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Missione Hera. L’ESA visiterà l’asteroide più piccolo mai esplorato prima

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Hera nei pressi di Didymos. Copyright ESA–ScienceOffice.org
Hera nei pressi di Didymos. Copyright ESA–ScienceOffice.org
DI LUCA FRIGERIO · Astronautinews.it

La missione Hera dell’agenzia spaziale europea è destinata a stabilire un nuovo record nell’esplorazione dello spazio; infatti non solo la sonda sarà la prima a visitare un sistema asteroidale binario (la coppia Didymos), ma il più piccolo di questi due oggetti, delle dimensioni comparabili a quelle della Grande Piramide di Giza, in Egitto, diventerà il più piccolo asteroide mai raggiunto da una sonda spaziale.

Da lontano risulta molto difficile distinguere un asteroide dall’altro ed è quindi molto facile confonderli, a meno che non si vadano ad eseguire ulteriori approfondite analisi strumentali. La nota tabella delle dimensioni relative degli asteroidi e delle comete, redatta dalla Planetary Society sulla base delle ricognizioni svolte dalle varie sonde spaziali, paragona Didymos a un punto dalle modeste dimensioni e la sua minuscola luna alla grandezza di quasi un pixel.

L’asteroide Itokawa visitato dalla sonda giapponese Hayabusa1 ha un diametro di 350 m, mentre Bennu, attorno a cui attualmente sta orbitando la sonda della NASA Osiris-REx ha una larghezza di 500 m; dal canto suo, Didymos misura 780 metri, quindi la sua microscopica luna, larga 160 m e denominata “Didymoon”, diventerà il più piccolo asteroide mai visitato da una sonda robotica.

Asteroidi conosciuti paragonati in dimensione a Didymoon, la dimensione della piccola luna è indicata dal trattino sopra l

«Le dimensioni minuscole di Didymoon diventano subito chiare quando osservi gli altri asteroidi,» spiega il responsabile scientifico di Hera, Patrick Michel, CNRS Director of Research of France’s Côte d’Azur Observatory.

Patrick è inoltre co-investigator e scienziato interdisciplinare della missione giapponese Hayabusa2 sull’asteroide Ryugu, che ha un diametro di circa 1 km: «Le immagini inviate da Hayabusa2 mostrano un enorme masso vicino al polo nord di Ryugu, ed esso è all’incirca delle stesse dimensioni di Didymoon».

Il primo test di difesa planetaria dell’umanità

La sua minuscola taglia è stata la ragione per cui Didymoon è stata scelta per un esperimento pionieristico di difesa planetaria. Nel 2022, la sonda spaziale DART (Double Asteroid Redirection Test) della NASA, impatterà Didymoon per tentare di cambiarne l’orbita attorno al suo compagno più grosso, al fine di testare la fattibilità di una manovra di deviazione o deflessione orbitale. L’orbita di Didymos non incrocia quella della Terra, quindi è esclusa la possibilità che l’esperimento di deflessione possa creare pericolo di impatti per il nostro pianeta.

Il profilo della missione DART della NASA. Copyright: NASA

«Questa non è di certo la prima sonda ad impattare con un corpo planetario», aggiunge Patrick. «La sonda Deep Impact della NASA si schiantò sulla cometa Tempel 1 nel 2005 non per tentare di deviarne il percorso, visto che la cometa aveva un diametro di 6 km, ma per esporre il materiale presente al di sotto della sua superficie. Tuttavia Didymoon è sufficientemente piccola e ha una sufficientemente stretta orbita attorno al suo compagno, che percorre in circa 12 ore, che si pensa possa venire deviata in modo misurabile».

La sonda europea Hera entrerà in gioco dopo l’impatto, quando raggiungerà Didymos nel 2026 per raccogliere informazioni chiave, impossibili da ottenere tramite le osservazioni dalla superficie terrestre, come la massa dell’asteroide, le sue proprietà superficiali e la forma del cratere scavato da DART.

«Otterremo una buona stima sul trasferimento del momento di impatto e quindi la sua efficienza come tecnica di deflessione» spiega il project scientist di Hera per l’ESA, Michael Küppers. «Questi parametri sono fondamentali per permettere la validazione dei modelli numerici da impatto necessari per progettare future missioni di deflessione di un oggetto celeste. Capiremo meglio se questa tecnica può essere usata anche per asteroidi più grandi, dandoci la certezza di poter proteggere il nostro pianeta se necessario».

Didymoon è di importanza rilevante per l’esecuzione di questo test, visto che fa parte della classe più rischiosa di Near-Earth Asteroids a causa delle dimensioni relativamente ridotte; infatti i corpi celesti più grandi possono essere tracciati più facilmente, quelli più piccoli bruciano nell’atmosfera o possono recare dei danni limitati, mentre un oggetto delle dimensioni di Didymoon, potrebbe devastare un’intera regione del nostro pianeta.

Pianetini a bassa gravità

Naturalmente il sistema Didymos ha anche una valenza scientifica, offrendo la possibilità di studiare da vicino questi sistemi binari che formano circa il 15% degli asteroidi conosciuti.

«Didymos ruota molto rapidamente compiendo un giro su sé stesso ogni due ore» spiega Patrick. «Attorno al suo equatore, la sua debole forza gravitazionale potrebbe essere superata dalla forza centrifuga e potenzialmente del materiale potrebbe sollevarsi dalla sua superficie; questa è infatti la teoria sull’origine di Didymoon. Pertanto, atterrare sul suo equatore potrebbe essere impossibile, mentre sui poli potrebbe essere fattibile».

«A causa delle sue minuscole dimensioni, conosciamo ben poco di Didymoon, ma riteniamo che debba ruotare con una faccia sempre rivolta verso l’asteroide compagno, proprio come fa la nostra Luna con la Terra, pertanto essa dovrebbe ruotare sul suo asse maggiore molto lentamente, con una velocità uguale al suo periodo orbitale. Si prevede di farvi atterrare almeno un CubeSat, benché verrà richiesta una navigazione molto precisa. L’asteroide dovrebbe avere un milionesimo della gravità terrestre, con una velocità di fuga di soli 6 cm al secondo, pertanto ci sarà il pericolo che il CubeSat possa rimbalzare verso lo spazio».

Patrick inoltre suggerisce che gli oggetti della classe di Didymoon possano essere ottimali per attività di sfruttamento minerario, visto che gli oggetti più grandi sono comparativamente più rari, mentre quelli più piccoli sono soggetti a ruotare velocemente a causa del graduale riscaldamento solare.

Hera deve essere presentata allo Space19+ Council, ovvero il meeting dei ministri europei per le attività spaziali, per essere approvata, e quindi partirà per la sua missione nel 2023. Raccoglierà il testimone di Rosetta, riguardo all’esplorazione di piccoli corpi celesti, beneficiando dell’esperienza raccolta lungo i suoi 12 anni di missione. La pianificazione a lungo termine è cruciale per la realizzazione di missioni del futuro, e per assicurare il continuo sviluppo di tecnologia innovativa, ispirando nuove generazioni di scienziati e ingegneri europei.

Il filmato di presentazione della missione Hera:

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Ordine e Caos a Mogliano Veneto (TV)

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ordine e caosCinque incontri, da dicembre a marzo per parlare di… Ordine e disordine, contraddizione spesso solo apparente dove il disordine è un ordine che non riusciamo a capire, oppure l’energia che metterà in moto un ordine al momento solo potenziale. La scienza studia disordini cercando di coglierne i principi che permetteranno di comprenderne l’ordine e dunque il disordine rappresenta la sfida alla nostra conoscenza che stimola la ricerca.
I prossimi appuntamenti:
22.02: Il nostro caotico sistema solare: dai pianeti ai detriti spaziali – Alessandra Celletti (Università di Roma Tor Vergata)
08.03: Dal nulla è nato l’universo – Sabino Matarrese (Università di Padova)
Il programma e tutti i dettagli sul nostro sito: http://circologalilei.somsmogliano.it

AstronomiAmo

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AstronomiAmo

20.02, ore 20:30: Universo in una stanza, presso Ceccano (FR)
28.02 ore 21:30: Occhi al Cielo, diretta streaming

Info su:
https://www.astronomiamo.it

Colazione con Venere e Saturno

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I due pianeti sorgeranno poco prima delle cinque, e si alzeranno in cielo sempre più, l'orario consigliato è quindi a una buona altezza, per avvistarli e riprenderli con comodità nel paesaggio, ma prima che, Saturno per primo, spariscano nel chiarore del mattino. Fino a che ora riuscirete ad avvistarli?

Bella la congiunzione che si verificherà tra Venere (mag. –4,2) e Saturno (mag. +0,6) la mattina del 18 febbraio, poco dopo le ore 6.

I due pianeti saranno separati di poco più di 1°. Lo sfondo sarà quello del Sagittario e, in particolare, sarà possibile scorgere la stella Eta Sagittarii (mag. +2,8) appena poco a sud di Venere.

Si tratta di un fenomeno da gustare a occhio nudo e da immortalare in fotografia, magari incorniciato nel contesto del paesaggio, essendo i protagonisti alti circa 10° all’orario indicato in cartina.

Le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio 2019

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Grazie Oppy, missione compiuta

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Un'immagine sicuramente drammatica ed evocativa, questa, dell'ombra del rover, ripresa con la camera frontale al sol 180 (il 26 luglio 2004), quando il rover doveva inoltrarsi nel cratere Endurance, nella Meridiani Planum di Marte. Una scelta perfetta per dare l'addio all'esploratore robotico. Credits: NASA/JPL-Caltech
Un’immagine sicuramente drammatica ed evocativa, questa, dell’ombra del rover, ripresa con la camera frontale al sol 180 (il 26 luglio 2004), quando il rover doveva inoltrarsi nel cratere Endurance, nella Meridiani Planum di Marte. Una scelta perfetta per dare l’addio all’esploratore robotico. Credits: NASA/JPL-Caltech

8 mesi, più di mille comandi inviati e, martedì 12 febbraio, un twit della NASA che ha annunciato l’ultimo tentativo, l’ultimo comando, inviato tramite l’antenna Mars Station di 70 metri presso il Goldstone Deep Space Complex verso il Pianeta Rosso, per provare a risvegliare e a mettersi in contatto con il MER-B (Mars Exploration Rover) Opportunity, Oppy per gli amici.

E Oppy non ha risposto…
Si è deciso di concludere così i tentativi di rimmettersi in contatto con il rover, dopo che la tempesta globale marziana, iniziata alla fine del maggio 2018, ne aveva interrotto le operazioni.

L’ultimo contatto con Opportunity è stato quello dell’11 giugno (per l’Italia, 10 notte per gli USA), quando la luce del Sole è stata  oscurata dalle polveri al punto da non riuscire più a ricaricare le batterie, alimentate da pannelli solari.

«My battery is low, and it’s getting dark».

«Le mie batterie si stanno scaricando, e si stà facendo buio», questa la “traduzione” dell’ultimo messaggio dal rover, anzi… dalla rover: “she”, “lei” è il pronome che viene usato ovunque sui social.

Si è sperato che, conclusa la tempesta, Oppy si sarebbe riuscita a ricaricare a sufficienza per rimettersi in attività, ma nulla. Si è pensato che uno strato di polvere troppo spesso impedisse alla luce di arrivare ai pannelli solari, e si è sperato nella stagione dei venti in arrivo, in cui una raffica provvidenziale, come già successo in passato, li ripulisse dai depositi, permettendo al rover di riprendersi. Si è pensato anche a un qualche tipo di errore software che impedisse al rover di trasmettere, quindi non sono solo stati inviati segnali rimanendo all’ascolto per una risposta, ma sono stati anche inviati vari tipi di comandi, per provare a smuovere qualche corda, fino a sperare che forzando un riavvio di base si potesse risolvere un’ipotetica empasse.

Alla NASA le hanno provate proprio tutte, ma ormai l’inverno sta arrivando nell’emisfero in cui si trova Opportunity, e le poche speranze di ripresa sono state spazzate via, non dai venti… ma dalle rigide temperature che danneggeranno definitivamente, se già non l’hanno fatto, l’elettronica dell’anziano rover.

«Abbiamo fatto ogni ragionevole sforzo ingegneristico per cercare di recuperare Opportunity e abbiamo stabilito che la probabilità di ricevere un segnale è troppo bassa per continuare coni  tentativi di recupero», ha spiegato John Callas, manager del progetto Mars Exploration Rover (MER) presso il JPL, nella conferenza stampa indetta il 13 (alle 20 ora italiana) per comunicare l’addio al rover e iniziare la sua celebrazione.

«È grazie a missioni pionieristiche come quella di Opportunity che arriverà il giorno in cui i nostri coraggiosi astronauti cammineranno sulla superficie di Marte», ha infatti dichiarato l’amministratore della NASA Jim Bridenstine. «E quando quel giorno arriverà, una parte di quella prima impronta sarà di proprietà degli uomini e delle donne del team di Opportunity, e di un piccolo rover che sfidò le probabilità e fece così tanto nel nome dell’esplorazione».

I famosi mirtilli marziani, piccole sfere sulla superficie del pianeta, ricche di ematite. Una delle scoperte effettuate nei primi tre mesi di missione e tra le prime evidenze che decretavano la presenza di acqua liquida nell’antico passato di Marte. Il campo dell’immagine è di circa 3 cm di larghezza, ed è stata ripresa nell’aprile del 2004. Credit NASA/JPL-Caltech/Cornell/USGS

Thomas Zurbuchen, amministratore associato del direttorato delle missioni scientifiche della NASA, ha invece ricordato che «Per oltre un decennio, Opportunity è stata un’icona nel campo dell’esplorazione planetaria, insegnandoci come nell’antico passato Marte fosse un pianeta umido, potenzialmente abitabile, e rivelando paesaggi marziani ancora inesplorati».

E non solo, la missione pionieristica dei due MER – ricordiamo infatti che Oppy aveva un gemello, Spirit, altrettanto zelante che si è spento dopo più di 6 anni di invio di dati – doveva essere anche una missione di prova per testare la resistenza dei rover alle difficili condizioni di Marte. E proprio le rigide temperature del primo inverno che hanno dovuto affrontare sono state il primo e principale test superato con successo, e che ha fornito elementi preziosi per le missioni a seguire.

«Qualunque senso di perdita sentiamo ora deve essere mitigato con la consapevolezza che l’eredità di Opportunity continua – sia sulla superficie di Marte, con il rover Curiosity e il lander InSight, sia nelle clean room del JPL, dove il prossimo rover Mars 2020 sta prendendo forma».

Progettati per durare solo 90 giorni marziani e viaggiare fino a 1 chilometro di distanza, i due MER hanno proseguito la loro missione oltre ogni attesa. Opportunity in particolare ha ampiamente superato tutte le aspettative in termini di resistenza, valore scientifico e longevità, quasi triplicando la già notevole durata del rover gemello.

Dal giorno in cui è arrivata sulla superficie di Marte, ingegneri di missione, piloti del rover e scienziati hanno collaborato per superare le sfide che si sono trovati davanti, e per portare Oppy da un sito geologico marziano all’altro. Hanno tracciato strade percorribili su terreni accidentati, in modo che l’esploratrice robotica di 174 chili potesse aggirare rocce e massi, arrampicarsi su pendii cosparsi di ghiaia con una pendenza fino a 32 gradi (un record, al di fuori della Terra), sondare la platea del cratere, le colline sommitali e attraversare i letti di probabili fiumi ormai asciutti.

Oltre a superare la sua aspettativa di vita di ben 60 volte, Oppy ha percorso più di 45 chilometri, fino al ramo occidentale della Perseverance Valley. Un luogo dal nome che rende senz’altro giustizia alla sua principale caratteristica… la perseveranza.

«Non riesco a pensare a un luogo più appropriato per Opportunity, per restare per sempre sulla superficie di Marte, di quello che si chiama Perseverance Valley», sono le parole di Michael Watkins, direttore del JPL, che continua: «I record, le scoperte e la assoluta tenacia di questo piccolo e intrepido rover sono la testimonianza dell’ingegno, della dedizione e della perseveranza delle persone che l’hanno costruito e guidato».


