Immagine di scoperta della AT2021skl in PGC6044 realizzata da Stuart Parker.
Nel mese di giugno Itagaki aveva ottenuto la sua quinta scoperta del 2021 raggiungendo Parker a quota 164 sul terzo gradino del podio della Top Ten mondiale amatoriale. Il neozelandese però risponde prontamente ottenendo la sua terza scoperta del 2021 e riprendendosi in solitario la terza posizione della Top Ten a quota 165 scoperte.
Immagine di scoperta della AT2021skl in PGC6044 realizzata da Stuart Parker.
Nella notte del 3 luglio, Stuart Parker individua infatti una stella nuova di mag. +16,7 nella galassia a spirale barrata ESO 297-G16 (PGC6044) posta nella costellazione meridionale della Fenice al confine con quella dello Scultore, a circa 270 milioni di anni luce di distanza. Nei giorni seguenti la scoperta, la luminosità del nuovo transiente era diminuita oltre la mag. +17, a dimostrazione che era stato individuato dopo il massimo di luminosità. Purtroppo nessun Osservatorio professionale ha ottenuto uno spettro di conferma, pertanto al nuovo oggetto è stata per adesso assegnata la sigla provvisoria AT2021skl.
Immagine del telescopio Newton da 200mm F.5 di Claudio Balcon dentro la cupola del suo osservatorio privato con lo spettrografo auto-costruito e la camera CCD.
Sul lato italiano evidenziamo lo stupendo lavoro di spettroscopia portato avanti dal bellunese Claudio Balcon, che continua imperterrito a classificare per primo nel Transient Name Server (TNS) numerose supernovae.
Sono 13 le classificazioni nel 2021 per un totale di ben 32 supernovae, che gli permettono di consolidare il primato dell’astrofilo con più classificazioni al mondo. Non contento di tutto ciò, Claudio è riuscito a migliorare il record (da lui stesso detenuto) della supernova più lontana classificata da un astrofilo.
Nella notte del 3 luglio, con la classificazione della SN2021sfh, posta in una galassia anonima nella costellazione dell’Orsa Minore, ha infatti spostato l’asticella a 720 milioni di anni luce, demolendo il suo precedente record ottenuto il 7 maggio con la SN2021ljv a 630 milioni di anni luce di distanza. La SN2021sfh aveva raggiunto il massimo di luminosità a mag.+17,7 mentre Claudio ha ripreso lo spettro circa una settimana prima massimo quando era di mag. +18,0.
Immagine della SN2021sfh con la galassia anonima quasi invisibile, il relativo spettro e il confronto dello spettro con il programma GELATO realizzate da Claudio Balcon con un telescopio Newton da 200mm F.5
Questa classificazione ha davvero dell’incredibile se si pensa che è stata ottenuta con un semplice telescopio Newton da 200mm F.5 e uno spettrografo auto-costruito. Un caso più unico che raro, reso possibile da tutta una serie di fattori positivi: il tipo di supernova (tipo Ia le più luminose), le condizioni meteo favorevoli, la mancanza della Luna e il target alto sull’orizzonte. Tutto questo ha permesso a Claudio di ottenere lo spettro da record con solo due pose da 30 minuti.
Analizziamo adesso una luminosissima supernova, ad oggi la supernova più luminosa del 2021.
È stata individuata nella notte del 1° luglio dal programma professionale americano di ricerca supernova denominato Zwicky Transient Facility (ZTF), nella galassia a spirale NGC7814 posta nella costellazione di Pegaso a circa 47 milioni di anni luce di distanza. Questa galassia è vista di taglio e assomiglia alla famosa galassia Sombrero M104, tanto da essere indicata a volte come “la piccola sombrero”.
Immagine della SN2021rhu in NGC7814 ripresa da Paolo Campaner con un riflettore da 400mm F.5,5 somma di 15 immagini da 15 secondi.
Il nuovo oggetto è apparso subito molto luminoso a mag. +15,7 ma situato molto vicino al nucleo, che in questa galassia è diviso in due da una scura striscia di polveri. Per la precisione la supernova è posta nella parte nordest del nucleo. Appena 13 ore dopo la scoperta, con il telescopio da 2,5 metri del Caucasus Mountain Observatory in Russia, è stato ottenuto lo spettro di conferma. La SN2021rhu, questa la sigla definitiva assegnata, è una supernova di tipo Ia scoperta circa due settimane prima del massimo di luminosità, con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiano a una velocità di circa 16.000 km/s. Il massimo di luminosità è stato infatti raggiunto intorno al 16 luglio con la supernova che ha raggiunto la notevole mag.+12,1.
Chiudiamo la rubrica con una curiosità.
Nella notte del 11 luglio, il team dell’Osservatorio di Montarrenti (SI) individua un nuovo oggetto di mag. +16,3 nei pressi della galassia a spirale barrata IC1339 posta nella costellazione del Capricorno. L’oggetto era ben visibile in due distinte immagini e pertanto viene inserito nel TNS il report di scoperta, naturalmente dopo aver controllato che non erano presenti supernovae già scoperte in questa galassia, né pianetini in transito e nemmeno stelle variabili conosciute.
Immagine del satellite di Saturno Phoebe in transito vicino alla galassia IC1339 ripresa dal team dell’Osservatorio di Montarrenti con un telescopio Ritchey-Chretién da 530mm F.8,7
La notte seguente la galassia viene ripresa nuovamente, ma con grande disappunto il nuovo oggetto non era presente. Vengono intensificati i controlli e arriva così l’inattesa sorpresa. Il pianeta Saturno si trovava a soli 20’ dalla galassia e l’oggetto in questione non era altro che il suo satellite Phoebe, transitato vicino alla galassia nel momento della ripresa.
Spesso i numerosi pianetini transitano sopra o vicino alle galassie riprese nel programma di ricerca supernova, ma sinceramente crediamo che questa sia la prima volta che a trarre in inganno sia stato un satellite di un pianeta del nostro sistema solare. Un evento molto raro e sicuramente degno di nota.
Rappresentazione artistica di Solar Orbiter in avvicinamento verso Venere per il secondo flyby. Crediti: Esa/Atg medialab
Mancano pochi giorni al secondo incontro tra Solar Orbiter e Venere. Dopo aver rilasciato le prime immagini ravvicinate del Sole e in seguito al primo rendez-vous attorno al pianeta avvenuto a dicembre dello scorso anno, la sonda – frutto di una partnership tra Agenzia spaziale europea (Esa) e Nasa – sorvolerà nuovamente Venere il prossimo 9 agosto per poi proseguire il viaggio di avvicinamento al Sole.
Rappresentazione artistica di Solar Orbiter in avvicinamento verso Venere per il secondo flyby. Crediti: Esa/Atg medialab
Lanciata il 10 febbraio 2020, Solar Orbiter viaggia con una suite di dieci strumenti di cui tre realizzati con il contributo italiano: Metis, lo strumento coronografico ottimizzato per l’osservazione della regione più esterna dell’atmosfera solare, la corona solare, è finanziato e gestito dall’Agenzia spaziale italiana e ideato e realizzato e operato da un team scientifico composto dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dalle università di Firenze e di Padova e dal Cnr-Ifn, con la collaborazione del consorzio industriale italiano, formato da Ohb Italia, Thales Alenia Space e Altec, dell’istituto Mps di Gottinga (Germania) e dell’Accademia delle Scienze di Praga.
