Una splendida ripresa a colori della C/2014 Q2 Lovejoy di Rolando Ligustri. La cometa è stata ripresa il 29/12/2014 di passaggio vicino all'ammasso globulare M79 (in basso a sinistra rispetto alla cometa). Campo: 200' x 150' ripresa in remoto da Siding Spring-Itelescope.net con un Takahashi apo 106/530, posa 1 x 120".
Regina del mese, invece, sarà la C/2014 Q2 Lovejoy, che in dicembre si è “attivata” mostrando oltre a una larga chioma verde anche una bella coda di ioni. In gennaio, con le due magnitudini guadagnate, potrebbe regalare proprio un bello spettacolo.
La sua luminosità dovrebbe mantenersi infatti sempre intorno alla mag. +5/+6 (n.d.R. le ultime segnalazioni la danno attorno alla 5) con un picco tra il 7 e 15 gennaio, in corrispondenza del suo
massimo avvicinamento alla Terra (0,469 UA il 7 gennaio).
La C/2014 Q2 Lovejoy, avviata al suo perielio di fine mese, a inizio gennaio transiterà alla minima distanza dalla Terra. Questo fa sì che in questo periodo la cometa sia caratterizzata da un elevato moto proprio, di cui è necessario tenere conto nelle riprese fotografiche. La foto, che inquadra un campo di 16'x25', è stata ottenuta sempre da Rolando Ligustri lo scorso 20 dicembre utilizzando una postazione remota situata in Australia (DK 500 F 2250 e CCD PL6303e) con 20 pose di 30 secondi ciascuna (L = 10 x 30 s; RC = 10 x 30 s).
Dal 15 al 20 si troverà a transitare tra Toro e Ariete, circa 8° a sudovest delle Pleiadi. È da tenere però presente che la cometa attraversa una regione di cielo estremamente densa di oggetti peculiari, prestandosi quindi a svariate composizioni scenografiche.
Per la posizione della cometa giorno per giorno vedere le effemeridi nel box qui in alto e le seguenti mappe:
La cometa, caratterizzata da un moto molto rapido, si sposterà infatti nel corso del mese attraverso ben 6 costellazioni, dalla Lepre al Triangolo, passando per Eridano, Toro e Ariete, per finire al 31 gennaio in Andromeda.
Leggi tutti i dettagli e i consigli per l’osservazione, con tutte le immagini, nella Rubrica Comete di Rolando Ligustri presente a pagina 70 di Coelum n.188
Nel numero 184 di Coelum ho parlato di solidi platonici. I solidi che portano il nome del celebre discepolo di Socrate sono dei poliedri: in altre parole, appartengono alla grande famiglia dei solidi delimitati da un numero finito di faccepiane poligonali. Non sono però dei poliedri qualsiasi: hanno la caratteristica di avere come facce poligoni regolari, tutti uguali tra di loro, e inoltre hanno tutti i vertici e gli spigoli equivalenti.
Sono, per così dire, l’analogo dei poligoni regolari in versione 3D (non a caso vengono spesso denominati poliedri regolari, o solidi regolari). Ma c’è una differenza sostanziale, e, per così dire, affascinante: mentre i poligoni regolari sono infiniti (per ogni numero intero N esiste un poligono regolare con N lati), i solidi platonici sono solo cinque.
Questi cinque poliedri portano nomi suggestivi, che derivano dal greco: tetraedro, esaedro (o cubo), ottaedro, dodecaedro e icosaedro.
Dato che in greco έδρα significa “base”, è facile comprendere l’etimologia di questi nomi: un tetraedro è un poliedro con 4 facce, un esaedro ne ha 6, un ottaedro 8, un dodecaedro 12 e un icosaedro 20.
I cinque solidi platonici
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Caratteristiche dei cinque solidi platonici
Osservate che ognuno dei solidi regolari può essere convertito nel suo duale: basta trasformare le facce in vertici e i vertici in facce. Sottoposto a questa metamorfosi, il tetraedro resta invariato, avendo 4 facce e 4 vertici. Il cubo, invece, diventa un ottaedro, e viceversa. Il dodecaedro si tramuta in un icosaedro, e così anche all’inverso.
Perché solo cinque?
Perché i solidi platonici sono soltanto cinque? Davvero non ne esistono altri?
Ai tempi di Platone, cioè nel IV secolo a.C., si intuiva già che i solidi regolari fossero cinque, ma nessuno lo aveva ancora dimostrato rigorosamente. Nel suo dialogo “Timeo”, il filosofo ateniese descrisse i solidi regolari, e ne associò quattro agli elementi fondamentali dell’universo: il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra, l’ottaedro all’aria, l’icosaedro all’acqua. Il quinto solido, il dodecaedro, venne fatto corrispondere alla forma dell’universo nella sua totalità.
Circa un secolo e mezzo dopo, il grande matematico Euclide riuscì a provare che i solidi regolari sono soltanto i cinque descritti da Platone, e che non ce ne sono altri.
La "Scuola di Atene" di Raffaello Sanzio, affresco conservato al Vaticano. Platone è la figura centrale con il mantello rosso, mentre Euclide è (probabilmente) il personaggio chino in basso a destra, intento a tracciare cerchi su una tavoletta
Una dimostrazione intuitiva può essere compresa senza grande sforzo.
Prima di tutto, osserviamo che in un qualsiasi poliedro, ogni vertice è il punto di incontro di almeno tre facce: infatti due facce si possono incontrare su uno spigolo, ma non possono formare un vertice.
Inoltre, queste tre o più facce devono essere poste su piani diversi, perché se giacessero sullo stesso piano formerebbero in realtà una faccia sola, e non tre. Di conseguenza, la somma dei tre o più angoli che si incontrano in un vertice deve essere inferiore a 360°. Infatti, se fosse esattamente 360°, le facce sarebbero sullo stesso piano, mentre una somma angolare più bassa consente al punto di incontro di “alzarsi”, creando un vertice.
Ricordando che le facce del solido devono essere poligoni regolari, vediamo quali possono essere questi poligoni.
Certamente potrebbero essere triangoli equilateri. Ogni angolo di un triangolo equilatero è ampio 60°: quindi in un vertice del solido potrebbero incontrarsi 3 facce triangolari formando un angolo di 3 × 60° = 180° < 360°, oppure 4 facce triangolari formando un angolo di 4 × 60° = 240° < 360°, oppure 5 facce triangolari formando un angolo di 5 × 60° = 300° < 360°. Con 6 facce saremmo invece fuori, perché uscirebbe un angolo di 6 × 60° = 360°: troppo perché il vertice possa “alzarsi”.
Le facce potrebbero anche essere quadrati, in cui ogni angolo è di 90°. In ogni vertice del solido potrebbero infatti convergere 3 facce quadrate, a creare un angolo di 3 × 90° = 270° < 360°: già con 4 facce l’angolo sarebbe di 4 × 90° = 360°, quindi da escludere.
Infine, potremmo utilizzare come facce pentagoni regolari, nei quali ogni angolo è di 108°. Ogni vertice del solido potrebbe essere allora punto di incontro di 3 facce pentagonali, formando un angolo di 3 × 108° = 324° < 360°: con 4 facce saremmo invece oltre i limiti consentiti (4 × 108° = 432° > 360°).
Non potremmo invece utilizzare facce esagonali, perché in un esagono ogni angolo è di 120°, e già 3 facce formerebbero un angolo di 360°, che contribuirebbe a tassellare il piano, senza poter elevare un vertice del solido. Poligoni con più lati sono ancora peggiori, perché con sole 3 facce creerebbero angoli più grandi dell’angolo giro.
Le possibilità che abbiamo individuato sono quindi soltanto cinque:
1. 3 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso del tetraedro, che ha 4 facce triangolari e 4 vertici;
2. 4 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso dell’ottaedro, che ha 8 facce triangolari e 6 vertici;
3. 5 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso dell’icosaedro, che ha 20 facce e 12 vertici;
4. 3 facce quadrate che si incontrano in ogni vertice: è il caso del cubo o esaedro, che ha 6 facce e 8 vertici;
5. 3 facce pentagonali che si incontrano in ogni vertice: è il caso del dodecaedro, che ha 12 facce e 20 vertici.
Dadi e palloni
I solidi platonici forniscono lo spunto per comprendere e approfondire molti argomenti di interesse matematico, ma sono anche modelli straordinariamente utili per la realizzazione di oggetti per giocare: in particolare dadi e palloni.
Ciascuna di queste due tipologie di manufatto richiede attenzioni particolari nel processo di costruzione: a meno che non vogliamo fregare qualcuno, un dado deve innanzitutto essere equo, cioè tutte le sue facce devono avere la stessa probabilità di uscire durante un lancio, mentre un pallone deve essere il più possibile simile a una sfera.
Cominciamo dai dadi. I solidi platonici, evidentemente, grazie alla loro forma simmetrica, caratterizzata da facce regolari e uguali, e da vertici e spigoli equivalenti, costituiscono ottimi modelli di dadi equi.
Per gli appassionati di Dungeons and Dragons ciò non rappresenta una sorpresa: per questo gioco vengono infatti utilizzati dadi la cui forma riflette quella dei cinque dadi platonici.
Ma l’uso di dadi platonici non è certo un fatto recente. Negli anni Venti del secolo scorso, l’archeologo inglese Leonard Wooley fece un curioso ritrovamento all’interno delle tombe reali dell’antica città sumera di Ur: alcune tavole da gioco anticamente utilizzate per il cosiddetto Gioco Reale di Ur, l’antenato del moderno backgammon.
Copia della tavola da gioco ritrovata nelle tombe di Ur, con tre dadi tetraedrici
Come è visibile nella figura, la particolare scacchiera era formata da un rettangolo 8 × 3 privato di due caselle esterne su ciascuno dei lati lunghi. Ciascuno dei due giocatori utilizzava 7 pedine e 3 dadi a forma di tetraedro con le punte smussate. In ciascun dado, due dei quattro vertici erano marcati, affiché ogni lancio potesse produrre due possibili esiti, a seconda che il vertice rivolto verso l’alto fosse marcato o no. In pratica gettare un dado era come lanciare una moneta e vedere se è uscita testa oppure croce.
Il regolamento del gioco non è stato del tutto chiarito. Pare comunque che ogni giocatore dovesse partire da una delle caselle e arrivare a una casella terminale, determinando il numero di caselle percorse a ogni turno mediante il lancio dei dadi. La collisione con un pezzo avversario costringeva l’altro giocatore a ripartire dall’inizio. I simboli speciali disegnati su alcune caselle provocavano eventi particolari, come il pagamento o il ritiro di una posta.
Ma, oltre ai cinque platonici, ci sono altri solidi che possono essere sfruttati per costruire dadi equi? Ebbene sì: i matematici hanno scoperto che ne esistono in particolare altri venti, oltre a cinque famiglie formate ciascuna da un numero infinito di dadi equi.
E i palloni? Concentriamoci sui palloni da calcio (anche se si potrebbe scrivere forse un libro intero considerando la geometria di tutti i tipi di palle utilizzate nei vari sport).
Il problema della costruzione un pallone di cuoio per giocare a calcio è il seguente: non è possibile costruire una sfera perfetta (come invece si deve fare per le palline da ping pong), ma si deve cercare di approssimare una sfera cucendo insieme pezzi di cuoio. Inoltre, è comodo che i pezzi di cuoio siano tutti uguali, ed è ancora più comodo se questi pezzi vengono prodotti come poligoni regolari. Ecco quindi che i solidi platonici tornano utili anche in questo caso: preparando, per esempio, pezzi di cuoio a forma di triangolo equilatero si possono poi cucire tra di loro per realizzare una palla tetraedrica oppure ottaedrica oppure icosaedrica. Una volta il pallone viene gonfiato d’aria, le spigolosità si smussano, ottenendo qualcosa di vagamente simile a una sfera. È chiaro però che più sono le facce del solido più il pallone risulterà vicino a una forma sferica.
Ecco perché l’icosaedro è il modello platonico storicamente preferito dai costruttori di palloni da calcio. Ai mondiali messicani del 1970 l’Adidas presentò il suo mitico pallone Telstar, ottenuto da un icosaedro spianando i vertici: la forma risultante, il familiare pallone a esagoni bianchi e pentagoni neri, è ciò che i matematici chiamano icosaedro troncato, e che i chimici hanno ritrovato in una molecola di carbonio chiamata buckminsterfullerene, appartenente alla vasta famiglia dei fullereni. Il nome Telstar fu scelto per la somiglianza con l’omonimo satellite artificiale posto in orbita geocentrica e utilizzato nelle telecomunicazioni a partire dagli anni Sessanta.
Anche alcuni modelli più recenti di palloni da calcio si rifanno ai solidi platonici: il Brazuca dei Mondiali 2014 in Brasile è topologicamente un cubo, così come lo era il pallone dei primi Mondiali, quelli del 1930, mentre il Teamgeist, pallone ufficiale dei Mondiali tedeschi del 2006 vinti dall’Italia, era un ottaedro troncato.
I solidi platonici nell’arte
I solidi platonici sono sempre stati fonte di ispirazione per molti artisti. Piero della Francesca, che non fu soltanto un pittore, ma anche un matematico, era ossessionato dai solidi regolari: uno dei suoi trattati, il “De quinque corporibus regularibus”, era dedicato escludivamente a questi suggestivi poliedri, che all’artista interessavano ovviamente anche per il loro rapporto con il disegno e con le arti figurative.