La NASA ha messo a disposizione alcune delle più belle immagini di questa missione, fina dal giorno dell’ultimo tentativo, per chi volesse mandare, sottoforma di cartolina, un messaggio al team, e sta ricordando nei canali social, attraverso il tag #ThanksOppy, le principali tappe del lungo viaggio di Opportunity. E anche tumblr, come tutti i social, si riempie di messaggi, di immagini, di animazioni, fumetti, citazioni… e tanta commozione per salutare la coraggiosa Oppy.

Sicuramente, nel prossimo numero di Coelum Astronomia di marzo, ritroverete tutto questo nel report che dedicheremo alla missione, assieme ai suoi record e alle scoperte. Ma, per ora, chiudiamo così come chiude anche il comunicato della NASA, in cui si annuncia la conclusione di successo di questa longeva missione.
Oltre che con un «Grazie Oppy!» con una semplice parola.

— FINE —


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La supernova che ci asciugò prima dell’uso

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I sistemi planetari nati in regioni di formazione stellare dense e massicce ereditano notevoli quantità di alluminio-26, che ne asciuga i “mattoni” prima dell’accrescimento (a sinistra). I pianeti nati invece in regioni di formazione stellare di piccola massa raccolgono numerosi corpi ricchi di acqua ed emergono come mondi oceanici (a destra). Crediti: Thibaut Roger
I sistemi planetari nati in regioni di formazione stellare dense e massicce ereditano notevoli quantità di alluminio-26, che ne asciuga i “mattoni” prima dell’accrescimento (a sinistra). I pianeti nati invece in regioni di formazione stellare di piccola massa raccolgono numerosi corpi ricchi di acqua ed emergono come mondi oceanici (a destra). Crediti: Thibaut Roger

L’acqua è un elemento essenziale per la vita. Sul nostro pianeta copre più dei due terzi della superficie: verrebbe da dire, dunque, che ce n’è in abbondanza. Tuttavia, non è così – o meglio, non è così in termini astronomici. I pianeti rocciosi del Sistema solare, infatti, appaiono veramente asciutti. E fortunatamente per noi – si potrebbe dire – se si considera l’alternativa a questa condizione: perché se il contenuto d’acqua interna di un pianeta è significativamente maggiore di quello terrestre, il suo mantello – in geologia e in geofisica, l’involucro che si trova tra la crosta (più superficiale) e il nucleo (più interno) – sarebbe coperto da un oceano profondo caratterizzato da impenetrabili strati di ghiaccio. Strati che, prevenendo processi geochimici, come ad esempio il ciclo del carbonio, impedirebbero la formazione di un clima stabile e delle condizioni superficiali favorevoli alla vita così come la conosciamo. Come si dice in questi casi, il “troppo stroppia”. Ci si chiede, dunque: quali sono i meccanismi in gioco che hanno permesso alla Terra di diventare ciò che è, impedendo che diventasse un mondo oceanico ghiacciato e inospitale?

La risposta è deducibile dai risultati ottenuti dal team di ricerca del National Centre of Competence in Research PlanetS (Nccr PlanetS) utilizzando modelli al computer per simulare la formazione dei pianeti dai loro blocchi di costruzione, i cosiddetti planetesimi: corpi rocciosi e ghiacciati dalle dimensioni di dozzine di chilometri che si formano nel disco di polveri e gas attorno a giovani stelle, e che successivamente – a seguito del processo di accrescimento – diventeranno dei pianeti embrionali.

«Oggi si ritiene che la Terra abbia ereditato la maggior parte della sua acqua dai planetesimi, che ne contenevano in quantità relativamente abbondanti», dice Tim Lichtenberg, ricercatore dell’università di Oxford e primo autore dell’articolo, «ma se un pianeta terrestre accresce molto materiale oltre la cosiddetta linea di neve, l’acqua che riceve è troppa, e diventa un mondo ghiacciato». Tuttavia, se questi planetesimi vengono riscaldati dall’interno, parte del loro contenuto iniziale del ghiaccio d’acqua evapora prima che esso sia inglobato nel pianeta stesso, producendo pianeti rocciosi come la Terra e non pianeti ghiacciati inospitali alla vita. Questo è esattamente il processo che potrebbe essere avvenuto nel nostro pianeta durante la sua formazione dopo la nascita del Sistema solare, 4.6 miliardi di anni fa, e che può essere ancora in corso in numerosi altri sistemi planetari».

Schema che mostra gli effetti dell’arricchimento con alluminio-26 dei planetesimi durante l’accrescimento planetario. A sinistra, sistemi planetari poveri di Al26; a destra, sistemi planetari ricchi di Al26. RP è il raggio planetario. Le frecce indicano rispettivamente: la capacità di accrescimento (al centro), il contenuto di acqua planetesimale (in basso a destra, blu-marrone) e il contenuto di alluminio 26 (in basso a destra, rosso-bianco). Crediti: Tim Lichtenberg et al., Nature Astronomy, 2019

Ma chi o che cosa avrebbe prodotto questa “asciugatura” del planetesimo che – sottraendo la sua quota di ghiaccio d’acqua – avrebbe favorito la formazione della Terra così come la conosciamo impedendo l’evoluzione in un mondo ghiacciato? Secondo gli autori dello studio, la responsabile sarebbe stata una esplosione di supernova avvenuta nelle vicinanze cosmiche durante la formazione del nostro proto-Sole.

Elementi radioattivi – incluso l’isotopo radioattivo dell’alluminio-26 – contenuti nella massiccia stella morente esplosa sarebbero stati iniettati nel giovane Sistema solare o dai venti stellari o dagli ejecta dell’esplosione stessa. Successivamente, il decadimento radioattivo dell’alluminio-26 avrebbe riscaldato e asciugato l’acqua contenuta nel planetesimo dal quale si sarebbe formata la Terra, facendo in modo che essa diventasse come oggi la vediamo.

Attraverso i loro modelli, i ricercatori hanno simulato la formazione di migliaia di pianeti e investigato, in particolare, il loro contenuto finale di acqua, dimostrando che proprio questo riscaldamento radiogenico – cioè il riscaldamento dovuto alla produzione di calore a seguito del decadimento dell’alluminio 26 – abbia sistematicamente disidratato i planetesimi prima che questi diventassero pianeti primordiali.

«I risultati delle nostre simulazioni», conclude il ricercatore, «suggeriscono che esistano due tipi qualitativamente diversi di sistemi planetari: quelli simili al Sistema solare, dove i pianeti hanno poca acqua, e quelli, invece, in cui si sono formati mondi oceanici perché nessuna stella massiccia – e quindi nessun isotopo radioattivo dell’alluminio – era presente nei dintorni del sistema planetario in formazione. La presenza di alluminio-26 durante la formazione planetaria potrebbe, dunque, aver comportato una differenza di un ordine di grandezza nel bilancio di acqua tra le due specie di sistemi planetari. Ulteriore studi potranno sempre più aiutarci a comprendere se il nostro pianeta sia unico nel suo genere o se, invece, ci siano un’infinità di mondi dello stesso tipo».

Per saperne di più:


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Congiunzione Marte e Urano

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Già abbiamo visto i pianeti Marte (mag. +1,0) e Urano (mag. +5,8) protagonisti di una congiunzione il 10 febbraio, ma il loro moto apparente nella volta celeste li ha portati a stringersi ancor di più, fino a raggiungere uno stretto abbraccio che raggiunge il culmine proprio la sera del 13 febbraio, alle ore 21:06.

In quel momento i due pianeti saranno separati di poco più di 1° (con Marte posto a nord di Urano). A far da contorno ci saranno le stelle dell’Ariete, di cui la HD 11257 (mag. +5,9) formerà un triangolo con i due pianeti. Più a sud vedremo invece la stella Omicron Piscium (mag. +4,2).

Sarà un incontro molto bello da osservare al binocolo o al telescopio e soprattutto da riprendere in fotografia. Attendiamo le vostre immagini, caricatele nella nostra gallery PhotoCoelum!

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New Horizons. La sottile e rivelatrice falce di Ultima Thule.

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Qui sopra l’immagine ottenuta da 10 scatti effettuati circa dieci minuti dopo il massimo avvicinamento, quando ormai la New Horizons si stava allontanado da 2014 MU69, Ultima Thule. Sulla sinistra la media delle immagini grezze, sulla destra un’elaborazione dell’immagine del team missione, per eliminare l’effetto sfocato dovuto ai lunghi tempi di esposizione necessari per raccogliere la debole e sottile falce di luce. Credits: NASA/Johns Hopkins Applied Physics Laboratory/Southwest Research Institute/National Optical Astronomy Observatory
La ripresa di Ultima thule che, nell’immaginario per lo più italiano ha evocato la forma di una… scamorza affumicata!

Simpaticamente, sui social italiani ma non solo, il KBO Ultima Thule, oggetto dell’ultimo flyby della missione New Horizons, era stato assimilato a… una scamorza. C’è da dire che, in effetti, sia per la forma che per il colore delle prime immagini, la somiglianza (ovviamente solo apparente) era davvero alta. In america e nel team NASA, invece, è stato assimilato a un pupazzo di neve…

Della missione e delle prime immagini ve ne abbiamo ampiamente parlato nel numero disponibile online (come sempre gratuito) di Coelum astronomia con l’articolo Un primo sguardo su Ultima Thule, ora però sono disponibili le ultime immagini da quel flyby, quando ormai la navicella aveva concluso il sorvolo e si apprestava a dare l’addio al KBO, osservandolo quasi in contro luce, mentre velocemente se ne allontanava. Non sono ovviamente le “ultime immagini” che avremo, anzi ne arriveranno  molte altre e siamo in attesa di quelle ravvicinate e a maggior risoluzione; la sonda è solo all’inizio dell’invio dei suoi dati, che impiegheranno diverse settimane (se non mesi) per arrivare a Terra. Queste sono solo le riprese finali, effettuate mentre la navicella si allontanava a 50 mila chilometri all’ora dal suo bersaglio, circa dieci minuti dopo il momento di massimo avvicinamento.

E da queste ultime immagini “di addio”, arriva l’ennesima sorpresa, a cui ormai questo genere di missioni “al limite” ci stanno abituando. La curiosa forma a scamorza, data ormai praticamente per certa e dovuta (si ipotizzava) da due corpi sferoidali a contatto, ora non è più così certa.

Le nuove immagini sono state riprese sempre il 1° gennaio, ma quando la New Horizons si trovava ormai a 8.862 chilometri da 2014 MU69, soprannominato appunto Ultima Thule. Quella che vediamo sulla sinistra nell’immagine di apertura, è una “media” di 10 immagini riprese dalla Long Range Reconnaissance Imager (LORRI), e la vediamo sfocata nella versione “grezza”, perché New Horizon ha dovuto aumentare i tempi di esposizione per riuscire a raccogliere la maggior parte possibile del debole segnale in arriv sui suoi sensori. È stato però poi possibile elaborare i fotogrammi e ripulire l’immagine per ottenere la versione più nitida di questa sottilissima falce di Ultima Thule che vediamo nell’immagine di destra.

E rianalizzando le prime immagini, congiuntamente a questa nuova vista “da dietro”, ci si è accorti di quanto sbagliata fosse la prima impressione sulla forma di questo remoto oggetto, colpevoli la prospettiva e il necessariamente incompleto punto di vista, ma anche quanto, nelle prime immagini, era rimasto nell’ombra, non illuminato dal Sole.

Al momento questo è il video dell’oggetto più lontano mai ripreso nel nostro Sistema Solare. Le immagini rivelano il contorno della porzione oscura di Ultima Thule, non illuminata dal Sole al momento del passaggio, ma che può essere tracciata grazie alle stelle di fondo, oscurate dalla stessa. Cliccare l’immagine se la sequenza non parte. Crediti: NASA / Johns Hopkins Applied Physics Laboratory / Southwest Research Institute / National Optical Astronomy Observatory

Il video ottenuto da questo “addio a Ultima Thule”, che vedete nella gif qui a destra, mostra infatti inequivocabilmente (questa volta) che i due lobi (rinominati da Alan Stern, PI della missione, Ultima e Thule), non sono affatto sferici.

Continuando con le similitudini, dalla NASA ci dicono che Ultima, il lobo più grande, è più simile a un “pancake” (le famose frittelle dei film americani), mentre Thule, il lobo più piccolo, assomiglierebbe a una “noce ammaccata”. Immagini molto meno evocative di una scamorza, diciamocelo…

Quindi dalla prima ipotesi che il KBO fosse in realtà una coppia di corpi di dimensioni simili in orbita stretta, alla scoperta dalle prime immagini che invece erano a contatto, ma con l’impressione che fossero comunque sferoidali, siamo a un ulteriore modifica, e probabilmente non l’ultima, di quella che scopriamo essere la reale forma di Ultima Thule:

Nella simulazione qui sopra vediamo quella che si pensava fosse la forma di Ultima Thule, e sotto come è stata rivoluzionata, e si pensa sia in realtà. Ancora però ci sono margini di incertezza, perché un’intera regione del KBO è essenzialmente rimasta nascosta alla nostra vista e non illuminata dal Sole. Le linee blu tratteggiate mostrano i margini di questa incertezza, delimitando quello che ancora non ci è stato rivelato dai dati raccolti, e dimostrano che Ultima Thule potrebbe essere più o meno piatta di quanto si ipotizza ad oggi. Crediti: NASA / Johns Hopkins Applied Physics Laboratory / Southwest Research Institute

«Abbiamo avuto una prima impressione di Ultima Thule, sulla base del numero limitato di immagini ricevute nei giorni vicini al flyby, ma vedere più dati ha cambiato significativamente la nostra visione», ha dichiarato Stern. «È più vicino alla realtà dire che la forma di Ultima Thule è più piatta, come un pancake. Ma la cosa più importante, e che queste nuove immagini danno vita a un puzzle scientifico su come sia possibile che un simile oggetto si possa essere formato. Non abbiamo mai osservato qualcosa di simile in orbita attorno al Sole».

Nell’animazione qui sotto vediamo la prospettiva di partenza, ottenuta dalle prime immagini che ci sono arrivate a Terra e riprese da una angolazione totalemente differente rispetto a queste ultime, nella seconda parte della simulazione.

Per riuscire a definire nel miglior modo possibile la sagoma del KBO, che comunque ha ancora un buon margine di incertezza, si è anche prestato attenzione alle stelle di fondo visibili in molti fotogrammi, permettendo così una modellazione, in questa simulazione, che si ritiene molto vicina al vero e coerente con quanto osservato da Terra e dalla sonda.

«Mentre la natura stessa di un veloce flyby limita in qualche modo quanto possiamo determinare la reale forma di Ultima Thule, questi nuovi risultati mostrano chiaramente che Ultima e Thule sono molto più piatti di quanto inizialmente creduto e molto più piatti di quanto previsto», ha aggiunto Hal Weaver, New Horizons project scientist del Johns Hopkins Applied Physics Laboratory. «Questo indubbiamente incentiverà nuove teorie sulla formazione planetesimale nel primo sistema solare».

Non ci resta che attendere ulteriori immagini, alla scoperta di quello che, al momento, è il più lontano oggetto del Sistema Solare mai ripreso a distanza ravvicinata da una sonda.


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Galileo Galilei – Astrofili Palidoro

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L’appuntamento di sabato 16 febbraio 2019 è un’occasione molto particolare per conoscere la vita di un grande maestro.

Nei giorni dell’anniversario della sua nascita si parlerà di Galileo Galilei presso la Casa Della Partecipazione a Maccarese. Una conferenza tenuta da Mara Moriconi porterà tutti i partecipanti in un viaggio attraverso gesti, scoperte, curiosità e sorprese che lo scienziato italiano ha regalato al mondo intero.

A seguire si potrà osservare la Luna attraverso una fedele riproduzione in cartone del telescopio storico che Galileo costruì nel 1610, facendo vivere a tutti coloro che vorranno essere presenti, l’emozione di guardare con i propri occhi proprio come egli faceva.

Inoltre, ci sarà la possibilità di osservare attraverso i telescopi moderni del Gruppo Astrofili Palidoro la Luna e altre meraviglie dell’Universo.

L’appuntamento dunque è per sabato 16 febbraio 2019 alle ore 20.00.

