroni che, essendo dotati di una carica negativa, saranno attratti verso le aste. La sonda espellerà gli elettroni in eccesso attraverso un cannone elettronico, in modo da mantenere il voltaggio positivo delle aste e preservare dunque la loro capacità di generare una forza di spinta.

"High Intensity Solar Environment Test system" il sistema usato per testare il funzionamento della vela Credits: NASA/MSFC/Emmett Given

Un prototipo in miniatura di E-Sail si trova in questo momento in un ambiente controllato di plasma per simulare le condizioni dello spazio profondo. Il prototipo dispone di aste in acciaio inossidabile, che, pur essendo più denso dell’alluminio, è sufficientemente simile secondo i requisiti dei test. Le proprietà non-corrosive dell’acciaio inossidabile, inoltre, garantiscono una lunga vita operativa con minima degradazione del materiale.
Il programma di sperimentazione durerà all’incirca due anni, mentre dovremo attendere almeno un decennio prima di poter assistere al primo effettivo utilizzo di questa tecnologia, sempre che i test abbiano esiti positivi.

L’ostacolo principale è la vasta area di raccolta necessaria a generare una repulsione utile. A un’unità astronomica dal Sole, E-Sail dovrebbe avere un’area di circa 600 chilometri quadrati, corrispondenti a un raggio di quasi 14 chilometri. A cinque unità astronomiche dalla nostra stella, invece, l’area salirebbe a 1200 chilometri quadrati, ovvero un raggio di 19.5 chilometri.

Il principio alla base di questa tecnologia è simile a quello delle vele solari, le quali sfruttano la pressione delle radiazioni elettromagnetiche del Sole. Tuttavia, l’intensità delle radiazioni della nostra stella diminuisce drammaticamente man mano che si entra nel sistema solare esterno. Una vela alimentata dal vento solare, invece, sarebbe in grado di spingersi ben più in là.
“I protoni del vento solare non hanno quel problema,” prosegue Wiegmann. “Con il costante flusso di protoni, E-Sail continuerebbe ad accelerare fino a 16-20 unità astronomiche – almeno tre volte oltre le vele solari. Ciò le consentirà di raggiungere velocità molto più elevate.”

Nei suoi quasi 40 anni di missione, la sonda Voyager 1, la prima ad attraversare l’eliopausa ed entrare nello spazio interstellare, ha percorso circa 134 unità astronomiche. Secondo i calcoli degli ingegneri, E-Sail potrebbe coprire un tragitto di uguale lunghezza in un terzo o addirittura un quarto del tempo.
“I nostri studi hanno dimostrato che una sonda interstellare alimentata da una E-Sail potrebbe raggiungere i confini dell’eliopausa in poco meno di 10 anni,” prosegue Wiegmann. “Ciò potrebbe rivoluzionare i guadagni scientifici di queste missioni.”

Il progetto ha ricevuto 500 mila dollari di finanziamenti dalla NASA per lo sviluppo di questa promettente tecnologia.
“Studiando questo concetto, siamo rimasti convinti dalla sua flessibilità e dalla sua adattabilità,” continua Wiegmann. “I progettisti delle future missioni potranno regolare la lunghezza dei cavi, il numero di cavi e il loro voltaggio a seconda dei requisiti della missione.”


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Associazione Ligure Astrofili Polaris

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Conferenze al Museo di Storia Naturale Aperte al pubblico e gratuite.

16.04: “La cacciatrice di nane rosse e pianeti extrasolari” di Giovanna Ranotto.

Per il programma completo andare al sito.
Per info: cell. 346.2402066
info@astropolaris.it
www.astropolaris.it

Gruppo Astrofili DEEP SPACE

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CICLO “La Scienza non esatta: bugie, follie e fortuna nel cammino della conoscenza”

15.04: “Errori e serendipità: la forza del caso nel progresso dell’astronomia” di Loris Lazzati.

Per info: 0341.367584
www.deepspace.it

Ancora Luna e Giove!

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Altra congiunzione che converrà attendere che arrivi nei pressi dell’orizzonte sarà quella tra Luna e Giove del 17/18 aprile.

I due oggetti saranno ovviamente osservabili per tutta la sera, ma la più grande vicinanza (3,2°) e l’effetto scenico migliore si avranno verso le 3:30 del 18, quando saranno alti circa +14° sull’orizzonte ovest. Si riuscirà così a fotografare la scena sullo sfondo di un paesaggio convenientemente scelto, regalando fascino e profondità a un evento in sé abbastanza usuale.

Caricate le vostre immagini su www.coelum.com/photo-coelum, ogni mese le più belle o particolari verranno scelte per la pubblicazione sulla rivista!

Effemeridi di Sole, Luna e pianeti sul Cielo di Aprile

Tutti gli eventi del cielo di aprile li trovi su Coelum Astronomia n.199

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Kepler di nuovo operativo, risolta l’emergenza in orbita

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Il telescopio spaziale Kepler è nuovamente operativo, secondo quanto comunicato dalla NASA.

Quattro giorni fa, il cacciatore di pianeti era autonomamente entrato in modalità di emergenza, una particolare configurazione di volo che prevede il minimo consumo di energia, ma che in compenso comporta l’utilizzo di grandi quantità di carburante. Ieri mattina, i controllori di volo sono riusciti a mantenere un contatto radio stabile con il telescopio. Durante la finestra di comunicazione, gli ingegneri hanno scaricato una grande quantità di dati di telemetria che useranno per ricostruire le dinamiche del malfunzionamento che ha colpito il telescopio e per accertarsi della salute dei vari sistemi di bordo. Gli ingegneri hanno inoltre attivato una modalità di riduzione del consumo di propellente. Essendo uscito dalla configurazione di emergenza, il telescopio ha perso la priorità di comunicazione che aveva acquisito.

Secondo gli ingegneri, ci vorrà almeno una settimana affinché Kepler possa incominciare la tanto attesa campagna scientifica che lo vedrà puntare il suo telescopio in direzione del cuore della Via Lattea. Kepler tenterà di sfruttare il fenomeno di microlente gravitazionale per rivelare pianeti orfani o interstellari. La campagna si chiuderà il 1° luglio, quando il centro galattico non sarà più in una posizione favorevole alle osservazioni di Kepler.

Secondo le analisi preliminari dei dati scaricati finora, Kepler sarebbe stato colpito da un’anomalia circa 14 ore prima di eseguire la manovra che lo avrebbe portato a osservare il centro galattico. Questo dettaglio ha permesso agli ingegneri di escludere il sistema di propulsione e le ruote di reazione dalle possibili cause del guasto, la cui natura rimane ignota.

Le ruote di reazione, in particolare, erano la principale fonte di preoccupazione. Kepler infatti ha già perso due delle sue quattro ruote di reazione. In teoria, il telescopio necessita di almeno tre giroscopi per poter puntare verso un determinato campo di cielo con un’accuratezza e una stabilità sufficienti alla raccolta di dati utili. Tuttavia, in seguito al fallimento della seconda ruota di reazione, gli ingegneri erano riusciti a ideare una tecnica per bilanciare l’assetto del telescopio usando la pressione delle radiazioni solari. Il fallimento di una terza ruota di reazione, come si era ipotizzato in questi giorni, avrebbe però reso del tutto impossibile il proseguimento della missione.

Nei suoi sette anni di missione, il telescopio non era mai entrato in modalità di emergenza. Il recupero del satellite in un tempo così breve è stato consentito dalla rapida risposta e dal duro lavoro degli ingegneri della NASA.


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Associazione Ligure Astrofili Polaris

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14.04: “Osservazione della Luna in Corso Italia.

Per il programma completo andare al sito.
Per info: cell. 346.2402066
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www.astropolaris.it

La cometa 67P cambia colore

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Copyright Spacecraft: ESA/ATG medialab; Data: ESA/Rosetta/VIRTIS/INAF-IAPS/OBS DE PARIS-LESIA/DLR; G. Filacchione et al (2016)
Una grafica dello studio che mostra la differenza di "colore" nelle zone osservate. ESA/ATG medialab; Data: ESA/Rosetta/VIRTIS/INAF-IAPS/OBS DE PARIS-LESIA/DLR; G. Filacchione et al (2016)

67P ha cambiato colore davanti agli occhi di Rosetta durante la fase di avvicinamento al Sole. Questo è quanto osservato dallo spettrometro italiano  VIRTIS che ha analizzato le regioni a nord e all’equatore della cometa subito dopo il rendez-vous della sonda nell’agosto del 2014.

Il risultato delle osservazioni è stato pubblicato sulla rivista Icarus e riguarda il periodo che va da agosto  fino a novembre 2014 quando Rosetta ha sorvolato 67P da una distanza variabile dai 100 fino a 10 chilometri dal nucleo, mentre la cometa compiva il suo avvicinamento al Sole passando da 542 a 438 milioni di chilometri di distanza.

È la prima volta che una sonda osserva la dinamica di una cometa nel suo moto attorno al Sole: «è una delle peculiarità di Rosetta – ha riferito Mario Salatti, responsabile ASI per la missione –  lo spettrometro ha così avuto modo di registrare il cambiamento della composizione della superficie della cometa nella sua fase di avvicinamento alla stella e conseguentemente del suo colore».