Nell’articolo del numero 184 ricordavo come anche Leonardo Da Vinci realizzò moltissime illustrazioni inerenti ai solidi platonici, che furono pubblicate nel libro “De divina proportione” del frate matematico Luca Pacioli.
Nel 1955, il grande pittore surrealista Salvador Dalì realizzò una “Ultima cena” che stravolge i canoni dell’iconografia tradizionale. La scena è inserita all’interno di un grande dodecaedro, il solido regolare che Platone aveva associato alla perfezione dell’universo nel suo complesso. Nel descrivere il dipinto, Dalì parlò di una “cosmologia aritmetica e filosofica basata sulla sublime paranoia del numero dodici”. Sicuramente non è un caso che il numero delle facce del dodecaedro, 12, sia uguale al numero degli apostoli.
“Ultima cena” di Salvador Dalì (1955), olio su tela conservato alla National Gallery di Washington
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“Cascata”, litografia di Maurits Cornelis Escher (1961)
Un altro artista del Novecento che ha sfruttato a fini figurativi il fascino dei solidi platonici è stato l’olandese Maurits Cornelis Escher, autore di celebri costruzioni impossibili e di disegni geometrici di grande fascino. La sua famosa litografia “Cascata” mostra un piccolo villaggio caratterizzato da costruzioni paradossali, in cui dell’acqua sembra scorrere in salita. Sulla sommità delle due torri poggiano due grandi solidi, oggi noti come poliedri di Escher, la cui forma si può ottenere intrecciando tra di loro tre ottaedri.
La soluzione del problema
L’enigma di settembre descriveva un particolare dado tetraedrico, sulle cui facce sono indicati quattro numeri interi, che godono di alcune proprietà:
• sono tutti diversi tra di loro;
• sono tutti numeri primi;
• uno dei quattro numeri ha una sola cifra;
• ognuno degli altri tre numeri ha due cifre, la seconda delle quali è 3;
• lanciando il dado, la somma dei numeri visibili dà sempre un numero primo.
I lettori erano invitati a determinare i numeri interi riportati sulle quattro facce del tetraedro.
La soluzione dell’enigma non era unica: anzi, ce n’erano ben cinque. Alcuni lettori sono stati bravi a indicarle tutte, anche se per considerare vinta la sfida era sufficiente individuarne una.
Le soluzioni erano le seguenti:
• 5, 13, 23, 43
• 5, 13, 43, 53
• 5, 13, 43, 83
• 7, 13, 23, 53
• 7, 23, 73, 83
Non vi era un metodo particolare per individuare le soluzioni del problema: un approccio praticabile era quello per “forza bruta”, cioè per enumerazione e verifica delle possibili quaterne, da attuare a mano oppure con l’ausilio della potenza di calcolo di un computer (molti lettori, per esempio, si sono serviti di un foglio elettronico, strumento molto servizievole in casi come questo).
I vincitori
Il lettore che per primo ha inviato una risposta esatta è stato Mattia Caligiana, che si è aggiudicato l’abbonamento premio.
Gli altri lettori che hanno risolto correttamente l’enigma sono stati Davide Messina, Giorgia Hofer, Daniele Tosalli, Iacopo Longo, Alessio Aurigemma, Dario Broggi, Alberto Masini, Fabio Nevola, Michele D’Errico e Maurizio Carlino.
Complimenti al vincitore e a tutti i lettori che hanno saputo trovare la soluzione al problema!
Ritratto di Carl Friedrich Gauss pubblicato sull'”Astronomische Nachrichten” nel 1828.
Indice dei contenuti
Carl Friedrich Gauss
Il protagonista della rubrica Moebius del numero 185 di Coelum era uno dei più grandi matematici della storia: Carl Friedrich Gauss (1777-1855).
Nato da una famiglia di umile estrazione sociale, dimostrò fin dalla più tenera età la sua straordinaria propensione per la matematica e per le scienze in genere. A scuola, raccontano le cronache, si annoiava perché sapeva già tutto, avendo imparato da solo formule e regole matematiche, e non di rado arrivava a correggere il maestro.
Ritratto di Carl Friedrich Gauss pubblicato sull'”Astronomische Nachrichten” nel 1828.
È famoso l’aneddoto secondo il quale, all’età di nove anni, riuscì a risolvere in pochi secondi un problema che il maestro aveva assegnato alla classe allo scopo di tenere occupati i ragazzi per buona parte dell’ora di lezione. L’esercizio consisteva nel sommare tutti i numeri interi da 1 a 100. Probabilmente la maggior parte delle persone, di fronte a questo compito, non troverebbe niente di meglio da fare che eseguire pazientemente tutte le 99 addizioni, una dopo l’altra, arrivando infine al risultato richiesto.
Ma fare matematica, come dico sempre, non è fare conti, ma trovare regolarità e strutture. Il giovanissimo Gauss trovò nel problema una regolarità comodissima per arrivare alla soluzione senza impazzire con i calcoli: si accorse che la somma del primo numero, 1, e dell’ultimo numero, 100, era uguale alla somma del secondo numero, 2, e del penultimo, 99, e anche a tutte le altre somme costruibili in modo analogo spostandosi verso la somma centrale (50+51) arrivando contemporaneamente da sinistra e da destra. La somma complessiva, comprese Gauss, si ottiene quindi sommando 50 volte la somma parziale 101, ed è quindi pari a 5050.
L’insegnante di Gauss, resosi conto del genio precoce del ragazzo, lo segnalò al duca di Brunswick, il quale finanziò i suoi studi al Collegium Carolinum tra il 1792 e il 1795. Successivamente Gauss frequentò l’università di Gottinga, dove ottenne una serie di importanti risultati, tra i quali spiccano quelli inerenti alla geometria e all’invenzione dell’arimetica modulare.
Nel 1796 formulò, senza dimostrarla, la congettura nota come teorema dei numeri primi, sulla quale tornerò più avanti. Tre anni dopo, nella sua tesi di dottorato, dimostrò il teorema fondamentale dell’algebra, secondo il quale un qualsiasi polinomio di grado maggiore o uguale a 1, con coefficienti reali o complessi, ammette almeno una radice reale o complessa. Quest’ultimo risultato, anche se Gauss lo dovette precisare e perfezionare negli anni successivi, fu particolarmente rilevante, anche perché molti brillanti matematici del passato, tra cui il grande Eulero, avevano tentato di dimostrare il teorema senza mai riuscirci.
Nel 1801 pubblicò il famoso trattato Disquisitiones Arithmeticae, che raccoglieva molte delle fondamentali innovazioni ottenute negli anni precedenti nel campo della teoria dei numeri (cioè dell’aritmetica): una di queste fu l’introduzione dei numeri immaginari e complessi, che qualche lettore ricorderà di avere studiato a scuola o all’università.
Il geniale matematico tedesco soffriva di una strana malattia: il perfezionismo. Quando trovava una dimostrazione, non la pubblicava se non arrivava ad essere assolutamente certo della sua perfezione. Inoltre era ossessionato dalla possibilità che altri potessero rubargli le scoperte, e per questo appuntava le sue idee in modo criptico, così che nessuno potesse comprenderne il reale significato.
La scoperta di Cerere
Cerere, l’asteroide più grande della fascia principale del Sistema solare, oggi considerato pianeta nano, fu scoperto casualmente il 1° gennaio 1801 (il primo giorno del XIX secolo) dall’astronomo italiano Giuseppe Piazzi, presso l’Osservatorio Nazionale del Regno delle Due Sicilie a Palermo.
Giuseppe Piazzi
Piazzi non riuscì a seguire a lungo il moto di Cerere, perché l’11 febbraio l’asteroide entrò in congiuzione diventando invisibile dalla Terra. L’astro andò così perduto, e lo stesso Piazzi, non del tutto convinto di avere scoperto un nuovo pianeta, minimizzò annunciando di avere trovato semplicemente una cometa. Le osservazioni di Piazzi furono comunque pubblicate nel settembre 1801, e il ventiquattrenne Gauss entrò subito in possesso di questi dati.
Il matematico tedesco sviluppò un nuovo metodo, basato sui minimi quadrati, per determinare la traiettoria completa di un astro utilizzando tre sole osservazioni. Applicando questa tecnica al caso dell’asteroide perduto, Gauss riuscì a predire l’orbita di Cerere e i suoi calcoli condussero alla riscoperta dell’astro il 31 dicembre 1801, ad opera di Franz Xaver von Zach e Heinrich Olbers.
L’anno che si era aperto con la scoperta casuale di Piazzi si concludeva con il felice ritrovamento dell’asteroide, grazie al genio di Gauss.
I numeri primi
Che cos’è un numero primo? Semplicemente un numero naturale che non può essere diviso per nessun altro numero naturale se non per 1 e per se stesso. Per esempio, 5 è un numero primo, perché non ammette divisori che non siano 1 o 5, mentre 6 non lo è, perché può essere diviso per 2 e per 3, oltre che per 1 e 6.
Il grande matematico greco Euclide dimostrò che i numeri primi sono infiniti, cioè scelto un certo numero naturale N si può sempre trovare un numero primo più grande di N.
I numeri primi sembrano collocati in modo disordinato lungo la linea dei numeri naturali. Non è per nulla facile individuare una regolarità, una legge semplice che governi la loro distribuzione.
Ritratto di Carl Friedrich Gauss ad opera di Christian Albrecht Jensen
Il teorema dei numeri primi, congetturato per la prima volta da Gauss nel 1796, descrive in modo approssimato come i numeri primi siano distribuiti tra i numeri naturali. In particolare, afferma che, scelto un numero reale positivo x, la quantità di numeri primi minori o uguali a x può essere stimata approssimativamente come x diviso il logaritmo naturale di x.
Man mano che ci spinge verso valori di x più grandi, l’approssimazione fornita dal teorema risulta sempre più accurata.
Gauss intuì che il teorema era veritiero, ma non trovò il modo di dimostrarlo rigorosamente, cosa che invece riuscì cent’anni dopo la prima formulazione, grazie ai due matematici Hadamard e de la Vallée Poussin.
Copertina della prima edizione delle “Disquisitiones Arithmeticae” di Gauss
Il teorema fondamentale dell’aritmetica
Nelle “Disquisitiones Arithmeticae” del 1798, Gauss dimostrò per la prima volta il teorema fondamentale dell’aritmetica, secondo il quale:
Ogni numero naturale maggiore di 1 o è un numero primo o si può esprimere come prodotto di numeri primi. Tale rappresentazione è unica, se si prescinde dall’ordine in cui compaiono i fattori.
Che cosa significa questa affermazione? Prendiamo un numero come 5. Si tratta di un numero primo, e quindi ci troviamo nel primo caso. Prendiamo invece 6. Dato che questo non è un numero primo, il teorema ci assicura che possiamo esprimerlo come prodotto di numeri primi. In effetti possiamo scrivere 6 = 2 × 3, e i numeri 2 e 3 sono primi. Ma il teorema ci dice un’altra cosa ancora più importante: che non possiamo trovare un’altra fattorizzazione di 6 in numeri primi, prescindendo dall’ordine dei fattori. In altre parole, è vero che possiamo anche scrivere 6 = 3 × 2, ma questa non è una diversa fattorizzazione: è un modo diverso di scrivere quella di prima, con i fattori riportati in ordine diverso.
Il solito Euclide, negli “Elementi”, aveva dimostrato che ogni numero è primo oppure fattorizzabile in numero primi, ma non era arrivato rigorosamente a provare l’unicità della fattorizzazione. Vi si era avvicinato molto, ma fu Gauss a dimostrare per primo questa verità fondamentale della matematica.
Per evitare il “fastidio” derivante dai diversi ordini in cui i fattori primi possono essere elencati, i matematici hanno stabilito una convenzione, semplice quanto ovvia: i fattori devono essere scritti in ordine crescente, dal più piccolo al più grande, eventualmente ripetendo quelli che compaiono più volte.
I seguenti sono quindi esempi di fattorizzazioni scritte bene: 6 = 2 × 3, 60 = 2 × 2 × 3 × 5, 100 = 2 × 2 × 5 × 5.
Si pone a questo punto una vecchia e spinosa questione: anche 1 è un numero primo?
Teoricamente, se dovessimo attenerci unicamente alla definizione che ho dato sopra, dovremmo dire di sì. Ma considerare 1 come primo comporterebbe un grosso guaio: ogni fattorizzazione non sarebbe più unica, perché potremmo sempre aggiungere una quantità indefinita di uni all’inizio della fattorizzazione stessa. Avremmo cioè 60 = 2 × 2 × 3 × 5, ma anche 60 = 1 × 2 × 2 × 3 × 5, 60 = 1 × 1 × 2 × 2 × 3 × 5, 60 = 1 × 1 × 1 × 2 × 2 × 3 × 5, e così via all’infinito.
Per evitare questo fastidio, e per restituire validità al teorema fondamentale dell’aritmetica, i matematici hanno stabilito per convenzione che 1 non è primo.
Il problema di ottobre e la soluzione
L’enigma di ottobre proponeva di sfruttare il teorema fondamentale dell’aritmetica per costruire una specie di codice segreto utile per cifrare un messaggio. Se ciascun numero intero può essere fattorizzato in uno e in un solo modo, perché non usare questa “firma” unica per trasformare un numero in un messaggio cifrato? Per esempio, il numero 42042 viene fattorizzato come 2 × 3 × 7 × 7 × 11 × 13, e quindi la sua firma è costituita dai fattori 2, 3, 7, 7, 11, 13.