Solar Orbiter volerà vicino al pianeta fino a raggiungere una distanza di 7995 chilometri. I flyby rappresentano tappe cruciali che permettono alla sonda di aggiustare la sua orbita per ottenere una migliore visione dei poli solari nel suo prossimo incontro con la nostra stella. Durante la fase di crociera Metis ha effettuato osservazioni ad alta risoluzione della corona solare nella banda spettrale del visibile e dell’ultravioletto (Uv). È la prima volta che uno strumento di questo tipo acquisisce simultaneamente immagini della corona solare estesa in queste due bande, consentendo di effettuare una mappatura della velocità della materia coronale, utile agli scienziati per studiare i meccanismi di accelerazione del vento solare.
Lo speciale dedicato alla sonda e alla nuova fisica solare, pubblicato in occasione del lancio della Solar Orbiter. Clicca e leggi!
Le immagini di Metis costituiscono anche un naturale rivelatore di particelle energetiche di origine galattica e solare. Per la prima volta un coronografo è stato anche utilizzato come monitor dell’attività solare attraverso la misura delle variazioni a lungo termine del flusso di protoni nei raggi cosmici. Questi importanti risultati sono ora pubblicati su un numero speciale della rivista Astronomy & Astrophysics dedicata a Solar Orbiter.
Co-autore delle pubblicazioni anche Marco Stangalini, Asi project scientist dello strumento Metis. «I primissimi risultati ottenuti da Metis dimostrano le grandi capacità diagnostiche dello strumento che, ottenendo una mappatura ad alta risoluzione della velocità di espansione del gas coronale su un campo di vista così ampio, apre nuove opportunità per lo studio dei meccanismi fisici attraverso i quali il Sole governa l’eliosfera. Tali risultati sono stati conseguiti grazie all’intenso lavoro svolto dal team scientifico nella messa a punto dello strumento durante la fase di commissioning. Lavoro che è stato reso ancora più difficile dalla situazione pandemica degli ultimi mesi».
«Il primo dei due articoli scientifici ottenuti con i dati del coronografo Metis a bordo della missione Solar Orbiter, “First light observations of the solar wind in the outer corona with the Metis coronagraph”», dice Marco Romoli, il principal investigator di Metis e prima firma dello studio, «analizza le immagini della corona solare estesa ottenute per la prima volta simultaneamente nella luce visibile polarizzata e nell’ultravioletto dal coronografo Metis il 15 maggio 2020. Grazie a queste osservazioni è stato possibile identificare le regioni della corona solare dove ha origine il vento solare cosiddetto “lento”, cioè con velocità misurate in prossimità della Terra comprese tra i ~300-400 km/s. Il secondo articolo, “Cosmic-ray flux predictions and observations for and with Metis on board Solar Orbiter”, presenta uno studio delle tracce dei raggi cosmici di origine galattica rivelate nelle prime immagini in luce visibile (580-640 nm) ottenute da Metis durante la fase di commissioning della missione Solar Orbiter».
«Alla fine di quest’anno Solar Orbiter completerà la sua fase di crociera e di messa a punto (commissioning) degli strumenti a bordo. All’inizio del 2022, la missione entrerà nella fase nominale vera e propria di osservazioni scientifiche. «È veramente straordinario che, ancora durante la fase di commissioning, Metis abbia già ottenuto dei risultati scientifici originali», osserva Silvano Fineschi, responsabile scientifico Inaf per Solar Orbiter e co-autore degli articoli di Metis. «Lo strumento Metis è il primo telescopio nel suo genere, e ancor prima di essere completamente messo a punto, sta già dimostrando le sue capacità di ottenere nuove informazioni sulla velocità del vento solare».
L’Italia inoltre ha contribuito alla sonda con la fornitura del software di Stix (Spectrometer/Telescope for Imaging X-rays), rilevatore di raggi X, e della Dpu (Data Processing Unit) di Swa (Solar Wind Analyser), che durante la fase di crociera ha fornito misure utili alla caratterizzazione del vento solare intorno alla sonda. I suoi risultati sono anch’essi pubblicati su riviste internazionali. I dati acquisiti finora dalla missione consentiranno agli scienziati di ottenere informazioni sul comportamento del Sole anche in relazione ai cambiamenti climatici che stanno avvenendo sul nostro pianeta.
A fine 2021, dopo un sorvolo ravvicinato a soli 460 km dal nostro pianeta, previsto il 27 novembre, la sonda avvierà la fase scientifica avvicinandosi gradualmente al Sole e arrivando più vicino del pianeta Mercurio a inizio 2022. Con il procedere della fase scientifica, il team della missione continuerà a effettuare flyby di Venere per inclinare gradualmente la sua orbita per ottenere per la prima volta immagini dei poli solari, il cui studio aiuterà gli scienziati a comprendere meglio il comportamento del campo magnetico solare su grande scala e i cicli di attività del Sole.
Ci sarà grande traffico intorno a Venere a inizio agosto. Dopo solo 33 ore dal passaggio ravvicinato di Solar Orbiter, per il pianeta è previsto anche “l’avvicinamento”, il 10 agosto, della sonda Bepi Colombo, frutto della collaborazione tra l’Agenzia spaziale europea e l’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa) realizzata anche con il forte contributo dell’Italia. Il doppio flyby offrirà un’opportunità senza precedenti per studiare l’ambiente del pianeta Venere.
Nell'immagine la felicità di Wally Funk dopo l'atterraggio e l'abbraccio di Jeff Bezos ai familiari. Crediti: Blue Origin
Nell'immagine la felicità di Wally Funk dopo l'atterraggio e l'abbraccio di Jeff Bezos ai familiari. Crediti: Blue Origin
Oggi Blue Origin ha completato con successo il primo volo abitato del veicolo spaziale New Shepard con quattro privati cittadini a bordo.
Nella foto i quattro passeggeri di New Shepard nelle tute di volo: da sinistra Mark Bezos, Jeff Bezos, Oliver Daemen e Wally Funk. Crediti: Blue Origin
L’equipaggio comprendeva Jeff Bezos, Mark Bezos, Wally Funk e Oliver Daemen, che sono diventati tutti ufficialmente astronauti quando hanno superato la linea di Kármán, il confine dello spazio riconosciuto a livello internazionale posto a 100 km di quota. All’atterraggio, gli astronauti sono stati accolti dalle loro famiglie e dal team operativo di terra di Blue Origin per una celebrazione nel deserto del Texas occidentale.
Il New Shepard è decollato dal sito di lancio uno di Blue Origin, nel Texas occidentale, alle 9:12 a.m. EDT (le 15:12 italiane) per la missione NS-16. L’unico motore a razzo, il BE-3, alimentato a ossigeno e idrogeno liquidi, ha spinto il razzo verso il cielo terso del Texas. La capsula dell’equipaggio, chiamata RSS First Step, si è separata dal suo booster (numero di matricola 4, al suo terzo volo) dopo lo spegnimento del motore e ha raggiunto un’altitudine massima di 107 chilometri prima di scendere sotto i paracadute per un atterraggio 10 minuti e 10 secondi dopo il decollo. A bordo della capsula, dallo spegnimento del motore del razzo, i quattro passeggeri hanno potuto sperimentare l’assenza di peso per circa tre minuti, prima che la forza di gravità richiamasse il veicolo verso Terra. Il booster ha effettuato un atterraggio propulso quasi sette minuti e mezzo dopo il decollo, sull’apposita piazzola circolare posta a circa un km dalla rampa di lancio.