VIRTIS ha quindi  monitorato i cambiamenti di luce riflessa dalla superficie in un ampio intervallo di lunghezze d’onda del visibile e dell’infrarosso, utilizzandoli come indicatori dei cambiamenti nella composizione dello strato più esterno della cometa.

«Sembra che ci sia un’abbondanza di acqua-ghiaccio negli strati superficiali della cometa – ha commentato Gianrico Filacchionedell’INAF, autore principale dello studio – e ciò si traduce in una modifica delle firme spettrali osservate. È come se 67P stesse cambiando di colore davanti ai nostri occhi».

La cometa ripresa il 19 settembre 2014 da una distanza di 28,6 chilometri dalla superficie – NavCam

Al suo arrivo sulla cometa Rosetta, ha trovato davanti a sé un corpo celeste estremamente scuro che rifletteva solo il 6% della luce su di esso. La maggior parte della superficie, infatti, era ricoperta da uno strato di polvere scura e asciutta composta da una miscela di minerali e sostanze organiche.

Nel complesso 67P ha un colore rossastro grazie alla presenza di materiale organico mentre le zone più ricche di ghiaccio d’acqua appaiono blu. Già nell’agosto 2014 i ghiacci nascosti sotto la superficie della cometa stavano iniziando ad essere riscaldati dalla luce solare in modo graduale, per poi sublimare in gas sollevando polveri che avrebbero contribuito alla formazione della coda di 67P.

Un mosaico di sei immagini provenienti dalla camera OSIRIS di Imhotep, la zona in cui VIRTIS ha confermato per la prima volta la presenza di ghiaccio d'acqua esposto dall'attività della cometa. ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA

VIRTIS ha ha infatti mostrato che il nuovo strato di materiale esposto era più riflettente del precedente, un fenomeno che ha reso la cometa più luminosa e ricca di ghiaccio: per questo motivo l’astro appariva più blu.

La luminosità della cometa è variata del 34% con punte che oscillano dal 6,4% al 9,7% in tre mesi di osservazione nella regione di Imhotep.

Altri inediti meccanismi verranno svelati quando sarà conclusa l’analisi dei dati raccolti da VIRTIS nella fase di allontanamento del Sole.


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Kepler in modalità di emergenza

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Il telescopio spaziale Kepler, secondo quando comunicato dalla NASA,  è stato vittima di un’anomalia sulla cui natura si sta ancora indagando. Il computer di bordo avrebbe attivato in maniera autonoma la modalità di emergenza, una particolare configurazione di volo che prevede il minimo consumo di energia, ma che in compenso comporta l’utilizzo di grandi quantità di carburante. Il telescopio ha informato i controllori di volo dell’attivazione di tale modalità nella finestra radio del 7 aprile.

I dati diagnostici scaricati durante il contatto precedente, risalente al 4 aprile, indicavano che tutti i sistemi stavano operando come previsto.

A complicare ulteriormente i tentativi di recupero, il telescopio si trova a ben 118 milioni di chilometri dalla Terra, ovvero circa 6,57 minuti luce, ovvero sono necessari 13 minuti perché un segnale possa arrivare alla sonda e la risposta tornare indietro . Tuttavia, l’attivazione della modalità di emergenza ha fatto sì le comunicazioni tra Kepler e il Deep Space Network della NASA abbiano acquisito la priorità assoluta, mettendo tutte le altre sonde in giro per il Sistema Solare in secondo piano.

Le analisi preliminari dei pochi dati di telemetria scaricati finora indicano che l’anomalia è avvenuta poco prima di una manovra che avrebbe cambiato l’assetto del telescopio, puntandolo in direzione del cuore della Via Lattea per una nuova campagna osservativa nell’ambito della missione K2.


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12.04: Evento speciale: Yuri’s night, in ricordo del primo volo umano nello spazio.

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Quel colossale buco nero vicino

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Questa simulazione mostra un buco nero supermassiccio al centro di una galassia. La zona nera al centro rappresenta l'orizzonte degli eventi. Crediti: NASA, ESA, and D. Coe, J. Anderson, and R. van der Marel (STScI)

C’è un gigantesco colosso nascosto nel nostro Universo. E come lui, potrebbero essercene molti altri: lo afferma uno studio pubblicato su Nature che rivela la presenza di un buco nero supermassiccio in una galassia non lontana dalla nostra, dove non ci si sarebbe aspettato di trovare oggetti così grandi.

La scoperta – che è stata possibile grazie alla combinazione dei dati raccolti dal telescopio spaziale Hubble e dagli osservatori Geminialle Hawaii e McDonald in Texas – implica che i buchi neri potrebbero dunque essere molto più diffusi di quel che crediamo.

Ma facciamo un passo indietro. Un buco nero supermassiccio (o supermassivo) è il più grande tipo di buco nero conosciuto, con una massa milioni o miliardi di volte superiore a quella del Sole. Gli astronomi pensano che quasi tutte le galassie, compresa la nostra Via Lattea, ne contenga uno al centro.

Quello scoperto dal gruppo internazionale di astronomi è un buco nero da record, con una massa che contiene circa 17 miliardi di soli. Un vero gigante del cielo, che però non strappa ancora il primato al suo “fratello maggiore”: il buco nero nell’ammasso della Chioma, scoperto nel 2011, che con i suoi 21 miliardi di masse solari si è guadagnato un posto nel Guinness Book of World Records.

La new entry si distingue però per un altro motivo: la sua posizione. Il buco nero appena scoperto si trova infatti nella galassia NGC 1600, in una direzione del cielo opposta rispetto all’ammasso della Chioma, in quella che può essere considerata una zona di relativo deserto cosmico.

Immagine della galassia NGC 1600, e un ingrandimento ottenuto da Hubble del centro luminoso delle galassia, dove risiede il buco nero supermassiccio da 17 miliardi di masse solari. Crediti: ESA/Hubble, STScI.

E qui sta il fatto sorprendente: se trovare un buco nero supermassiccio in una zona dello spazio affollata è piuttosto prevedibile, decisamente meno comune è trovarlo nelle regioni più sgombre dell’Universo. Un po’ come immaginare le probabilità di trovare un grattacielo nel centro di Manhattan o in un piccolo paese di periferia.

“I gruppi più ricchi di galassie, come l’ammasso della Chioma – spiega  Chung-Pei Ma, dell’Università di Berkeley – sono molto, molto rari. Ma esistono alcune galassie delle dimensioni di NGC 1600 che risiedono all’interno di gruppi di media grandezza. Quindi adesso la domanda è: ‘si tratta solo della punta di un iceberg?’ Forse ci sono molti altri buchi neri mostro là fuori”.

È esattamente questo ciò che investigherà nei prossimi mesi la campagna osservativa MASSIVE, coordinata proprio da Chung-Pei Ma.

Iniziato nel 2014, il programma MASSIVE è stato finanziato dallaNational Science Foundation per ottenere stime di massa per le stelle, la materia oscura e i buchi neri centrali appartenenti a 100 galassie massicce e vicine. In particolare, studia le galassie più grandi di 300 miliardi di masse solari, e a una distanza inferiore a 350 milioni di anni luce dalla Terra.

L’ospite inatteso trovato nella galassia NGC 1600 è uno dei primi successi del progetto e dimostra il valore della ricerca sistematica del cielo notturno, contro quella focalizzata soltanto sulle regioni più dense dello spazio.

Congiunzione Luna Mercurio

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N.B. Per esigenze grafiche la dimensione del dischetto lunare è due o tre volte superiore alla giusta scala immagine.

Verso le 20:15, scandagliando con attenzione l’orizzonte ovest (magari aiutandosi con un binocolo), non dovrebbe risultare impossibile scorgere una finissima falce di Luna crescente (appena un giorno d’età alta circa +8°) affiancata – 5,7° verso ovest – da un Mercurio decisamente luminoso (mag. −1).

Tutto dipenderà dalle condizioni atmosferiche, ma se la trasparenza dell’aria sarà buona, anche una congiunzione apparentemente trascurabile come questa potrà regalare spunti per delle suggestive riprese fotografiche comprensive del paesaggio.

Effemeridi di Sole, Luna e pianeti sul Cielo di Aprile

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In difesa della Luna

Mosaico di 52 frame ripresi da Jukka-Pekka Metsävainio
Mosaico di 52 frame ripresi da Jukka-Pekka Metsävainio. Cliccare per l'immagine a piena risoluzione.

Ennesima delusione dell’anno. In pochissimi infatti sono riusciti a seguire ieri mattina l’occultazione di Venere da parte della Luna… così come del resto era capitato in passato per altri appuntamenti astronomici: comete, eclissi, asteroidi, congiunzioni sul filo dell’orizzonte… quasi tutti falcidiati da condizioni meteo del tutto o in parte sfavorevoli. Eventi per i quali sarebbe stato magari necessario spostarsi di parecchi chilometri o salire in quota tra le montagne per goderne appieno.