Per qualunque info è possibile scrivere gli astrofili alla mail info@astrofilipalidoro.it oppure collegandosi al sito web www.astrofilipalidoro.it

Evento Facebook

L’evento è patrocinato dal Comune di Fiumicino ed ha come media sponsor Coelum Astronomia.

Un marziano di nome Rosalind

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A sinistra: Rosalind Franklin al microscopio nel 1955 (crediti: Mrc Laboratory of Molecular Biology). A destra: il rover della missione europea Exomars 2020. Nel trapano visibile nella sezione del terreno è integrato lo spettrometro Ma_Miss (crediti: Esa)

Rosalind Franklin: è questo il nome scelto per il rover di ExoMars 2020, missione dell’Agenzia spaziale europea. Rover dotato di un trapano costruito in Italia che penetrerà fino a 2 metri sotto la superficie marziana per analizzarne la composizione e cercare tracce di vita.

Rosalind Franklin è stata una biochimica britannica, ed è nota per aver dato un fondamentale contributo alla conoscenza della struttura molecolare del Dna. I suoi studi sulle immagini a diffrazione X del Dna sono stati impiegati per formulare l’ipotesi della struttura a doppia elica per cui Crick e Watson furono insigniti del Nobel.

Durante la sua vita Rosalind Franklin non ebbe grandi riconoscimenti, ma ora il suo nome viaggerà tra le stelle e si poserà su altri mondi.

«Trovo che la scelta del nome di Rosalind Franklin sia molto evocativa dello scopo della missione ExoMars, che è rivolta alla scoperta di tracce di “vita” con strumenti dedicati specificatemene a questo», dice a Media Inaf Maria Cristina De Sanctis, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica e principal investigator dello strumento italiano Ma_Miss, lo spettrometro miniaturizzato integrato nel trapano a bordo della missione ExoMars 2020. «Al contempo, sono felice che sia stato scelto il nome di una scienziata per un elemento fondamentale di una missione come ExoMars, che vede una importante presenza di scienziate, italiane ed europee».


Tra SOLE, TERRA e… LUNA
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Coelum Astronomia di Febbraio 2019
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La Luna di febbraio 2019

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Le fasi della Luna in dicembre, calcolate per le ore 00:00 in TMEC. La visione è diritta (Nord in alto, Est dell’osservatore a sinistra). Nella tavola sono riportate anche le massime librazioni topocentriche del mese, con il circoletto azzurro che indica la regione del bordo più favorita dalla librazione.
Le fasi della Luna in febbraio, calcolate per le ore 00:00 in TMEC. La visione è diritta (Nord in alto, Est dell’osservatore a sinistra). Nella tavola sono riportate anche le massime librazioni topocentriche del mese, con il circoletto azzurro che indica la regione del bordo più favorita dalla librazione.

Col Novilunio del 4 febbraio alle 22:04, la successiva fase crescente vedrà la fase di Primo Quarto alle 23:26 del 12 febbraio quando il nostro satellite, dopo essere transitato in meridiano alle 18:10 a +59°, si troverà a un’altezza di +18° fra le stelle della costellazione del Toro, andando poi a tramontare nelle primissime ore della notte seguente.

Come sempre, sarà proprio questo il periodo maggiormente indicato per programmare osservazioni fotovisuali del nostro satellite…

Approfondisci in la Luna di Febbraio su Coelum Astronomia 230

A febbraio osserviamo

9 e 10 febbraio La regione di Nordest

La prima (e principale) proposta del mese sarà suddivisa nelle serate del 9 e 10 febbraio, in cui proseguiremo le osservazioni delle principali strutture esistenti nel settore settentrionale del nostro satellite, con la Luna in fase da 4,8 a 5,8 giorni, con particolare riferimento all’area di Nordest.

Nelle due serate indicate potrà risultare interessante e molto utile seguire l’avanzamento della linea del terminatore attraverso il suolo lunare, con luci e ombre sempre differenti, al variare dell’angolo di illuminazione solare, e con la possibilità di effettuare dettagliate osservazioni delle principali strutture geologiche.

➜ Continua con la Guida all’osservazione della regione lunare a Nordest

Una “quasi Super Luna”?

Il mese scorso, la Luna dell’Eclissi totale del 21 gennaio, è stata chiamata anche Superluna di sangue, volendo indicare una coincidenza dell’eclissi con il giorno del suo perigeo (minima distanza dalla Terra). In realtà il perigeo è stato raggiunto solo il giorno dopo e la stessa cosa accadrà questo mese, anche se senza eclissi, con una “quasi” Superluna il 19 febbraio, che si troverà a una distanza dalla Terra ancora più ravvicinata (poco più di 351 mila km) rispetto a gennaio (circa 352 mila km), anche se il perigeo avverrà il giorno prima. In entrambi i casi la differenza è solo nei numeri: se è marcata nelle riprese a confronto tra Luna al perigeo e all’apogeo, il giorno prima o il giorno dopo il perigeo esatto la differenza non è per nulla percepibile.
Ma quando allora è lecito considerarla una “vera” Superluna? Vi ricordiamo un bell’articolo del nostro Aldo Vitagliano su questa questione e, in ogni caso, i consigli di Giorgia Hofer per la ripresa e il confronto della Luna tra perigeo e apogeo, che resta un progetto interessante da mettere in pratica:

Superluna: guarda che Luna Super! di Aldo Vitagliano

Ma quanto è lontana la Luna? di Giorgia Hofer

19 febbraio. Massima Librazione Sud

Per la seconda proposta si torna a osservare una regione lunare che sarà interessata dal fenomeno delle Librazioni. Per l’occasione, si propone la serata del 19 febbraio quando la zona di massima Librazione coinciderà con l’area dei crateri Neumayer, Boussingault e Helmholtz situati in prossimità del bordo lunare sud-sudest.

➜ continua su La Massima Librazione del 19 febbraio

15,16 e 17 febbraio. Il Sinus Roris

La terza e ultima proposta del mese, è stata suddivisa in tre serate, il 15, 16 e 17 febbraio, con target il Sinus Roris, con la Luna in fase da 10,8 a 12,8 giorni e con frazione illuminata del disco lunare dal 79 al 94%.

Si tratta di un’area relativamente pianeggiante, situata nel settore Nordovest del nostro satellite, estesa per circa 510 km fra l’estremità occidentale del mare Frigoris e l’oceanus Procellarum, esattamente a nord rispetto al Sinus Iridum.

Occorre puntualizzare che in merito alla controversa ed esatta collocazione del Sinus Roris e riguardo le dimensioni (circa 200 o 510 km) assegnate a tale area (vedi VMA, Virtual Moon Atlas) si è deciso di considerare una estensione (appunto i 510 km sopra citati) che effettivamente viene a coincidere con una vasta regione a bassa albedo, centrata sul cratere Harpalus.

➜ continua su Il Sinus Roris

Le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio 2019

➜ Fotografiamo le sottili Falci di Luna di Giorgia Hofer

➜ Fotografare la Luna di Giorgia Hofer su Coelum Astronomia di novembre 2016.

La Luna illumina la notte Fotografiamo il paesaggio illuminato dalla Luna Piena di Giorgia Hofer

➜  La Luna mi va a pennello. Se la fotografia non basta, Gian Paolo Graziato ci racconta come dipingere dei rigorosi paesaggi lunari, nei più piccoli dettagli… per poi lasciarsi andare alla fantasia e all’imaginazione!

E tutte le precedenti rubriche di Francesco Badalotti, con tantissimi spunti per approfondire la conoscenza del nostro satellite naturale. Per ogni formazione basta attendere il momento giusto!


Tutti consigli per l’osservazione del Cielo di Febbraio su Coelum Astronomia 230

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Bolle di stelle nuove fiammanti

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In questa immagine un primo piano della giovene stella sorgente del getto (all’interno degli archetti gialli), il più lungo per la prima volta ripreso in luce visibile da MUSE, e i cosidetti bow shock (indicati dalle frecce), una sorta di onde d’urto formate dal getto che interagisce con il gas circostante. Credito: ESO, A McLeod et al.

Questa regione all’interno della Grande Nube di Magellano (LMC dall’inglese Large Magellanic Cloud) si illumina di colori sorprendenti in questa immagine acquisita dallo strumento MUSE (Multi Unit Spectroscopic Explorer) installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO.

LMC è una galassia satellite della Via Lattea, meglio visibile dall’emisfero australe. A soli 160.000 anni luce dalla Terra, è praticamente sulla soglia di casa nostra. Inoltre, il singolo braccio a spirale di LMC appare quasi di fronte, permettendoci di ispezionare facilmente regioni come questa.

La regione, identificata dalla sigla LHA 120-N180 B – N180 B per gli amici – è un tipo di nebulosa nota come regione H II (si pronuncia “H secondo”), ovvero nubi interstellari di idrogeno ionizzato (nuclei nudi degli atomi di idrogeno), in cui le stelle massicce appena formate sono responsabili della ionizzazione del gas circostante, rendendole spettacolari.

N180 B, in tutta la sua bellezza, abbagliante di stelle in formazione nella Grande Nube di Magellano, è stata ripresa dallo strumento MUSE del VLT. La quantità relativamente piccola di polvere in questa nostra galassia satellite, unita alla vista acuta di MUSE, hanno permesso di individuare in luce visibile i dettagli intricati di questa regione. Crediti: ESO, A McLeod et al.

La forma distintiva di N180 B è la gigantesca bolla HII che vediamo nella ripresa, circondata da quattro bolle più piccole.

All’interno di questa nube luminescente, MUSE ha individuato un getto emesso da una stella in formazione – un enorme giovane oggetto stellare con una massa pari a 12 volte quella del nostro Sole. Il getto – chiamato Herbig-Haro 1177, o HH 1177 in breve – è mostrato in dettaglio nel riquadro dell’immagine di apertura e qui sotto. Con la sua lunghezza di circa 33 anni luce, si tratta di uno dei getti di questo genere più lunghi mai osservati!

Non solo, è anche la prima volta che si riesce a osservare questo tipo di oggetto in luce visibile, al di fuori della Via Lattea, poiché normalmente sono oscurati dalle polveri che circondano tali ambienti. Tuttavia, la Nube di Magellano risulta relativamente priva di polveri, e questo ci ha consentito di osservare HH 1177 alle lunghezze d’onda visibili.

Le regioni in blu e rosso di questa immagine mostrano il getto, identificato dai picchi di emissione, spostati verso il rosso o il blu, della riga Hα. Crediti: ESO, A McLeod et al.

HH 1177 ci parla dell’infanzia delle stelle. Il fascio è altamente collimato, lo vediamo infatti allargarsi appena man mano che si allontana dalla stella.

Getti di questo tipo vengono associati ai dischi di accrescimento della stella e possono quindi aiutarci a far luce sui meccanismi di raccolta di materiale delle stelle nascenti.

Gli astronomi hanno scoperto che tutte le stelle, sia di grande che di piccola massa, lanciano getti collimati simili a HH 1177 attraverso meccanismi simili, suggerendo quindi che le stelle possono formarsi allo stesso modo, indipendentemente dalla massa a disposizione.

L’osservazione è stata possibile anche grazie alla vista acuta di MUSE, che è stato recentemente migliorato notevolmente grazie all’aggiunta dell’Adaptive Optics Facility, la cui modalità a grande campo ha visto la prima luce nel 2017.

L’ottica adattiva è un processo, utilizzato dai telescopi dell’ESO, attraverso il quale si riesce a compensare gli effetti di sfocatura dovuta al scintillio delle stelle causato dall’atmosfera, permettendo quindi di ottenere immagini che, nella modalità a campo stretto di MUSE, sono molto vicine a quella del telescopio spaziale Hubble (NASA/ESA) dandoci modo di esplorare l’universo in modo più dettagliato che mai.

L’immagine è parte di un mosaico a colori ottenuto a partire dai dati della DSS2 (Digitized Sky Survey 2) e mostra la regione che circonda LHA 120-N 180B, visibile al centro, in basso, dell’immagine. Crediti: ESO/Digitized Sky Survey 2. Acknowledgment: Davide De Martin

Ulteriori Informazioni


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Chang’e 4. Una notte più fredda del previsto.

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La posizione del rover Yutu 2, rispetto al lander della missione Chang'e 4, al risveglio dopo la lunga notte lunare, sul lato nascosto della Luna.
La posizione del rover Yutu 2 rispetto al lander della missione Chang’e 4, dopo il risveglio dalla lunga notte lunare, sul lato nascosto della Luna.

Sul cratere Von Kármán, nel lato nascosto della Luna, da poco meno di una settimana è sorto il Sole, e il lander e il piccolo rover della missione Chang’e-4 si sono risvegliati e hanno ricominciato ad inviare dati al controllo missione del CNSA, l’agenzia spaziale cinese.

Yutu 2 si è risvegliato prima della sonda che l’ha accompagnato fin lì, alle 20 (GMT+8, quindi alle 13 italiane) del 29 gennaio, mentre il lander poco più di un giorno dopo (alle 20:39 GMT+8, del 30 gennaio). Il motivo è molto semplice, il lander è molto più grande di Yutu 2 e necessità di raccogliere maggiore energia solare per riprendere pieno possesso delle sue attività. Di contro il piccolo rover è meno efficente nel mantenere controllata la temperatura nelle ore più calde del giorno, e si è quindi riaddormentato il 3 febbraio scorso, in attesa delle ore più “fresche” del pomeriggio, quando i raggi di Sole avranno un angolo di incisione più basso. Ma andiamo in ordine.

Sopravvissuti alla prima notte lunare, dopo l’atterraggio morbido del 3 gennaio scorso, lander e rover segnano un ulteriore successo per la missione cinese.

Notte e giorno lunari equivalgono a poco meno di 14 giorni sulla Terra, e i due abitanti del lato nascosto della Luna sono entrati in modalità sleep per la mancanza di energia solare, essendo entrambi alimentati per lo più dai grandi pannelli solari che possiedono.

Con i primi raggi di Sole gli strumenti chiave hanno ripreso a funzionare e hanno comunicato con il controllo missione grazie al satellite Queqiao, il “ponte di gazze”. La connessione risulta stabile, rover e lander stanno bene e si trovano a circa 18 metri l’uno dall’altro (il rover a nordovest del lander) e hanno ricominciato ad inviare i dati e le immagini raccolte.

Si è così scoperto che la temperatura della superficie lunare è scesa molto più del previsto, arrivando a meno di 190 gradi centigradi! È la prima volta che la temperatura della notte lunare, sul lato nascosto, viene rilevata di prima mano.

«Secondo le misurazioni di Chang’e-4, la temperatura dello strato superficiale del suolo lunare sul lato più lontano della luna è inferiore ai dati ottenuti dalla missione Apollo degli Stati Uniti sul lato vicino della luna», ha infatti dichiarato Zhang He, direttore esecutivo del progetto della sonda Chang’e-4, della China Academy of Space Technology (CAST), e continua: «Probabilmente è dovuto alla differenza nella composizione del suolo lunare tra i due lati della luna: sono però necessarie analisi più accurate».

Non essendoci atmosfera, le temperature variano enormemente tra il giorno e la notte sulla luna e gli scienziati cinesi non potevano essere sicuri della temperatura raggiunta. Gli unici dati a disposizione fin’ora ottenuti in modo diretto erano appunto quelli delle missioni Apollo, raccolti solo in alcune zone del lato rivolto verso di noi e di giorno. Avendo bisogno di luce per atterrare correttamente e svolgere le operazioni, sono sempre state, ovviamente, missioni svolte durante il giorno lunare, anche se poi sono stati lasciati dei sensori, sotto la superficie, per continuare a monitorare le temperature nel tempo. Nonostante questo l’agenzia cinese è ora soddisfatta di poter avere dati di prima mano.

Anche in occasione della missione precedente, infatti – la Chang’e 3 atterrata sempre con atterraggio morbido, ma sul lato rivolto verso di noi della Luna – gli ingengeri cinesi hanno dovuto affidarsi ai dati raccolti dalla NASA, e il fatto che nonostante questo la missione sia ancora operativa dopo più di 60 notti lunari (in cinque anni) è considerato un successo. Ora invece hanno tutti dati di prima mano sui quali gli scienziati lavoreranno per stimare le proprietà del suolo lunare.