Nella foto i quattro passeggeri di New Shepard si divertono durante l'esperienza a Zero-G nel corso del volo. Crediti: Blue Origin
Questo volo suborbitale ha fissato diversi record:
Coronare un sogno rubato a 60 anni di distanza. Nell'immagine la pilota Wally Funk negli anni '50. Il viaggio di Wally verso lo spazio era iniziato negli anni '60, quando era la più giovane laureata del programma Woman in Space, un progetto finanziato da privati per testare se le donne pilota possedessero i requisiti fisici per fare gli astronauti. Più tardi sarà noto come "Mercury 13". Continua la lettura su aliveuniverse.today cliccando sull'immagine!
Wally Funk, 82 anni, è diventata la persona più anziana a volare nello spazio superando John Glenn che ne aveva 77 quando volo nello spazio per la seconda volta a bordo dello Shuttle STS-65 nel 1998.
Oliver Daemen, 18 anni, è stato il primo astronauta commerciale ad acquistare un biglietto e volare nello spazio su un veicolo spaziale finanziato da privati e autorizzato da un sito di lancio privato. Oliver diventa anche la persona più giovane ad aver volato nello spazio battendo il russo Gherman Titov, che nel 1961 raggiunse lo Spazio un mese prima di compiere 26 anni.
Il New Shepard è diventato il primo veicolo commerciale con una licenza di veicolo di lancio riutilizzabile suborbitale per far volare i clienti paganti, sia carichi utili che astronauti, nello spazio e ritorno.
Nell'immagine il booster atterrato sulle zue zampe e la capsula con i paracadute. Crediti: Blue Origin
Jeff e Mark Bezos sono diventati i primi fratelli a volare insieme nello spazio.
Nell'immagine il New Shepard nelle prime fasi del lancio. Crediti: Blue Origin
«Oggi è stata una giornata monumentale per Blue Origin e il volo spaziale umano», ha affermato Bob Smith, CEO, Blue Origin. «Sono così incredibilmente orgoglioso del Team Blue, della loro professionalità e competenza nell’eseguire il volo di oggi. Questo è stato un grande passo avanti per noi ed è solo l’inizio».
Blue Origin prevede di effettuare altri due voli con equipaggio quest’anno, con molti più voli con equipaggio previsti per il 2022. La capsula del New Shepard può ospitare fino a sei passeggeri ma, per questo volo inaugurale, ne sono volati solo quattro. Il razzo ha raggiunto una velocità di 3 volte quella del suono. Il volo del New Shepard precedente, senza persone a bordo come tutti i precedenti, era avvenuto lo scorso 14 aprile, il NS-15.
La scorsa settimana, la Virgin Galactic aveva eseguito un volo suborbitale con il proprio spazioplano SpaceShipTwo con un equipaggio di due piloti e quattro passeggeri, dipendenti della compagnia fra i quali il fondatore Richard Branson. In quell’occasione la quota toccata era stata inferiore, ma sufficiente, per i regolamenti USA a dichiarare i passeggeri ‘astronauti’.
Dall'alto, e da sinistra, cinque spettacolari immagini di galassie del nostro "vicinato": NGC 1300, NGC 1087, NGC 3627, NGC 4254 e NGC 4303. Ogni immagine è stata ottenuta combinando riprese a diverse lunghezze d'onda, i bagliori dorati corrispondono per lo più a nubi di idrogeno ionizzato, ossigeno e zolfo, segnalando la presenza di giovani stelle appena nate, mentre le regioni più azzurre rivelano la distribuzione delle stelle un po' meno giovani. Crediti: ESO/PHANGS
Dall'alto, e da sinistra, cinque spettacolari immagini di galassie del nostro "vicinato": NGC 1300, NGC 1087, NGC 3627, NGC 4254 e NGC 4303. Ogni immagine è stata ottenuta combinando riprese a diverse lunghezze d'onda, i bagliori dorati corrispondono per lo più a nubi di idrogeno ionizzato, ossigeno e zolfo, segnalando la presenza di giovani stelle appena nate, mentre le regioni più azzurre rivelano la distribuzione delle stelle un po' meno giovani. Crediti: ESO/PHANGS
Gli astronomi sanno che le stelle nascono all’interno di nubi di gas, ma cosa dia il via alla formazione stellare, e quale ruolo giochino le galassie nel loro insieme, rimane un mistero. Per comprendere questo processo, un’equipe di ricercatori ha osservato varie galassie vicine con potenti telescopi da terra e nello spazio, scansionando le diverse regioni galattiche coinvolte nella nascita delle stelle.
«Per la prima volta riusciamo a risolvere le singole unità di formazione stellare su un ampio intervallo di posizioni e ambienti con un campione di galassie che ne rappresenta bene la varietà», afferma Eric Emsellem, astronomo dell’ESO in Germania e a capo delle osservazione effettuate con il VLT, condotte nell’ambito del progetto Physics at High Angular resolution in Nearby GalaxieS (PHANGS). «Possiamo osservare direttamente il gas che dà vita alle stelle, vediamo le stesse giovani stelle e assistiamo alla loro evoluzione attraverso varie fasi».
Emsellem, che è anche affiliato con l’Università di Lione, in Francia, e il suo gruppo hanno ora pubblicato l’ultima serie di scansioni galattiche, scattate con lo strumento Multi-Unit Spectroscopic Explorer (MUSE) installato sul VLT dell’ESO, nel deserto di Atacama in Cile. Hanno usato MUSE per tracciare le stelle neonate e il gas caldo intorno a loro, illuminato e riscaldato dalle stelle stelle, che funge da cartina al tornasole della formazione stellare in corso.
Le nuove immagini di MUSE vengono ora combinate con le osservazioni delle stesse galassie prese con ALMA e pubblicate all’inizio di quest’anno. ALMA, che pure si trova in Cile, è particolarmente adatto per mappare le nubi di gas freddo, cioè le zone della galassia che forniscono la materia prima da cui si formano le stelle.
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In alto due versioni di NGC 1330, a sinistra ripresa solo dallo strumento MUSE del VLT dell’ESO, a destra combinata con le osservazioni di ALMA (di cui ESO è partner). Le osservazioni di ALMA sono rappresentate in toni arancio beige, ed evidenziano le nubi di freddo gas molecolare che fornisce materiale grezzo per la formazione stellare. I dati di MUSE sono per lo più in oro e blu, come indicato nell’immagine di apertura.
Combinando le immagini di MUSE e ALMA gli astronomi possono esaminare le regioni galattiche in cui sta avvenendo la formazione stellare, e confrontarle con quelle in cui si prevede che ciò avvenga, in modo da capire meglio cosa innesca, potenzia o frena la nascita di nuove stelle. Le immagini risultanti sono sbalorditive e offrono una visione vivace e spettacolare delle incubatrici stellari nelle galassie vicine a noi. «Sono molti i misteri che vorremmo svelare», afferma Kathryn Kreckel dell’Università di Heidelberg in Germania e membro del gruppo PHANGS. «Le stelle nascono più spesso in regioni specifiche delle loro galassie ospiti – e, se sì, perché? E dopo la nascita delle stelle in che modo la loro evoluzione influenza la formazione di nuove generazioni di stelle?».