Beati i nostri progenitori, verrebbe da dire, che vivevano in un mondo in cui ogni notte serena era una festa per gli occhi! Adesso quelle azzurre cupole cristalline sono state cancellate da inquinamenti di ogni tipo e le stelle per la maggior parte di noi si mostrano soltanto a loro capriccio, pochissime volte l’anno.

E allora che fare se non si è della razza di quelli che viaggiano, migrano con i loro grandi strumenti oppure addirittura catturano gli straordinari paesaggi celesti del Nuovo Messico o dell’Australia, fotografando in remoto da casa loro?

Ebbene, io dico che ci resta solo la Luna. Pensateci…Un mondo che solo le nuvole più spesse riescono a nascondere, e abbastanza grande da essere democraticamente alla portata di chiunque abbia un binocolo, o un sia pur minimo telescopio. Un piccolo pianeta tutto per noi, parcheggiato qui in orbita terrestre, a disposizione almeno tre settimane su quattro. Una fonte inesauribile di giochi d’ombra, chiaroscuri, luci improvvise, albe e tramonti su crateri profondissimi o cime innevate dalla luce del sole.

Da passarci gli anni, a voler osservare tutto. Come in effetti hanno fatto in tanti, prima di noi, quando ancora il cielo profondo – e adesso profondissimo – era fuori portata e senza il digitale ci si accontentava – si fa per dire – di misurare l’altezza delle montagne lunari, di arrovellarsi sull’imperscrutabile mistero del Ponte nel Mare Crisium, o di aspettare l’attimo in cui all’interno del cratere Hesiodus si sarebbe sprigionato il tanto vagheggiato “raggio lunare”, ovvero la luce del sole che improvvisamente prorompe nella platea da una apertura delle pareti.

Insomma, la Luna sa essere bella in cento maniere diverse, e misteriosa quanto basta per invogliare chiunque a seguirla sera dopo sera. Luminosa e sempre diversa in ogni suo minuto particolare: una fonte inesauribile di divertimento per chi vuole fotografare, guardare, disegnare, pensare. Eppure…

Eppure in questi anni è stata abbandonata un po’ da tutti, considerata forse troppo facile e provinciale. Poche e distratte osservazioni visuali, qualche foto di tanto in tanto, nessun disegno.

Sarebbe forse ora di tornare a guardarla; non perché è rimasto l’ultimo target astronomico per gli appassionati di città, ma semplicemente perché è la terra celeste più vicina a noi.

G. A.


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ASTROVEN: amatori e professionisti insieme per la divulgazione in Veneto

Padova, sabato 16 aprile, presso l’aula Rosino del Dipartimento di Fisica e Astronomia

La neonata sezione Veneta della Società Astronomica Italiana organizza una giornata di incontro tra gli “attori” protagonisti sul territorio dell’astronomia fruibile dal pubblico, per fare il punto dell’astronomia amatoriale nel Veneto.

Rappresentanze di Gruppi Astrofili, Osservatori Astronomici e Planetari, ma anche singoli con una particolare passione astronomica, sono invitati a far conoscere la loro esperienza e le loro idee con l’obbiettivo primario di conoscersi e di consentire uno scambio di idee e arricchirci con una contaminazione culturale che accomuni l’astronomia a una trasversalità che va da chi si occupa esclusivamente di divulgazione, di chi osserva e fa osservare il cielo per il puro stupore della bellezza della volta celeste, a chi studia e scopre supernove, comete, meteoriti, a chi costruisce, od insegna a costruire, nuovi telescopi.

Ad ogni partecipante verrà rischiesto di presentare la propria attività, o della propria associazione, i progetti ed eventualmente le difficoltà che si riscontrano nel portarli avanti. Il formato prevede interventi che vogliamo lasciati alla disponibilità ed all’estro dei partecipanti: chi vorrà parlare a braccio, chi porterà una o tante fotografie da mostrare, chi vorrà articolare una presentazione specifica, in un tempo che dipenderà in dettaglio da quanti di voi vorranno intervenire, ma che ipotizziamo tra i 10 ed i 20 minuti. Il filo conduttore: la passione per l’astronomia.

Non mancheremo di mostrare gli ultimi sviluppi della astronomia professionale ma vogliamo dare la precedenza alla vitalità e alle idee degli intervenuti.

La registrazione è gratuita ma obbligatoria, poiché la partecipazione è limitata a 60 persone per la limitata capienza dell’Aula Rosino del Dipartimento di Fisica e Astronomia. Si pregano i responsabili di ciascun gruppo di limitare a 1 o 2 i partecipanti all’incontro.

Sarà comunque possibile seguire gli interventi via streaming tramite il canale youtube: www.youtube.com/user/UniPadovaAulaRosino/

Per ogni informazione:  saitveneto@oapd.inaf.it

Per registrarsi e per il programma completo: www.ict.inaf.it/indico/event/340/

Organizzato da:

  • SAIt Veneto
  • INAF Osservatorio Astronomico di Padova
  • UNIPD Dipartimento di Fisica e Astronomia

Comitato organizzatore:
Roberto Ragazzoni,  Simone Zaggia, Gabriele Umbriaco

Indirizzo:
Dipartimento di Fisica e Astronomia, Università di Padova
Aula Rosino
Vicolo dell’Osservatorio, 3
35122 Padova

Gruppo Astrofili Lariani

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L’obiettivo è quello di conoscere il cielo e imparare la geografia astronomica a occhio nudo, con l’astrolabio, il binocolo e il puntatore laser. Il ritrovo è presso la sede in via Cantù all’orario indicato per poi trasferirsi all’Alpe del Viceré (Località Campeggio). In caso di maltempo proiezione in sede con simulazione del cielo.

08.04, ore 21:00: “Diamo del tu al cielo” Serata di osservazione
pubblica. Oggetti da osservare: Luna, Giove con i satelliti galileiani, Nebulosa di Orione (M42), Ammasso Presepe (M44), le galassie in Leone e Orsa Maggiore.

La sede, in Via Cesare Cantù, 17 (Albavilla – Como) è aperta al pubblico tutti i venerdì sera! Per informazioni: Tel 347.6301088 info@astrofililariani.org
www.astrofililariani.org

Gruppo Astrofili DEEP SPACE

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CICLO “Il clima sulla Terra e su altri mondi”

08.04: “Il clima sui pianeti solari ed extrasolari” di Stefano Covino.

Per info: 0341.367584
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Associazione Ligure Astrofili Polaris

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08.04: “Gli spettri stellari e il diagramma H-R” di Luigi Pizzimenti.

Per il programma completo andare al sito.
Per info: cell. 346.2402066
info@astropolaris.it
www.astropolaris.it

Il New Shepard vola e atterra per la terza volta

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DI ROBERTO MASTRIAstronautinews.it

Come preannunciato da Jeff Bezos nel marzo scorso, durante il suo incontro con la stampa, il New Shepard è tornato a volare. Ieri, 2 aprile, poco dopo le 17 (ora italiana) il veicolo suborbitale è decollato dal sito di test di Blue Origin nel deserto del Texas, ha raggiunto la quota record (rispetto ai voli precedenti) di 103,37 km di apogeo ed è rientrato, dopo essersi separato nei suoi componenti: la capsula, giunta integra a terra, grazie all’azione frenante dei suoi tre paracadute, e il modulo propulsivo, atterrato nel luogo previsto a seguito di una cronometrica riaccensione del propulsore BE-3.

Credit: Jeff Bezos

In casa Blue Origin il riutilizzo dei veicoli spaziali è già una routine. Per la crew capsule si trattava del quinto volo, essendo stata impiegata per la prima volta nel 2012 in occasione del Pad Escape Test (il collaudo del sistema di fuga di emergenza); ieri la storia dei voli precedenti era rappresentata da quattro tartarughe, con data, dipinte sul portello della capsula. Il booster NS2, cosa ben più importante, era già al terzo decollo e al terzo tentativo di atterraggio completato con successo.

Il terzo decollo del booster NS2. Credit: Blue Origin

Cosa c’era di nuovo

L’intenzione di Blue Origin è quella di testare la resistenza e le performance del veicolo, facendolo volare ripetutamente fino a che non andrà distrutto o non sarà più in condizioni di decollare. Ma ogni lancio, come è facile immaginare, è anche l’occasione per sperimentare nuovi dispositivi o nuove tecniche. In questo caso Bezos aveva annunciato che l’azione frenante del BE-3 sarebbe stata ritardata fino alla quota di 1100 metri (nei precedenti atterraggi l’accensione era programmata a 1500 metri). Il modulo propulsivo si sarebbe schiantato in 6 secondi, se il motore non si fosse riacceso in tempo, raggiungendo rapidamente la massima spinta, com’è regolarmente avvenuto.

Scienza a bordo

Un’altra novità dell’ultima missione era la presenza di esperimenti a bordo. Nella capsula del New Shepard si rimane in condizioni di assenza di peso per poco meno di 3 minuti, un tempo sufficiente per fare un po’ di scienza. Gli esperimenti di ieri erano due.