Pur in mancanza di energia solare, rover e lander hanno comunque potuto contare su un generatore termoelettrico a radioisotopi per “mantenersi caldi” durate la notte lunare. Il lander inoltre è anche dotato di una cella termoelettrica, sempre isotopica, e di dozzine di ricettori, per continuare le misurazioni della temperatura sulla superficie durante la notte.

La tecnologia per trasformare il calore da radiosotopi in energia, utilizzata per la prima volta in una nave spaziale cinese, rappresenta un primo esperimento per la Cina, un prototipo per la futura esplorazione dello spazio profondo. Ha infatti dichiarato, in una intervista a Xinhuanet, Sun Zezhou, capo progettista della sonda Chang’e-4, sempre del CAST: «È una tecnologia che dobbiamo padroneggiare se vogliamo raggiungere le regioni polari della Luna o andare oltre Giove, nello spazio profondo, dove l’energia solare non può essere utilizzata come fonte primaria».

Si tratta della stessa tecnologia usata dal rover Curiosity della NASA, che gli ha infatti permesso di continuare le operazioni anche in assenza di energia solare, durante la grande tempesta di polvere dell’estate scorsa, che ha invece bloccato Opportunity.

Se lander e rover possono, in questo modo, evitare di congelare durante la fredda notte lunare, durante il giorno resta il problema dell’eccesso di calore.

Il lander è in grado di autoregolarsi, mentre il rover ha dovuto interrompere le operazioni il 3 febbraio, per i giorni in cui la luce solare è più incidente (durante il mezzogiorno lunare) e le temperature superano i 100°C, ma Yutu 2 ha tenuto a sottolineare che non si tratta di pigrizia… ma solo di una pausa pranzo con sonnellino pomeridiano, necessaria per non surriscaldarsi nella calura, quindi riprenderà a muoversi e raccogliere dati dalla superficie lunare.
Qui di seguito un video rilasciato recentemente in cui vediamo la prima parte del tragitto del rover.


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Unione Astrofili Senesi

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Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).

08.02 e 22.02, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti. Come ogni secondo e quarto venerdì del mese, dalle ore 21.30 l’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (Sovicille, Siena) sarà aperto al pubblico per una serata osservativa dedicata al cielo del periodo. Per il pubblico è obbligatoria la prenotazione tramite il sito www.astrofilisenesi.it o inviando un messaggio WhatsApp al 3472874176 (Patrizio) oppure un sms al 3482650891 (Giorgio). In caso di tempo incerto telefonare per conferma.

Seguiteci su www.astrofilisenesi.it e sulla nostra pagina facebook Unione Astrofili Senesi

Osiris-Rex. Prove di guida a distanza ravvicinata.

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Instrument Used: TAGCAMS (NavCam 1) Credit: NASA/Goddard/University of Arizona/Lockheed Martin
Immagine ripresa dalla TAGCAMS (NavCam 1), con una esposizione di 1,4 millisecondi. Cliccare sull’immagine per  ingrandire i dettagli. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona/Lockheed Martin

Nel nuovo numero di Coelum astronomia di febbraio, trovate news estese e report per le principali missioni in corso (in particolare non perdete i report sui risultati della News Horizons ai confini del sistema solare e della cinese Chang’e 4, sul lato nascosto della Luna). Ma l’Osiris-Rex a che punto era?

La missione NASA ha compiuto il suo primo mese a distanza ravvicinata attorno a Bennu, l’asteroide prescelto per questo primo tentativo dell’agenzia spaziale americana di avvicinarsi alla superficie di un asteroide apollo, raccogliere del materiale e riportarlo a Terra. Gli asteroidi apollo sono asteroidi cosidetti near earth (NEA), vicini alla Terra, potenzialmente pericolosi perché con un orbita esterna alla nostra, ma che li porta molto vicini all’orbita terrestre nel suo punto più vicino al Sole (un perielio inferiore a 1,017 UA).

In questo momento la missione si trova nella fase Orbital A, dedicata a fare esperienza sulla navigazione ravvicinata in prossimità di un corpo così piccolo come Bennu, un asteroide NEA. Per questo motivo al momento la suite scientifica non è necessaria ed è spenta. Crediti: University of Arizona

Per festeggiare questo suo primo mese di test di guida ravvicinata all’asteroide, ci invia due straordinarie immagini della sua superficie, che si è rivelata estremamente frastagliata, forse anche più di quanto accaduto alla simile missione giapponese Hayabusa 2, pronta a scendere per raccogliere il suo primo campione dall’asteroide Ryugu. Trovandosi in una fase di “test di guida”, la camera della suite scientifica (OCAMS) non è al lavoro, ma la camera dedicata alla navigazione (NavCam 1) non si è arrestata un attimo, e continua a inviare a terra immagini sempre più dettagliate di questo piccolo mondo.

Un dettaglio dell’immagine di sinistra, sopra, che mostra il masso di circa 50 metri, la più grossa struttura di questo settore dell’asteroide. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona/Lockheed Martin

Qui vediamo l’emisfero sud dell’asteroide ripreso a una distanza di soli 1,6 km, e la struttura più grande che si riesce a individuare (al centro nell’immagine di sinistra e proprio sul terminatore tra ombra e luce in quella di destra), è un masso della dimensione di circa 50 metri.

Le immagini sono state riprese il 17 gennaio, e il contrasto è stato enfatizzato per mettere in evidenza proprio le strutture della frastagliata superficie.

Questo tipo di immagini, di navigazione appunto, servono e sono servite alla missione per il controllo dell’avvicinamento e dell’inserimento in orbita, e nell’ultimo mese hanno monitorato questa fase di orbita stretta, di soli 1,75 km di media dal centro (!) dell’asteoride. Volare a distanza ravvicinata attorno a un corpo così piccolo come Bennu è infatti più difficoltoso e imprevedibile di come sia invece entrare in orbita attorno a un pianeta, ma è probabilmente il futuro delle missioni di esplorazione del nostro Sistema solare, anche per quello che potrebbe interessare un programma di sfruttamento delle risorse asteroidali o di controllo di asteroidi pericolosi.

La sonda, dal nome più che esaustivo “Origins, Spectral Interpretation, Resource Identification, Security-Regolith Explorer” (OSIRIS-REx) della NASA è arrivata a destinazione il 3 novembre scorso, mentre è entrata nella sua orbita stretta, il 31 dicembre, poco più di un mese fa appunto.

Impiegherà quasi un anno a esaminare l’asteroide con cinque strumenti scientifici, con l’obiettivo di selezionare un luogo che sia sicuro e scientificamente interessante per raccogliere il campione di materiale superficiale. Se tutto va come previsto, OSIRIS-REx recapiterà il campione alla Terra nel settembre 2023.

Per tenere d’occhio la posizione della sonda in ogni momento: Where is OSIRIS-REx?


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AstronomiAmo

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AstronomiAmo

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6.02 e 20.02, ore 20:30: Universo in una stanza, presso Ceccano (FR)
28.02 ore 21:30: Occhi al Cielo, diretta streaming
Info su:
https://www.astronomiamo.it

CASTELLANA GROTTE: Corso di astronomia

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La Società Astronomica Pugliese in collaborazione con l’Associazione Culturale Astronomica Sirio e l’Associazione Turistico Culturale Sottosopra, organizzano il corso di astronomia presso il Museo Speleologico Franco Anelli, piazzale Anelli n.c, a Castellana Grotte.
Il corso si svilupperà in sette lezioni di cui cinque divulgative, di facile comprensione, e due pratiche, con osservazioni ai telescopi.
Il corso è rivolto a persone di età a partire dai 10 anni in su.
Per il programma e le modalità di iscrizione consultare il sito dell’associazione
Per informazioni info@astropuglia.it

Configurazioni tra Giove, Venere e Saturno al mattino, con la falce di Luna e… un’occultazione!

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Il mese di gennaio si è chiuso con una bella congiunzione tra una sottile falce di Luna e i brillanti pianeti Giove e Venere. Al quadro si è aggiunto anche Saturno che, sorgendo ben dopo gli altri pianeti citati, è molto più in basso, verso oriente. I tre pianeti stanno formando un allineamento, anche se non perfetto, che potremo seguire per qualche giorno, con la Luna diretta verso l’occultazione di Saturno del 2 febbraio. L’incontro avverrà fra le stelle del Sagittario e dell’Ofiuco.

Nella cartina viene riportato il fenomeno nella sua evoluzione sui tre giorni dal 31 gennaio al 2 febbraio. L’aspetto del cielo è quello del 31 gennaio, alle ore 6:30, mentre viene riportata la posizione della Luna per i giorni indicati. Per esigenze grafiche la Luna appare ingrandita, inoltre, il 2 febbraio, Saturno e la Luna sono rappresentati in stretta congiunzione, mentre in realtà si tratta di una occultazione, come descritto nel testo.

1 febbraio. Febbraio si apre col nostro satellite in fase calante (fase dell’11%) fra le stelle del Sagittario, preceduto dai pianeti Giove (distanza 15°) e Venere (distanza 5°), seguito infine dal pianeta Saturno (distanza 11°) fra le prime luci dell’alba.

L’allineamento tra i due pianeti più brillanti e la Luna si è ora fatto più allungato, con le separazioni reciproche più marcate, ma comunque piacevoli da osservare e fotografare a grande campo. Per chi insegue le sottili falci lunari in realtà si è iniziato subito nelle prime ore del 1 febbraio quando alle 05:15 è sorta una sottile falce di luna di 26 giorni di età.

2 febbraio. Si replica il mattino seguente 2 febbraio con una falce lunare di 27 giorni di età (fase del 6%) che sorgerà alle 06:06 sempre preceduta dai pianeti Giove e Venere anche se ancor più distanziati rispetto al giorno precedente, rispettivamente a 26° e 16°. Nel caso specifico, però, la nostra attenzione cadrà principalmente sulla Luna che occulterà il pianeta Saturno proprio durante il suo sorgere, oltre al fatto che il tempo a nostra disposizione sarà veramente esiguo data la vicinanza col sorgere del Sole. Le circostanze per le principali località italiane e qualche consiglio per ripresa e osservazione le trovate nell’articolo:

L’Occultazione di Saturno da parte della Luna

Le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio 2019

➜ Continua su Fenomeni e congiunzioni di febbraio

➜ La LUNA di febbraio.
Approfondimento: Guida all’osservazione della regione polare Nordest

➜ Il meraviglioso campo della costellazione del Toro. III parte: Le Iadi nel dettaglio e loro dintorni


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Ordine e Caos a Mogliano Veneto (TV)

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ordine e caos

ordine e caosCinque incontri, da dicembre a marzo per parlare di… Ordine e disordine, contraddizione spesso solo apparente dove il disordine è un ordine che non riusciamo a capire, oppure l’energia che metterà in moto un ordine al momento solo potenziale. La scienza studia disordini cercando di coglierne i principi che permetteranno di comprenderne l’ordine e dunque il disordine rappresenta la sfida alla nostra conoscenza che stimola la ricerca.
I prossimi appuntamenti:
01.02: Caos e predicibilità nelle dinamiche dell’atmosfera terrestre – Dino Zardi (Università di Trento)
22.02: Il nostro caotico sistema solare: dai pianeti ai detriti spaziali – Alessandra Celletti (Università di Roma Tor Vergata)
08.03: Dal nulla è nato l’universo – Sabino Matarrese (Università di Padova)
Il programma e tutti i dettagli sul nostro sito: http://circologalilei.somsmogliano.it

Cielo di Febbraio 2019

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La cartina mostra l'aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 Feb > 23:00; 15 Feb > 22:00; 2 Mar > 21:00. Crediti Coelum Astronomia CC-BY
La cartina mostra l'aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 Feb > 23:00; 15 Feb > 22:00; 2 Mar > 21:00. Crediti Coelum Astronomia CC-BY

Indice dei contenuti

EFFEMERIDI
(mar. – ott. 2018)

Luna

Sole e Pianeti

Predominanti ancora le le costellazioni invernali: potremo osservare al meridiano il Cane Maggiore con la splendente Sirio e l’inconfondibile Orione, con l’Auriga allo zenit, facilmente riconoscibile grazie a Capella, la lucida della costellazione.

A ovest staranno invece tramontando Pegaso e la Balena, con le sue deboli stelle, mentre a est il cielo mostrerà le prime avvisaglie degli asterismi primaverili. Sempre a est saranno facilmente riconoscibili il Leone e le prime propaggini della Vergine.

Più tardi sorgerà anche la brillante Arturo nel Boote. Molto più in alto, quasi immobile a nord, vedremo il Grande Carro, in verticale, che sembrerà in procinto di rovesciarsi. Continua l’esplorazione del cielo con:

➜ Il Cielo di febbraio con la UAI che questo mese ci porta fuori dalla nostra galassia, nel campo dei Cani da Caccia

➜ Il meraviglioso campo della costellazione del Toro. III parte: nel campo delle Iadi

IL SOLE

Il 16 febbraio il Sole si sposterà dalla costellazione del Capricorno a quella dell’Acquario, proseguendo nel contempo la “risalita” dell’eclittica a una velocità media in declinazione di circa 20 primi al giorno: partendo dai –17°,4 di inizio mese supererà i –10° alla fine. Da questo ne deriverà un corrispondente aumento dell’altezza sull’orizzonte al momento del passaggio in meridiano.

➜ Continua a leggere sul Cielo di Febbraio

COSA OFFRE IL CIELO

Per quanto riguarda i pianeti, Venere ancora stella del mattino, assieme a Giove, ma Saturno comincerà a reclamare la scena, già a partire dal 2 febbraio, in occasione di una bella occultazione lunare, una sottile falce di Luna infatti lo farà “sparire” poco prima dell’alba, non potremo osservarne l’uscita dal lembo oscuro, perché ormai giorno, ma non perdete l’evento!

In prima serata ci resta solo Marte,  che verrà solo dopo la prima metà del mese accompagnato da Mercurio.  In realtà anche Nettuno e Urano abiteranno la prima parte della notte, ma solo per chi osserva il cielo con l’uso di uno strumento.

Sempre affascinanti le falci lunari, e l’osservazione della Luna, e spazio anche per gli amanti di asteroidi e pianeti nani. Tenete d’occhio il nostro cielo del mese tra queste pagine e sul nuovo Coelum Astronomia di febbraio!

➜ Cielo di Febbraio su Coelum Astronomia 230

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E ancora su Coelum astronomia 230

ISS 2 bianconi

➜ La LUNA di febbraio.
Approfondimento: Guida all’osservazione della regione polare Nordest

➜ Leggi le indicazioni di Giuseppe Petricca sui principali passaggi della ISS

Comete. Un arrivo imprevisto e la seconda parte di Wirtanen: cronaca (personale) di un passaggio attesissimo.

➜ Il meraviglioso campo della costellazione del Toro. III parte: Le Iadi nel dettaglio e loro dintorni

e il Calendario di tutti gli eventi di febbraio 2019, giorno per giorno!

Da Coelum astronomia 223 non dimentichiamo invece Catch the Iridium! Un appello per tutti gli astrofotografi, riprendiamo gli iridium flare prima che… scompaiano!


Tutti consigli per l’osservazione del Cielo di Febbraio su Coelum Astronomia 230

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Unione Astrofili Senesi

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Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).

02.02, ore 21:30: Il cielo di febbraio. Come ogni primo sabato del mese, l’appuntamento per il pubblico è alle ore 21.30 presso Porta Laterina a Siena da dove raggiungeremo a piedi la specola ”Palmiero Capannoli” per osservare il cielo del periodo. Al centro dell’attenzione la Grande Nebulosa di Orione, le galassie del Leone e tanti altri oggetti. Per il pubblico è obbligatoria la prenotazione da effettuare on line sul sito www.astrofilisenesi.it oppure tramite Davide Scutumella 3388861549. In caso di tempo incerto telefonare per conferma.