NGC 4303 vista da MUSE integrando anche i dati di ALMA, che contribuisce con la rilevazione delle nubi di gas più fredde (in colori arancio/marrone). Crediti: ESO/ALMA (ESO/NAOJ/NRAO)/PHANGSGli astronomi saranno ora in grado di rispondere a queste domande grazie alla ricchezza dei dati ottenuti con MUSE e ALMA dall’equipe di PHANGS. MUSE raccoglie gli spettri – i “codici a barre” che gli astronomi scansionano per svelare le proprietà e la natura degli oggetti cosmici – in ogni singola posizione all’interno del suo campo di vista, fornendo così informazioni molto più ricche rispetto agli strumenti tradizionali. Per il progetto PHANGS, MUSE ha osservato 30.000 nebulose di gas caldo e ha raccolto circa 15 milioni di spettri di diverse regioni galattiche. Le osservazioni di ALMA, d’altra parte, hanno permesso agli astronomi di mappare circa 100.000 regioni di gas freddo in 90 galassie vicine, producendo un atlante di incubatrici stellari nell’Universo vicino con una risoluzione senza precedenti.
Oltre ad ALMA e MUSE, il progetto PHANGS include anche osservazioni del telescopio spaziale Hubble della NASA/ESA. I vari Osservatori sono stati selezionati per consentire all’equipe di scansionare i nostri vicini galattici a diverse lunghezze d’onda (visibile, vicino infrarosso e radio), di modo che ciascuna banda di lunghezze d’onda riveli parti distinte delle galassie osservate. «La loro combinazione ci consente di sondare le varie fasi della nascita stellare – dalla formazione delle incubatrici stellari all’inizio della formazione stellare stessa e alla distruzione finale dei vivai da parte delle stelle appena nate – in modo più dettagliato di quanto sia possibile con osservazioni individuali», aggiunge Francesco Belfiore, dell’INAF-Arcetri di Firenze, Italia, e membro dell’equipe PHANGS. «PHANGS rappresenta la prima volta in cui siamo stati in grado di mettere insieme una veduta così completa, scattando immagini sufficientemente nitide da vedere le singole nubi di gas, stelle e nebulose che contribuiscono alla formazione stellare».
Il lavoro svolto dal progetto PHANGS sarà ulteriormente affinato dai prossimi telescopi e strumenti, come il James Webb Space Telescope della NASA. I dati ottenuti in questo modo getteranno ulteriori basi per le osservazioni con il futuro Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO, che entrerà in funzione verso la fine di questo decennio e consentirà uno sguardo ancora più dettagliato sulle strutture dei vivai stellari.
«Per quanto sorprendente sia PHANGS, la risoluzione delle mappe che produciamo è appena sufficiente per identificare e separare le singole nubi di formazione stellare, ma non abbastanza per vedere in dettaglio cosa sta succedendo al loro interno», ha sottolineato Eva Schinnerer, a capo di un gruppo di ricerca presso il Max Planck Institute for Astronomy in Germania e investigatore principale del progetto PHANGS, nell’ambito del quale sono state condotte le nuove osservazioni. «Nuovi sforzi osservativi da parte del nostro e di altri gruppi stanno spingendo il confine in questa direzione: abbiamo decenni di scoperte entusiasmanti davanti a noi».
Magnifico panorama di un tramonto sopra i telescopi ESO, parte del Very Large Telescope (VLT) presso Cerro Paranal, che segnano l'inizio della frenetica attivita' degli astronomi che osservono il cielo notturno. Crediti: ESO/Y. Beletsky
Rappresentazione artistica del sistema Hd265435 come apparirà fra circa 30 milioni di anni, con la nana bianca più piccola che distorce la nana bianca calda in una distinta forma a “goccia”. Crediti: University of Warwick/Mark Garlick
Rappresentazione artistica del sistema Hd265435 come apparirà fra circa 30 milioni di anni, con la nana bianca più piccola che distorce la nana bianca calda in una distinta forma a “goccia”. Crediti: University of Warwick/Mark Garlick
Quando si dice “la goccia che fa traboccare il vaso”. È proprio così che possiamo immaginare il processo mediante cui una nana bianca attira massa da una stella compagna e, superato un limite preciso – la massa di Chandrasekar, pari a 1.4 volte la massa del Sole – esplode come supernova. Ed è proprio grazie alle sembianze di una goccia assunte dalla malcapitata compagna di una nana bianca a 1500 anni luce dalla Terra che gli astronomi hanno capito di essere testimoni di un simile spettacolo. I risultati sono pubblicati su Nature Astronomy.
Volendo essere un po’ più precisi, la tragica forma della stella osservata nel sistema Hd 265435 è tipica della distorsione gravitazionale causata dalla massiccia nana bianca vicina. In gergo, gli astronomi dicono che un sistema simile è il progenitore di una supernova di tipo Ia, una classe di oggetti stellari che, come vedremo, è importante anche in cosmologia. In particolare, il sistema osservato è uno dei pochissimi finora scoperti, e in assoluto il più vicino a noi. Quanto impiegherà la goccia a far traboccare il vaso? Non meno di 70 milioni di anni, secondo i ricercatori, e l’esplosione sarà preannunciata dalla produzione di onde gravitazionali nelle ultime fasi della fusione.
Ci sono due possibili canali attraverso cui un sistema di due stelle, la più massiccia delle quali è una nana bianca, raggiunge la massa critica. Il primo, chiamato “degenerazione doppia”, prevede che la compagna della nana bianca sia un’altra stella compatta, e il meccanismo di detonazione è innescato dalla fusione dei due oggetti. Nel caso di “degenerazione singola” invece, la nana bianca accresce massa da una stella compagna fino al limite di innesco dell’esplosione termonucleare, che investe poi entrambe le stelle. Gli astronomi continuano a cercare questi sistemi per comprendere meglio come, dai progenitori si arrivi all’esplosione della supernova e alla sua caratteristica curva di luce.
Hd 265435 è un sistema formato da una stella subnana calda e una nana bianca che orbitano l’una intorno all’altra ogni 100 minuti circa. La massa totale del sistema calcolata dai ricercatori è 1.65 volte la massa del Sole, superiore al limite di stabilità di Chandrasekar. Significa che, non appena la nana bianca avrà inghiottito sufficiente massa dalla compagna, non potrà fuggire al suo destino esplosivo.
«Non sappiamo esattamente come queste supernove esplodano, ma sappiamo che deve accadere perché lo vediamo accadere altrove nell’universo», spiega Ingrid Pelisoli, ricercatrice del Dipartimento di Fisica dell’Università di Warwick e prima autrice dello studio. «Può accadere perché la nana bianca accresce abbastanza massa dalla subnana calda, e quindi mentre le due orbitano l’una intorno all’altra e si avvicinano, la materia comincia a sfuggire alla stella più piccola e cade sulla nana bianca. Oppure, poiché il sistema perde energia sotto forma di onde gravitazionali, le due finiranno per fondersi. E non appena la nana bianca guadagnerà abbastanza massa – dal primo o dal secondo metodo – esploderà in supernova».