Il Box of Rocks Experiment (BORE), elaborato dal Southwest Research Institute, era volto a studiare l’interazione in assenza di peso di frammenti di roccia racchiusi in una scatola, con l’obiettivo di comprendere come si muove il suolo roccioso dei piccoli asteroidi.

Il Collisions Into Dust Experiment (COLLIDE) a cura della Central Florida University, intendeva esaminare l’impatto in microgravità di un oggetto compatto contro uno strato di polvere.

I voli del New Shepard che porteranno carichi a scopi di ricerca, senza equipaggio a bordo, saranno tra i primi viaggi commerciali del sistema suborbitale e potrebbero cominciare già quest’anno. In vista di tali sviluppi e dell’inizio dell’attività “turistica” Blue Origin sta realizzando altri veicoli. Almeno altri sei New Shepard sono in costruzione nella fabbrica di Kent.

A quando un lancio in diretta?

Un’ulteriore differenza rispetto ai voli passati è stata la maggiore pubblicità data all’evento. Nelle scorse occasioni l’unico indizio dei lanci erano le restrizioni al traffico aereo sull’area di test diramate dallaFederal Aviation Administration.

Recupero della capsula dopo l’atterraggio. Credit: Blue Origin

Questa volta Jeff Bezos, via twitter, ha presentato il volo e ne ha fatto una cronaca sintetica, promettendo entro breve tempo la pubblicazione di un video che si preannuncia particolarmente spettacolare, potendosi avvalere anche delle riprese effettuate in aria da droni. Ci si domanda, tuttavia, quando il CEO di Blue Origin manterrà la promessa di invitare la stampa ad un lancio e cosa gli impedisca di effettuarne la ripresa in diretta streaming. Probabilmente gradatim, per piccoli passi, nello stile di Bezos, arriveremo a vederla.

In attesa del video ufficiale, le uniche immagini in movimento del lancio sono quelle “rubate” da un reporter texano:

[AGGIORNAMENTO]

Ecco anche il video ufficiale del volo, spettacolare come di consueto:

Fonte: Blue Origin

Copyright immagine: Blue Origin, Jeff Bezos

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Due luminose supernovae nell’Orsa Maggiore

La cartina indica la posizione delle due galassie in cui sono esplose le supernovae di cui si parla nell'articolo. Cliccare per ingrandire.

Le supernovae extragalattiche più belle e luminose della storia sono ovviamente quelle esplose in galassie Messier… ed è ancora vivo il ricordo del record raggiunto nel 2014 con ben quattro scoperte in oggetti del famoso catalogo.

Purtroppo, dopo un 2015 assai avaro di questo genere di supernovae, nemmeno il 2016 sembra prediligere le galassie di Messier, o almeno fino ad ora. Tuttavia, in marzo si è verificata una fortunata coincidenza, ovvero l’esplosione, a pochi giorni di distanza, di due stelle appartenenti a galassie che nulla hanno da invidiare a quelle catalogate da C. Messier, entrambe situate nella costellazione dell’Orsa Maggiore a soli 16 gradi l’una dall’altra.

Una ghiotta occasione per immortalarle insieme con poco sforzo. In questo periodo dell’anno infatti la costellazione dell’Orsa Maggiore si trova già alta in cielo subito dopo il tramonto e quindi l’orario per la ripresa sarebbe davvero comodo.

La supenova SN 2016bau sovrapposta a una immagine di Marco Burali della bellissima NGC 3631. Nella cartina in apertura la posizione in cui trovare la galassia.

La prima delle due supernovae è la SN2016bau scoperta il 13 marzo dal veterano cacciatore di supernovae inglese Ron Arbour (72 anni) giunto alla sua scoperta n. 34. La galassia ospite è la bellissima spirale vista di faccia NGC 3631, posta a circa 40 milioni di anni luce.

Al momento della scoperta la supernova mostrava una luminosità pari alla mag.+17,8 ma in netto aumento nei giorni seguenti. Lo spettro ripreso il 14 marzo dall’osservatorio di Asiago con il telescopio Copernico da 1,82 metri ha permesso di classificare la supernova di tipo Ib scoperta circa 10 giorni prima del massimo, con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiano ad una velocità di circa 16.800 km/s. Il massimo di luminosità di questa supernova si è verificato intorno al 24 marzo, raggiungendo la mag.+14,9. La conferma che si tratta proprio di una supernova molto giovane è venuta dal programma di ricerca professionale ATLAS che, circa due giorni prima della scoperta, aveva ripreso un’immagine della galassia in cui la supernova non era presente.

NGC 3631 ha già ospitato altre tre supernovae: la 1996bu, la 1965L e la 1964A.

Una ripresa della SN2016bkv nella galassia NGC 3184 ottenuta da Paolo Campaner con un riflettore da 400mm F.5,5 ed esposizione di 25x75 secondi.

La seconda supernova è la 2016bkv scoperta il 21 marzo dal mitico ricercatore del Sol Levante Koichi Itagaki (vedi articolo) che con questo successo raggiunge l’invidiabile quota di 117 scoperte.

La galassia ospite è un’altra spirale vista di faccia, la NGC 3184, forse ancora più bella della precedente. Anche la sua distanza è inferiore e si attesta intorno ai 30 milioni di anni luce. Al momento della scoperta la supernova mostrava una luminosità pari alla mag.+15,9. Lo spettro ripreso nella notte del 23 marzo dal Haleakala Observatory nelle isole Hawaii con il Faulkes Telescope Nord di 2 metri di diametro, ha permesso di classificarla di tipo II, scoperta circa quattro giorni prima del massimo di luminosità, che puntualmente si è verificato il 25 marzo raggiungendo la mag.+14,6.

Anche NGC 3184 è una veterana di supernovae avendone già ospitate altre quattro: la 1921B, la 1921C, la 1937F e la 1999gi oltre alla 2010dn che si è rivelata successivamente essere una Luminous Blue Variable (LBV, una classe di oggetti noti anche come “Supernova Impostore”.

Abbiamo perciò a portata di telescopio due luminose supernovae in due stupende e fotogeniche galassie a spirale, vicine fra loro e per di più facili come orario di ripresa perché già alte in cielo appena fa buio e senza il disturbo della Luna. Cosa desiderare, quindi, di più?

Vi invitiamo a condividere come sempre le vostre immagini anche su www.coelum.com/photo-coelum dove già si trova un’immagine della SN2016bkv ripresa da Yuri Puzzoli! Aspettiamo anche le vostre!

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È disponibile il nuovo numero di Coelum: lo puoi sfogliare e leggere online, scaricarlo in pdf e stamparlo… GRATIS E CON UN SEMPLICE << CLICK >>


Meraviglia! La 67P/Churyumov-Gerasimenko sorpresa in controluce

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Dopo mesi passati a fotografare la cometa da un’orbita molto prossima alla sua superficie, la
settimana scorsa la sonda Rosetta si è allontanata fino ad una distanza di un migliaio di chilometri
per studiare l’ambiente circostante, il plasma e i getti della coda.
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Durante la manovra di allontanamento Rosetta è venuta a trovarsi quasi nel cono d’ombra della cometa e il 27 marzo, da una distanza di 329 km, la NavCam a bordo della sonda è riuscita a riprendere con 4 secondi di esposizione questa straordinaria fotografia (cortesia: ESA/Rosetta/NAVCAM – CC BY-SA IGO 3.0), dove si vede il doppio nucleo incoronato dai getti di gas stagliarsi nel chiarore accecante del Sole. La scala è di 28 m/pixel).

La sonda tornerà a circa 200 km dal nucleo all’inizio della prossima settimana e il 9 aprile scenderà
di nuovo fino a circa 30 km di altezza.
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ATTENZIONE_ATTENZIONE_ATTENZIONE_____________

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Un disco protoplanetario a una risoluzione da record

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No, questa volta non è un'impressione artistica, ma è La migliore immagine ALMA di un disco protoplanetario fino ad oggi. Questa immagine della stella giovane e vicina TW Hydrae mostra i classici anelli e i vuoti che indicano la presenza in questo sistema di pianeti in formazione. Crediti: S. Andrews (Harvard-Smithsonian CfA); B. Saxton (NRAO/AUI/NSF); ALMA (ESO/NAOJ/NRAO)
No, questa volta non è un'impressione artistica, ma è la migliore immagine ALMA di un disco protoplanetario ottenuta fino ad oggi. Questa immagine della stella giovane e vicina TW Hydrae mostra i classici anelli e i vuoti che indicano la presenza in questo sistema di pianeti in formazione. Crediti: S. Andrews (Harvard-Smithsonian CfA); B. Saxton (NRAO/AUI/NSF); ALMA (ESO/NAOJ/NRAO)

Il potente occhio del radiointerferometro ALMA ha spiato il disco protoplanetario che avvolge TW Hydrae, una giovane stella simile al Sole distante circa 175 anni luce dal nostro pianeta. La straordinaria risoluzione di ALMA – le nuove immagini del disco sono di gran lunga le più dettagliate scattate finora – ha permesso agli astronomi di individuare tre fasce vuote all’interno della struttura. Secondo gli scienziati, a formare le tre corsie sarebbero stati altrettanti pianeti in formazione, i quali, accumulando il materiale verso di sé e spingendo via il resto delle polveri, avrebbero ripulito le loro orbite. La più interna delle tre corsie, in particolare, è tanto distante dalla propria stella quanto la Terra dal Sole, suggerendo che, in futuro, il giovane pianeta potrebbe evolversi in un mondo simile al nostro. Secondo la ricostruzione degli scienziati, il disco si sarebbe formato appena 10 milioni di anni fa.