08.02 e 22.02, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti. Come ogni secondo e quarto venerdì del mese, dalle ore 21.30 l’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (Sovicille, Siena) sarà aperto al pubblico per una serata osservativa dedicata al cielo del periodo. Per il pubblico è obbligatoria la prenotazione tramite il sito www.astrofilisenesi.it o inviando un messaggio WhatsApp al 3472874176 (Patrizio) oppure un sms al 3482650891 (Giorgio). In caso di tempo incerto telefonare per conferma.

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Tempeste in evoluzione su Giove

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Nuova bellissima immagine della turbolenta atmosfera di Giove, in costante evoluzione. Crediti: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Gerald Eichstädt/Seán Doran

Una nuova immagine del turbolento emisfero meridionale di Giove, ripreso mentre la sonda spaziale Juno della NASA eseguiva il suo ultimo flyby del pianeta, lo scorso 21 dicembre. Una nuova prospettiva della Grande Macchia Rossa, assieme a una di quelle tempeste ovali bianche chiamata Oval BA.

Cliccare sull’immagine se l’animazione non parte. Il video è stato creato con gli stessi fotogrammi per elaborare l’immagine di apertura.  Crediti: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Gerald Eichstädt/Seán Doran

Oval BA ha raggiunto la notevole estensione, di circa 8 mila kilometri di diametro, che vediamo quando tre tempeste più piccole sono entrate in contatto fondendosi tra loro nel 2000, un processo che potrebbe aver dato vita anche alla più famosa Macchia Rossa, ormai secoli fa. E come la Grande Macchia Rossa, questa enorme tempesta bianca ruota in senso antiorario, come ben si vede nell’animazione qui a lato.

Se per la Grande Macchia Rossa purtroppo non eravamo ancora pronti, di Oval BA siamo stati invece in grado di seguirne la formazione e l’evoluzione, dati molto importanti per i ricercatori.

Immagine dell

Anche le regioni turbolente attorno alla tempesta sono cambiate significativamente, anche solo dalla precedente ripresa del febbraio 2018. La bianca tempesta ovale si è ulteriormente trasformata negli ultimi mesi, cambiando colore dalle sfumature di rosso a un bianco più uniforme.

L’immagine è una somma di tre immagini, con i colori enfatizzati, riprese il ​​21 dicembre, tra le 9:32 del mattino PST (12:32 pm EST) e le 9:42 del mattino PST (le 12:42 pm EST). Nel momento in cui sono state scattate le immagini, Juno si trovava circa 38.300 chilometri e 55.500 chilometri dalla sommità delle nubi del pianeta.

Le immagini sono postate elaborate con la consueta maestria dagli ormai noti Gerald Eichstädt e Seán Doran.

Come sempre le immagini grezze provenienti dalla JunoCam sono disponibili per il pubblico, per l’analisi e l’elaborazione sul portale missionjuno.swri.edu/junocam, dove si possono anche trovare le numerose elaborazioni dei tanti citizen scientist che partecipano al progetto.


Tra SOLE, TERRA e… LUNA
dal Meteo Spaziale all’esplorazione della Luna, passando per… Ultima Thule!

Coelum Astronomia di Febbraio 2019
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Più vicini al Big Bang grazie ai quasar

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Quasar come candele standard: il confronto fra l’emissione ultravioletta di un quasar (in blu) e quella in banda X (in giallo-marrone) fornisce una stima della luminosità del quasar, e da questa la sua distanza da noi. In questo modo possiamo usare i quasar come “righelli” per misurare il tasso di espansione dell’universo. Crediti: G. Risaliti

Un nuovo studio pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy da Guido Risaliti(Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Firenze e associato Inaf presso l’Osservatorio astrofisico di Arcetri) ed Elisabeta Lusso (Centre for Extragalactic Astronomy, Durham University) ha permesso per la prima volta di misurare l’espansione dell’universo andando indietro nel tempo fino a circa un miliardo di anni dopo il Big Bang. Il risultato è stato possibile grazie allo studio dell’emissione in luce X e ottica dei quasar – le sorgenti più luminose dell’universo, prodotte da dischi di gas in caduta su buchi neri giganti nel centro delle galassie. I due ricercatori hanno utilizzato un enorme database che raccoglie circa 500mila quasar, osservati in luce ottica nell’ambito del progetto Sloan Digital Sky Survey. Di alcune migliaia di questi oggetti è stata analizzata anche la luce in banda X, osservata dal telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Il nuovo metodo sviluppato dagli autori di questo studio permette di valutare le distanze dei quasar dal confronto fra la loro emissione X e quella ottica.

«Una delle scoperte più inattese e importanti dell’astrofisica recente», ricorda Risaliti, «è che l’espansione dell’universo è accelerata. Questo implica la presenza di una forza repulsiva che pervade tutto lo spazio, a cui si dà genericamente il nome di energia oscura. Per determinare il tasso di espansione dell’universo è indispensabile misurare con precisione la distanza delle galassie. La scoperta dell’espansione accelerata, circa venti anni fa, è avvenuta proprio quando gli astronomi hanno imparato a usare le supernove, gigantesche esplosioni stellari, per misurare la distanza delle galassie».

Con questo metodo è oggi possibile studiare l’espansione dell’universo da circa 9 miliardi di anni fa a oggi. Considerando che secondo le stime più recenti l’età dell’universo – cioè il tempo trascorso dal Big Bang a oggi – è di 13,7 miliardi di anni, rimane da studiare l’evoluzione dell’universo nei primi 4-5 miliardi di anni.

«Usare i quasar come indicatori ha un grande potenziale, dal momento che li possiamo osservare a distanze maggiori rispetto alle supernove di tipo Ia, e quindi usarli per esplorare epoche molto precedenti nella storia del cosmo», spiega Lusso.

Lo studio ha fornito risultati del tutto in accordo con quelli già ottenuti con le supernove per quanto riguarda l’espansione “recente” dell’universo, ma ha misurato anche un’evoluzione nei primi miliardi di anni dal Big Bang diversa da quella attesa sulla base del modello cosmologico standard, che assume una densità di energia oscura costante nel tempo. Per riprodurre le osservazioni nell’ambito del modello standard, è quindi necessario assumere un’evoluzione temporale dell’energia oscura.

Il modello proposto dai due autori troverebbe una soluzione anche un altro problema che ha tenuto occupati i cosmologi negli ultimi anni, riguardo alla costante di Hubble – l’attuale tasso di espansione cosmica. Il dibattito riguarda una discrepanza che è stata trovata tra le stime della costante di Hubble nell’universo locale, basate su dati provenienti dalle supernove, e quelli basati sulle osservazioni della missione spaziale Planck sul fondo cosmico a microonde nell’universo primordiale.

«Il nostro modello è piuttosto interessante perché potrebbe risolvere due enigmi nello stesso momento», sottolinea Risaliti, «ma dovremo analizzare molti più modelli in dettaglio prima di poter risolvere questo mistero cosmico».

Secondo gli autori, questo ultimo risultato dovrà essere confermato da ulteriori misure, ma è certo che l’utilizzo dei quasar come traccianti dell’espansione dell’universo apre un nuovo interessante ramo della cosmologia osservativa, che potenzia ed estende a tempi finora inesplorati quelli conosciuti finora.

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Coelum Astronomia di Gennaio 2019
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Individuate molecole di glicolonitrile nello spazio

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L’immagine sullo sfondo mostra la regione di formazione stellare di Rho Ophiuchi, a 450 anni luce della Terra, osservata col telescopio spaziale Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), in particolare con lo strumento Spire a 500 microns. La posizione del sistema protostellare di tipo solare (una versione “baby” del nostro Sole) Iras 16293-2422 è indicata con un cerchio bianco. Crediti: Esa Herschel-Spire & Víctor M. Rivilla (Inaf Arcetri) & Ben Mills.
L’immagine sullo sfondo mostra la regione di formazione stellare di Rho Ophiuchi, a 450 anni luce della Terra, osservata col telescopio spaziale Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), in particolare con lo strumento Spire a 500 microns. La posizione del sistema protostellare di tipo solare (una versione “baby” del nostro Sole) Iras 16293-2422 è indicata con un cerchio bianco. Crediti: Esa Herschel-Spire & Víctor M. Rivilla (Inaf Arcetri) & Ben Mills.

Shaoshan Zeng, dottoranda presso la Queen Mary University di Londra, e il team di ricercatori da lei guidato, hanno individuato per la prima volta l’esistenza di molecole prebiotiche di glicolonitrile (HOCH2CN) nello spazio, per la precisione nel materiale che circonda la stella in formazione Iras 16293-2422 B, distante circa 450 anni luce da noi. La scoperta, importante per lo studio delle molecole di Dna e Rna nello spazio, è stata realizzata grazie ai dati raccolti dalle antenne di Alma (Atacama Large Millimeter/submillimetre Array) in Cile ed è stata appena pubblicata sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society Letters. Tra gli autori c’è anche Víctor M. Rivilla, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) di Arcetri a Firenze con un contratto Marie Skłodowska-Curie, nell’ambito del programma AstroFIt2, e Leonardo Testi, astronomo dell’Eso e associato Inaf.

Tra le numerose teorie che ritengono l’Rna primordiale alla base della vita come la conosciamo, la molecola di glicolonitrile è riconosciuta come un precursore chiave nei processi che portano alla formazione delle basi azotate, come ad esempio l’adenina (una delle componenti fondamentali delle catene di Rna e Dna). Ricordiamo che un team di ricercatori guidato da Rivilla ha scoperto di recente anche un altro precursore di questo nucleotide, la cianometanimina, all’interno di una nube molecolare nella nostra galassia.

«La nostra scoperta è un nuovo passo avanti nella ricerca della vita nello spazio», afferma Rivilla. «Il glicolonitrile infatti è una molecola molto interessante dal punto di vista astrobiologico perché è considerata un ingrediente chiave per formare alcuni “mattoni” fondamentali della vita, come i nucleotidi dell’Rna e Dna, e anche aminoacidi come la glicina, presente in molte proteine».

Questa panoramica mostra la spettacolare regione di nubi scure e brillanti che appartengono alla regione di formazione stellare nella costellazione di Ofiuco. L’immagine è stata ottenuta a partire dai dati della Dss2 (Digitized Sky Survey 2). Crediti: Eso/Digitized Sky Survey 2; Acknowledgement: Davide De Martin

La protostella in prossimità della quale è stato individuato il glicolonitrile si trova a 450 anni luce dalla Terra in direzione della costellazione di Ofiuco, all’interno della regione denominata Rho Ophiuchi, ricca di giovani stelle circondate da un bozzolo di polvere e gas nelle prime fasi della loro evoluzione, condizioni simili a quelle in cui si formò il nostro Sistema solare.

Rilevare le molecole prebiotiche nelle protostelle di tipo solare aiuta i ricercatori a comprendere meglio la formazione del nostro sistema planetario e in generale i processi che possono innescare l’insorgenza di forme elementari di vita nello spazio.

Zeng spiega: «Abbiamo dimostrato che questa importante molecola prebiotica può essersi formata nel materiale da cui emergono stelle e pianeti, consentendo un passo avanti nell’individuazione dei processi che potrebbero aver ha portato all’origine della vita sulla Terra».

Nella stessa zona di formazione stellare, più di un anno e mezzo fa, un altro gruppo di ricercatori, che vedeva coinvolti anche i ricercatori dell’Inaf, ha trovato tracce di isocianato di metile attorno a stelle simili al Sole in una fase precoce della loro formazione. Si tratta di una delle molecole complesse alla base della vita, ma è anche un isomero del glicolonitrile (cioè è composto dagli stessi atomi ma disposti in maniera leggermente diversa).

I dati di Alma sono stati fondamentali per identificare le firme chimiche del glicolonitrile e per determinare le condizioni in cui è stata trovata la molecola.

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Eclissi Totale del 21 gennaio. Impatto sulla Luna?

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Il primo screenshot di controllo, sullo streaming che mostrava l'eclisse in diretta dal Marocco. Nel cerchietto il flash incriminato.
Il primo screenshot di controllo, sullo streaming che mostrava l’eclisse in diretta dal Marocco. Nel cerchietto il flash incriminato.

Durante l’Eclissi Totale di Luna del 21 gennaio scorso, che ha interessato non solo l’Italia e i paesi nordoccidentali dell’Europa, ma anche America Centrale e Meridionale, parte dell’Africa fino all’Asia Centrale (anche se con sempre minore intensità procedendo verso est-sudest), un utente di Reddit posta un alert: ha visto un flash brillare sul bordo sudoccidentale della Luna, poco dopo l’inizio della totalità, ipotizzando un impatto asteroidale. Da un suo primo controllo sullo streaming dell’eclisse dal Marocco il flash sembra proprio esserci. Subito si sono rincorse sui social le prime notizie e i primi controlli, con immagini e video che in effetti avevano ripreso l’evento.

Controllate allora le vostre immagini e i vostri video ad alta risoluzione e fateci sapere se anche voi siete riusciti a immortalare l’evento!

Potete caricare le vostre immagini su Photocoelum oppure inviarcele a gallery@coelum.com con tutti i dati della ripresa e della strumentazione. Aspettiamo anche le vostre immagini!

Il video di conferma dalla MIDAS survey, di cui fa parte Madiedo

La conferma è poi arrivata dall’astronomo Jose Maria Madiedo, dell’Università di Huelva in Spagna, che da anni fa parte di un progetto di monitoraggio proprio di impatti asteroidali sulla Luna, il MIDAS Survey. Per l’occasione una schiera di telescopi sono stati puntati su più zone della Luna e, dopo l’eclisse, un software automatico ha controllato le immagini e individuato il flash, confermando l’impatto subito dopo l’inizio della totalità sul lembo più oscuro della Luna, alle 04:41:43 UTC (05:41 per l’Italia).

L\’immagine di conferma della presenza dell\’impatto, indicato dalla freccia. Crediti: Jose M. Madiedo

Madiedo non ha ancora effettuato calcoli, ma dalle sue prime valutazione pensa si sia trattato di un meteorite della dimensione di un pallone da football, del peso di un paio di chilogrammi.

Gli impatti sulla Luna non sono una cosa anomala, basta pensare al numero di bolidi e meteore che avvistiamo sulla Terra, tenendo conto che mentre noi abbiamo un’atmosfera che ci protegge (e infatti le scie luminose, più o meno persistenti, che vediamo non sono altro che il meteorite che si disintegra mentre la attraversa), la Luna non ce l’ha… e quindi anche il più piccolo meteoride arriva a colpirne la superficie — come testimoniano oltretutto i numerosi crateri di cui è ricoperta, e in particolare i numerosi crateri sulla faccia opposta a quella che ci mostra, più esposta a questo tipo di fenomeno.

Sulla Luna si contano infatti quasi 140 impatti l’anno (in media), informazione calcolata sul numero di nuovi crateri che appaiono regolarmente sulla sua superficie. Non esistono infatti molte altre cause per l’apparizione di un cratere, visto che il nostro satellite naturale non ha nessun tipo di attività geologica in atto.

Se gli impatti non sono rari, è più raro però riuscire a riprenderne uno, e evento ancora più raro che accada proprio durante un’eclissi totale, con così tanti occhi e telescopi puntati al posto giusto al momento giusto. Un evento unico! Perciò controllate le vostre riprese e fateci sapere!


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Accademia delle Stelle

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2019-01 Coelum AdS

Il 2019 si apre con due corsi della nostra Scuola di Astronomia, uno il lunedì, l’altro il giovedì, che dureranno per tutto ottobre e novembre alla nostra sede all’EUR, di fronte alla metro Laurentina.

Da lunedì 21 gennaio: Corso Base di Astronomia Generale. Un meraviglioso viaggio alla scoperta dell’Universo e di tutti gli oggetti incredibili che lo popolano. Pulsar, quasar, buchi neri… Un corso completo dalle fasi lunari al Big Bang

Da giovedì 31 gennaio: Corso completo di Astrofotografia. Lezioni teoriche e pratiche per imparare e sperimentare tutte le competenze che servono per fare spettacolari fotografie del cielo con qualsiasi strumento, dalla semplice reflex al telescopio ed elaborarle.