Se, a questo punto, ci inventiamo liberamente una tabella di corrispondenza che associ ogni numero primo a una lettera dell’alfabeto, la fattorizzazione si tramuta in una successione di lettere.
Immaginiamo che i numeri primi siano associati alle lettere secondo l’ordine alfabetico: il 2 corrisponderà alla lettera A, il 3 alla B, il 5 alla C, il 7 alla D, l’11 alla E, e così via.
Secondo questa chiave, il nostro numero 42042 viene codificato come ABDDEF.
Naturalmente non è necessario che scorrendo la tabella di corrispondenza in modo che i numeri primi crescano, le lettere vengano assegnate in ordine alfabetico. In altre parole, andrebbe benissimo anche una tabella in cui al 2 corrisponda la lettera M, al 3 la lettera F, al 5 la lettera Q, eccetera, così come qualunque altra tabella di corrispondenza che ci venga in mente.
L’unico (grave) inconveniente di questo metodo di crittazione è che le lettere sono soltanto 26 (considerando l’alfabeto inglese), e quindi possiamo arrivare al massimo al numero primo 101. Un numero come 2884, che si fattorizza come 2 × 2 × 7 × 103, non potrebbe essere codificato perché ci mancherebbe la lettera corrispondente al fattore 103.
L’enigma proposto, comunque, non incorreva in questo problema.
Vediamo i termini del problema. Una certa tabella di corrispondenza è stata stabilita, ma noi non la conosciamo a priori. Sappiamo solo che:
il numero 575795 viene codificato come “TERRA”
il numero 18 viene codificato come “ISS”
il numero 147407 viene codificato come “LUNA”.
Quale numero viene codificato con la parola “STELLA”?
Per risolvere il quesito, basta trovare le fattorizzazioni dei tre numeri proposti.
Il numero 575795 è sicuramente divisibile per 5 (lo riconosciamo dalla sua ultima cifra, 5): dividendolo per 5 otteniamo 115159. Come procedere ora? Abbiamo in mano un numero dispari, quindi il 2 non è tra i divisori. Nemmeno 3, 5 o 7 vanno bene, e lo possiamo verificare provando le rispettive divisioni, e osservando che escono risultati non interi. Il numero 11, invece, va bene: dividendo 115159 per 11 otteniamo il numero intero 10469. Continuando così, scopriamo che i successivi fattori primi sono 19, ancora 19, e infine 29. La fattorizzazione completa di 575795 è quindi 5 × 11 × 19 × 19 × 29.
Guardiamo la parola corrispondente: “TERRA”. La lettera T è dunque associata al numero 5, la lettera E all’11, la lettera R al 19, e la lettera A al 29.
Fattorizzare 18 è molto più facile: si trova subito che è uguale a 2 × 3 × 3: dato che la codifica letterale è “ISS”, ecco che la lettera I è associata al 2, e la lettera S al 3.
Ci rimane il numero 147407: utilizzando ancora il solito algoritmo di fattorizzazione, scopriamo che esso equivale a 13 × 17 × 23 × 29. La parola corrispondente è “LUNA”: ritroviamo correttamente la A associata al numero primo 29, e inoltre arricchiamo la nostra tabella con le corrispondenze L = 13, U = 17, N = 23.
Abbiamo ora tutti gli ingredienti necessari per risolvere il problema, cioè per decodificare la parola “STELLA”. Conosciamo già i numeri correlati alle lettere di queste parola: la S corrisponde al 3, la T al 5, la E all’11, la L al 13, e la A al 29.
Il prodotto 3 × 5 ×11 × 13 × 13 × 29 dà come risultato 808665, che quindi è il numero cercato.
I vincitori
Il vincitore dell’abbonamento è stato Fabio Nevola, che ha fornito per primo la risposta esatta.
Numerosi sono stati gli altri lettori che hanno saputo risolvere il problema correttamente: Mattia Caligiana, Andrea Alessandrini, Andrea Console, Andrea Rocchi, Daniele Tosalli, Fabio Marioni, Andrea Chiaramonte, Giovanni Casati, Giovanni Tassi, Alberto Masini, Stefano Zella e Bruno Alves. A tutti loro vanno i nostri più sentiti complimenti!
Con il 2015 la ISS tornerà ad attraversare i nostri cieli al mattino, poco prima dell’alba. Per questo riportiamo solo i transiti più evidenti e luminosi, visibili dalla maggior parte della nazione così da valorizzare ogni sveglia.
Si inizia il 9 gennaio quando, osservando da SO a NE dalle 06:19 alle 06:27, la ISS sarà ben visibile da ogni zona del paese, tagliandolo quasi in due latitudinalmente. La magnitudine massima si attesterà su un valore di –3,3: un transito, quindi, davvero impossibile da mancare, nubi permettendo.
Il 13 dicembre il famoso astrofilo giapponese Koichi Itagaki ha scoperto l’ennesima supernova nella bella galassia a spirale NGC309 distante circa 140 milioni di anni luce nella costellazione della Balena. Il 16 dicembre con il telescopio da 3,5 metri dell’Apache Point Observatory nel New Messico (USA) è stato ripreso lo spettro che ha permesso di classificare il transiente di tipo Ib. Una classe poco comune di supernovae di tipo I, caratterizzate da una luminosità inferiore ed un declino più lento rispetto alle tradizionali supernovae di tipo Ia.
Immagine della SN in NGC309 che ha portato a 100 il bottino di Itagaki. Ripresa in remoto dal New Messico da Adriano Valvasori. Cliccare l'immagine per ingrandire.
Questa è la quinta supernova che esplode fra le braccia di NGC309. Le quattro precedenti erano state tutte di tipo II. Si tratta comunque di una supernova poco appariscente, poiché ha raggiunto una luminosità massima non superiore alla mag.+17,5 ma rappresenta una singolare particolarità, è infatti la scoperta n. 100 per il veterano ricercatore del sol levante.
Nato il 12 novembre del 1947 a Yamagata City, Koichi Itagaki porta avanti la sua passione per l’astronomia dal suo Osservatorio privato posto sulle pendici del Monte Zao a circa un’ora di macchina da Yamagata City.
L'Osservatorio di Itagaki alle pendici del Monte Zao
E’ costituito da quattro cupole e cinque telescopi di vari diametro. Il telescopio principale è un riflettore da ben 600 mm di diametro a quale è affiancato un’altro da 500 mm e tre da 210 mm.
Koichi dispone anche di un Osservatorio a Takanezawa – Tochigi comandato in remoto dove sono alloggiati altri quattro riflettori: un 500 mm, un 350 mm, un 300 mm e un 210 mm.
Il suo interesse per l’astronomia iniziò a tempi delle scuole superiori ed in tutti questi anni dedicati ad osservare il cielo in maniera professionale, Koichi è riuscito ad ottenere un invidiabile palmares. Ha scoperto 3 comete, 5 pianetini, 32 novae extragalattiche individuate nelle vicine galassie M31 – M33 – M110, 7 novae nella nostra Via Lattea, l’ultima nell’agosto 2013, la famosa e luminosa Nova Delphini visibile ad occhio nudo, 23 variabili cataclismiche e 5 Luminous Blue Variable. Naturalmente però il suo fiore all’occhiello sono queste cento supernovae, ottenute in circa 14 anni di ricerche riprendendo e controllando un enorme numero di immagini di galassie.
La scoperta della sua prima supernova risale al 10 maggio 2001 con la SN2001bq in NGC5534.
Itagaki con il telescopio principale da 60 cm nell'Osservatorio privato di Yamagata.
E’ l’unico ad essere riuscito a scoprire ben tre supernovae in una stessa galassia e precisamente nella bella Messier 61, l’ultima la recente SN2014dt (vedil’articolo pubblicato online).
Solo altri quattro ricercatori amatoriali hanno raggiunto questo incredibile traguardo. In questa Top Five di mostri sacri troviamo infatti gli americani Tim Puckett e Jack Newton con oltre 270 scoperte, l’inglese Tom Boles con oltre 160 scoperte ed il sudafricano Berto Monard con oltre 130 scoperte. Chissà se un italiano riuscirà mai a raggiungere un simile traguardo. Noi intanto facciamo il tifo per il nostro Fabrizio Ciabattari, già a quota 55 scoperte e ci uniamo alle congratulazioni arrivate da tutto il mondo astronomico amatoriale e professionale in favore del mitico Koichi Itagaki.
Terra vs. Marte: Ecco una delle immagini presenti sul Lavoro pubblicato su IJASS, 2014. La somiglianza delle strutture evidenziate sulla Terra (microbialiti:colonie di microrganismi unicellulari) e su Marte (fotografate da Opportunity sul pianeta rosso) è davvero notevole (vedi i contorni automatici ottenuti dal sistema computerizzato, sulla destra) . La successiva analisi automatica di immagine ha confermato con alta significatività statistica l’identità delle immagini.
Già nel lontano 2004 la missione più longeva su Marte, Opportunity, fotografò delle microsferule di ematite, soprannominate mirtilli, una delle prime prove concrete che su Marte in un tempo molto lontano deve essere esistita acqua allo stato liquido.
Poi nel corso degli anni, il quadro che disegnava Maven dall’orbita, prima Opportunity e Curiosity poi direttamente dal suolo marziano è passato da poco più che una probabilità a una una certezza: c’era stato un momento nel passato lontano che Marte aveva posseduto dell’acqua liquida sulla sua superficie. Si sono così accumulate centinaia di prove: corsi essiccati di fiumi, minerali e depositi argillosi che solo la presenza non occasionale di acqua liquida può aver generato sul Pianeta Rosso.
Terra vs. Marte: Ecco una delle immagini presenti sul Lavoro pubblicato su IJASS, 2014. La somiglianza delle strutture evidenziate sulla Terra (microbialiti:colonie di microrganismi unicellulari) e su Marte (fotografate da Opportunity sul pianeta rosso) è davvero notevole (vedi i contorni automatici ottenuti dal sistema computerizzato, sulla destra). La successiva analisi automatica di immagine ha confermato con alta significatività statistica l’identità delle immagini.
Nel 2004 il Mars Exploration Rover Opportunity stava esplorando il Meridiani Planum quando in un costone di roccia chiamato Guadalupe, si imbatté in una delle prime e più evidenti prove che nel lontano passato Marte aveva posseduto acqua liquida [1].
Non che la cosa fosse del tutto inaspettata. Già la missione orbitale Mars Odyssey aveva segnalato la presenza di grandi quantità di idrogeno che facevano supporre la presenza di ghiaccio sotto la superficie di Marte, ma non si erano ancora trovate tracce così evidenti della passata presenza di acqua liquida sulla superficie; ma non solo…
Il Dott. Giorgio Bianciardi dell’Università di Siena, biologo e medico, ricercatore dell’Università di Siena, dove insegna Microbiologia e Astrobiologia, [2][3], il Dott. Vincenzo Rizzo ex ricercatore del CNRpresso l’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (CNR-IRPI) di Cosenza, geologo, e il Dott. Nicola Cantasano ricercatore CNR all’istituto di Foreste e Agricoltura del Mediterraneo di Cosenza, hanno comparato 30 immagini riprese dalle missioni Mars Exploration Rover (Spirit e Opportunity) e confrontate con altrettante (45) immagini di stromatoliti terrestri 1 per un totale di 40 000 microstrutture esaminate, tenendo conto della forma, dimensioni, complessità e similitudini tra le immagini marziane e i campioni terrestri [4].
Questa immagine mostra una parte dello sperone di roccia a Meridiani Planum, Mars, soprannominato “Guadalupe.” Fu scattata dal Microscopic Imager (MI) di Opportunity,. Credit: NASA/JPL
Il team italiano evidenzia una similitudine statistica molto elevata tra le microstrutture rilevate dalle immagini riprese su Marte e le strutture microbiologiche (microbialiti 2 e stromatoliti) terrestri.
Tutte le immagini dei campioni sono state ricomposte sulle stesse proporzioni delle immagini trasmesse dai rover (sui metodi di trattamento e i software usati rimando all’articolo originale su ijass.org) e poi si è proceduto con una analisi di tipo frattale 3[5] (la stessa che Giorgio Bianciardi usa da anni nelle sue ricerche biomediche) sulle immagini prendendo in considerazione otto diversi indici frattali che indicano altrettanti dati riguardo la complessità e le dimensioni delle strutture esaminate.
I risultati a cui sono giunti mostrano una totale similitudine tra le immagini marziane e i campioni terrestri sostenendo che la probabilità di una casualità simile e pari a 1 su 2^8 (p < 0,004). In altre parole i ricercatori italiani sostengono che durante il periodo in cui sussistevano le condizioni per la presenza di acqua liquida su Marte, esistevano ampie colonie di microorganismi unicellulari molto simili a quelli che hanno dato origine alle stesse simili strutture qui sulla Terra.
Questo mosaico di 28 immagini è stato ripreso il Sol 844 (21/12/2014) e mostra una parte del Gale Crater soprannominata “Salsberry Peak.” Sono evidenti i segni della presenza dell’acqua nel passato di Marte. Cliccare per l'immagine panoramica originale ad alta risoluzione. Credit: NASA/JPL/Caltech/MSSS. Composizione di Jason Major.