Il team ha osservato la subnana calda utilizzando il Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess) della Nasa, mentre la nana bianca non risulta visibile perché molto meno luminosa. Tuttavia, a causa della distorsione gravitazionale generata da quest’ultima, la luminosità della subnana varia nel tempo. Combinando i dati di Tess con le misure di velocità radiale e orbitale ottenute dall’Osservatorio di Monte Palomar e dall’Osservatorio W.M. Keck, gli astronomi hanno potuto calcolare che la nana bianca nascosta è pesante circa quanto il Sole, ma appena più piccola del raggio della Terra, mentre la subnana pesa poco più di 0.6 volte la massa del Sole. Dato che le due stelle sono già abbastanza vicine da iniziare a spiraleggiare insieme, la nana bianca diventerà inevitabilmente una supernova tra circa 70 milioni di anni. I modelli teorici prodotti appositamente per questo studio, inoltre, prevedono che la subnana calda si contrarrà fino a diventare anch’essa una nana bianca prima di fondersi con la sua compagna.
L’importanza delle supernove e dei loro progenitori non si ferma alla comprensione dell’evoluzione stellare. Le supernove di tipo Ia sono importanti anche in cosmologia come “candele standard”: la loro luminosità è costante in una specifica posizione della curva di luce, ed è quindi possibile confrontare questa luminosità “intrinseca” con quella che osserviamo sulla Terra, affievolita dalla distanza, e risalire così in modo preciso alla loro distanza. Osservando le supernove in galassie lontane, poi, e combinando la loro distanza con la velocità con cui si allontana la galassia per effetto dell’espansione dell’universo, i cosmologi riescono anche a calcolare come vari il tasso di espansione stesso al variare delle epoche cosmiche.
«Più capiamo come funzionano le supernove, meglio possiamo calibrare le nostre candele standard», continua Pelisoli. «Questo è molto importante al momento perché c’è una discrepanza tra ciò che otteniamo da questo tipo di candele standard e ciò che otteniamo attraverso altri metodi. Più cose capiamo su come si formano le supernove, meglio possiamo capire se questa discrepanza che stiamo vedendo è dovuta a una nuova fisica di cui non siamo consapevoli e di cui non teniamo conto, o più semplicemente stiamo sottovalutando le incertezze nelle misure di distanza».
C’è un’altra discrepanza, infine, tra il tasso di supernove galattiche stimato e osservato, e il numero di progenitori che vediamo. La stima teorica del numero di supernove che dovrebbe esplodere nella Via Lattea proviene dall’osservazione di molte galassie, o dai modelli di evoluzione stellare, e il confronto fra i due numeri è coerente. Osservativamente però, gli oggetti che possono diventare supernove non sono sufficienti.
«Questa scoperta è stata molto utile per fare una stima di come possano contribuire binarie formate da una subnana calda e da una nana bianca», conclude Pelisoli. «Però non sembra ancora un contributo significativo, nessuno dei canali che abbiamo osservato sembra essere sufficiente».
In Luna crescente, per quanto riguarda il mese di luglio, vengono indicate le serate del 14 e del 15 con la Luna in fase di 4,8 e 5,8 giorni rispettivamente, visibile dalle ore 22:00 circa fino al suo tramonto previsto intorno alla mezzanotte. Per il mese di agosto invece le serate del 13 e del 14 con la Luna in fase di 5,2 e 6,2 giorni rispettivamente, visibile dalle ore 21:00 circa fino alle 23/23:30 quando scenderà sotto l’orizzonte.
Come utile e interessante alternativa, si consiglia inoltre di effettuare osservazioni della medesima regione lunare anche in Luna calante, precisamente nelle tarde serate del 27 e 28 luglio (sorge 23/23:30) e del 25 e 26 agosto (sorge 21:52/22:12 rispettivamente).
Come sempre i suggerimenti che seguono valgono ogni volta che la Luna si trova in condizioni simili di illuminazione.
Per individuare il mare Tranquillitatis basterà orientare il telescopio sulla scura e vasta area basaltica situata fa i mari Serenitatis a nordovest, Fecounditatis a sudest e Crisium a est.
Panoramica dell'area del mare Tranquillitatis presa in considerazione questo mese
Rima,rupes e domi del cratere Cauchy
Dopo le strutture visitate nei precedenti numeri, puntiamo ora il telescopio sull’angolo sudest di questo grande bacino lunare da impatto focalizzando l’attenzione su Cauchy, un interessante e brillante cratere di 14 km di diametro proveniente dal Periodo Geologico Copernicano collocato a non oltre 1 miliardo di anni fa.
Il nome a questo cratere venne assegnato da Neison nel 1876 e dedicato al matematico francese Augustin Louis Cauchy (1789-1857).
La cerchia delle sue pareti, alta 2600 mt, presenta un discreto stato di conservazione mentre nella platea non vi si individuano dettagli degni di nota.
Nell’area esterna, per quanto riguarda i crateri, segnalo Cauchy-D e Cauchy-W a est di 9 e 4 km di diametro rispettivamente, Cauchy-V e Cauchy-U di 5 km di diametro a sudest, Cauchy-E e Cauchy-C entrambi di 4 km a sud, Cauchy-M di 5 km a sudovest e Cauchy-F e Cauchy-B di 4 e 6 km a ovest. Ma la vera peculiarità di questa regione lunare consiste in alcune caratteristiche geologiche che ne rendono interessantissime le osservazioni al telescopio, partendo dal fatto che il cratere Cauchy è situato proprio fra due eccezionali strutture: Rima Cauchy a est e Rupes Cauchy a ovest.
Iniziando da Rima Cauchy, giunta ai nostri giorni dal Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa, si tratta di un largo solco che con andamento moderatamente sinuoso si estende per circa 220 km in direzione sudest-nordovest da Cauchy-V (5 km) fino in prossimità del cratere Maraldi-W (4 km) transitando poco a est del cratere Cauchy.
All’osservazione telescopica mediante piccoli strumenti, intorno a 80/100mm di diametro, a circa 150 ingrandimenti non sarà difficile individuarne la tipica morfologia di una fratturazione della superficie lunare, nota come “graben“, formatasi in seguito allo sprofondamento di una sorta di trincea in cui, in epoche remote, scorrevano grandi flussi di materiale lavico.
Per quanto riguarda Rupes Cauchy, anche questa proveniente dal Periodo Geologico Imbriano (da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa), si tratta di una faglia che, orientata in senso sudest-nordovest e profonda alcune centinaia di metri, con andamento prevalentemente rettilineo, si estende per circa 130 km dai rilievi montuosi a nord del cratere Zahringer (12 km) fino in prossimità della coppia di crateri Sinas-J e Sinas-H di 6 km di diametro.
In questo caso, l’osservazione al telescopio ne rivelerà una differente morfologia rispetto alla già vista Rima Cauchy, trattandosi di un notevole esempio di faglia lunare costituita in realtà da una imponente e ripida scarpata in cui si potrà individuare la presenza di alcune ramificazioni secondarie. Imperdibile occasione per osservazioni fotovisuali in alta risoluzione, meglio ancora se in prossimità del terminatore e con un seeing almeno decente.
All’origine di queste eccezionali strutture vi sarebbe il progressivo raffreddamento degli strati di magma che in epoche remote ricoprivano determinate regioni del nostro satellite.