Info:
https://www.facebook.com/accademia.dellestelle/
https://www.accademiadellestelle.org/

Un attimo fugace. L’ultimo respiro di una stella morente

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Il debole, effimero bagliore che emana dalla nebulosa planetaria ESO 577-24 persiste solo per poco tempo - circa 10.000 anni, un battito di ciglia in termini astronomici. Il Very Large Telescope dell'ESO ha catturato questo guscio di gas ionizzato incandescente - l'ultimo respiro della stella morente i cui resti ribollenti sono visibili nel cuore di questa immagine. Mentre il guscio gassoso della nebulosa planetaria si espande e si affievolisce, scomparirà lentamente dalla vista. La splendida nebulosa planetaria è stata ripresa da uno degli strumenti più versatili del VLT, FORS2. Lo strumento ha catturato la brillante stella centrale, Abell 36, così come la nebulosa planetaria circostante. Le parti rosse e blu di questa immagine corrispondono all'emissione ottica a lunghezze d'onda rosse e blu, rispettivamente. Nell'immagine è visibile anche un oggetto molto più vicino a noi: un asteroide che vaga attraverso il campo visivo ha lasciato una debole traccia, visibile in basso a sinistra della stella centrale. E in lontananza dietro la nebulosa si vedono schiere scintillanti di galassie di fondo. Crediti: ESO
La splendida nebulosa planetaria è stata ripresa da uno degli strumenti più versatili del VLT, FORS2. Lo strumento ha catturato la brillante stella centrale, Abell 36, così come la nebulosa planetaria circostante. Le parti rosse e blu di questa immagine corrispondono all’emissione ottica a lunghezze d’onda rosse e blu, rispettivamente. Nell’immagine è visibile anche un oggetto molto più vicino a noi: un asteroide che vaga attraverso il campo visivo ha lasciato una debole traccia, visibile in basso a sinistra della stella centrale. E in lontananza, dietro la nebulosa, si vedono schiere scintillanti di galassie di fondo. Crediti: ESO

Un guscio evanescente di gas incandescente che si diffonde nello spazio — la nebulosa planetaria ESO 577-24 — domina questa nuova immagine rilasciata dall’ESO.

L’abbagliante nebulosa planetaria è stata scoperta all’interno della survey del cielo National Geographic Society — Palomar Observatory negli anni ’50 del secolo scorso. È stata inserita nel catalogo di Abell delle nebulose planetarie nel 1966. Da notare che spesso, gli oggetti astronomici, hanno un certo numero di nomi ufficiali, che provengono da diversi cataloghi da cui prendono designazioni differenti. Il nome formale di questo oggetto nel catalogo di Abell delle nebulose planetarie è PN A66 36.

 

Nella costellazione della Vergine, a una distanza di circa 1400 anni luce dalla Terra, il bagliore fantasma di ESO 577-24 è visibile solo attraverso l’uso di un potente telescopio. Questa nuova immagine della nebulosa è stata ottenuta, grazie allo strumento FORS2 del Very Large Telescope dell’ESO, nell’ambito del programma Gemme Cosmiche, un’iniziativa volta a produrre immagini di oggetti interessanti, o anche solo visivamente piacevoli, utilizzando i telescopi ESO per scopi educativi e di divulgazione, sfruttando il tempo di telescopio che non può essere utilizzato per osservazioni scientifiche; tuttavia, i dati raccolti sono resi disponibili agli astronomi attraverso l’archivio scientifico dell’ESO.

Le nebulose planetarie furono osservate dagli astronomi per la prima volta nel 18° secolo, chiamate così perché la luce fioca e il contorno netto facevano pensare a un sistema planetario in formazione. Oggi invece sappiamo che si tratta della fine del cammino di una stella gigante che, morendo, ha lanciato via i propri strati esterni, lasciandosi dietro una piccola e caldissima stella nana. Si tratta però di un fenomeno transitorio, questo resto affievolito si raffredderà gradualmente e svanirà alla vista, vivendo i suoi ultimi giorni come il fantasma di quella che un tempo era un’immensa stella gigante rossa.

Le giganti rosse sono stelle che, alla fine della propria vita, hanno esaurito il combustibile fornito dall’idrogeno nel nucleo e hanno iniziato a contrarsi sotto la morsa opprimente della gravità. Mentre la gigante rossa si contrae, l’immensa pressione riaccende il nucleo della stella, facendole lanciare nel vuoto gli strati esterni, sotto forma di un potente vento stellare (n.d.r. parleremo di venti stellari e della loro formazione, in particolare di quello proveniente dal nostro Sole, nel prossimo numero di febbraio 2019 di Coelum Astronomia). Il nucleo incandescente della stella morente emette radiazioni ultraviolette abbastanza intense da ionizzare questi strati e farli brillare. Il risultato è ciò che vediamo sotto forma di nebulosa planetaria — un ultimo e fugace ricordo di un’antica stella al termine della propria vita.

Tutto questo accadrà anche al nostro Sole, ma non c’è bisogno di allarmarsi… oggi il nostro Sole ha “solo” 5 miliardi di anni, a quel punto avrà raggiunto la venerabile età di 10 miliardi di anni!


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25.01, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti. Come ogni secondo e quarto venerdì del mese, dalle ore 21.30 l’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (Sovicille, Siena) sarà aperto al pubblico per una serata osservativa dedicata al cielo del periodo. Prenotazione obbligatoria sul sito www.astrofilisenesi.it o inviando un messaggio WhatsApp al 3472874176 (Patrizio) oppure un sms al 3482650891 (Giorgio).

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Venere e Giove nel cielo del mattino

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Ritorna una bella congiunzione (separazione di 2° 10’) tra i brillanti pianeti Venere (mag. –4,4) e Giove (mag. –1,8) nel cielo del mattino, guardando verso est prima dell’alba.

L’incontro avverrà ancora una volta nella costellazione dell’Ofiuco ma, a poca distanza, sarà possibile riconoscere la figura dello Scorpione, dominato dalla rossa Antares, che si aggiunge – da più lontano, a circa 7° 50’ verso est – alla coppia di pianeti.

Sarà molto facile individuare nel cielo la coppia: ci appariranno molto brillanti e staccati sul fondo del cielo ancora scuro. All’ora indicata i pianeti saranno alti più di 10° sull’orizzonte, permettendoci di riprenderli inseriti nel contesto del paesaggio naturale o architettonico.

Le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio 2019

➜ Continua su Fenomeni e congiunzioni di gennaio

➜ Il meraviglioso campo della costellazione del Toro. II parte: Le Iadi

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Lampo gamma record: visto anche da Magic

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Rappresentazione artistica di un Grb. Crediti: Nasa / Swift / Mary Pat Hrybyk-Keith e John Jones. Fonte: Wikimedia Commons
Rappresentazione artistica di un Grb. Crediti: Nasa / Swift / Mary Pat Hrybyk-Keith e John Jones. Fonte: Wikimedia Commons

«Ka-boooom! We got it». Un tweet che non poteva passare inosservato, quello postato mercoledì scorso, 15 gennaio, sul canale Magic Telescopes. Cos’è mai rimasto impigliato, questa volta, nei due specchi Cherenkov da 17 metri di diametro ciascuno che formano i telescopi di Magic, uno fra i più grandi osservatori per raggi gamma al mondo?

Per scoprirlo basta andare sull’omonima pagina Facebook, dove un post delle 06:11 del 15 gennaio annuncia trionfante, con tanto di refuso e cuoricino: «Hello! We dedected our first GRB!». Refuso e cuoricino dettati da una comprensibile emozione: se davvero i telescopi Magic hanno visto un Grb — vale a dire, un lampo di raggio gamma — si tratta di una scoperta eccezionale. È da anni che gli astrofisici sperano di riuscirci, perché la tecnica impiegata dalla coppia Magic per rivelare i raggi gamma consente di arrivare a energie elevatissime, il cosiddetto “dominio del TeV”. Un territorio inesplorato, al quale nessuno degli attuali telescopi spaziali per raggi gamma ha accesso.

Dunque Magic ha visto il primo lampo gamma della storia mai rivelato tramite l’effetto Cherenkov” — la luce bluastra prodotta da una particella quando viaggia nell’atmosfera a velocità superiore a quella che ha la luce stessa nell’atmosfera? A dirlo non sono solo i post più o meno ufficiali che si susseguono in queste ore sui social network: basta dare un’occhiata alla pagina che raccoglie, in ordine cronologico, le “circolari” — con tanto di coordinate — che si scambiano gli astrofisici della comunità mondiale dei lampi di raggi gamma quando vedono qualche segnale, e subito balza agli occhi che negli ultimi giorni è accaduto qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa che ha un nome: Grb 190114C.

Partiamo dalla sigla. “Grb” sta per gamma ray burst, lampo di raggio gamma, appunto. “190114” è la data in cui è stato osservato per la prima volta: il 14 gennaio 2019. E la lettera “C” sta a indicare che si tratta del terzo Grb visto quel giorno. Già di per sé questo è un fatto curioso: non capita spesso che vengano rilevati tre lampi gamma in un giorno solo.

Ma torniamo alla lista. Scorrendola a ritroso si scopre che il primo avvistamento di Grb 190114C è dovuto al rapidissimo Swift, il cacciatore di lampi gamma della Nasa con a bordo specchi per raggi X made in Italy (progettati e costruiti all’Inaf di Brera). Alle 22:17 ora italiana del 14 gennaio J. D. Groipp e colleghi della Pennsylvania State University riferiscono che venti minuti prima, alle 20:57:03 Gmt (21:57:03 ora italiana), Swift ha rivelato un lampo gamma molto luminoso con una controparte ottica, «a very bright burst with a bright optical counterpart». E ne fornisce le coordinate: 3h 38m di ascensione retta, –26 gradi e 56 primi di declinazione. Grosso modo in direzione della costellazione della Fornace – nel cielo australe, dunque, ma non di tanto: è una regione di cielo visibile anche dalle Canarie, per esempio. Dove si trovano, fra i tanti ospitati sull’Isola di La Palma, anche i due telescopi di Magic.

Avute le coordinate, ecco che subito tutti i maggiori telescopi dallo spazio e da terra puntano quella zona di cielo per vedere cosa mai stia accadendo — d’altronde è proprio a questo che servono le circolari della rete Gcn. E le conferme fioccano.

Lo vede dalle Canarie il telescopio robotico russo Master-Iac. Lo vede, sempre dalla Canarie, il Nordic Optical Telescope, che riesce a fornire una prima stima della distanza della sorgente: il lampo gamma ha un redshift di z = 0,42, che nel gergo degli astronomi sta a significare qualche miliardo di anni luce.
E lo vedono, a cascata, tutti gli habitué del piccolo mondo dei Grb: Fermi della Nasa, Integral dell’Esa, l’italiano Agile, il Very Large Telescope dell’Eso, il piccolo Rem dell’Inaf…

Ma nella lista degli “avvistatori” c’è anche qualcuno che habitué non lo è affatto: Magic, appunto. I cui rivelatori per luce Cherenkov, circa 50 secondi dopo l’alert di Swift, osservano «un evidente eccesso di eventi gamma con significatività superiore a 20 sigma» a energie superiori a 300 GeV. È il primo lampo di raggio gamma mai registrato nel “dominio del TeV”. Là dove l’energia si misura in migliaia di miliardi di elettronvolt. Là dove nessun Grb era stato visto mai.

La scoperta, se verrà confermata, è importante per almeno tre motivi. Anzitutto, potrà fornire agli astrofisici dati inediti e preziosi su uno dei fenomeni più misteriosi dell’universo — i lampi di raggi gamma, dei quali ancora non sono del tutto chiari i meccanismi di produzione. Secondo, sarebbe il coronamento di un periodo d’oro per i telescopi Magic, già fra i protagonisti — il 22 settembre 2017 — della rilevazione del primo segnale elettromagnetico conosciuto associato a un neutrino cosmico. Infine, aprirebbe la strada a un ambito di ricerca particolarmente ghiotto per Cta, il futuro Cherenkov Telescope Array. Insomma, una notizia che continueremo a seguire su queste pagine, e sulla quale contiamo di poter tornare al più presto, per approfondirla come merita insieme agli scienziati protagonisti della scoperta.

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SPECIALE 2019 dai fenomeni celesti alle missioni spaziali… Cosa ci riserva il nuovo anno?

Coelum Astronomia di Gennaio 2019 Ora online, come sempre in formatodigitale, pdf e gratuito.

 

La breve ma eroica storia del primo germoglio sulla Luna

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L’immagine mostrerebbe i germogli di cotone nati sulla faccia nascosta della Luna, all’interno di una mini biosfera di solo 1 litro di volume. Purtroppo le camere all’interno non sono riuscite a mettere bene a fuoco il resto delle sementi, ma nonostante le oltre 170 foto scattate non sembra esserci altro “movimento”. Crediti: Chinese Lunar Exploration Program, Chongqing University.

Anche se breve è una bella storia: per la prima volta è germogliata la vita sulla Luna, sulla faccia nascosta della Luna!

Ma l’esperimento era già in partenza un esperimento a tempo. Il germoglio non avrebbe potuto sopravvivere alla lunga e fredda notte lunare, nemmeno dentro la piccola biosfera creata per lei all’interno della missione Change’e 4.

La sonda Change’e 4, che ha effettuato con successo il primo atterraggio morbido sulla faccia nascosta della Luna, il 3 gennaio scorso, trasportava non solo il piccolo rover Yutu 2, alle prese ora con le asperità del terreno lunare, ma anche il primo esperimento biologico sul nostro satellite naturale: un contenitore cilindrico ospitante una mini biosfera con diverse sementi pronte a germogliare e uova di mosca della frutta pronte a schiudersi.

Il contenitore, realizzato con materiali in una speciale lega di alluminio, è alto 198 mm, con un diametro di 173 mm e un peso di 2,6 kg, carico compreso. Al suo interno acqua, suolo, aria e semi di cotone, colza, patate e Arabidopsis, così come le uova della mosca della frutta e alcuni lieviti, per formare una semplice mini biosfera. All’interno poi sono state posizionate anche due piccole telecamere e un sistema di controllo del calore, in grado di mantenere i 25°C all’interno durante il caldo giorno lunare.

Sulla Luna le condizioni sono infatti estreme, non esiste atmosfera e quindi il passaggio tra notte e giorno è immediato, così come le temperature raggiunte al suolo. Il giorno lunare è di circa 27 giorni, il che significa due settimane circa di Sole e due settimane circa immerse nel buio e nel freddo, che può raggiungere i -170° C! Senza contare poi la diversa gravità lunare, all’incirca il 17% di quella terrestre.

Change’e 4 è arrivata durante il giorno lunare, e l’esperimento è iniziato poche ore dopo.

Piantine di Arabidopsis utilizzate in un esperimento alla Wageningen University and Research.

Xie Gengxin, professore alla Chongqing University capo progettista dell’esperimento, spiega il perché della scelta di questo tipo di carico: le patate, non serve nemmeno dirlo, rappresentano una fonte nutrizionale importante per i futuri viaggiatori dello spazio, e permetterebbero agli abitanti di una eventuale colonia sulla Luna di non dover dipendere troppo dai rifornimenti da Terra. Analogamente colza e cotone sono, rispettivamente, alla base di una produzione di carburante e tessuti. Mentre, ad esempio, il periodo di crescita dell’Arabidopsis è molto breve e semplice da osservare,  la piccola pianta fiorita viene infatti spesso utilizzata come organismo modello per lo studio della biologia vegetale. I lieviti poi giocano un ruolo importante nella regolazione dell’anidride carbonica e dell’ossigeno, mentre la mosca della frutta si potrebbe nutrire degli scarti nel processo di fotosintesi, contribuendo alla decomposizione organica delle piante alla fine del loro ciclo, che potrebbe poi fornire nuovo nutrimento per eventuali nuove piantine.

Tutto questo in un progetto più a lungo termine che prevede la sperimentazione su scala più ampia, ma come punto di partenza (contando anche il piccolo margine di peso e spazio disponbili a bordo della sonda) una mini biosfera che aveva bisogno di mini organismi che potessero vivere all’interno del piccolo contenitore.