Indice dei contenuti
Note:
Le stromatoliti sono strutture sedimentarie finemente laminate dovute all’attività di microrganismi fotosintetici bentonici come microscopiche alghe eucariotiche e procarioti. ↩
Le microbialiti sono sedimenti carbonatici finissimi causati da comunità microbiche bentoniche. ↩
Lo stesso metodo fu utilizzato dallo stesso Bianciardi per individuare la presenza attuale di vita microbica su Marte analizzando i gas rilasciati negli esperimenti biologici dei Viking. ↩
La celebre immagine dei “pillars of creation” di Hubble(NASA/ESA)
Credit: NASA, ESA/Hubble and the Hubble Heritage Team
Happy Birthday, Hubble! Il telescopio più famoso del mondo, dopo quello di Galileo del 1609, messo in orbita nel 1990, compie tra poco un quarto di secolo di splendido servizio. La NASA lo festeggia in modo elegante: ripropone la immagine più famosa della galleria cosmica di Hubble, ripetuta e migliorata. Si tratta dei famosissimi “Pillars of Creation”, i Pilastri della Creazione che, visti da Hubble nel 1995, fecero subito il giro del mondo, stampati su T-shirts come su tazze da caffè (americano, viste le dimensioni dell’immagine). Adesso la NASA ne pubblica una seconda immagine, appena fatta, più profonda e più bella.
Qui sopra un particolare dell'ultima immagine ad alta risoluzione dei Pilastri della Creazione, ripresa dal Telescopio Spaziale Hubble nel 2014 a confronto con quella ormai storica ripresa sempre da Hubble nel 1995.
Il nome “pilastri”, dato dagli scopritori, descrive in realtà un gruppo di nuvole fatte di gas e polveri interstellari che, per caso, hanno forme allungate nella stessa direzione. Girate la foto, però, e i pilastri diventano radici, o stalattiti, o carote cosmiche… qui c’entra la famosa “gestalt”, il nostro modo di vedere le forme. “Creazione”, invece, è molto più appropriato. Dentro alle fotogeniche nubi (invisibili all’occhio umano), la materia diffusa può condensarsi, collassando, cioè cadendo su se stessa a causa della forza che muove tutto l’Universo, la gravità.
Alla fine del collasso, miracolo, nasce una stella. Cioè la materia diventa così densa e calda da far accendere le reazioni nucleari, le stesse che tengono acceso il nostro Sole. E di solito le stelle non nascono da sole, ma a grappoli, tutte insieme: dentro e intorno a quei “pilastri” si intravedono delle pouponnières di stelle appena create. E se ci sono stelle appena create, potrebbero esserci tantissimi pianeti appena nati, come era la nostra Terra quattro o cinque miliardi di anni fa. Chissà come evolveranno.
Le dimensioni dei pilastri, e anche delle nurseries stellari, sono astronomiche, naturalmente. Le nubi di materia che Hubble ha fotografato si trovano a più di seimila anni luce da noi, e quindi il nostro Sole, se fosse lì, sembrerebbe una delle tante stelline deboli dell’immagine. Ma naturalmente non si vedrebbe traccia di un sistema planetario intorno a lui né, tanto meno, di un eventuale terzo pianeta del sistema stesso… Anche per questo è difficile guardare l’immagine senza fermarsi un attimo a pensare.
Alcune delle stelle neonate sono particolarmente calde (tipo ventimila gradi in superficie) ed emettono getti di radiazione ultravioletta ad alta velocità. Anzi, confrontando le due immagini separate da 20 anni si scopre che uno di quei getti ha un allungamento misurabile: la materia cosmica si muove, sembra viva.
Nate insieme, le stelle poi muoiono una ad una, perché hanno evoluzioni e durate di vita diverse. Alcune, le più grosse, alla fine esplodono, tornando ad essere gas e polvere. In questo modo, le stelle arricchiscono le nubi interstellari degli elementi chimici prodotti durante la loro vita e nell’esplosione finale. E’ così che fu creato il calcio delle nostre ossa, il ferro del nostro sangue o l’oro dell’orecchino che abbiamo appena regalato per Natale.
Per saperne di più
L’immagine originale a piena definizione è scaricabile QUI(attenzione file di 114,9 MB)
Mettetevi comodi e godetevi questo spettacolo: la galassia a spirale Andromeda vista in HD. Quella catturata dal telescopio spaziale di NASA/ESA Hubble è l’immagine più grande e nitida mai scattata della nostra vicina di casa, conosciuta tra gli esperti del settore come Messier 31. La foto che vedete qui sopra è solo una parte dell’intero è anche la più estesa (per numero di pixel) mai scattata da Hubble e mostra oltre 100 milioni di stelle e migliaia di ammassi stellari incorporati in una sezione del disco della galassia che si estende per più di 40 000 anni luce. Questa galassia è la più estesa del Gruppo Locale, di cui fa parte anche la Via Lattea, e dista dalla Terra “solo” 2,5 milioni di anni luce.
Il panorama mozzafiato è stato realizzato grazie al programma Panchromatic Hubble Andromeda Treasury (PHAT) analizzando la galassia nel vicino ultravioletto, in luce visibile e nel vicino infrarosso, usando anche l’Advanced Camera for Surveys montata a bordo di Hubble e dei filtri blu e rossi. Ciò che potete vedere nella foto in alto è un terzo della galassia Andromeda nei suoi colori naturali e si tratta di un’immagine di 1,5 miliardi di pixel, il che vuol dire che sarebbero necessari 600 televisori HD per visualizzarla in maniera corretta e nella sua piena nitidezza. L’immagine originale, invece, è di 3,9 miliardi di pixel per una lunghezza di 60 000 anni luce.
Aquesto link ne trovate una versione zoomabile che permette di apprezzarne al meglio i dettagli.
Guardando la foto gli esperti hanno ipotizzato che la galassia possa essere stata coinvolta in una collisione con un’altra galassia 2 miliardi di anni fa. Benjamin Williams, della University of Washington a Seattle, ha detto che l’immagine si focalizza su un’antica area di formazione stellare precedentemente avvistata solo in una zona della Andromerda. «Nessuno avrebbe immaginato che fosse uguale in tutta la galassia», ha detto, avvalorando l’ipotesi di un drammatico scontro nella storia di Andromeda.
Immagini simili aiuteranno gli astronomi a interpretare la luce proveniente da galassie simili alla nostra e alle nostre vicine, ma che si trovano molto più lontano. Andromeda è molto vicina e quindi è un obiettivo molto più grande rispetto agli altri fotografati di solito da Hubble a miliardi di anni luce di distanza. Per catturare la gran parte della sezione della galassia sono stati necessari 411 scatti separati che sono stati poi assemblati in un’immagine a mosaico. Quello che possiamo vedere è parte del nucleo della galassia (colore bianco-giallo a sinistra), dove le stelle sono più agglomerate, e poi gas stellare e vuoti che percorrono tutto il disco esterno andando verso destra. Qui i grandi gruppi di stelle dal colore bluastro indicano i cluster stellari e le regioni di formazione stellare nei bracci della spirale, mentre le “striature” più scure non solo altro che complesse strutture di polvere stellare. Disseminate qui e lì ci sono stelle rosse più fredde che stanno ad indicare l’evoluzione della galassia nel corso di milioni di anni, proprio come come gli anelli che attraversano il tronco di un albero.
09.01: “Dieci anni di cielo in una stanza” proiezione a più voci nel decennale del Planetario. Ciclo “Astronomia, meteorologia e agricoltura nel mondo antico: dagli autori latini ai proverbi lombardi”.
Per info: 0341.367584 – www.deepspace.it
La sera del 7 gennaio con una normale congiunzione tra Luna e Giove che si potrà osservare verso le 21:00 sull’orizzonte est. A quell’ora i due oggetti (un Giove sempre più luminoso perché prossimo all’opposizione, e una Luna purtroppo di fase piuttosto robusta) saranno alti circa +15°, distanti l’uno dall’altro circa 6,6°.
Dopo quella dell’11 dicembre scorso, larga 5°, un’altra discreta congiunzione tra Luna e Giove avrà luogo la sera del 7 gennaio alle ore 21:00. I due oggetti sorgeranno dall’orizzonte est separati di circa 6,6°, mostrandosi proprio davanti alla testa del Leone e a Regolo. A quell’ora i due oggetti (che saranno osservabili ancora più vicini tra loro qualche ora dopo) saranno infatti alti sull’orizzonte est solo +14°.
Mancano poco più di tre mesi e la sonda della NASA Dawn arriverà nell’orbita del pianeta nanoCerere, che, con un diametro di 950 chilometri, è l’asteroide più massiccio della Fascia Principale del Sistema solare tra Marte e Giove (dove si trova anche Vesta, un altro potenziale protopianeta come Pallade e Igea). In confronto, Vesta ha un diametro di 525 chilometri ed è il secondo corpo più massiccio nella cintura.
La sonda Dawn, lanciata nel 2007, è entrata di recente nella cosiddetta fase di approccio e punta dritto dritto verso l’unico corpo minore del nostro sistema a essere considerato – finora – un pianeta nano, proprio come Plutone. Il fatidico incontro avverrà il prossimo 6 marzo e la sonda rimarrà nell’orbita di Cerere per circa un anno.
Si tratta di una missione del Programma Discovery della NASA: il satellite ha raggiunto il suo primo obiettivo, l’asteroide Vesta, nel 2011. Dopo 14 mesi di orbita intorno a Vesta, la sonda si è messa in moto per raggiungere Cerere.
La missione è la prima a raggiungere e orbitare intorno a due diversi corpi celesti e l’INAF ha un ruolo importante, essendo responsabile dello spettrometro a immagine VIR (Visual and Infrared Spectrometer) nel visibile e vicino infrarosso. «Lo spettrometro ad immagine VIR è finanziato dall’ASI ed è stato interamente costruito in Italia», ha spiegato a Media INAFMaria Cristina De Sanctis, ricercatrice presso l’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF a Roma. «Inoltre l’Italia contribuisce alle operazioni della sonda e partecipa alla missione con numerosi co-investigators e team members». E ha aggiunto: «Il pianeta nano Cerere è un oggetto ancora molto enigmatico e presenta ai ricercatori molti quesiti, tra cui l’origine del vapore acqueo transiente osservato di recente. Uno degli obbiettivi di Dawn è indagare il ruolo dell’acqua nelle fasi primordiali del Sistema solare e Cerere è la chiave per questo obbiettivo».
Di recente Dawn è uscita dalla fase di congiunzione solare, in cui si trovava sul lato opposto del Sole rispetto alla Terra, il che ha limitato le comunicazioni. Il satellite è attualmente a 640,000 chilometri da Cerere e viaggia a una velocità di 725 chilometri all’ora. «Cerere è quasi un mistero per noi», ha detto Christopher Russell, principal investigator della missione Dawn presso l’Università della California. «Cerere, a differenza di Vesta, non ha meteoriti che gli orbitano attorno che potrebbero aiutarci a rivelare i suoi segreti. Tutto quello che possiamo prevedere con sicurezza è che saremo sorpresi», ha aggiunto.
Gli scienziati credono che Cerere e Vesta siano molto diversi: il primo potrebbe essersi formato più tardi rispetto a Vesta e potrebbe avere un nucleo ghiacciato. Le prove raccolte negli ultimi anni suggeriscono che Vesta abbia mantenuto solo una piccola quantità di acqua perché si sarebbe formato quando il materiale radioattivo era più abbondante, il che avrebbe prodotto più calore. Cerere, al contrario, ha un mantello spesso di ghiaccio e non è detto che non abbia un oceano sotto la sua crosta. La De Sanctis ha spiegato che «Vesta è un oggetto basaltico, relativamente privo di materiali ricchi di acqua, che si è differenziato ancor prima della Terra; Cerere è un oggetto ricco di materiali idrati, probabilmente differenziato, ma con una storia evolutiva completamente diversa da quella di Vesta. Questi due oggetti così diversi ma collocati nella stessa zona del Sistema solare ci indicheranno i processi evolutivi che sono stati all’origine del sistema solare che noi oggi osserviamo».
La sonda utilizza, da cinque anni, la propulsione a ioni che per viaggiare nello spazio profondo è ritenuta più efficiente rispetto alla propulsione chimica. In un motore a propulsione ionica, le particelle cariche (ioni), dopo essere state vengono accelerate da un campo elettrico, sono incanalate nello spazio attraverso un ugello. Sfruttando il principio di azione e reazione la navicella riceve una piccola spinta in direzione opposta.
«Orbitare sia attorno a Vesta che attorno a Cerere sarebbe veramente impossibile con un tipo di propulsione convenzionale», ha detto Marc Rayman, ingegnere capo e direttore della missione presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, in California. «Grazie alla propulsione ionica stiamo per entrare nella storia come la prima nave spaziale mai riuscita ad orbitare attorno a due mondi alieni inesplorati».
Entro la fine di gennaio arriveranno le immagini inviate dal veicolo spaziale e i dati saranno i migliori mai ottenuti del pianeta nano Cerere.
Per saperne di più:
Clicca QUI per andare al sito della missione DAWN della NASA
Ricordate il numero 183 di Coelum, l’ultimo dell’epoca dell’edicola? Nell’ultima pagina raccontavo la storia di Roberto, giovane appassionato di astronomia e avido lettore della prestigiosa rivista che state sfogliando.
A partire dal mese di settembre 2014, il quattordicenne Roberto è abbonato a Coelum. Ogni primo giorno del mese riceve comodamente a casa la sua rivista preferita, e gli occorrono sempre esattamente trenta giorni per leggere a fondo ogni numero.