Un'immagine ripresa dall'Apollo 8 in cui si vedono la Rupes e la Rima Cauchy. Subito sotto la Rupes, Omega e Tau Cauchy. Crediti NASAA ovest-sudovest di Rupes Cauchy segnalo altre due eccezionali testimonianze dell’antica attività vulcanica della Luna, due rilievi a cupola con la sommità arrotondata e generalmente noti come “domi“: Cauchy-Tau privo di cratere sommitale ma con vari craterini sparsi sulle sue pareti e Cauchy-Omega su cui si potrà tentare di individuare il minuscolo craterino sommitale. Entrambi hanno un diametro di 12 km e provengono dal Periodo Geologico Imbriano (da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa).
Inoltre segnalo due interessanti strutture originate da vulcanismo estrusivo, Cauchy-4 immediatamente a nord di Cauchy-Tau e Cauchy W 1 situato nell’area di Cauchy-Omega di 8 e 9 km di diametro rispettivamente, quest’ultimo con una caldera sulla sommità.
Il mare Tranquillitatis: un libro della storia geologica della Luna
Ma, come avremo modo di osservare, il mare Tranquillitatis offre interessantissimi spunti per andare alla ricerca delle innumerevoli testimonianze dell’antichissima storia geologica del nostro satellite che nei primi miliardi di anni contribuì in modo così determinante a modellare la superficie lunare così come la possiamo osservare oggi con i telescopi.
È infatti veramente notevole la presenza di innumerevoli coni vulcanici anche di piccole dimensioni situati non solo nella regione del cratere Cauchy ma anche, ad esempio, nelle vaste aree intorno ai crateri Maskelyne, Sinas, Maraldi, Vitruvius, Jansen e Arago, andando a interessare praticamente gran parte della superficie del mare Tranquillitatis.
Notare che purtroppo la maggior parte di questi rilievi ha dimensioni tali al punto da renderne difficoltosa l’individuazione con gli strumenti generalmente utilizzati dagli astrofili. Generalmente l’osservazione telescopica fotovisuale dei domi lunari viene inevitabilmente condizionata, e anche seriamente limitata, in seguito alla loro conformazione a cupola arrotondata con la base estesa per circa 10/20 km, alta non oltre alcune centinaia di metri sulla cui sommità sarà possibile individuare vari dettagli fra cui una eventuale minuscola bocca eruttiva ed altre irregolarità.
Per andare alla ricerca dei domi lunari col proprio telescopio appare indispensabile lavorare in condizioni di luce solare radente (ma non eccessiva!), cioè con le strutture che intendiamo osservare situate in prossimità della linea del terminatore tenendo sempre presente che in tali condizioni le lunghe ombre proiettate da determinati rilievi potrebbero alterarne una corretta percezione.
Per quanto riguarda Arago Alpha e Arago Beta, si tratta di strutture a domo di origine vulcanica entrambe di 20 km di diametro e almeno apparentemente prive di bocche eruttive sommitali, formatesi nel Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa e situate a nord e ovest dell’omonimo cratere Arago.
Il nome è stato assegnato da Madler nel 1837, dedicato all’astronomo e fisico francese Dominique Francois Arago (1786-1853), che fu direttore dell’Osservatorio di Parigi e autore nel 1862 di L’Astronomia Popolare.
Anche con strumenti di diametro intorno ai 100/110mm e con ingrandimenti di 120/150x, non sarà difficile notare per entrambi questi domi una base dalla forma irregolare e lievemente ellittica con orientamento nord/sud nonostante la modesta altezza di circa 200 metri rispetto al suolo circostante.
Puntando il telescopio poco a nord di Arago Alpha, si segnalano 5 minuscoli rilievi a domo con diametri di 5/6 km per la cui dettagliata osservazione si rende indispensabile lavorare in luce solare radente in prossimità del terminatore lunare anche in considerazione della modesta inclinazione delle rispettive pareti.
Immediatamente a sud dello stesso Arago Alpha merita almeno una visita Arago A1, un rilievo vulcanico di 15 km di diametro e con una caldera sommitale, mentre immediatamente a sud di Arago Beta si segnala Arago B1 un domo dalla struttura relativamente complessa sulla cui sommità si potranno individuare alcune caldere multiple.
Spostandoci ora in prossimità dell’angolo nordest del mare Tranquillitatis puntiamo il telescopio sul cratere Gardner – dedicato al fisico americano Irvine Clifton Gardner (1889-1972) – di 19 km di diametro giunto ai nostri giorni dal Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,3 a non meno di 1 miliardo di anni fa. Le pareti intorno al cratere, alte 3000 metri, si presentano ben conservate mentre nella relativamente appiattita platea non si notano dettagli degni di nota. Nell’area esterna non può mancare una dettagliata osservazione del cosiddetto “Gardner Megadome” (noto anche come Vitruvius T1) situato poco a sud dell’omonimo cratere Gardner. Si tratta di un notevole complesso vulcanico estremamente interessante avente una forma emisferica con strutture a domo anche multiple e con la presenza inoltre di varie bocche eruttive sulle rispettive sommità.
Le dimensioni del Gardner Megadome sono di 61 km di diametro con un’altezza di 975 mt. Sulla parte più alta di questa eccezionale struttura è presente il cratere Vitruvius-H di 22 km di diametro che, almeno teoricamente, potrebbe essere quanto oggi rimane dell’antica caldera o bocca eruttiva principale ormai ricolma di materiali.
Sul versante occidentale del Gardner Megadome notiamo i crateri con una forma decisamente irregolare Vitruvius-B e Vitruvius-C di 18 e 15 km di diametro rispettivamente, mentre il versante rivolto a est appare più levigato probabilmente a causa dei flussi di lava ormai solidificati.
Per completare questa proposta osservativa concentriamo l’attenzione su Maraldi, un cratere di 41 km di diametro proveniente dal Periodo Geologico Nectariano collocato a 3,8 miliardi di anni fa. Il nome è stato dedicato all’astronomo italiano Giacomo Filippo Maraldi (1665-1729) nipote di Gian Domenico Cassini autore di numerose ricerche in campo astronomico.
Contornato da basse pareti alte circa 1300 mt, Maraldi si presenta irregolare e degradato mentre la platea è appiattita e quasi priva di dettagli ad eccezione di minuscoli craterini e di un basso rilievo collinare.
Nell’area esterna, a sud segnalo Maraldi-E di 31 km ed il più vasto Maraldi-D di 67 km di diametro entrambi parzialmente delimitati da basse pareti notevolmente degradate e in diretta comunicazione fra loro.
Immediatamente a nord invece l’arrotondato rilievo del monte Maraldi esteso per 15 km e alto 1300 mt.
A delimitare l’estremo margine orientale del mare Tranquillitatis, i crateri Lyell di 32 km e Franz di 27 km di diametro, oltre i quali vi è l’antichissima area collinare nota come Palus Somni (Periodo Geologico Pre Imbriano da 4,5 a 3,8 miliardi di anni fa) estesa per circa 210 km in direzione del mare Crisium.
I nomi sono stati dedicati rispettivamente al geologo scozzese Charles Lyell (1797-1875) e all’astronomo e selenografo tedesco Julius H. Franz (1847-1913), che assegnò a sua volta la rispettiva denominazione ai mari lunari Anguis e Marginis.
Ancora più a nord la regione pianeggiante del Sinus Amoris estesa per 260 km oltre la quale si apre la zona degli antichissimi monti Taurus la cui origine viene fatta risalire al Periodo Geologico Pre Imbriano collocato da 4,5 a 3,8 miliardi di anni fa, estesi alcune centinaia di chilometri e con vette alte circa 3000 mt.