Tutti i vari organismi sono stati mantenuti “dormienti” durante le fasi di test della sonda, della durata di ben due mesi, prima del lancio, e durante il viaggio di 20 giorni per raggiungere la meta. Una volta arrivati sulla Luna, il centro di controllo a terra ha dato il via all’esperimento. Alla sonda sono state date istruzioni per alimentare la mini biosfera e azionare l’innaffiatura dei semi,  avviando così il processo di crescita. La luce naturale del giorno lunare è stata accompagnata all’interno del contenitore sigillato attraverso un tubo, per tentare di far crescere le piante senza l’ausilio di lampade UV, ma nelle condizioni di luce solare sulla Luna, decisamente più intensa di quella che riesce a raggiungere la superficie terrestre.

Questa immagine è girata, forse troppo precocemente, nei giorni scorsi come il germoglio nato sulla Luna, si è invece poi capito che si tratta delle immagini dalla mini biosfera di controllo qui sulla Terra, dove le piantine sono ovviamente nate e cresciute più velocemente.

Già martedì 8 gennaio, secondo le immagini ricevute dal team missione, è nato il primo germoglio da i semi di cotone.
Purtroppo gli altri semi, e le uova, non hanno mostrato segni di vita, è vero che le telecamere non hanno permesso la visualizzazione ottimale di tutte le zone della piccola biosfera (all’incirca del volume di un litro), ma la temperatura pare abbia raggiunto i 30 gradi centigradi, troppo caldo per lo sviluppo del resto degli organismi.

Più di 170 immagini sono state scattate dalle telecamere e rimandate sulla Terra, ma la domenica successiva, con l’arrivo della prima notte lunare, la sonda Change’e 4, alimentata da pannelli solari, è entrata in modalità “sleep”, e l’esperimento biologico ha visto la sua (prevista anche se le informazioni sembrano contraddittorie) conclusione.

Il contenitore, in laboratorio, di circa 1 litro, in cui è stata ricreata la mini biosfera.

Il contenitore non era fornito di una batteria indipendente per poter continuare a mantenere il controllo della temperatura, e la sonda non avrebbe potuto alimentarla durante le notte lunare. «La vita nel contenitore non può sopravvivere alla notte lunare», ha dichiarato infatti Xie. La vita all’interno della biosfera si è così congelata, all’arrivo del nuovo giorno lunare gli organismi cominceranno a decomporsi gradualmente all’interno della biosfera, sigillata e completamente chiusa, senza contaminare e influenzare l’ambiente lunare.

Esperimenti di crescita di piante nello spazio si sono già svolti all’interno della Stazione Spaziale Internazionale (ricordate l’insalata romana?), riso e Arabidopsis sono state coltivate anche sulla stazione spaziale cinese Tiangong-2, ed è recente uno studio norvegese per progettare una serra per legumi, che già dal 2020 potrebbe contribuire con alimenti freschi al pasto degli astronauti, ma si tratta di esperimenti condotti in bassa orbita terrestre, a un’altitudine di circa 400 km, in condizioni di temperatura, luce e umidità controllata. L’ambiente sulla Luna, a 380.000 chilometri dalla Terra, è un ambiente più complesso: «Non avevamo mai avuto una simile esperienza e non potevamo simulare l’ambiente lunare, come la microgravità e le radiazioni cosmiche, sulla Terra», spiega Xie.

Un esperimento del genere serviva non certo a coltivare fin da subito con successo piante sulla Luna, ma ad aiutare ad acquisire le prime conoscenze con il fine ultimo di arrivare a costruire una base lunare per una residenza a lungo termine sulla Luna.

Altra motivazione, non secondaria, della realizzazione dell’esperimento, è stata quella di ispirare l’entusiasmo dei giovani nei confronti dell’esplorazione spaziale oltre alla divulgazione delle scienze biologiche.

Il pubblico, soprattutto i più giovani, sono infatti stati incoraggiati a partecipare alla missione Change’e 4 attraverso un concorso, lanciato nel 2015 nelle scuole cinesi (e promosso dal CNSA, dal Ministero della Pubblica Istruzione, l’Accademia cinese delle Scienze, l’Associazione cinese per la Scienza e la Tecnologia e altre organizzazioni). Il concorso prevedeva di ideare e progettare esperimenti trasportabili come payload per la missione, e la “mini biosfera lunare” è stata selezionata tra oltre 250 proposte.

Ecco perché si tratta di una bella storia, nonostante la piccola vita nata sulla Luna non avesse grandi prospettive in partenza. L’esperimento, progettato su un’idea di giovani aspiranti ricercatori, aveva lo scopo di riuscire a far germogliare qualcosa nell’arco dei nove giorni di luce a disposizione. Si sperava di riuscire a studiarne il processo di fotosintesi, per poterlo comparare a un esperimento di controllo svolto sulla Terra… ma era fin troppo ambizioso. La comunicazione da parte delle istituzioni cinesi non è stata sempre chiara e lineare, sicuramente però più di quanto non lo sia stata in passato, e di questo si sta continuando a discutere in rete.

Di sicuro, però, resterà nella storia come il primo germoglio di vita nato sulla Luna.


SPECIALE 2019

 

dai fenomeni celesti alle missioni spaziali…

Cosa ci riserva il nuovo anno?

 

Coelum Astronomia di Gennaio 2019

La bellezza del classico: Luna e Aldebaran

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La sera del 17 gennaio, volgendo il nostro sguardo verso est-sudest, a una altezza di circa 50° sull’orizzonte, potremo ammirare una bella congiunzione tra la Luna (fase dell’84%) con la stella alfa della costellazione del Toro, Aldebaran (mag. +0,85).

L’incontro avverrà all’interno del magnifico teatro delle Iadi, ammasso aperto al centro della figura celeste del Toro. La congiunzione sarà piuttosto stretta, con la Luna e Aldebaran che saranno separate di appena 1° 4′.

Sperando in una serata dal cielo terso e limpido, sarà possibile immortalare l’incontro riuscendo a imprimere nella nostra fotografia anche un buon numero di stelle, nonostante la Luna risulti molto luminosa, vista la fase avanzata.

E per conoscere meglio quello che stiamo osservando ricordiamo la rubrica di Stefano Schirinzi che dal mese scorso ci sta raccontando proprio questa magnifica costellazione: il meraviglioso campo della costellazione del Toro.

Le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio 2019

➜ 21 gennaio Eclisse Totale di Luna

➜ Il Cielo di gennaio con la UAI: nella costellazione della Giraffa

Da non dimenticare poi, questo mese, di dare uno sguardo alla panoramica dei principali fenomeni del 2019

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Tutti consigli per l’osservazione del Cielo di Gennaio su Coelum Astronomia 229

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TESS scopre i suoi primi esopianeti. Si progetta un’estensione della missione

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DI ROBERTO MASTRI · astronautinews.it

TESS, il “cacciatore di esopianeti”, è pienamente operativo, i suoi sistemi godono di ottima salute, e dai dati raccolti dalle sue quattro camere cominciano emergere nuove scoperte. Questo bilancio, estremamente positivo, è stato espresso, a conclusione del primo quarto della missione biennale, dai membri del team del Transiting Exoplanet Survey Satellite, in occasione del 233° meeting dell’American Astronomical Society, a Seattle il 7 gennaio scorso.

Lanciato nell’aprile 2018 a bordo di un Falcon 9, TESS ha iniziato le attività scientifiche il 25 luglio una volta raggiunta la sua orbita fortemente ellittica, tra i 100 mila e i 400 mila chilometri dalla terra. Secondo i piani, che lo porteranno a esaminare in due anni circa l’85% del cielo, la sonda ha iniziato le osservazioni dall’emisfero meridionale, suddiviso in 13 settori. Al momento ne sono stati ultimati quattro e il 6 dicembre sono stati pubblicamente rilasciati i dati relativi ai primi due.

La prima immagine del primo settore dell’emisfero australe registrata dalle camere di TESS il 7 agosto 2018. Credit: NASA/MIT/TESS

Le prime scoperte di TESS

Le osservazioni hanno permesso di individuare 280 esopianeti candidati, tra i quali emergono le prime conferme. Proprio in questi giorni la NASA ha diffuso informazioni relative a tre nuovi mondi.

Una simulazione di Pi Mensae c in rotazione. Ovviamente l’aspetto degli esopianeti in queste elaborazioni artistiche sono solo ipotesi basate sul poco che sappiamo dei pianeti in questione. Crediti: NASA/MIT/TESS

Pi Mensae è una stella nana gialla di dimensioni simili al nostro Sole, da cui dista 60 anni luce, visibile a occhio nudo, anche se non dalle nostre latitudini. Attorno ad essa nel 2001, sulla base di osservazioni condotte da terra, era già stato scoperto un pianeta, Pi Mensae b, un’enorme gigante gassoso di massa 10 volte superiore a quella di Giove, in movimento su un’orbita fortemente ellittica che lo porta ad entrare nella “zona abitabile” al periastro (1,21 AU) per poi allontanarsi dalla sua stella più di Giove rispetto al Sole (5,54 AU). Ora, grazie a TESS, è emerso che il sistema ospita anche una superterra, Pi Mensae c, grande circa il doppio del nostro pianeta, che percorre un’orbita circolare molto vicina a Pi Mensae in soli 6,3 giorni. Questa scoperta permetterà di gettare nuova luce su come questo strano sistema planetario si è formato.

LHS 3884b

Un altro pianeta roccioso, di dimensioni più simili al nostro, è stato trovato più a nord, nella costellazione dell’Indiano, attorno a una nana rossa grande circa un quinto del Sole, denominata LHS 3844, a 49 anni luce da noi. LHS 3884b ha diametro pari 1,3 quello terrestre, ma orbita vicinissimo alla stella, completando una rivoluzione in sole 11 ore. Secondo gli studiosi sul lato del pianeta esposto alla luce della stella la temperatura potrebbe superare i 500 gradi e vi si potrebbero formare laghi di lava fusa.

Più o meno alla stessa latitudine, nella costellazione del Reticolo, attorno alla stella HD 21749, una nana rossa grande di due terzi le dimensioni del Sole e distante 53 anni luce, TESS ha identificato il suo terzo pianeta. HD 21749b, è circa tre volte più grande della terra, per diametro, ma ha una massa 23 volte maggiore.

«Questo pianeta ha una densità maggiore di Nettuno, ma non è roccioso. – Ha spiegato Diana Dragomir, Hubble Fellow presso il Kavli Institute for Astrophysics and Space Research del MIT, autrice principale dell’articolo che descrive la scoperta – Potrebbe essere un pianeta d’acqua o avere un altro tipo di atmosfera densa».

 

Con i suoi 36 giorni è pianeta con il periodo di transito più lungo finora scoperto in un raggio di 100 anni luce dal sistema solare. Nonostante la vicinanza alla sua stella, la temperatura superficiale è piuttosto bassa, attorno ai 150 gradi, e anche questo è piuttosto raro:

«È il pianeta più piccolo e più freddo che conosciamo intorno a una stella quella grandezza – ha continuato la dottoressa Dragomir – Sappiamo molto sulle atmosfere dei pianeti caldi ma, poiché è molto difficile trovare piccoli pianeti che orbitano più lontano dalle loro stelle, e che quindi sono più freddi, non siamo stati in grado di imparare molto sulle loro atmosfere».

Grazie a questa fortunata scoperta sarà possibile colmare la lacuna.

Bisogna anche aggiungere che attorno ad HD 21749, TESS potrebbe aver trovato un terzo pianeta, delle dimensioni della terra, con un periodo orbitale di 8 giorni. Se la scoperta sarà confermata, sarà il più piccolo esopianeta finora trovato dalla sonda.

Non solo esopianeti

Come è stato per Kepler, le scoperte di TESS non si limitano agli esopianeti: osservando costantemente un settore di cielo per un mese, la sonda è in grado di registrare molti altri fenomeni, tra cui comete, asteroidi, stelle a brillamento, stelle binarie, nane bianche e supernovae.

Solo nel primo settore, esaminato tra il 25 luglio e il 22 agosto dello scorso anno, TESS ha catturato decine di eventi di breve durata, comprese sei supernove in galassie lontane che sono state in seguito osservate da telescopi a terra.


Collocazione delle prime sei supernovae scoperte da TESS

«Alcuni dei fatti scientifici più interessanti si verificano nei primi giorni di una supernova, periodo quasi impossibile da osservare prima di TESS – ha fatto notare Michael Fausnaugh, un altro ricercatore presso il Kavli Institute del MIT che lavora alla missione – Il telescopio spaziale Kepler della NASA ha catturato sei di questi eventi durante i suoi primi quattro anni di operazioni. TESS ne ha trovati altrettanti nel suo primo mese».

È lecito augurarsi che queste osservazioni potranno fornire nuovi elementi sull’origine delle supernovae di tipo Ia e aiuteranno a comprendere meglio l’espansione dell’universo.

Il futuro di TESS

Gli inizi brillanti fanno ben sperare per il futuro della missione:

«Siamo solo a metà del primo anno di attività di TESS, e il flusso dei dati ha appena iniziato a scorrere – ha detto George Ricker, principal investigator di TESS presso il Kavli Institute del MIT – Quando il set completo delle osservazioni di oltre 300 milioni di stelle e galassie raccolte durante la prima missione di due anni sarà a disposizione degli astronomi di tutto il mondo, TESS potrebbe aver scoperto ben 10.000 pianeti, oltre a centinaia di supernove e altri transienti extragalattici».

Fino ad oggi gli esopianeti conosciuti sono circa 3.900; di questi, più di 2.600 sono stati identificati tramite Kepler, che è da poco giunto alla fine della sua vita operativa, iniziata nel 2009. TESS pare confermarsi un degno erede.

Un momento del briefing di presentazione della missione TESS nel marzo 2018. George Rickert è il secondo da destra. Credit: NASA/Bill Ingalls

Naturalmente è molto probabile che il lavoro e le scoperte di TESS non si concluderanno dopo due anni. Rickert ha rivelato che si sta già progettando la prima estensione, per un periodo compreso tra la metà del 2020 e gli ultimi mesi del 2022, che permetterebbe sia di rivisitare alcune aree del cielo già esaminate nel corso della missione iniziale, sia di coprire alcune parti di quel 15% non osservato.

La proposta avrebbe dovuto essere esaminata il prossimo 1° febbraio, nell’ambito della Senior Review delle missioni operative condotta dal Science Mission Directorate della NASA, ma è probabile che la scadenza sarà rinviata a causa dello shutdown del governo degli Stati Uniti, che rischia di paralizzare molte attività dell’agenzia spaziale americana.

Le condizioni di TESS permettono comunque a Ricker di pensare che non ci sarà una sola estensione: l’orbita è stabile e non ha bisogno di correzioni, le prestazioni delle camere si sono rivelate decisamente migliori di quanto previsto, le ruote di reazione, basate sul design di quelle dei satelliti commerciali, dovrebbero durare per decenni (evitando i problemi accusati da Kepler) e la riserva di idrazina, finora utilizzata al ritmo di un grammo alla settimana, potrebbe essere sufficiente per un periodo anche più lungo.

Nel corso dei prossimi dieci anni ulteriori missioni TESS potrebbero supportare e integrare le indagini sugli esopianeti condotte dagli osservatori terrestri e da sonde come il Wide-Field Infrared Survey Telescope (WFIRST) della NASA e il PLAnetary Transits and Oscillations of stars, (PLATO) di ESA.

«Se la NASA è paziente – ha concluso con molto ottimismo il principal investigatore continua a finanziarci adeguatamente, penso che potremmo continuare per parecchi decenni».

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21 gennaio. Eclisse Totale di Luna

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Purtroppo la fase finale di questa nuova Eclissi avverrà solo dopo il tramonto della Luna, ma potremo goderci tutta la prima fase e il massimo dell'Eclisse immerso nel paesaggio. La scelta giusta del contorno, oltre al chiarore in arrivo del crepuscolo del mattino, potranno rendere decisamente suggestive le nostre immagini. Eclisse di Luna sopra un traliccio di Gianluca Belgrado (cliccare sull'immagine per i dettagli di ripresa).

Ormai archiviata l’eclisse totale del 27 luglio scorso, accompagnata dalla contemporanea opposizione del pianeta Marte – eccezionale combinazione di eventi astronomici, che tutti abbiamo avuto modo di seguire e ammirare – veniamo ora alla notte del 21 gennaio 2019, quando il nostro satellite si esibirà in un’altra delle sue sempre spettacolari e interessanti eclissi totali.