Come osservavo nell’articolo, chi è folgorato in giovane età dalle meraviglie del cielo è molto probabile che rimanga un astrofilo per tutta la vita. Possiamo immaginare che sarà così anche per Roberto: non stupisce allora sorprenderlo, in un nostro immaginario viaggio nel futuro, mentre festeggia il suo centenario con il numero di Coelum di settembre 2100 illuminato dalle candeline della torta.
La sfida lanciata ai lettori era la seguente:
Quanti sono esattamente, dal primo settembre 2014 al primo settembre 2100, i giorni nei quali Roberto si ritroverà a sfogliare le ultime pagine del numero del mese precedente, avendo già sul comodino il numero nuovo?
Molti lettori si sono cimentati con il problema, ma soltanto due hanno risposto esattamente. Vediamo perché.
Analisi del problema
A ben vedere, dal punto di vista di Roberto, ci sono tre “tipi” di giorni in un anno:
• i giorni “normali”, che chiamerò di “tipo A”, nei quali il ragazzo legge il numero che gli è arrivato il primo giorno del mese in corso;
•i giorni “di tipo B”, in cui Roberto ha già terminato la lettura dell’ultimo numero ricevuto, ma non può iniziare a leggere il successivo perché non gli è ancora arrivato;
• i giorni “di tipo C”, in cui il giovane astrofilo ha già ricevuto il numero del mese in corso, ma sta ancora terminando la lettura del numero del mese precedente.
Per esempio, consideriamo il mese di gennaio 2015. Il postino recapiterà il numero 188 il primo del mese (non formalizziamoci sul fatto che è alquanto improbabile che la posta arrivi il giorno di Capodanno, così come in altri giorni festivi coincidenti con il primo del mese).
Roberto impiegherà i primi 30 giorni di gennaio per leggere il numero: questi saranno giorni di tipo A. Il 31 gennaio è un giorno di tipo B, perché il numero 189 non è ancora giunto a casa di Roberto. Il mese di febbraio 2015 ha 28 giorni, cosicché Roberto lo trascorrerà tutto leggendo il nuovo numero, ma gli serviranno anche i primi due giorni di marzo per completare la lettura: questi saranno quindi due giorni di tipo C.
E così via. Se completiamo l’analisi dell’anno, ci accorgiamo che il 2015 contiene 35 giorni di tipo B (il 31 gennaio, il 31 luglio, tutti i 31 giorni di agosto, il 31 ottobre, il 31 dicembre), e 4 giorni di tipo C (i primi due giorni di marzo, il primo aprile). Tutti gli altri 356 giorni sono di tipo A.
La figura seguente illustra la distribuzione dei tre tipi nel corso dell’anno (in verde i giorni di tipo A, in viola quelli di tipo B, in rosso quelli di tipo C).
Distribuzione dei tipi di giorni nell'anno non bisestile
I miei lettori avranno sicuramente colto la questione fondamentale: questa ripartizione vale non solo per il 2015, ma per tutti gli anni non bisestili.
In un anno bisestile, invece, le cose cambiano: i primi 30 giorni di gennaio rimangono di tipo A, e il 31 gennaio è ancora di tipo B. Il mese successivo, però, ha in questo caso 29 giorni, il che significa che a Roberto basta il primo marzo per terminare la lettura del numero di febbraio. E questo provoca conseguenze sulla suddivisione dei giorni del resto dell’anno.
In generale, un anno bisestile contiene 36 giorni di tipo B (oltre a quelli tipici degli anni non bisestile, dobbiamo considerare infatti il 31 maggio), e un solo giorno di tipo C (il primo marzo). E tutti gli altri 358 giorni sono di tipo A. La figura seguente mostra tale ripartizione.
Distribuzione dei tipi di giorni nell'anno bisestile
Calendari e anni bisestili
Appare ora chiaro dove si trova la chiave della risoluzione del problema: basta contare quanti anni bisestili ci sono tra il 2015 e il 2100 e il gioco è fatto.
Ebbene, nel periodo considerato ci sono 86 anni, di cui 21 bisestili (2016, 2020, 2024, 2028, 2032, 2036, 2040, 2044, 2048, 2052, 2056, 2060, 2064, 2068, 2072, 2076, 2080, 2084, 2088, 2092, 2096) e 65 non bisestili (tutti gli altri).
E il 2100? Perché non l’ho incluso tra i bisestili? In fin dei conti gli anni divisibili per 4 sono tutti bisestili, o no?
No. Se un anno divisibile per 4 lo è anche per 100, non è bisestile. E non è finita qui. Questa eccezione contiene, infatti, a sua volta, un’eccezione: Se l’anno è divisibile per 400, è comunque bisestile. L’esempio più emblematico è molto recente: il Duemila, anno divisibile per 4 ma secolare, è stato bisestile perché divisibile per 400.
Questo meccanismo, che potrebbe apparire cervellotico, è in realtà il geniale risultato dell’introduzione del calendario gregoriano, nel 1582.
Figura - Papa Gregorio XIII
Papa Gregorio XIII promulgò in quell’anno la bolla Inter gravissimas, che riformava il vecchio calendario giuliano, in vigore fin dai tempi di Giulio Cesare.
Come nel calendario giuliano, anche l’anno gregoriano non bisestile comprende 365 giorni, e quello bisestile introduce un giorno aggiuntivo al mese di febbraio.
La durata in giorni dei diversi mesi è per tutti molto familiare: gennaio, marzo, luglio, agosto, ottobre e dicembre hanno 31 giorni; aprile, giugno, settembre e novembre ne hanno 30, mentre febbraio ha 28 giorni negli anni ordinari e 29 in quelli bisestili.
Vi sono molte tecniche mnemoniche per ricordare la lunghezza dei vari mesi: dalle regole: dall’osservazione delle nocche delle mani e degli infossamenti fra di loro, alle popolari filastrocche come la seguente:
Trenta giorni ha novembre
con april, giugno e settembre
di ventotto ce n’è uno
tutti gli altri ne han trentuno.
Ma a noi interessa soprattutto la distribuzione degli anni bisestili. Dato che nel calendario giuliano, cioè prima del 1582, gli anni bisestili si alternavano semplicemente ogni 4 anni, la durata media dell’anno giuliano medio era pari a (365+365+365+366)/4, cioè 365,25 giorni.
Questa durata, però, era maggiore di quella dell’anno solare medio, ben nota agli astronomi (e anche agli astrofili), che equivale a circa 365,2422 giorni: più di 11 minuti di differenza all’anno.
Di conseguenza, nel corso dei secoli, l’utilizzo del calendario giuliano provocò l’accumularsi di un ritardo rispetto alle stagioni reali, pari a circa un giorno ogni 128 anni.
Verso la fine del sedicesimo secolo, lo sfasamento era ormai di circa 10 giorni. Secondo le osservazioni degli astronomi, la primavera non cominciava più il 21 marzo, ma l’11 marzo. La Pasqua, che cade la prima domenica successiva al plenilunio di primavera, veniva festeggiata quindi in una data “sbagliata”.
Quando gli astronomi gli fecero notare il problema, papa Gregorio XIII comprese che di questo passo si sarebbe finiti per celebrare la Pasqua in estate. Il pontefice si decise allora ad affrontare la questione, e nel 1580 nominò una commissione di esperti con il compito di trovare una soluzione allo spinoso dilemma.
Luigi Lilio
Nella commissione figuravano alcuni autorevoli matematici e astronomi dell’epoca, alcuni dei quali italiani: Luigi Lilio, calabrese, probabilmente il vero ispiratore della soluzione che alla fine venne adottata; Cristoforo Clavio, gesuita tedesco e professore nel Collegio Romano; Giuseppe Scala, siciliano, giovane professore all’università di Padova; Vincenzo di Lauro, anche lui calabrese, vescovo di Mondovì e consigliere teologico; Pedro Chacòn, spagnolo, teologo ed esperto in patristica e di storia della chiesa; Ignazio Nehemet, patriarca di Antiochia di Siria, anche lui storico della chiesa; Ignazio Danti, frate domenicano di Perugia e vescovo di Alatri.
Per fissare la durata dell’anno solare medio, gli scienziati presero come riferimento le misurazioni di Niccolò Copernico, pubblicate pochi anni prima, nel 1543.
Il 14 settembre 1580 la commissione consegnò nelle mani del papa il loro resoconto finale, intitolato Ratio corrigendi fastos confirmata et nomine omnium, qui ad Calendarii correctionem delecti sunt, oblata Sanctissimo Domino nostro Gregorio XIII.
Il resoconto finale dei lavori della commissione
Dalla relazione emergeva che due cose erano necessarie per risolvere il problema del calendario:
1. riallineare la data d’inizio delle stagioni con quella vigente nell’anno 325;
2. modificare la durata media dell’anno, in modo da prevenire il ripetersi di questo problema.
Per attuare il primo punto, si stabilì che il giorno successivo al 4 ottobre 1582 sarebbe stato il 15 ottobre 1582. Per il secondo punto, invece, si introdussero l’eccezione e la “sub-eccezione” menzionate prima: gli anni divisibili per 100 non sono bisestili, a meno che non siano divisibili anche per 400.
Il calendario gregoriano entrò in vigore già il 15 ottobre 1582 in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Polonia–Lituania e Belgio–Olanda–Lussemburgo, mentre alcuni degli altri paesi cattolici (Austria, Boemia, Moravia e cantoni cattolici della Svizzera) si adeguarono con qualche anno di ritardo. L’adozione del calendario gregoriano negli altri stati fu invece molto più lenta.
Con l’introduzione della nuova regola degli anni bisestili, l’anno gregoriano medio diventò un po’ più corto di quello giuliano, e questa differenza è legata a quei 3 anni su 400 che cessavano di essere bisestili: l’equivalente di 10 minuti e 48 secondi in meno rispetto a prima.
Quanto bastò a riallineare quasi perfettamente le cose: la discrepanza rispetto alla realtà è infatti di soltanto un giorno ogni 3323 anni circa. Possiamo essere abbastanza soddisfatti.
La soluzione del problema di Roberto
Torniamo ora al problema di Roberto.
Appurato che nel periodo compreso tra il 2015 e il 2100 ci sono 86 anni, di cui 21 bisestili e 65 non bisestili (tra cui il 2100), il problema si riduce al contare quanti sono in tutto, nel periodo compreso tra il 2015 e il 2100, i giorni di tipo C.
Presto detto: abbiamo visto che in ognuno dei 21 anni bisestili esiste un solo giorno di tipo C, mentre in ognuno dei 65 anni non bisestili vi sono 4 giorni di tipo C. La formula da utilizzare è quindi la seguente:
Numero giorni di tipo C = 1 × 21 + 4 × 65 = 21 + 260 = 281
La risposta corretta al quesito di luglio-agosto è quindi 281.
I vincitori
I lettori che hanno risolto correttamente l’enigma di Roberto sono stati due: Daniele Tosalli e Michele D’Errico. Entrambi hanno giustificato esaurientemente la risposta.
Dato che Tosalli ha recentemente già vinto l’abbonamento,il vincitore del numero 183 è Michele D’Errico.
Altri lettori hanno proposto risposte diverse, quindi errate: qualcuno ha detto 278 giorni, qualcun altro ha proposto 275, e qualcun altro ancora ha azzardato 323.
Complimenti a tutti coloro i quali hanno accettato la sfida e hanno provato a risolvere il problema di Roberto!
Verso le 3:00 del 4 gennaio, il radiante delle Quadrantidi, indicato dall’asterisco giallo, è alto circa +35° sopra l’orizzonte di nordest. Si consiglia comunque l’osservazione anche nelle ore precedenti e successive all’orario indicato dalle previsioni. Le Quadrantidi hanno in genere una velocità di circa 40 km/s, e le tracce, di colore prevalentemente blu, sono discretamente brillanti (anche se molte sono telescopiche) ma quest’anno le condizioni sono decisamente avversate dal forte disturbo luminoso di una Luna quasi piena (fase 98%).
Dopo la clemenza dei mesi autunnali, si fa avvertire in gennaio il clima tipico della stagione fredda. Situazione che da una parte offre le migliori condizioni di trasparenza, dall’altra pone seri problemi a chi vuole raggiungere siti lontani dalle luci cittadine e rimanervi nella lunga notte astronomica. Del resto, proprio le numerose ore di buio permettono in questo periodo di spaziare – in prima serata – dalle costellazioni autunnali più orientali (Pesci, Pegaso, Balena…) fino alle regioni ricche di nebulose e ammassi del cielo invernale, per terminare nella seconda parte della notte con le prime avvisaglie della grande concentrazione di galassie del cielo primaverile (Vergine, Leone, ecc.). Per quanto riguarda i pianeti, dopo il tramonto del Sole sarà Giove, sempre davanti la testa del Leone e prossimo all’opposizione di febbraio, a rubare lo sguardo, mentre poco prima dell’alba sarà Saturno nello Scorpione ad animare la scena.
30.12: “Cieli d’America: l’importanza del cielo e
della scienza nella storia del nuovo mondo” di
Oriano Spazzoli.
Per info: tel. 0544.62534 – info@arar.it
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26.12: I Giardini di Natale (ingresso libero – attività
adatta a bambini a partire dai 6 anni).
ore 17:00: “Il Cielo delle vacanze”.
ore 20:00: Osservazione della volta stellata.
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26.12 – 27.12 Escursione in montagna per l’osservazione degli astri. Pian dell’Armà (PV)
Per info: 380 3124156 e 333 2178016
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26.12 ore 21:00 apertura della Specola Cidnea.