La fascia vuota più interna. Credits: S. Andrews (Harvard-Smithsonian CfA); B. Saxton (NRAO/AUI/NSF); ALMA (ESO/NAOJ/NRAO)

“Studi precedenti avevano confermato che TW Hydrae ospitasse un notevole disco con strutture create da pianeti in formazione al suo interno,” spiega Sean Andrews dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics. “Le nuove immagini di ALMA mostrano il disco a una risoluzione senza precedenti, rivelando una serie di anelli luminosi e di corsie scure concentriche, comprese delle intriganti strutture che indicano che un pianeta con un’orbita simile a quella della Terra si stia formando.”Le due corsie vuote più esterne distano circa tre e sei miliardi di chilometri dalla loro stella madre – distanze paragonabili a quelle di Urano e Plutone dal Sole, rispettivamente.Le immagini sono state ottenute osservando le deboli emissioni radio provenienti dalle particelle millimetriche che popolano il disco di TW Hydrae. La risoluzione senza precedenti è stata consentita dalla particolare configurazione di ALMA, con le antenne del radiotelescopio posizionate a 15 chilometri di distanza tra di loro.”Abbiamo raggiunto la migliore risoluzione spaziale per un disco protoplanetario con ALMA, e non sarà facile battere questo primato in futuro,” commenta Andrews. ALMA ha già osservato altri dischi protoplanetari, tra cui alcuni molto più giovani, come quello di HL Tauri, risalente a meno di un milione di anni fa. Confrontare le varie strutture di questi dischi permetterà agli scienziati di ricostruire la loro evoluzione e di risalire ai primi capitoli della storia del nostro stesso sistema solare.La risoluzione angolare delle immagini di HL Tauri è simile a quella delle immagini di TW Hydrae; tuttavia, essendo TW Hydrae quasi 275 anni luce più vicina alla Terra, i suoi ritratti sono di gran lunga più dettagliati.”TW Hydrae è speciale,” aggiunge David Wilner, sempre del CfA. “Si tratta del disco protoplanetario più vicino alla Terra e potrebbe assomigliare parecchio al nostro sistema solare quando anch’esso aveva 10 milioni di anni.”

6 aprile: La Luna occulta Venere

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A sinistra. Il percorso apparente di Venere rispetto alla Luna osservato da tre diverse località della penisola. L’orientamento è equatoriale, con il nord in alto e l’est a sinistra. Gli orari relativi ad altre località sono tabulati nella Tab. 2.
Il percorso apparente di Venere rispetto alla Luna osservato da tre diverse località della penisola. L’orientamento è equatoriale, con il nord in alto e l’est a sinistra. Gli orari relativi ad altre località sono tabulati nella tabella sotto.

L’evento in assoluto più importante del mese avverrà il giorno 6, quando verso le 9:12, dunque in pieno giorno, il nostro satellite (fase 1%) occulterà Venere (mag. –3,7).

Il fenomeno è più raro di quanto si possa pensare. Ogni anno in qualche parte del mondo si verificano in media due occultazioni di Venere da parte della Luna (da zero, fino ad un totale – molto raramente – di sei volte per anno), ma da una data località l’evento è osservabile, nella media del lungo periodo, soltanto una volta ogni 4 anni.

Qui da noi a parte l’eccezione siciliana del 2010 l’evento mancava addirittura da 8 anni.

Orari di inizio e fine occultazione

Località Ingresso Uscita
Torino 9:15 10:12
Milano 9:17 10:15
Venezia 9:20 10:21
Bologna 9:17 10:19
Firenze 9:15 10:18
Roma 9:11 10:19
Cagliari 9:02 10:10
Ancona 9:16 10:22
Napoli 9:10 10:22
Bari 9:14 10:27
Catania 9:04 10:20
Palermo 9:03 10:17

Non sarà però un’osservazione “per tutti”, nel senso che non basterà alzare gli occhi al cielo per vederla… L’occultazione, infatti, avverrà verso le nove del mattino, con il Sole già sopra l’orizzonte, e sarà quindi da affrontare muniti di uno strumento ottico, come un binocolo o un piccolo telescopio, opportunamente schermati. La cosa potrebbe risultare strana a un profano, ma chi ama l’astronomia sa che durante il giorno si possono effettuare diverse osservazioni astronomiche interessanti.

Continua a leggere su Coelum n. 199, troverai tutte le tabelle, i consigli per l’osservazione e le animazioni dell’evento! E’ gratis!

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Il cielo di aprile 2016

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Aspetto del cielo per una località posta a Lat. 42°N - Long. 12°E La cartina mostra l’aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 aprile > 22:00 - 15 aprile > 21:00 - 30 aprile > 20:00

EFFEMERIDI

Luna

Sole e Pianeti

Giove e satelliti medicei

Dando un’occhiata al cielo verso l’inizio della notte astronomica di metà aprile (ovvero poco prima delle 22:00), vedremo Orione e Toro – le prime costellazioni del cielo invernale a scivolare verso la congiunzione eliaca – ormai prossime all’orizzonte ovest. Solo l’Auriga e i Gemelli, più alte in declinazione, terranno ancora testa alle incalzanti costellazioni primaverili. Tra queste, alle 23:00 il Leone sarà già in meridiano, seguito più a est dalla Vergine e da Boote. Sull’orizzonte di est-nordest, comincerà ad alzarsi la grande figura dell’Ercole, seguita a notte fonda dalla Lira e dal Cigno. Lo zenit sarà invece dominato dalla grande figura dell’Orsa Maggiore

continua a leggere

Ordinaria amministrazione anche in aprile per ciò che riguarda i fenomeni del mese. Quello più intrigante, un’occultazione di Venere che manca in Italia dal dicembre 2008 (per la verità ce ne fu una anche nel maggio 2010, ma si vide solo dalla Sicilia), si verificherà però di giorno… il che restringerà di molto la cerchia di quanti sapranno o potranno seguirla, ma ecco, cliccando qui, la lista completa degli eventi che secondo noi varrà la pena di osservare e fotografare.

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Trovato un altro KBO: una nuova prova dell’esistenza del Nono Pianeta?

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Il twit con l'annuncio di Mike Brown.

Dopo un anno e mezzo di simulazioni, Brown e il collega Konstantin Batygin, assistente in scienze planetarie, si sono convinti che deve esserci un importante pezzo del Sistema Solare là fuori, ancora sconosciuto.
Il Nono Pianeta avrebbe un’orbita molto eccentrica di 10.000-20.000 anni attorno al Sole. Secondo gli scienziati questo spiegherebbe alcune curiose caratteristiche osservate negli oggetti della remota Fascia di Kuiper, la regione che si estende dall’orbita di Nettuno cioè dalla distanza di 30 UA (Unità Astronomiche) fino a 50 UA dal Sole.

In questo schema sono rappresentate le orbite dei sei oggetti noti più distanti del Sistema Solare e quella del Nono Pianeta. Credit: Caltech/R. Hurt (IPAC)

In particolare, sono le orbite di 6 corpi transnettuniani (TNO Trans Neptunian Object), sui 13 noti, a destare sospetti: queste sembrano puntare nella stessa direzione dello spazio fisico, con un’inclinazione quasi identica rispetto al piano geometrico su cui si muove il Sistema Solare.

Ora, mentre ricerche parallele cercano di definire la posizione dell’ipotetico mondo, secondo Brown il nuovo KBO – denominato uo3L91, appena scoperto grazie al Canada France Hawaii Telescope nell’ambito del programma Outer Solar System Origins Survey (OSSOS) – sarebbe un importante pezzo del puzzle in grado di “ridurre la possibilità di un errore di matematico a circa lo 0,001 per cento“.

uo3L91 sembra condividere il comportamento orbitale degli altri sei oggetti, suggerendo che deve essere stato spinto da un grande pianeta a circa 149 miliardi chilometri dal Sole (75 volte più lontano di Plutone), o anche di più.

Tuttavia, anche se le dichiarazioni di Brown sembrano ottime congetture, lo studio non è ancora stato sottoposto a peer-review e i dettagli del nuovo oggetto ancora non sono stati rilasciati.

Un’indagine completa dovrà cercare le conferme necessarie studiando un numero maggiore di KBO per verificare se i dati sono davvero coerenti con la presenza di un pianeta lontano o se può esserci qualche altra spiegazione.
© Copyright Alive Universe

Gruppo Astrofili DEEP SPACE

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01.04: “Il re della foresta e il suo regno: il cielo di primavera” proiezione con commento di Mery Ravasio.