Con un valore di “magnitudine di penombra” di 2,168 (frazione di Luna oscurata con ingresso di penombra della Terra) e un valore di “magnitudine umbrale” di 1,195 (frazione di Luna oscurata dal cono d’ombra della Terra) questo fenomeno, oltre che in America Centrale e Meridionale, sarà visibile anche dai settori nordoccidentali di Europa e Africa, anche se con sempre minore intensità procedendo verso estsudest, fino all’Asia Centrale e all’Oceania, dove l’eclisse risulterà completamente invisibile.

Gli orari dell'Eclissi del 21 gennaio mattina (da destra verso sinistra). Crediti Coelum Astronomia CC-BY

Per quanto riguarda il nostro Paese, basterà guardare in direzione ovest-nordovest. E’ utile precisare che la fase iniziale del fenomeno, prevista per le 03:36, potrà essere seguita da tutte le località italiane anche se le estreme aree meridionali potranno essere parzialmente penalizzate da una minore altezza della Luna.

Le cose non andranno meglio per chi intendesse seguire la fase massima dell’eclisse prevista per le 06:12, quando il nostro satellite si troverà a un’altezza generalmente inferiore ai 20°, con massimo di +19° in Valle d’Aosta, fino a valori nettamente inferiori procedendo verso le estreme regioni meridionali.

Infine la fase terminale dell’eclisse, prevista per le 08:48, chiaramente non potrà essere osservata in quanto la Luna, tramontata alle 07:41, si troverà ormai abbondantemente sotto l’orizzonte per tutte le località italiane.

➜ Leggi l’articolo completo con tutti i dettagli su 21 gennaio Eclisse Totale di Luna

Per la ripresa delle Eclissi di Luna sono sempre validi spunti e consigli di Giorgia Hofer, pubblicati in occasione delle eclissi precedenti:

➜ Riprendiamo l’Eclissi Parziale di Luna su Coelum astronomia 213

➜ Riprendiamo l’Eclisse Totale di Luna accompagnata da Marte su Coelum astronomia 224

Altri spunti li trovate su un articolo di Daniele Gasparri del 2011, dei quli due pubblicati anche online sul metodo di ripresa in HDR (High Dinamic Range) delle fasi parziali e sull’Imaging a largo campo della totalità.

Le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio 2019

➜ Il meraviglioso campo della costellazione del Toro. II parte: Le Iadi

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Hayabusa 2. Touchdown per il 18 febbraio.

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I due punti candidati per il primo touch down della sonda sono entrambi all'interno del settore denominato L08. Il cerchio rosso mostra il primo candidato L08b, la seconda scelta potrebbe essere subito fuori dai bordi del cerchio. Crediti JAXA


Una volta raggiunta la sua meta, Haybusa 2, o meglio il suo team missione si è accorto che l’asteroide era meno ospitale del previsto, e ha dovuto rimandare la discesa per la raccolta dei campioni dall’ottobre scorso a inizio del nuovo anno, dopo l’uscita di sonda e asteroide dalla congiunzione eliaca.
Ora finalmente abbiamo una data, le operazioni di touchdown inizieranno il 18 febbraio, data prevista almeno per ora.

«Il momento è finalmente arrivato», ha comunicato Takashi Kubota  in una conferenza stampa dell’8 gennaio. «I due punti di atterraggio candidati hanno ognuno i loro vantaggi e svantaggi, ma noi cercheremo convintamente di raccogliere questi campioni».

I due siti sono entrambi vicini all’equatore dell’asteroide e la JAXA ne dovrà scegliere uno entro i primi giorni  di febbraio. Una volta deciso dove la sonda dovrà scendere inizieranno le operazioni di avvicinamento e quindi di discesa. Solo dopo si potranno cominciare quelle di raccolta dei campioni.

I due punti candidati per il primo touch down della sonda sono entrambi all’interno del settore denominato L08. Il cerchio rosso mostra il primo candidato L08b, la seconda scelta potrebbe essere subito fuori dai bordi del cerchio. Crediti JAXA

Tra il 18 febbraio e il 23 febbraio, quindi, la Hayabusa 2 inizierà scendendo dalla sua “posizione di riposo” (a un’altitudine di 20 chilometri dall’asteroide), utilizzando i “marcatori di destinazione” che verranno lanciati sulla superficie di Ryugu poco prima dell’arrivo, e che guideranno la sonda nell’atterraggio.

Durante il primo touchdown, nell’arco di solo un paio di secondi, un dispositivo cilindrico di 1 metro di lunghezza, chiamato samper horn, si estenderà dalla sonda e sparerà un proiettile sulla superficie dell’asteroide, permettendo alla sonda di raccogliere i frammenti volanti di sabbia e roccia superficiali causati dall’impatto, per poi tornare alla posizione di riposo.

Hayabusa 2, prima di poter rientrare portando a terra il suo carico, dovrà effettuare tre di queste operazioni “prendi e scappa”.

Dal secondo tentativo, Hayabusa 2 sparerà anche frammenti di metallo per tentare di creare un piccolo cratere e mettere a nudo il materiale sotto la superficie. Se riuscirà nell’impresa avremo allora la possibilità di analizzare campioni di materiale primordiale del nostro Sistema Solare. Si pensa infatti che Ryugu si sia formato 4,6 miliardi di anni fa, durante la formazione del nostro Sistema Solare, e che sotto la superficie il materiale si sia maggiormente preservato così com’era all’origine.

Se poi si troveranno anche acqua e sostanze organiche, potrebbe darci ulteriori indizi anche per la nascita della vita sulla Terra.

«Effettueremo la missione con grande attenzione ma anche con un pizzico di audacia», dichiara Kubota. Le incognite infatti sono tante, e la superficie di Ryugu più rocciosa, dura e irregolare di quanto ci si poteva aspettare. I margini di manovra sono ben più stretti di quelli previsti dalla missione, ma ancora ci sono, e la missione ideata per adattarsi alle nuove condizioni. Restiamo quindi in attesa delle prossime notizie.

Per chiudere l’aggiornamento, la JAXA conferma che almeno 13 tra i nomi presentati per alcune  zone e formazioni identificate sull’asteroide verranno riconosciuti dall’International Astronomical Union, che ricopre il ruolo di “anagrafe” per questo tipo di designazioni.

I nomi vengono da personaggi di racconti popolari tradizionali giapponesi, come “Urashima” e “Otohime”, il pescatore e la principessa del racconto Urashima Tarō, e “Momotaro” l’eroe della famosissima fiaba omonima Momotarō.


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Lampi radio: a ripetersi sono in due

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Il radiotelescopio Chime al Dominion Radio Astrophysical Observatory in British Columbia, Canada. Crediti: Chime Collaboration
Il radiotelescopio Chime al Dominion Radio Astrophysical Observatory in British Columbia, Canada. Crediti: Chime Collaboration

Un team di scienziati canadesi e statunitensi ha trovato un lampo radio veloce (Frbfast radio burst) che presenta ripetizioni del proprio segnale, il secondo finora individuato di questo genere. La scoperta, che porta a importanti considerazioni sulla natura di queste misteriose emissioni, è stata effettuata grazie al nuovo radiotelescopio canadese Chime (Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment) ed è dettagliata in due articoli – entrambi a firma della Chime Frb Collaboration– in via di pubblicazione su Nature e presentati in anteprima al 233° meeting della American Astronomical Society in svolgimento a Seattle, Usa.

Entrati nel panorama dell’astrofisica da pochi anni, i cosiddetti fast radio burst sono brevi sequenze di onde radio provenienti da regioni remote dello spazio, a miliardi di anni luce di distanza dalla Via Lattea, la nostra galassia. Al momento la loro origine è sconosciuta, ed esistono diverse ipotesi a riguardo. Degli oltre 60 lampi radio veloci osservati finora, soltanto un’altra sorgente era stata precedentemente identificata come ripetitiva.

La storia dell’enigma dei FRB e della scoperta del primo radio burst ripetitivo, in un articolo del 2016 a firma di Corrado Lamberti. Coelum astronomia n. 202 a lettura gratuita (cliccare sull’immagine).

Denominato Frb 180814.J0422+73, il nuovo lampo radio veloce ripetitivo è stato scoperto tra i 13 fast radio burst registrati in un periodo di tre settimane nell’estate del 2018, quando il radiotelescopio Chime ha effettuato delle osservazioni di collaudo a una frazione della sua piena capacità operativa. La natura ripetitiva di Frb 180814 è stata poi confermata da ulteriori osservazioni condotte nelle settimane successive.

«Finora conoscevamo un solo Frb ripetitivo, ma sapere che ce n’è un altro suggerisce che ce ne potrebbero essere parecchi altri là fuori», commenta Ingrid Stairs dell’Università della British Columbia e della collaborazione Chime. «Conoscendo un numero maggiore di sorgenti, ripetitive e non, potremmo essere in grado di comprendere dove si originano e cosa causa i lampi radio veloci».

La parabola da 305 metri dell’Osservatorio di Arecibo, di cui si vedono nell’immagine i ricevitori sospesi, era stata la prima – e finora l’unica – antenna a registrare un lampo radio veloce ripetitivo. Crediti: Danielle Futselaa

Un’altra novità riguarda le frequenze molto basse a cui sono stati registrati i brevi impulsi. La maggior parte dei fast radio burst erano stati finora rilevati a frequenze attorno ai 1400 MHz, ben al di sopra del campo di operatività tra i 400 e gli 800 MHz del radiotelescopio canadese. Al contrario, la maggior parte dei nuovi 13 lampi radio veloci sono stati registrati verso il limite inferiore di frequenza, con intensità tali da lasciare supporre che si possano rilevare tali eventi anche sotto il limite dei 400 MHz.

Infine, il fatto che il segnale di molti dei nuovi Frb scoperti presenti segni di dispersione (scattering), un fenomeno che fornisce indicazioni sull’ambiente circostante la sorgente di onde radio, porta gli autori dei nuovi studi a ipotizzare che alla base dei lampi radio veloci vi siano oggetti astrofisici potenti che si trovano in regioni con caratteristiche speciali.

«Queste regioni sarebbero all’interno di densi aggregati di materia, come un resto di supernova», spiega il membro del team Cherry Ng, dell’Università di Toronto. «O anche vicino al buco nero centrale in una galassia. Ma comunque dev’essere in qualche posto speciale, per produrre tutta la dispersione che vediamo».

Per saperne di più:

Guarda il servizio del 2016 di MediaInaf Tv sul radiotelescopio Chime, con intervista a Adam Hincks della University of British Columbia:


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Coelum Astronomia di Gennaio 2019
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Luna e Marte in prima serata

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Il 12 gennaio, in prima serata, una falce di Luna crescente (fase 28%) incontra Marte (mag. +0,6). La separazione sarà di 5° 55’ con la Luna a sudest di Marte, nella costellazione dei Pesci.

I due astri li vedremo già alti in cielo nella luce del crepuscolo serale, e man mano si avvicineranno all’orizzonte.

All’ora indicata in cartina i due astri saranno tra i 15 e i 20° di altezza sull’orizzonte ovest-sudovest, e potremo via via riprenderli sempre più facilmente nella cornice del panorama. Tramonteranno poi in sequenza, prima la Luna seguita quindi da Marte, sotto l’orizzonte ovest attorno alle 23.

Le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio 2019

➜ Continua su Fenomeni e congiunzioni di gennaio

21 gennaio Eclisse Totale di Luna

➜ Il meraviglioso campo della costellazione del Toro. II parte: Le Iadi

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I primi passi di Yutu 2 sulla faccia nascosta della Luna

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Yutu 2 e i suoi primi “passi” sul lato nascosto della Luna, ripreso dal lander che l’ha accompagnato, Change’4. Crediti: CNSA/CLEP

A 50 anni dal primo sbarco umano sulla Luna, per la prima volta in assoluto, c’è un piccolo esploratore robotico che sta passeggiando sulla faccia opposta a noi del nostro satellite naturale. Gambe, pardon… ruote, robotiche, non umane, ma l’impresa è comunque una di quelle che segnano la storia.

Abbiamo visto infatti che il lander cinese Chang’e 4 è il primo in assoluto ad essere atterrato con successo sulla parte nascosta della Luna, lo scorso 3 gennaio. Nelle ore successive ha rilasciato il rover che trasportava, Yutu 2, il secondo “coniglietto lunare” (che nella tradizione cinese vive sulla Luna) che vediamo in questa bellissima immagine di apertura, subito dopo aver lasciato le sue prime impronte sulla polvere lunare.

Il piccolo rover continua la sua missione, si è ora fermato sul bordo del craterino verso cui si stava dirigendo. Dal “twitter” cinese weibo.com — dove, analogamente alle sonde americani e europee su twitter, ha un suo account — ci racconta quanto difficile sia camminare… o meglio rotolare sulla Luna. Non solo c’è il problema di sassi e buche nel cammino, ma la bassa gravità e il terreno soffice rischiano di farlo scivolare ad ogni passo. Fermo sul bordo è ora in atesa di istruzioni. Crediti: CLEP

Illuminato dal Sole del mattino lunare, il piccolo rover ha iniziato la sua missione che dovrebbe durare tra i 3 e 4 mesi e qui facciamo una precisazione… No, “the dark side of the moon”,  il lato oscuro della Luna, come viene impropriamente a volte chiamato, non è perennemente al buio: così come il lato che vediamo dalla Terra ha le sue fasi, dalla parte opposta c’è ovviamente una fase complementare, quindi quando ci troviamo in fase di Luna nuova, il lato opposto sarà completamente illuminato dal Sole, meglio definirlo lato opposto o lato nascosto.
Così vediamo il rover alimentato dai i due grandi pannelli solari illuminati dal Sole, diretto verso un craterino vicino al luogo dell’atterraggio.

Yutu 2 proverà a seguire il successo del rover Yutu, parte della missione Chang’e 3, che si trova invece sulla parte della Luna rivolta verso di noi. I suoi strumenti scientifici includono una telecamera panoramica, un radar che penetra nel terreno e strumenti per identificare la composizione chimica della superficie lunare. il rover è anche stato migliorato, rispetto al suo predecessore, ed è in gradi di affrontare anche salite fino a 20° di pendenza, che dovrebbero permettergli di portare a termine la sua missione.

Il cratere Von Karman (186 km di diametro) in cui è atterrato il lander Change’e 4, ripresa dal LRO della NASA. Si tratta di un mosaico di immagini riprese dalla LROC Wide Angle Camera prima dell’arrivo del lander. LRO dovrebbe al suo prossimo passaggio riprendere anche i due esploratori robotici cinesi. Crediti: NASA/GSFC/Arizona State University

Il rover sta esplorando un’area chiamata South Pole-Aitken Basin (SPA), che si ritiene sia un cratere da impatto dovuto a un’enorme collisione all’inizio della storia della Luna, e più precisamente si trova nel cratere Von Kármán, vicino al centro del bacino, che vediamo ripreso nell’imagine qui a lato, grazie alle straordinarie immagini ad altissima risoluzione dell’orbiter LRO della NASA. Da quell’antico impatto potrebbero essere state portate alla luce rocce provenienti dal profondo della luna, e queste sono l’oggetto di studio principale di Yutu 2: studiare il sottosuolo lunare e il passato del nostro satellite naturale.

Restiamo quindi in attesa delle prime immagini e dei primi dati dal rover, nonostante la Cina abbia sempre fatto tutto nella sua consueta riservatezza, al contrario di quanto ci ha abituati la NASA. Questa missione dovrebbe infatti sancire una maggior disponibilità a pubblicare dati e immagini della missione in corso…

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Chang’e 4 è sul lato nascosto della Luna


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Unione Astrofili Senesi

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11.01 e 25.01, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti. Come ogni secondo e quarto venerdì del mese, dalle ore 21.30 l’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (Sovicille, Siena) sarà aperto al pubblico per una serata osservativa dedicata al cielo del periodo. Prenotazione obbligatoria sul sito www.astrofilisenesi.it o inviando un messaggio WhatsApp al 3472874176 (Patrizio) oppure un sms al 3482650891 (Giorgio).

In caso di tempo incerto telefonare per conferma.

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