Per il programma di dicembre in fase di definizione
consultare il sito.
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Immagine composita dell’ammasso XDCPJ0044.0-2033 nell’infrarosso, ottico e nei raggi X.Le regioni in rosso-rosa corrispondono all’emissione infrarossa captata da Herschel e quella nei raggi X ripresa da Chandra. Crediti: Per le osservazioni nei raggi X: NASA/CXC/INAF/P.Tozzi, et al; Nell’Ottico: NAOJ/Subaru and ESO/VLT; Infrarosso: ESA/Herschel/J. Santos, et al.
Immagine composita dell’ammasso XDCPJ0044.0-2033 nell’infrarosso, ottico e nei raggi X.Le regioni in rosso-rosa corrispondono all’emissione infrarossa captata da Herschel e quella nei raggi X ripresa da Chandra. Crediti: Per le osservazioni nei raggi X: NASA/CXC/INAF/P.Tozzi, et al; Nell’Ottico: NAOJ/Subaru and ESO/VLT; Infrarosso: ESA/Herschel/J. Santos, et al.
E’ talmente massiccio che per ‘riempirlo’ ci vorrebbero quattrocentomila miliardi di stelle come il Sole. Il gigantesco ammasso di galassie, denominato XDCP J0044.0-2033 (o più brevemente XDCP J0044) è stato l’oggetto di due differenti studi a guida INAF condotti con i satelliti Chandra della NASA ed Herschel dell’ESA. Studi che da una parte certificano come l’ammasso, ribattezzato “Gioiello”, sia il più massiccio gruppo di galassie scoperto finora alla distanza record di 9,5 miliardi di anni luce da noi. Ma evidenziano anche l’età relativamente giovane dell’ammasso, che gli astronomi stimano all’incirca di un miliardo di anni. E giovani sono anche le galassie al centro dell’ammasso, come mostrano le osservazioni nel vicino infrarosso di Herschel: nelle regioni centrali del “Gioiello” è infatti presente una forsennata attività di formazione stellare, che non si riscontra in analoghi agglomerati di galassie più vicini a noi – sia nello spazio che nel tempo – e quindi più evoluti.
«Abbiamo deciso di chiamare l’ammasso Gioiello perché mostra tanti “colori” dello spettro elettromagnetico, che per noi astronomi hanno un preciso significato: si va dall’emissione nella banda X da parte del gas caldo che ci permette di misurare la massa totale del cluster, all’emissione infrarossa della polvere riscaldata dall’intensa attività di formazione stellare» dice Paolo Tozzi, ricercatore dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri che ha guidato il primo dei due studi su XDCP J0044, in pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal. «Ma quel nome vuole anche ricordare il luogo dove il nostro team si è riunito per la prima volta a discutere sui dati di Chandra relativi a questo oggetto celeste, ovvero a Villa il Gioiello, dove Galileo Galilei trascorse l’ultimo decennio della sua vita e scrisse alcune delle sue più importanti opere».
L’osservazione del Gioiello nei raggi X da parte di Chandra è durata oltre 4 giorni ed è la più profonda osservazione in questa banda di radiazione mai condotta su un ammasso di galassie più distante di 8 miliardi di anni luce. «Trovare questo enorme ammasso di galassie ad una distanza così elevata e quindi ad un’epoca così remota nella storia dell’universo ci ha sorpreso perché non è facile spiegare come un simile oggetto si sia formato nei primi 4 miliardi di anni dopo il Big Bang» aggiunge Tozzi. «Le informazioni che ci forniscono le indagini su XDCP J0044 potranno avere un notevole impatto sulla nostra comprensione di come l’Universo si sia formato ed evoluto su larga scala».
Immagine composita che evidenzia l’emissione nell’infrarosso della regione centrale dell’ammasso di galassie XDPCJ0044 realizzata grazie alle osservazioni dello strumento PACS del satellite Herschel. Crediti: ESA/Herschel/J. Santos et al. 2015; NAOJ/Subaru; ESA/VLT/Hawk-I
Ma questo ammasso risulta sorprendente anche per un’altra sua proprietà, emersa dalle osservazioni nell’infrarosso del telescopio spaziale Herschel dell’ESA. «A differenza degli ammassi più vicini, e quindi più evoluti, nel centro del ‘Gioiello’ le galassie stanno formando stelle ad un ritmo di circa duemila nuovi astri all’anno, un dato strabiliante se pensiamo che in genere al centro degli ammassi si trovano vecchie galassie ellittiche che hanno finito di formare stelle da miliardi di anni» spiega Joana Santos, anche lei ricercatrice INAF all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, che ha guidato il secondo studio su XDCP J0044, in pubblicazione sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. «Le nostre indagini ci danno una visione senza precedenti di cosa accade negli ammassi di galassie appena formati».
Studiare questo oggetto celeste nel lontano infrarosso è stato determinante poiché è soprattutto in questa banda della radiazione elettromagnetica che si concentra l’emissione della polvere interstellare presente attorno alle stelle in formazione e che viene riscaldata da esse. Così, i ricercatori sono stati in grado di ricostruire la distribuzione e la temperatura di quel materiale e risalire al tasso di formazione stellare nelle galassie dell’ammasso. Per apprezzare il valore misurato da Herschel, che appunto ammonta a circa duemila nuove stelle ogni anno, basti pensare che attualmente in tutta la nostra Via Lattea il tasso della formazione stellare è soltanto di qualche massa solare all’anno. «Questa altissima frequenza con cui si stanno accendendo nuove stelle nel Gioiello è una novità assoluta per osservazioni di ammassi galattici di questa dimensione – aggiunge Santos – e ci indica che l’ammasso è ancora in una delle prime fasi della sua evoluzione. Sappiamo già che con il trascorrere del tempo poi, anche le galassie nel centro di XDCP J0044 diverranno simili a quelle degli ammassi che osserviamo nell’universo locale, ovvero galassie ellittiche ricche di stelle vecchie e senza più gas diffuso».
Oltre a Paolo Tozzi e Joana Santos, hanno partecipato ai due lavori Stefano Borgani (INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste e Università di Trieste), Rene Fassbender (Postdoc Astrofit presso l’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma-Monte Porzio), Mario Nonino (INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste), Piero Rosati (Università di Ferrara e associato INAF), Barbara Sartoris (Postdoc Università di Trieste e associata INAF), Giovanni Cresci (INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri)
Per saperne di più:
L’articolo Chandra deep observation of XDCP J0044.0-2033, a massive galaxy cluster at z>1.5 di Paolo Tozzi et al. in pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal
l’articoloThe reversal of the SF-density relation in a massive, X-ray selected galaxy cluster at z=1.58: results from Herschel di Joana Santos et al. in pubblicazione sulla rivista Mothly Notices of the Royal Astronomical Society
Proprio a fine dicembre, e a fine anno, prenderà il via una congiunzione tra Mercurio (mag. –0,8) e Venere (–3,8) che si farà sempre più stretta con il passare dei giorni.
A fine mese, verso le 17:15 la coppia di pianeti sarà alta circa +6° sull’orizzonte di sudovest, separata di 3,3 gradi;
il 4 gennaio alla stessa ora l’altezza sarà di +7,5° e la separazione di 2°;
il giorno 8 di +10° e di 55′ rispettivamente;
mentre il giorno 10 si avrà la separazione minima di 39 primi d’arco.
Su Marte c’è il metano. Non è una novità, questo idrocarburo elementare è presente in diversi corpi celesti del Sistema solare e non. Almeno di quelli che hanno un’atmosfera, spessa o rarefatta che sia. Questa molecola organica, CH4, può avere origine infatti, sia da attività vulcanica, sia geofisica, sia biologica. La sua equa distribuzione sull’intera superficie del pianeta non la contraddistingue. Potrebbe, infatti, essere emessa da criovulcani come accade, ad esempio, su Titano, la luna di Saturno.
Il dato interessante che la NASA ci fornisce attraverso i dati raccolti dalla sonda Curiosity nel cratere di Gale è che vi sono dei picchi di concentrazione (circa dieci volte la media su Marte, ma cento volte inferiori a quelli che si riscontrano sulla Terra) che potrebbero restringere il campo delle possibili origini, escludendo quella vulcanica. Perché il cratere di Gale non ha avuto nel passato attività di tal genere. Quindi le ipotesi diverrebbero due: attività geofisica (da reazione di serpentine con CO2 e acqua) o attività biologica.
«La presenza di picchi di concentrazione di metano su Marte non è una novità – spiega Enrico Flamini coordinatore scientifico dell’Agenzia Spaziale Italiana – già nel 2004 con la sonda dell’ESA Mars Express, grazie allo strumento PFS (Planetary Fourier Spectometer) guidato da Vittorio Formisano dell’INAF, si riscontrarono concentrazioni di metano in alcune parti della superficie marziana».
«Il dato innovativo – continua Flamini – è che quello era un dato ottenuto in “quota”, dall’alto verso il basso, mentre ora è stato riscontrato da un’analisi compiuta dal rover NASA dal basso verso l’alto. Inoltre permette di escludere una delle possibile tre cause per la produzione di queste concentrazioni di metano: quella vulcanica. Infatti il cratere di Gale non riscontra presenza di attività vulcanica nel passato di Marte».
Pur riducendo a due le ipotesi, geofisica o biologica, la concentrazione di produzione del metano rimane ancora un mistero che alla fine unisce Marte a 67/P. In entrambi questi corpi celesti sono state ricontrate molecole organiche, ora si tratta di capire la loro origine. E se nel caso di 67/P toccherà attendere le nuove analisi dell’orbiter Rosetta e la riattivazione di Philae, nel caso di Marte probabilmente dovremo attendere Exomars.
Sull’argomento vedi anche:
E LA SCOPERTA EPOCALE di Curiosity? “Scusate c’è stato un misunderstanding” con le interviste a Bignami, Formisano e Balbi su Coelum 166 (gennaio 2013)
La notizia “Tracce di metano nell’atmosfera marziana” – Coelum 73 (maggio 2004)
La notizia “Ultime da Marte. Dalla Mars Express: metano + acqua = vita?” – Coelum 77 (ottobre 2004)
Le 6:45 del mattino del 20 dicembre sarà l’ora più indicata per seguire convenientemente alta sull’orizzonte, ma con un cielo non troppo chiaro, la congiunzione tra Luna e Saturno che si verificherà nella testa dello Scorpione.
A quell’ora, la falce di Luna calante sarà alta più di dieci gradi, mentre Saturno sarà distante circa 5,3° verso nordovest.
Rappresentazione artistica della sonda MAVEN in orbita attorno a Marte (NASA/GSFC)
Rappresentazione artistica della sonda MAVEN in orbita attorno a Marte (NASA/GSFC)
Cominciano ad arrivare i primi risultati scientifici dalla sonda MAVEN della NASA, dedicata allo studio dell’atmosfera di Marte. Dopo essersi immessa nell’orbita del Pianeta rosso lo scorso settembre, avviata la fase di calibrazione dei suoi strumenti e aver pure superato senza problemi l’incontro ravvicinato con la cometa Siding Spring, MAVEN ha iniziato dal 16 novembre scorso a fare quello per cui è stata progettata: scienza di altissimo livello.
Le prime analisi dei dati raccolti mettono subito in evidenza la presenza di un processo grazie al quale il vento solare riesce a penetrare negli strati più profondi dell’atmosfera marziana, contribuendo così alla sua depauperazione. «Stiamo iniziando a fare luce sulla catena di fenomeni che inducono la perdita di atmosfera su Marte» dice Bruce Jakosky, principal investigator di MAVEN. «Nel corso della missione riusciremo a ricostruire in dettaglio cosa avviene, ricostruendo come l’atmosfera di questo pianeta è cambinata nel tempo».
MAVEN è stato progettato per muoversi su un’orbita che gli permette di attraversare la ionosfera di Marte – il guscio di particelle cariche che si trova in una zona compresa tra circa 100 e 500 chilometri sopra la superficie – che funge da scudo protettivo al pianeta, deflettendo gli ioni del vento solare. Tuttavia questo scudo sembra non essere poi così impenetrabile. Il Solar Wind Ion Analizer di MAVEN, uno dei suoi strumenti di bordo, ha infatti sorprendentemente registrato un flusso di particelle di origine solare che riescono ad insinuarsi negli strati più profondi dell’alta atmosfera e della ionosfera di Marte. Quando il vento solare arriva a contatto con le propaggini dell’atmosfera, i suoi ioni acquistano elettroni, divenendo atomi neutri e riuscendo così a propagarsi con maggior facilità fino a quote assai più basse, per ripresentarsi nella ionosfera di nuovo sotto forma di particelle cariche. Questa trasformazione, che riporta le particelle del vento solare di nuovo allo stato di ioni, sta permettendo ai ricercatori di capire come il vento solare interagisce con l’atmosfera marziana e come essa ne venga erosa.
Ad affiancare ed integrare queste osservazioni ci sono poi i dati che stanno arrivando da altri strumenti di MAVEN. Il Neutral Gas and Ion Mass Spectrometer (NGIMS) è all’opera per analizzare la composizione del gas dell’alta atmosfera di Marte e comprendere meglio le relazioni tra questa regione e quelle legate agli strati più bassi. E poi c’è STATIC (Suprathermal and Thermal Ion Composition) che già a poche ore dalla sua attivazione ha individuato dei ‘pennacchi polari’ composti da ioni che stanno abbandonando l’atmosfera di Marte. Insomma, MAVEN sembra proprio mantenere le sue promesse e si appresta a darci una visione nuova e senza precedenti dell’ambiente atmosferico del Pianeta rosso.