In questa regione lunare così tormentata in cui prevalgono innumerevoli e antichissimi crateri in rovina, segnalo Newcomb di 41 km di diametro con pareti di 2200 mt (Periodo Geologico Eratosteniano da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa) e il meno antico Romer (Periodo Geologico Copernicano, a non oltre 1 miliardo di anni fa), anche questo di 41 km ma con pareti alte 3400.
Immagine di scoperta della SN2021pfu in UGC557 realizzata da Koichi Itagaki.
Immagine di scoperta della SN2021pfu in UGC557 realizzata da Koichi Itagaki.
Chi poteva essere l’astrofilo in grado di ottenere una nuova scoperta, se non il solito incredibile giapponese che porta il nome di Koichi Itagaki? E infatti nella notte del 9 giugno, poco prima dell’alba, mette a segno la sua quinta scoperta del 2021, per un totale di 164 scoperte, che gli permette di raggiungere il neozelandese Stuart Parker sul terzo gradino della Top Ten mondiale amatoriale.
Il nuovo oggetto è stato individuato a mag. +16,9 nella galassia a spirale barrata UGC 557 posta nella costellazione dei Pesci a circa 220 milioni di anni luce di distanza e situata a circa 10’ a sud della più appariscente galassia a spirale barrata NGC 295.
Nella notte del 12 giugno, dal Haleakala Observatory nelle Isole Hawaii con il Faulkes Telescope Nord da 2 metri, viene ripreso lo spettro di conferma. La SN2021pfu, questa la sigla definitiva assegnata al nuovo transiente, è una vecchia supernova di tipo II, con i gas iettati dall’esplosione che viaggiano a una velocità di circa 8.000 km/s.
L’esplosione risale infatti all’inizio del mese di maggio o forse addirittura ad aprile, quando la galassia che era immersa nel chiarore del crepuscolo mattutino. La galassia si sta pertanto allontanando dal Sole migliorando la sua visibilità, ma purtroppo anche la luminosità della supernova tende lentamente a diminuire.
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Immagine della SN2021pfs in NGC5427 realizzata da Rolando Ligustri in remoto dal New Messico con un telescopio da 250mm F.3,4 somma di 11 immagini da 120 secondi.
Da prima dell’alba, passiamo a subito dopo il tramonto per osservare una luminosa supernova situata in una stupenda e fotogenica coppia di galassie interagenti, inserite nel catalogo ARP al numero 271. Si tratta delle due galassie a spirale denominate NGC 5426 e NGC 5427, poste nella costellazione della Vergine a circa 120 milioni di anni luce di distanza.
Immagine della SN2021pfs in NGC5427 realizzata da Paolo Campaner con un riflettore da 400mm F.5,5 somma di 20 immagini da 75 secondi.
Nella stessa notte in cui Itagaki metteva a segno la sua nuova scoperta (9 giugno) il programma professionale americano di ricerca supernova denominato Zwicky Transient Facility (ZTF) individuava una debole stellina di mag. +19,4 nel braccio Ovest della galassia NGC 5427.
La notte seguente la scoperta, i primi a riprendere lo spettro di conferma sono stati gli astronomi americani del MMT Observatory posto sul Monte Hopkins in Arizona. Utilizzando il Multi Mirror Telescope da 6,5 metri, hanno classificato il nuovo transiente come una giovane supernova di tipo Ia scoperta due settimane prima del massimo di luminosità, a cui è stata assegnata la sigla definitiva SN2021pfs.
Non essendo presente nessun assorbimento da polveri né della galassia ospite, né della nostra galassia, la supernova è andata progressivamente aumentando di luminosità fino a raggiungere intorno al 25-26 giugno la discreta mag. +14. Si tratta pertanto di un facile oggetto da osservare però subito dopo il tramonto per evitare che la galassia scenda troppo bassa sull’orizzonte ovest.
NGC 5427 aveva visto esplodere al suo interno un’altra supernova conosciuta, la SN1976D sempre di tipo Ia, scoperta il 24 agosto 1976 dall’astronomo americano Wade.
In riga edizioni, maggio 2021
Formato e rilegatura: ebook/copertina flessibile/copertina rigida; pp. 344
Illustrato a colori
Prezzo: 15,00 € (kindle); 19,00 € (copertina flessibile, BN); 55,00 € (copertina rigida, colori)
In vendita nelle librerie e negli store online. Indice (Download)
È con molto piacere che in riga edizioni annuncia l’uscita della guida di astronomia scritta da Albino Carbognani:Ai confini della Via Lattea – Una guida per spiegarvi tutto quello che avreste voluto sapere sull’astronomia, ma non avete mai osato chiedere.
Come scrive nella prefazione all’opera Marco Malaspina, Direttore di Media INAF: «Ho conosciuto Albino Carbognani nel settembre del 2019. A farci incontrare è stata una cometa. La prima cometa interstellare mai scoperta nel Sistema solare, la 2I/Borisov. […] Un astronomo rinascimentale, perfettamente a suo agio davanti ai più complessi modelli al computer, quanto sotto la cupola del telescopio dell’Osservatorio di Loiano, dove Albino ancora oggi trascorre diverse notti. Solo uno scienziato come lui poteva prenderci per mano e aiutarci a costruire le basi indispensabili per comprendere l’universo con tanta naturalezza».
Albino è già autore di diversi libri per il grande pubblico, di oltre un centinaio di articoli sulle principali riviste divulgative italiane: “Coelum Astronomia”, “Nuovo Orione” e “Le Stelle” e di decine di pubblicazioni su riviste di settore internazionali. In Ai confini della Via Lattea ci accompagnerà in un viaggio unico, attraverso i vari tipi di stelle, i pianeti del sistema solare e i pianeti extrasolari, con un linguaggio di alta divulgazione, rivolto certamente agli astrofili ma anche ad altri lettori tra cui gli studenti degli ultimi anni del liceo scientifico.
Il libro nasce, come scrive l’autore nell’introduzione, perché “nel panorama librario italiano scarseggiano i libri di alta divulgazione ossia testi che non solo descrivano qualitativamente i fenomeni celesti, ma che cerchino anche di renderli quantitativi in modo tale da spiegarli al lettore per mezzo della fisica e della matematica, anche se elementare.” L’autore precisa ciononostante che il libro può comunque essere apprezzato anche “saltando le formule”.
Il libro è dicotomo: i primi 9 capitoli – dalla sfera celeste ai buchi neri passando per i pianeti extrasolari – danno l’indispensabile introduzione teorica agli elementi di base dell’astronomia; mentre nei successivi 3 vedremo come si possa iniziare a praticare la scienza del cielo “sul campo” seguendo un approccio di tipo graduale che, partendo dall’osservazione a occhio nudo, porta verso la scelta ponderata di un telescopio utilizzabile sia per osservazioni visuali, sia per la ripresa di immagini di Sole, Luna e pianeti.
Perché le eclissi di Sole e Luna si ripetono dopo poco più di 18 anni? Che orbita deve seguire un razzo per arrivare su Marte? Da dove provengono gli elementi chimici che formano i nostri corpi, come evolvono le stelle e come si formano i buchi neri? Come si scoprono i pianeti extrasolari e quanti sono quelli più simili alla Terra? Sarà possibile, in un lontano futuro, vivere sul pianeta in orbita attorno alla stella più vicina a noi ossia Proxima Centauri?