Per info: 0341.367584
www.deepspace.it

BALLE DI SCIENZA Storie di errori prima e dopo Galileo

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A quasi due anni di distanza dal successo di Pisa, cantonate, errori e bufale scientifiche tornano protagonisti e sbarcano in Sicilia, alle falde dell’Etna, infatti, il museo Città della Scienza – Università di Catania ospiterà la seconda edizione della mostra, curata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania. Un’occasione in più per lasciarsi guidare alla scoperta di abbagli e coincidenze che hanno segnato la storia della scienza.

La mostra vi racconterà come gli errori accompagnano inevitabilmente il desiderio dell’uomo di conoscere: grandi scoperte – fatte qualche volta anche per caso – si intrecciano con clamorose sviste. Gli scienziati infatti portano in laboratorio, ed è difficile fare altrimenti, le proprie convinzioni religiose, filosofiche e culturali. In realtà, però, correggere i propri errori è l’essenza stessa del metodo scientifico, inaugurato da Galileo più di 400 anni fa. Ciò che conta è non perdere meraviglia e curiosità di fronte al mondo. Sbagliarsi fa parte del gioco.

Info e prenotazioni: ballediscienza@ct.infn.it
www.ballediscienza-catania.it

Un asteroide impatta (di nuovo) su Giove

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L'impatto scoperto dall'austriaco Kernbauer
L'impatto scoperto dall'austriaco Kernbauer

Giove ha da poco passato l’opposizione e si trova quindi nel periodo migliore dell’anno per essere osservato. Grazie alla numerosa schiera di appassionati di astronomia e di fotografia planetaria, il gigante gassoso è continuamente monitorato con un’ottima risoluzione e può quindi regalare sorprese inaspettate.

Lo scorso 17 Marzo, alle ore 00:17 UT (Tempo Universale) è arrivato il momento di una di quelle sorprese che ogni appassionato spera di ricevere e che di certo ci fanno ben comprendere come l’Universo non sia affatto un luogo statico e pacifico come potremmo erroneamente pensare.

Almeno due osservatori indipendenti hanno registrato un breve flash proveniente dal bordo del pianeta gassoso, che ha raggiunto una luminosità superiore a quella dei satelliti medicei. L’evento è stato scoperto per primo dall’astronomo dilettante austriacoKernbauer e poi confermato da John McKeon, a nord di Dublino.

L'impatto confermato da John McKeon

Con molta probabilità il flash, della durata dell’ordine di un secondo, è associabile all’impatto di un piccolo asteroide o di una cometa con l’atmosfera del gigante gassoso.

Non sono ancora disponibili stime delle dimensioni del corpo celeste che ha deciso di soccombere all’enorme forza di gravità di Giove e nemmeno una stima precisa della posizione, anche a causa del fatto che l’evento si è verificato proprio nei pressi del bordo, laddove la determinazione esatta della posizione presenta grossi problemi, all’altezza della banda equatoriale nord. L’impatto è comunque reale perché è stato registrato dalle camere planetarie che molti astronomi dilettanti utilizzano per catturare splendide immagini in alta risoluzione dei pianeti, quindi su un supporto di certo ben più oggettivo dell’occhio umano. I due video che mostrano il flash sono stati pubblicati su YouTube e sono visualizzabili quiqui.

Osservando a occhio i filmati disponibili è ragionevole stimare che il corpo impattante potrebbe avere avuto un diametro massimo di qualche decina di metri, probabilmente non troppo dissimile dal meteorite di 17 metri di diametro che nel Febbraio del 2013 solcò i cieli della Siberia, portandosi dietro una lunga scia di danni causati dalle onde d’urto generate dall’impatto con gli strati atmosferici più densi, a circa 30-50 km di altezza. Si tratta tuttavia di una rozza stima, perché l’evento potrebbe essere avvenuto nella porzione di Giove non visibile dalla Terra in quel momento. Se questa ipotesi si rivelasse vera, l’energia liberata potrebbe essere stata maggiore, quindi l’asteroide (o la cometa) aumentare di dimensioni.

Sarà interessante notare l’eventuale presenza di cicatrici nell’atmosfera di Giove, che potrebbero presentarsi come delle zone molto scure, quasi come l’ombra lasciata dal passaggio di un satellite mediceo, ma dalla forma più irregolare. Queste cicatrici sono lasciate dagli impatti più violenti che hanno un’alta penetrazione nell’atmosfera gioviana, al punto da bloccare in modo temporaneo i possenti moti convettivi che mantengono sempre in movimento i gas atmosferici. Se il corpo celeste era più grande di 10-20 metri potrebbe aver lasciato una traccia visibile anche con telescopi di piccolo diametro (10 cm).

Assistere in diretta all’impatto di un asteroide, o una piccola cometa, con un corpo celeste che si trova a una distanza che non ha bisogno di scomodare l’anno luce per essere espressa, e che orbita attorno alla nostra stessa stella, rappresenta di certo una forte emozione ma anche un piccolo campanello d’allarme perché ci rende partecipi in prima persona, e quasi in diretta, di quanto sia affollato il Sistema Solare, quindi potenzialmente pericoloso.

Chi ha un telescopio, quindi, osservi il pianeta gassoso in questi giorni, alla ricerca di eventuali tracce scure nei pressi della banda equatoriale nord, tipiche degli impatti più violenti.

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Una zona più affollata del previsto

L’impatto registrato lo scorso 17 Marzo non è infatti che l’ultimo di una lunga serie.
L’evento più spettacolare e violento è avvenuto nell’estate del 1994 con una ventina di frammenti della cometa Showmaker-Levy 9 che hanno lasciato profondi e duraturi segni nell’atmosfera di Giove, grandi fino al diametro del nostro pianeta. Fu la prima volta che l’essere umano osservava un oggetto schiantarsi contro un pianeta.

Tutti gli altri impatti registrati risalgono agli ultimi 7 anni e sono opera di astronomi dilettanti.

Il 19 Luglio 2009 l’australiano Anthony Wasley ha scoperto per primo le cicatrici lasciate da un probabile impatto asteroidale, simili a quelle prodotte dai frammenti cometari del 1994. Nessuno, però, aveva assisito in diretta all’evento vero e proprio, che si è stimato essere stato prodotto da un asteroide compreso tra 200 e 500 metri di diametro.

Il 3 Giugno 2010 il famoso imager planetario Christopher Go ha registrato per la prima volta il flash prodotto dall’ingresso nell’atmosfera Gioviana di un asteroide o una cometa dal diametro di una decina di metri.

Il 20 Agosto dello stesso anno sempre Go, con la conferma di altri osservatori, registrò un altro flash associabile a un nuovo impatto.

Il 10 Settembre 2012 un altro flash associato a un impatto è stato avvistato questa volta visualmente dall’astronomo dilettante Dan Petersen e poi confermato da una ripresa di George Hall. Erano quindi quattro anni e mezzo che non si osservavano più eventi di questo tipo, che ora molti planetologi ritengono più frequenti di quanto si pensasse prima del prezioso aiuto arrivato dalla comunità amatoriale nel corso degli ultimi 10 anni.

Capire quanto sia affollato il Sistema Solare e il ruolo che ha Giove nel proteggerci attirando su di sé molte comete e asteroidi sono attività fondamentali per ogni abitante della Terra che spera che la sua e le altre specie possano sopravvivere ancora per molto tempo.

Sull’argomento

Società Astronomica Fiorentina

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31.03: Serata osservativa alla scoperta del cielo con Claudio Filipponi. Presso la BiblioteCaNova
Isolotto che si trasforma in un vero Osservatorio per tutti i curiosi e gli appassionati del cielo! In caso di maltempo la serata si svolgerà al quarto piano all’interno della biblioteca. Via Chiusi, 4/3 A, Isolotto (Firenze).

Per info: cell. 377.1273573 –
presidente@astrosaf.it
www.astrosaf.it

Al Planetario di Ravenna

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29.03: “Le aurore boreali: un
fenomeno fantastico e bellissimo” di Claudio Balella.

Prenotazione sempre consigliata.
Per info: tel. 0544.62534 –
info@arar.it – www.arar.it
www.racine.ra.it/planet

Chi ha detto che lo spazio è vuoto?

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Avete presente Orione, la grande costellazione che domina le notti invernali?

Chi sa riconoscerla non può non rimanere affascinato dalla sua forma singolare, disegnata da stelle che brillano talmente luminose sullo sfondo nero del cielo da incutere un senso di vertigine per il grande vuoto che sembra spalancarsi di fronte agli occhi dell’osservatore…

Pare proprio che tra stella e stella non esista niente, tranne che il freddo e lo spazio desolatamente vuoto…

Per aiutarvi a ricordare l’aspetto di quel fantastico giardino d’inverno, dove sembrano esistere soltanto fiori (e niente steli, foglie, rami, cespugli e sottoboschi), vi proponiamo qui in alto sulla sinistra una foto di ciò che usualmente si può vedere (anche stasera, se volete, declinante sull’orizzonte sudovest) alzando gli occhi al cielo non appena fa buio, mentre a destra… beh, a destra portiamo alla vostra attenzione una straordinaria fotografia della stessa regione realizzata dall’amatore americano Matt Harbison (vedi anche la versione più grande qui sotto, e quella originale, con tutti i dati alla pagina www.astrobin.com/239186/).