Merlino è il nuovo Personal Remote Observatory pensato da Avalon-Instruments per essere “user friendly “, per rendere più comodo ed efficace l’uso del telescopio, permettendone il suo utilizzo da remoto in località con cielo più scuro, anche quando il tempo a disposizione è limitato o le condizioni meteo sono incerte. Il tutto è stato reso possibile con la massima sicurezza e affidabilità.
Al suo interno sono presenti un PC, un Router, una scheda elettronica dedicata che gestisce tutta una serie di sensori per il controllo del sistema sia in termini di funzionalità che di sicurezza.
Al suo interno sono presenti un PC, un Router, una scheda elettronica dedicata che gestisce tutta una serie di sensori per il controllo del sistema sia in termini di funzionalità che di sicurezza.
Il sistema viene gestito da un software specifico che permette al Merlino di essere utilizzato in maniera non dissimile dal nostro abituale setup mobile, continuando ad usare i programmi a noi già familiari che si integrano nel sistema senza nessuna difficoltà.
Grazie alle compatte dimensioni è possibile utilizzare Merlino sul vostro terrazzo o nel vostro giardino e, disponendo di un router 3G interno, sarà possibile connettersi a Merlino sia tramite una rete locale (Intranet) o tramite web (Internet). Ovviamente con Internet sarà possibile utilizzare Merlino anche da una postazione remota.
Merlino è interamente alimentato tramite una batteria a 12 Volt che gli consente di terminare la sessione di ripresa anche in caso di blackout. Questa caratteristica gli permette, tramite un kit opzionale di pannelli solari, di essere installato anche in località dove non sono disponibili utenze fisse.
Il progetto Merlino è stato sviluppato intorno alla montatura Avalon M-Uno che, grazie alle sue particolari caratteristiche, risolve gran parte dei problemi legati alla gestione remota di un’Osservatorio.
1. Dimensioni: Merlino viene realizzato nella Versione Base, basato sulla montatura M-Uno, si tratta di una versione standard con dimensioni esterne di 1,65 mt. x 1,20 mt. x 1,25 mt (chiuso) 2,30 mt. x 130 mt. x 130 mt. (aperto). Peso totale della struttura inclusa la montatura M-Uno, circa 120 Kg.
2. Costruzione in struttura di alluminio anodizzato, base in alluminio a forma di doppia T con sistema di livellamento reso indipendente rispetto alla struttura di protezione, che è realizzata interamente in resina epossidica di colore bianco.
3. Non sono necessarie pratiche burocratiche per l’installazione in terrazze o giardini privati. Il trasporto viene effettuato con il Merlino premontato su pallet e predisposto in tutta la sua funzionalità.
4. La Struttura monobraccio della montatura M-Uno consente di evitare il fastidioso problema del Meridian-Flip, rendendo quindi possibile l’esecuzione dell’intera sessione di ripresa senza interruzioni e possibilità di puntamento senza limiti nei pressi del meridiano. Compatibilità con varie ottiche (NW 8”/F4; SC fino a 11”; RC fino a 10”/F8; Rifrattori fino a 4.5”/F6 o Sistemi ottici equivalenti in dimensioni e con peso complessivo del set-up di ripresa entro i 20Kg.
5. La montatura M-Uno, parte integrante del Merlino, è predisposta per il passaggio cavi all’interno dell’asse di AR annullando di conseguenza il rischio di rottura o di tensionamento dei cavi durante i movimenti.
6. Le masse in movimento sono molto ridotte (dato che vengono utilizzati solo piccoli contrappesi) e di conseguenza è minore lo spazio richiesto durante i movimenti, in quanto il telescopio ruota quasi sul proprio asse.
Controllo fine della messa in polo motorizzato da remot
7. La manutenzione della montatura è estremamente contenuta e le prestazioni costanti nel tempo grazie alla tecnologia esclusiva Fast Reverse realizzata dalla Avalon con cinghie e pulegge dentate di elevata precisione e durata.
8. Possibilità di regolare lo stazionamento polare tramite 2 motoriduttori opportunamente adattati al fine di consentire di effettuare la suddetta regolazione anche da remoto (Kit Opzionale).
Merlino permette di programmare le sessioni fotografiche utilizzando delle macro create direttamente dall’utente, tramite un editor di macro fornito di serie. Ciò consente di automatizzare sia l’inizio (startup) che la chiusura (shutdown) delle operazioni.
È in grado di effettuare autonomamente lo shutdown del sistema in caso di imprevisti o problemi, ad esempio in caso di pioggia grazie all’apposito sensore, garantendo la sicurezza e la salvaguardia del sistema. È possibile anche programmare l’invio di un messaggio di allerta tramite SMS. Mentre un dispositivo di allarme GSM (opzionale) consente l’allerta in caso di forzatura dell’involucro.
I parametri sotto controllo sono i seguenti:
– Temperatura
– Umidità
– Pioggia
– Nuvolosità
– Tensione batteria
– Connessione Internet
– Totale gestione del software di controllo
– Qualità della stella di autoguida (durante le riprese)
P. R. O. Merlino viene fornito di serie completo di:
1. Struttura in alluminio anodizzato con parti esterne, tetto e pannelli di resina epossidica di colore bianco.
2. Supporto ribassato per sostenere la montatura M-Uno.
3. Sistema meccanico completo di motore open/close.
4. PC con sistema Windows (english) per il controllo delle funzioni (no keyboard , no monitor).
6. Router WiFi con predisposizione ingresso pennetta 3G.
7. Webcam per controllo visivo della strumentazione interna.
8. Stazione meteo Hitec Astro per il controllo Temperatura, Umidità, Pioggia e Nuvolosità.
9. Software di gestione dell’intero sistema P. R. O.+ M-Uno.
10. Impianto elettrico cablato e isolato in canalina.
11. Alimentatore con batteria 12VCC/18A, carica batteria.
12. Manuale Istruzioni in inglese.
In opzione sono disponibili anche e seguenti accessori:
– Sistema motorizzato per il puntamento polare (i driver sono già predisposti sulla scheda).
– Camera grandangolare per la visione del cielo mod. ASI 120 mm completa di ottica.
– Dispositivo motorizzato con triplice funzione di Tappo + Generatore di Flat + Dark.
– Batterie tampone fino a 120 Ampere in base alle specifiche esigenze.
– Dispositivo di sicurezza con allarme intrusione GSM.
– Focuser per ottiche Celestron HD 8″, 9.25″, 11″(controllo tramite StarGO).
NOTE: Nella versione Merlino Base è possibile utilizzare ottiche di vario tipo. Il sistema è ottimizzato per le ottiche Celestron HD (max C11HD). Eventuali altre configurazioni potrebbero richiedere ulteriori accessori ed adattamenti da valutare caso per caso. Il sistema viene consegnato premontato escluso il telescopio, CCD ed accessori di ripresa.
Dimensioni di Merlino – Cliccare le immagini per ingrandirle
Merlino è un progetto coperto da brevetto, che su richiesta viene fornito completo di Sistema ottico e set-up di ripresa e installato direttamente presso la località desiderata (quotazioni su richiesta). Si rivela anche un’ottimo investimento in quanto è un sistema “All in one” pensato per mantenere il suo valore nel tempo.
19.12 – 20.12 Escursione in montagna per l’osservazione degli astri. Pian dell’Armà (PV)
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Per il programma di dicembre in fase di definizione
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Per l’ultimo mese dell’anno la ISS – Stazione Spaziale Internazionale sarà rintracciabile nei nostri cieli a orari serali, quindi senza l’obbligo della sveglia al mattino prima dell’alba, per di più con magnitudini elevate. Si inizierà il 9 dicembre, dalle 18:05 alle 18:11, osservando da SW a E. Anche se la ISS sarà ben visibile da ogni zona del paese risulterà favorito il Sud Italia; la magnitudine massima si attesterà su un valore di –3,1.
La 67P/Churyumov-Gerasimenko a colori in una compositazione di tre immagini riprese con filtri RGB da OSIRIS il 6 agosto scorso, quando Rosetta si trovava a una distanza di 120 km dalla cometa. L’immagine finale è stata ulteriormente elaborata dalla Redazione per meglio esaltare le variazioni di tonalità cromatica della sua superficie. Credits: ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA
Il team dello strumento OSIRIS (Optical, Spectroscopic and Infrared Remote Imaging System) di Rosetta ha rilasciato la prima immagine a colori della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko.
Dato che la cometa tende al grigio scuro, con solo delle tenui variazioni cromatiche superficiali, per creare una foto con i “veri” colori della 67P, quelli con cui la vedrebbe l’occhio umano, è stato necessario acquisire tre diverse immagini, riprese in sequenza utilizzando filtri nelle lunghezze d’onda del rosso, del verde del blu e quindi compositarle.
Tuttavia, durante la ripresa della sequenza la cometa aveva ruotato e la sonda Rosetta si era spostata; le tre immagini risultavano quindi riprese da angolazioni diverse e leggermente ruotate l’una rispetto all’altra. Per questo motivo si è reso necessario il lungo e paziente lavoro di riallineamento che ha comportato questo ritardo nel rilascio della prima immagine a colori della cometa.
Una prima analisi più dettagliata rivela, tuttavia, che la cometa riflette la luce rossa in maniera più efficiente rispetto alle altre lunghezze d’onda. Si tratta di un fenomeno ben noto, osservato anche in molti altri piccoli corpi del Sistema solare e causato delle piccole dimensioni dei grani di polvere della superficie.
Ulteriori studi, utilizzando altre combinazioni dei 25 filtri di cui è dotato OSIRIS, permetteranno di rilevare la presenza dei diversi minerali in questa polvere e di capirne la composizione.
Illustrazione del lago di acqua che riempiva parzialmente il Gale Crater su Marte: si tratta della neve che si sciolse sul bordo nord del cratere. In quel punto si formò il Monte Sharp. Crediti: NASA/JPL-Caltech/ESA/DLR/FU Berlin/MSSS
Illustrazione del lago di acqua che riempiva parzialmente il Gale Crater su Marte: si tratta della neve che si sciolse sul bordo nord del cratere. In quel punto si formò il Monte Sharp. Crediti: NASA/JPL-Caltech/ESA/DLR/FU Berlin/MSSS
Chi di noi non ha mai immaginato Marte come un pianeta arido e privo di vita?
Ci siamo sbagliati, almeno sull’aridità. Mentre gruppi di ricercatori di tutto il mondo cercano ancora di capire se sul Pianeta Rosso ci sia mai stata una qualche forma di vita microbiotica, gli scienziati non possono più ignorare le numerose prove della presenza di acqua sul quarto pianeta del Sistema solare.
Nuove osservazioni del rover della NASA Curiosityindicano che il Monte Sharp (raggiunto la sera del 24 settembre scorso) sia formato dai sedimenti depositati nel letto di un grande lago nel corso di decine di milioni di anni. La montagna (alta 5,5 chilometri) si trova al centro del grande Cratere Gale, nel quale il gioiellino su ruote della NASA è arrivato il 6 agosto 2012. I dati raccolti dal rover indicano che il cratere, milioni di anni fa, fosse un gigantesco lago e da questa interpretazione i ricercatori ipotizzano che Marte abbia avuto, in un lontano passato, un clima mite adatto al mantenimento dell’acqua allo stato liquido in numerosi bacini e fiumi sparsi per il pianeta. Nel corso degli anni di missione, rocce sedimentarie e argillose nell’area di Yellowknife Bay e altrove hanno dato prova della possibile presenza di acqua miliardi di anni fa.
«Se la nostra ipotesi regge, possiamo confutare l’idea che caldo e umidità siano stati fenomeni transitori, locali, o presenti solo nel sottosuolo di Marte», ha detto Ashwin Vasavada, scienziato che lavora al progetto Curiosity presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena. I ricercatori hanno anche avanzato una «spiegazione più radicale, quella secondo cui l’antica e spessa atmosfera abbia portato le temperature sopra lo zero a livello globale» permettendo all’acqua, ghiacciata o sotto forma di neve, di tornare allo stato liquido, «ma finora non sappiamo come e se sia accaduto».
Il rover a sei ruote ha il compito di trivellare e studiare le rocce marziane, la loro composizione e le differenze in base all’altitudine e alla profondità. Proprio capire il perché della formazione di questi strati all’interno del Monte Sharp è uno degli obiettivi primari per i ricercatori. I diversi sedimenti – un’alternanza tra depositi lacustri, fluviali e altri portati dal vento – testimoniano la storia del lago marziano più grande e longevo di qualsiasi altro bacino scoperto sul Pianeta rosso.
«Stiamo facendo progressi nel risolvere il mistero del Monte Sharp», ha spiegato lo scienziato John Grotzinger, del California Institute of Technology (CALTECH) a Pasadena. «Dove oggi c’è una montagna, potrebbe esserci stata una serie di laghi». Man mano che Curiosity “passeggerà” lungo le pendici del Monte Sharp «raccoglieremo indizi su come l’atmosfera, l’acqua e i sedimenti hanno interagito».