Stupiti? Eppure non c’è dubbio, è proprio la stessa regione: potete riconoscerne le stelle una ad una!

Cliccare per ingrandire questa spettacolare ripresa di Matt Harbison. L'originale, con tutti i dati di acquisizione, lo trovate alla pagina www.astrobin.com/239186/

Vi rendete conto della differenza, dello sfolgorio di polveri e di gas che si cela nel buio in cui credevamo le stelle fossero avvolte? L’uso di una lunga posa, abbinata a particolari metodi di ripresa, rivela in questa immagine (per continuare con la metafora del giardino) il fitto intrico di arbusti su cui – visualmente – si appuntavano i fiori di Betelgeuse, Rigel, della Cintura, e anche quello della Grande nebulosa, l’unica porzione del sottobosco in qualche modo osservabile anche solo con l’aiuto di un binocolo…

In effetti, la nostra Galassia non è solo un insieme di stelle separate dal vuoto assoluto… c’è anche molto gas, idrogeno soprattutto, mescolato a particelle di polvere. Ed è proprio nelle nubi di gas più dense che si formano le stelle, anche se parlare di densità avendo sotto gli occhi una fotografia come questa, dove l’universo sembrerebbe saturato da una fitta nebbia multicolore potrebbe portare a conclusioni davvero sbagliate.

Le densità in gioco è infatti anche inferiore a quella del vuoto più spinto ottenibile nei laboratori terrestri… una nebbiolina indicibilmente tenue (solo una decina di atomi per decimetro cubo), che solo grazie alla smisurata profondità del campo fotografato (centinaia di anni luce) riesce ad impressionare il sensore della macchina da ripresa in un modo così spettacolare!

E la luce che illumina la scena, assolutamente invisibile ad occhio nudo, viene dalle stelle nate da quella polvere, in un ciclo di nascita e morte che si ripete ormai da 13 miliardi di anni.

P.S. Tutto ciò ha un nome… l’insieme di stelle, gas e polveri si chiama “Complesso molecolare di Orione”, un’incubatrice di stelle distante da noi circa 1500 anni luce.

Le macchie bianche di Cerere finalmente viste da “vicino”!

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Le misteriose macchie bianche di Ceres finalmente viste da vicino, questa immagine è solo la parte centrale, che inquadra le macchie al centro del cratere Occator, di un'immagine ad altissima risoluzione che potete scaricare, in vari formati, qui: http://dawn.jpl.nasa.gov/multimedia/images/image-detail.html?id=PIA20350. Il cratere ha un diametro di circa 92 km, e una profondità di circa 4 km. L'immagine è stata ripresa durante l'orbita bassa (LAMO) di Dawn a 385 km dalla superficie. L'immagine originale è di 7702 x 7702 pixel. Credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA/PSI

Finalmente rilasciate le prime immagini ravvicinate delle macchie luminose di Cerere, scattate dall’ultima orbita della sonda attorno al pianeta nano, circa 385 chilometri al di sopra superficie grigiastra di questo mondo alieno.

Una proiezione di Mollweide di Cerere in blu (438 nm), verde (555 nm) e infrarosso (965 nm). Credits: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Le macchie bianche sono situate al centro del cratere Occator, una cicatrice da impatto larga 92 chilometri e profonda quattro. La sonda Dawn le aveva avvistate già durante la fase di avvicinamento, in virtù della loro elevata luminosità – la più alta riscontrata finora da Dawn sulla superficie del pianeta nano.

La straordinaria risoluzione delle immagini rivela la presenza di una cupola geologica che si erge dall’interno di una fossa liscia situata nel cuore del cratere, in corrispondenza della macchia più centrale. Le propaggini a nord e ai lati della cupola sono tagliate da numerose fratture lineari.

Le macchie bianche di Occator in falsi colori, per evidenziare la struttura a cupola al centro. L'immagine è stata ottenuta dalla sovrapposizione delle ultime immagini ad alta risoluzione del cratere con quelle a colori del settembre 2015, a più bassa risoluzione. I colori poi sono stati esaltati per mettere in risalto la struttura e la serie di linee e fratture che la caratterizzano. credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA/PSI/LPI

“Prima che Dawn iniziasse le sue osservazioni dettagliate di Cerere, il cratere Occator sembrava un’unica area luminosa. Ora, con le nuove immagini ad alta risoluzione, riusciamo a vedere complesse strutture che ci forniscono nuovi misteri da investigare,” spiega Ralf Jaumann del DLR. “L’intricata geometria all’interno del cratere suggerisce un’attività geologica nel recente passato, ma dovremo completare una mappatura geologica dettagliata del cratere prima di poter ricostruire la sua formazione.”

Le prime stime suggeriscono che il cratere Occator sia uno dei più giovani su Cerere, forse risalente a soli 80 milioni di anni fa, ma non è l’unico: Dawn ha mappato più di 130 aree luminose sulla superficie di Cerere, la maggior parte delle quali sono associate a crateri da impatto. Secondo uno studio guidato da Andreas Nathues, del Max Planck Institute for Solar System Research, la composizione del materiale chiaro è compatibile con la presenza di un solfato di magnesio noto come esaidrite. Si pensa che le aree chiare ricche di sale si siano formate in seguito alla sublimazione di acqua ghiacciata.

“La natura globale dei punti luminosi di Cerere suggerisce che possa avere uno strato sotterraneo di ghiaccio d’acqua,” spiega Nathues. I puntini luminosi al centro del cratere Occator, in particolare, riflettono circa la metà della luce che ricevono.

Importanti novità arrivano anche dal resto della superficie di Cerere.

I conteggi di neutroni, dal minimo in blu al massimo in rosso. Credits: NASA/JPL-Caltech/UCLA/ASI/INAF

“Nonostante i processi d’impatto dominino la geologia superficiale di Cerere, abbiamo identificato specifiche variazioni di colore sulla superficie indicando alterazioni chimiche dovute a una complessa serie di processi tra gli impatti e la composizione del sottosuolo,” spiega Jaumann. “Inoltre, ciò conferma la presenza di uno strato sotterraneo ricco di ghiaccio e materiali volatili.”

Ulteriori indizi a favore della presenza di tale strato sotterraneo emergono dai dati dello strumento GRaND, entrato in azione proprio nel corso di quest’ultima orbita. I conteggi di neutroni e raggi gamma effettuati dal rilevatore evidenziano importanti dettagli nella composizione chimica della superficie. I dati riguardano in media il primo metro di sottosuolo. Le analisi mostrano popolazioni di neutroni più modeste attorno alle regioni polari rispetto che alle regioni equatoriali, un risultato indicativo della maggiore concentrazione di idrogeno a latitudini più elevate. Trattandosi delle regioni polari, gli scienziati sospettano che l’idrogeno sia presente assieme all’ossigeno in forma di acqua allo stato solido.”Le nostre analisi metteranno alla prova l’ipotesi che il ghiaccio d’acqua possa sopravvivere appena al di sotto della gelida superficie polare di Cerere per miliardi di anni,” spiega Tom Prettyman del Planetary Science Institute.

Il cratere Haulani, largo 34 km, spiato da VIR. In blu, la luce a 1200 nm di lunghezza d'onda; in verde, 1900 nm; in rosso, 2300 nm. Credits: NASA/JPL-Caltech/UCLA/ASI/INAF

La superficie di Cerere, a livello globale, è costituita perlopiù da carbonati e da fillosilicati. L’abbondanza relativa di questi materiali tra di loro risulta tuttavia piuttosto variabile. Il cratere irregolare Haulani, in particolare, con le sue strisce di materiale luminoso, ha catturato l’attenzione degli scienziati.”Le immagini in falsi colori mostrano che il materiale scavato dall’impatto è diverso dalla composizione generale della superficie di Cerere,” spiega Maria Cristina de Sanctis dell’INAF. “La diversità di materiali implica che lo strato sotterraneo è ben mischiato, oppure che l’impatto stesso ha alterato le proprietà dei materiali.”

La luce zodiacale

Gli osservatori dell’ESO in Cile si trovano in luoghi così bui che di solito l’unica cosa che li illumina in una notte senza Luna è la debole luce che viene dai miliardi di stelle della Via Lattea. Ma anche il cielo più buio non è completamente buio. Questo ESOcast descrive lo splendido fenomeno luminoso noto come luce Zodiacale, che a volte diffonde un bagliore spettrale nei cieli sopra ai telescopi dell’ESO. Si tratta del bagliore della luce del Sole che viene riflessa verso di noi dalla polvere presente nel piano del Sistema Solare (l’eclittica), polvere che viene creata dalle collisioni tra asteroidi e dall’evaporazione delle comete. Un’altra ancora delle meraviglie naturali a cui gli astronomi hanno la fortuna di poter assistere agli osservatori dell’ESO; speriamo che anche voi possiate godervi lo spettacolo della luce Zodiacale!

Puoi iscriverti a ESOcasts su iTunes, ricevere i prossimi episodi su YouTube o seguirci su Vimeo.

Sono disponibili anche molti altri episodi di ESOcast.



Plenilunio con Giove

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Guardando verso sudovest la notte tra il 22 e il 23 marzo si potrà assistere all’ennesima congiunzione tra Luna e Giove di questo periodo.

L’ultima si era avuta il 24 febbraio e questa di marzo ne sarà quasi una ripetizione. La Luna, quasi piena e all’incirca nella stessa identica fase di allora, avvicinerà Giove fino a una distanza di 2,7° (in febbraio la separazione fu di 2,3°). La distanza minima sarà raggiunta alle 3:30 del mattino, a quell’ora i due oggetti saranno alti circa +20°.
Con un cielo trasparente e senza umidità dovremmo poter assistere a uno splendido scenario da plenilunio. La Luna sarà decisamente invasiva con il suo chiarore, ma anche così gli astrofotografi più bravi riusciranno senz’altro a ricavare suggestivi accostamenti tra il cielo e gli elementi del paesaggio.

Tutte le effemeridi di Sole, Luna e pianeti sul Cielo di Marzo

Tutti gli eventi del cielo di marzo li trovi su Coelum Astronomia n.198

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Gruppo Astrofili William Herschel

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Quest’anno il gruppo astrofili William Herschel propone un corso di astrofotografia: Leonardo Orazi, astrofotografo (www.starkeeper.it), introdurrà, in cinque conferenze, gli strumenti e le tecniche per ottenere splendide immagini degli oggetti celesti!
Ingresso libero.
Gli incontri si terranno nei giorni 16 e 22 febbraio, 15 e 22 marzo, 19 aprile a partire dalle ore 21:30, presso la sala riunioni della Parrocchia Immacolata Concezione e San Donato ini Via Saccarelli 10, Torino.
Per informazioni: info@gawh.net
www.gawh.net

Al Planetario di Ravenna

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22.03: “Einstein e la forma della
spazio: un secolo di Relatività” di Oriano Spazzoli.

Prenotazione sempre consigliata.
Per info: tel. 0544.62534 –
info@arar.it – www.arar.it
www.racine.ra.it/planet

Le strane macchie luminose di Cerere

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Questa rappresentazione artistica mostra una mappa dettagliata della superficie, compilata a partire dalle immagini ottenute dal satellite Dawn della NASA in orbita intorno al pianeta nano Cerere. Mostra le chiazze di materiale brillante nel cratere Occator. Le nuove osservazioni con lo spettrografo HARPS montato sul telescopio da 3,6 metri dell’ESO a La Silla in Cile hanno rivelato cambiamenti inaspettati di queste macchie da un giorno all’altro, il che suggerisce che siano dovuti all’influenza della luce solare. Crediti: ESO/L.Calçada/NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA/Steve Albers/N. Risinger (skysurvey.org)
In questa rappresentazione artistica una mappa dettagliata della superficie, ottenuta con le immagini dalla missione Dawn. Mostra le ormai famose macchie bianche nel cratere Occator che, dalle nuove osservazioni con lo spettrografo HARPS, hanno mostrato cambiamenti inaspettati. Crediti: ESO/L.Calçada/NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA/Steve Albers/N. Risinger (skysurvey.org)

Lo spettrografo HARPS all’Osservatorio dell’ESO di La Silla in Cile ha osservato il pianeta nano Cerere, il più grande oggetto della fascia degli asteroidi tra Marte e Giove. Lo strumento montato sul telescopio da 3,6 metri dell’ESO ha rivelato cambiamenti inaspettati nella luminosità delle macchie bianche. Queste osservazioni suggeriscono che la materia di cui sono composte possa essere volatile ed evapori grazie al calore della luce solare.

In questa immagine le macchie bianche nel cratere Occator riprese dalla sonda della NASA DAWN. Per ottenere l'immagine (a causa della forte brillantezza delle macchie) si è dovuta sommare, alla normale esposizione per riprendere la superficie di Cerere e i suoi dettagli, un'immegine con esposizione nettamente inferiore per raccogliere i dettagli delle macchie. Cliccare per vedere l'immagine a piena risoluzione (140 metri per pixel). Image credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

La sonda Dawn della NASA, a cui partecipa l’Italia attraverso l’Agenzia Spaziale Italiana con lo strumento VIR dell’INAF, è in orbita intorno a Cerere da più di un anno e ne ha mappato la superficie in gran dettaglio. Una delle maggiori sorprese è stata la scoperta di macchie molto luminose, che riflettono molta più luce del resto della superficie circostante più scura. La più evidente di queste macchie si trova all’interno del cratere Occator e suggerisce che Cerere sia un mondo più attivo degli asteroidi vicini. Le macchie luminose erano state viste, anche se meno chiaramente, in immagini precedenti di Cerere ottenute dal telescopio spaziale Hubble della NASA/ESA tra il 2003 e il 2004.

Secondo l’autore principale dello studio, Paolo Molaro, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste “mentre Cerere ruota, le macchie si avvicinano a Terra e poi si allontanano e questo ha un effetto sullo spettro della luce del Sole, riflessa dalla superficie, che arriva fino a Terra”.

Cerere ruota su se stesso ogni nove ore e i calcoli hanno mostrato che l’effetto dovuto al moto delle macchie in avvicinamento o allontanamento dalla Terra a causa della rotazione sarebbe stato molto piccolo, dell’ordine di 20 chilometri all’ora, ma abbastanza grande da essere misurabile tramite l’effetto Doppler con strumenti ad alta precisione come HARPS.

L’equipe ha quindi osservato Cerere con HARPS per poco più di due notti tra luglio e agosto 2015 e il risultato è stata una vera sorpresa, perché nello spettro sono state riscontrate si le variazioni attese, dovute alla rotazione di Cerere, ma con differenze considerevoli tra una notte e l’altra.

L’equipe ha concluso che i cambiamenti osservati potrebbero essere dovuti alla presenza di sostanze volatili che evaporano per effetto della radiazione solare. È stato suggerito che il materiale molto riflettente nelle macchie su Cerere possa essere ghiaccio d’acqua esposto di recente in superficie o solfato idrato di magnesio… purtroppo la fonte di questa continua perdita di materia dalla superficie non è ancora nota. Si sa che Cerere contiene al suo interno molte riserve d’acqua, ma non è ancora chiaro se le macchie luminose siano davvero legate a questa.

Ad ogni modo quando le macchie all’interno del cratere Occator sono sul lato illuminato dal Sole, si formerebbe una foschia che riflette la luce del Sole in modo molto efficiente. La foschia evaporerebbe poi rapidamente (nel giro di poche ore), perdendo riflettività e producendo i cambiamenti osservati, in modo diverso da notte a notte, con effetti casuali aggiuntivi osservati su tempi scala sia brevi che lunghi.

Se questa interpretazione venisse confermata, sarebbe un motivo in più per ipotizzare un’attività interna, Cerere si confermerebbe molto diverso da Vesta e dagli altri asteroidi della fascia principale, pur essendo relativamente isolato (la maggiorparte dei corpi del Sistema Solare con attività interna, come i grandi satelliti di Giove e Saturno, sono soggetti a forti effetti mareali a causa della vicinanza con i pianeti massicci).

Per saperne di più:

QUI l’articolo: “Daily variability of Ceres’ Albedo detected by means of radial velocities changes of the reflected sunlight”, di P. Molaro, A. F. Lanza, L. Monaco, F. Tosi, G. Lo Curto, M. Fulle e L. Pasquini

Tratto da “Un anno intorno a Cerere” di Marco Di Lorenzo (leggi l’articolo completo) – fonte: aliveuniverse.today

Di seguito una selezione (cliccare le immagini per ingradirle o sul link del nome per il formato originale) delle più belle immagini inviate ultimamente dalla sonda, sempre in attesa (spasmodica) della vista dettagliata di Occator e del suo “bright spot”.

Cominciamo la carrellata con questa suggestiva porzione di terreno nella regione polare settentrionale; l’illuminazione radente conferisce ulteriore drammaticità al terreno fortemente craterizzato (PIA20395.jpg – Image credit: NASA/JPL – Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA).

L’immagine a sinistra, di cui avevamo già pubblicato la versione 3D “a volo d’uccello”, è estratta da un mosaico che riprende la regione attorno alla celebre montagna Ahuna, con un diametro di circa 20 km e la cui altezza è stata recentemente corretta scendendo a 4 km rispetto alla pianura circostante. La genesi di questo rilievo, così isolato e diverso dal terreno circostante, rimane oggetto di speculazioni (Porzione di PIA20348.jpg – il Nord è a sinistra – Image credit: NASA/JPL-Caltech /UCLA/MPS /DLR/IDA – processing: M. Di Lorenzo (DILO)).

L’immagine qui a destra si riferisce invece alla zona a Nord-Est del grande cratere Yalode (il cui bordo con fratture è visibile in bassa a sinistra) e mostra una affascinante “bright spot” diffuso, apparentemente non legato a un evento di impatto come in genere avviene  (PIA20398 – Image credit: NASA/JPL -Caltech/UCLA /MPS/DLR/IDA).

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