La foto è stata scattata dalla Mast Camera (Mastcam) a bordo di Curiosity il 7 agosto 2014: si vedono i depositi sedimentari lacustri accumulati non lontano da dove una volta nel lago sfociava un antico fiume. Crediti: NASA/JPL-Caltech/MSSS
Il rover della NASA (lanciato nel novembre 2011 nell’ambito della missione Mars Science Laboratory) sta studiando, in queste settimane, gli strati sedimentari più bassi del Monte Sharp, una sezione di roccia a 150 metri di altezza soprannominata formazione Murray, l’unità geologica a cui i ricercatori sono interessati e dove Curiosity è arrivato dopo aver percorso 8 chilometri scattando più di 155.000 immagini.
I fiumi hanno portato sabbia e limo all’interno del lago, depositando i sedimenti alla foce del fiume per formare delta simili a quelli trovati sulla Terra. Questo ciclo si è verificato più e più volte. Dopo che il cratere Gale si è riempito per qualche centinaio di metri e i sedimenti si sono induriti fino a trasformarsi in roccia, questi strati sono stati scolpiti nel tempo anche dall’erosione del vento formando, nel corso di milioni di anni, la piccola montagna.
In questa immagine scattata il 13 marzo 2014 a nord della regione Kimberly, letti di sabbia arenaria in un antico piccolo delta fluviale. Crediti: NASA/JPL-Caltech/MSSS
Nell’immagine si vede uno strato sottile di un particolare tipo di roccia stratificato (che può trovarsi alla base dei laghi) trovato a “Pahrump Hills”, alla base di Monte Sharp. La foto risale al 28 ottobre 2014. Crediti: NASA/JPL-Caltech/MSSS
«Abbiamo trovato rocce sedimentarie in quelli che abbiamo immaginato essere piccoli e antichi delta di fiume», ha detto Sanjeev Gupta dell’Imperial College di Londra. «Curiosity ha attraversato il confine tra un ambiente solcato da fiumi e un ambiente dominato da laghi».
Il rover della NASA è impegnato nella ricerca di antichi ambienti potenzialmente abitabili, in vista anche di una possibile missione umana sul pianeta nel 2030, magari proprio a bordo di Orion Deep Space, la prima capsula passeggeri americana del dopo “era Shuttle”.
Semplice e suggestiva la congiunzione che prenderà campo verso est-sudest la notte del 17 dicembre.
Appena prima delle 3:00 del mattino una sottile falce di Luna sorgerà nella Vergine, puntando con il suo corno occidentale Spica, la stella alfa della costellazione. I due oggetti saranno separati da un distanza angolare di circa 2,3°. Per le effemeridi di Luna e pianeti vedere il Cielo di dicembre
Un mosaico di 4 immagini riprese da Rosetta con la NAVCAM. Crediti: ESA/Rosetta/NAVCAM – CC BY-SA IGO 3.0
Come c’è arrivata, l’acqua, sulla Terra? La risposta ancora non la sappiamo, ma da oggi possiamo escludere che a portarcela siano state comete come 67P, quella dov’è atterrato il lander Philae lo scorso novembre. Non che sia assente, lassù, l’acqua: per esserci c’è, ma è un’acqua strana, del tutto incompatibile con quella che riempie i nostri oceani e che esce dai nostri rubinetti. È un’acqua troppo pesante.
L’acqua, c’insegnano a scuola, ha come formula chimica H2O: due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno. In realtà, a voler essere pignoli, ogni 3200 molecole siffatte se ne incontra una la cui formula è piuttosto HDO: un solo atomo d’idrogeno, uno d’ossigeno e uno di deuterio, l’isotopo dell’idrogeno con un neutrone nel nucleo. Questo perché, nei nostri oceani, l’abbondanza isotopica del deuterio, rispetto all’idrogeno, è di un atomo ogni 6400. Questo rapporto è una sorta di firma inalterabile, l’impronta genetica (o meglio, isotopica) dell’acqua terrestre: dolce o salata, liscia o frizzante, qui sul nostro pianeta è sempre uguale.
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Indice dei contenuti
Eau de comète
Lo strumento RTOF, uno dei due spettrometri di massa dell’esperimento ROSINA, a bordo dell’orbiter Rosetta dell’Agenzia Spaziale Europea. Crediti: ESA/Rosetta
Ma altrove nel Sistema solare le cose stanno diversamente. È il caso, appunto, della cometa 67P, dove gli atomi di deuterio presenti nelle molecole d’acqua sono circa tre volte più abbondanti. Ad accorgersene è stato lo strumento ROSINA a bordo della sonda dell’ESA Rosetta, in orbita attorno alla 67P.
Grazie ai suoi due spettrometri di massa, un team di ricercatori guidato dalla principal investigator dello strumento – Kathrin Altwegg, dell’Università di Berna – è riuscito ad analizzare l’abbondanza isotopica d’un campione del vapore acqueo emesso dalla cometa.
I risultati, pubblicati oggi online su Science, parlano chiaro: lassù il rapporto fra deuterio e idrogeno è pari a circa 0.00053: grosso modo, un atomo di deuterio ogni duemila atomi d’idrogeno.
Non che questa differenza la renda meno potabile. L’acqua pesante ha un effetto citotossico, è vero, e può portare alla sterilità o addirittura alla morte. Ma solo in quantità molto elevate, tali da alzare la concentrazione di molecole con deuterio presenti nell’organismo fino al 25 percento e oltre, dunque ben al di là di quanto riscontrato sulla cometa.
Molto più interessanti, invece, le implicazioni per quanto riguarda l’origine dell’acqua terrestre. Già le prime analisi dell’abbondanza isotopica del deuterio sulla cometa di Halley, eseguite negli anni Ottanta dalla sonda europea Giotto, avevano evidenziato valori incompatibili con quelli terrestri. Suggerendo dunque che non fossero state le comete – perlomeno, non quelle provenienti dalla remota Nube di Oort, come appunto la cometa di Halley – a rifornire d’acqua il nostro pianeta. Nel 2011, però, le analisi spettrali effettuate dal Telescopio Spaziale Herschel dell’ESA su Hartley 2, una cometa ritenuta fra quelle della Fascia di Kuiper, sembrarono aprire un nuovo spiraglio: in quel caso il rapporto fra deuterio e idrogeno era assai più compatibile con quello riscontrato sulla Terra.
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Cherchez l’astéroïde
Forse, dunque, le portatrici d’acqua potevano essere sì comete ma d’origine più prossima alla Terra, com’è appunto la Fascia di Kuiper (situata al di là dell’orbita di Nettuno) rispetto alla Nube di Oort, migliaia di volte più lontana? L’ipotesi aveva un senso, visto che proprio le temperature estremamente basse tendono a favorire la formazione di ghiaccio con una maggiore concentrazione di acqua pesante.
Ma la scoperta odierna ottenuta grazie a Rosetta analizzando il vapore acqueo di 67P, anch’essa appartenente alla famiglia delle comete gioviane come Hartley 2, torna a far pendere l’ago della bilancia a favore di un’altra origine per la sorgente d’acqua del nostro pianeta: gli asteroidi. «I nostri risultati», dice infatti Altwegg , «sembrano favorire quei modelli che contemplano gli asteroidi come mezzo di trasporto principale per gli oceani della Terra».
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Per saperne di più:
Leggi su Science l’articolo “67P/Churyumov-Gerasimenko, a Jupiter family comet with a high D/H ratio”, di K. Altwegg, H. Balsiger, A. Bar-Nun, J. J. Berthelier, A. Bieler, P. Bochsler, C. Briois, U. Calmonte, M. Combi, J. De Keyser, P. Eberhardt, B. Fiethe, S. Fuselier, S. Gasc, T. I. Gombosi, K.C. Hansen, M. Hässig, A. Jäckel, E. Kopp, A. Korth, L. LeRoy, U. Mall, B. Marty, O. Mousis, E. Neefs, T. Owen, H. Rème, M. Rubin, T. Sémon, C.-Y. Tzou, H. Waite e P. Wurz
Lo strumento RTOF, uno dei due spettrometri di massa dell’esperimento ROSINA, a bordo dell’orbiter Rosetta dell’Agenzia Spaziale Europea. Crediti: ESA/Rosetta
Indice dei contenuti
SU SCIENCE L’ANALISI ISOTOPICA DEL VAPORE DI 67P
Come c’è arrivata, l’acqua, sulla Terra? La risposta ancora non la sappiamo, ma da oggi possiamo escludere che a portarcela siano state comete come 67P, quella dov’è atterrato il lander Philae lo scorso novembre. Non che sia assente, lassù, l’acqua: per esserci c’è, ma è un’acqua strana, del tutto incompatibile con quella che riempie i nostri oceani e che esce dai nostri rubinetti. È un’acqua troppo pesante.
L’acqua, c’insegnano a scuola, ha come formula chimica H2O: due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno. In realtà, a voler essere pignoli, ogni 3200 molecole siffatte se ne incontra una la cui formula è piuttosto HDO: un solo atomo d’idrogeno, uno d’ossigeno e uno di deuterio, l’isotopo dell’idrogeno con un neutrone nel nucleo. Questo perché, nei nostri oceani, l’abbondanza isotopica del deuterio, rispetto all’idrogeno, è di un atomo ogni 6400. Questo rapporto è una sorta di firma inalterabile, l’impronta genetica (o meglio, isotopica) dell’acqua terrestre: dolce o salata, liscia o frizzante, qui sul nostro pianeta è sempre uguale.
Eau de comète
Ma altrove nel Sistema solare le cose stanno diversamente. È il caso, appunto, della cometa 67P, dove gli atomi di deuterio presenti nelle molecole d’acqua sono circa tre volte più abbondanti. Ad accorgersene è stato lo strumento ROSINA a bordo della sonda dell’ESA Rosetta, in orbita attorno a 67P. Grazie ai suoi due spettrometri di massa, un team di ricercatori guidato dalla principal investigator dello strumento – Kathrin Altwegg, dell’Università di Berna – è riuscito ad analizzare l’abbondanza isotopica d’un campione del vapore acqueo emesso dalla cometa. I risultati, pubblicati oggi online su Science, parlano chiaro: lassù il rapporto fra deuterio e idrogeno è pari a circa 0.00053: grosso modo, un atomo di deuterio ogni duemila atomi d’idrogeno.
Non che questa differenza la renda meno potabile. L’acqua pesante ha un effetto citotossico, è vero, e può portare alla sterilità o addirittura alla morte. Ma solo in quantità molto elevate, tali da alzare la concentrazione di molecole con deuterio presenti nell’organismo fino al 25 percento e oltre, dunque ben al di là di quanto riscontrato sulla cometa.
Molto più interessanti, invece, le implicazioni per quanto riguarda l’origine dell’acqua terrestre. Già le prime analisi dell’abbondanza isotopica del deuterio sulla cometa di Halley, eseguite negli anni Ottanta dalla sonda europea Giotto, avevano evidenziato valori incompatibili con quelli terrestri. Suggerendo dunque che non fossero state le comete – perlomeno, non quelle provenienti dalla remota Nube di Oort, come appunto la cometa di Halley – a rifornire d’acqua il nostro pianeta. Nel 2011, però, le analisi spettrali effettuate dal telescopio spaziale Herschel dell’ESA su Hartley 2, una cometa ritenuta fra quelle della Fascia di Kuiper, sembrarono aprire un nuovo spiraglio: in quel caso il rapporto fra deuterio e idrogeno era assai più compatibile con quello riscontrato sulla Terra.
Cherchez l’astéroïde
Forse, dunque, le portatrici d’acqua potevano essere sì comete ma d’origine più prossima alla Terra, com’è appunto la Fascia di Kuiper (situata al di là dell’orbita di Nettuno) rispetto alla Nube di Oort, migliaia di volte più lontana? L’ipotesi aveva un senso, visto che proprio le temperature estremamente basse tendono a favorire la formazione di ghiaccio con una maggiore concentrazione di acqua pesante.
Ma la scoperta odierna ottenuta grazie a Rosetta analizzando il vapore acqueo di 67P, anch’essa appartenente alla famiglia delle comete gioviane come Hartley 2, torna a far pendere l’ago della bilancia a favore di un’altra origine per la sorgente d’acqua del nostro pianeta: gli asteroidi. «I nostri risultati», dice infatti Altwegg , «sembrano favorire quei modelli che contemplano gli asteroidi come mezzo di trasporto principale per gli oceani della Terra».
Per saperne di più:
Leggi su Science l’articolo “67P/Churyumov-Gerasimenko, a Jupiter family comet with a high D/H ratio”, di K. Altwegg, H. Balsiger, A. Bar-Nun, J. J. Berthelier, A. Bieler, P. Bochsler, C. Briois, U. Calmonte, M. Combi, J. De Keyser, P. Eberhardt, B. Fiethe, S. Fuselier, S. Gasc, T. I. Gombosi, K.C. Hansen, M. Hässig, A. Jäckel, E. Kopp, A. Korth, L. LeRoy, U. Mall, B. Marty, O. Mousis, E. Neefs, T. Owen, H. Rème, M. Rubin, T. Sémon, C.-Y. Tzou, H. Waite e P. Wurz
Dopo quella del 15 novembre scorso, larga 7°, un’altra discreta congiunzione tra Luna e Giove (questa volta un po’ più stretta) avrà luogo la sera dell’11 dicembre. I due oggetti sorgeranno dall’orizzonte est separati di circa 5°, mostrandosi proprio davanti alla testa del Leone e a Regolo. Peccato per la fase ancora un po’ abbondante del nostro satellite, decisamente invasiva con il suo chiarore.
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