A queste e a molte altre domande risponde il libro, ma non si limita solo alla “teoria”. Negli ultimi capitoli il lettore viene incoraggiato e consigliato su come osservare per proprio conto il cielo, seguendone tutte le tappe per difficoltà crescenti: prima a occhio nudo o con un piccolo binocolo, poi con reflex e telescopio così da imparare anche a fotografare i corpi celesti con semplici strumenti. In questo modo ci si renderà conto che l’astronomia è alla portata di tutti e che siamo davvero… ai confini della Via Lattea.
Chi intendesse dedicarsi all’osservazione di questa fase lunare dovrà attendere almeno le ore 01:27 quando sorgerà in età di 22,4 giorni avendo in tale caso alcune ore a disposizione per effettuare interessanti e dettagliate osservazioni. È ormai noto come l’Ultimo Quarto ci presenti le immense e scure distese basaltiche dell’oceanus Procellarum così come dei mari Imbrium, Nubium e Humorum relegando le più chiare rocce anortositiche degli altipiani nei settori nord, sud e sudovest della Luna. Innumerevoli saranno le strutture crateriformi che si potranno osservare con soddisfazione anche attraverso strumenti di piccolo diametro, circa 80/100mm, ma sarà necessario però un seeing almeno decente per potere effettuare dettagliate osservazioni.
Al culmine della fase calante il nostro satellite alle ore 03:17 del 10 luglio sarà in Luna Nuova con la contestuale ripartenza di un nuovo ciclo lunare fino a portare progressivamente l’antichissima compagna della nostra Terra nelle migliori condizioni osservative.
La Luna di 8,3 giorni di Vincenzo Mirabella. Cliccare sull'immagine per i dettagli di ripresa.
Ripartita pertanto la fase crescente alle ore 12:11 del 17 luglio avremo il Primo Quarto, perfettamente a nostra disposizione già a partire dalle ore 22:00 circa, anche se l’altezza iniziale sarà intorno ai +26° e visibile fino alla notte seguente, quando alle ore 01:00 scenderà sotto l’orizzonte.
Anche se già visti in dettaglio in un precedente articolo, gli Appennini lunari mantengono in ogni caso la loro elevata spettacolarità e imponenza. Infatti potrà rivelarsi decisamente interessante andare alla ricerca delle principali vette, fra cui Mons Wolff (36 km, 3500 mt), Mons Ampere (31 km, 3000 mt), Mons Huygens (41 km, 5400 mt), Mons Bradley (31 km, 4200 mt), Mons Hadley (26 km, 4800 mt), fino al Mons Hadley-Delta con dimensioni di 20 km situato poco a sud del sito di Apollo 15. Per effettuare tali osservazioni non sono indispensabili grandi e impegnativi strumenti, anche un piccolo telescopio intorno ai 100mm di diametro può dare grosse soddisfazioni purché le condizioni osservative rispettino certi parametri (seeing, collimazione, ecc).
Al capolinea della fase crescente la Luna sarà in Plenilunio, precisamente alle ore 04:37 del 24 luglio a una distanza dalla Terra di 368232 km, poco prima del suo tramonto previsto per le ore 05:49 contestualmente al sorgere del Sole.
Nel caso specifico segnalo che alle ore 04:36 il punto di massima Librazione interesserà la regione poco a nord del mare Humboldtianum.
LIBRAZIONI nel mese di Luglio
Si precisa che, per ovvi motivi, non vengono indicati i giorni in cui i punti di massima Librazione si allontanano dalla superficie lunare illuminata dal Sole.
Librazioni Regione Nordest
22 luglio Librazione est mare Humboldtianum.
Fase 12,7 giorni, sorge 20:05.
23 luglio Librazione est mare Humboldtianum.
Fase 13,7 giorni, sorge 21:01
Riprenderà, quindi, la fase calante che porterà il nostro satellite per la seconda volta nel mese di luglio in Ultimo Quarto, precisamente alle ore 15:16 del 31 luglio ma a -12° sotto l’orizzonte.
Il nostro satellite potrà essere osservato per l’ultima volta in questo mese di luglio, la notte del 31 quando sorgerà pochi minuti dopo la mezzanotte e sarà visibile pertanto fino all’alba del mattino seguente.
➜ La Luna mi va a pennello. Se la fotografia non basta, Gian Paolo Graziato ci racconta come dipingere dei rigorosi paesaggi lunari, nei più piccoli dettagli… per poi lasciarsi andare alla fantasia e all’imaginazione!
La cartina mostra l'aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 Lug > 02:00; 15 Lug > 01:00; 31 Lug > 00:00. Crediti Coelum Astronomia CC-BY
La cartina mostra l'aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 Lug > 02:00; 15 Lug > 01:00; 31 Lug > 00:00. Crediti Coelum Astronomia CC-BY
Quasi allo zenit, si staglieranno invece le sagome inconfondibili dell’Ercole, della Lira, con la bella Vega, e del Cigno, mentre nei pressi dell’orizzonte il meridiano sarà dominato dall’inconfondibile figura del Sagittario, e più in alto dall’Aquila. Verso est, intanto, staranno sorgendo Pegaso, con il suo “grande quadrato” stellare e Andromeda. Dall’orizzonte est-sudest appariranno solo in tarda serata, dopo la mezzanotte a metà mese, Giove e Saturno, i due pianeti delle notti estive, che viaggeranno assieme alle basse costellazioni dell’Acquario e del Capricorno, rispettivamente.
Continua l’esplorazione del cielo riscoprendo articoli pubblicati nelle estati passate, ad esempio con:
Dopo aver raggiunto, il 21 giugno scorso, il suo punto più alto nel cielo, la nostra principale fonte di luce tornerà a ridurre sempre più la sua declinazione, stupisce chi non lo sa, ma nei giorni più caldi dell’anno in realtà le giornate si stanno già accorciando. Il giorno 20, il nostro astro passerà dalla costellazione dei Gemelli alla costellazione del Cancro.
Nell’arco del mese la notte astronomica passerà dalle 4 ore e mezza circa del 1 luglio, alle . Alle 22:11 TMEC del 3 luglio, inoltre, la Terra arriverà all’afelio della propria orbita, ovvero alla massima distanza dal Sole (l’orario vale però soltanto per un riferimento geocentrico).
PIANETI
Saturno di Luigi Morrone ripreso il 22 giugno scorso. Per tutti i dettagli cliccare sull'immagine.
Comincia la “bella stagione” per Giove e Saturno si rendono visibili in orari sempre più comodi, prima della mezzanotte, con Saturno che sorgerà in anticipo di un’ora rispetto al fratello più grande.
Raggiungeranno infatti l’opposizione al Sole in agosto, li vedremo quindi sorgere sempre prima fino a rendersi visibili per tutta la notte, al loro meglio, già dalla fine del mese.
Giove di Raimondo Sedrani ripreso il 27 giugno scorso. Per i dettagli della ripresa cliccare sull'immagine.
Resteranno però sempre confinati nelle costellazioni dell’Acquario e del Capricorno, quindi non molto alti sull’orizzonte.
Venere, invece, comincia a riprendere il suo posto di Vespero, stella della sera, sempre più brillante nel crepuscolo serale.
➜ Leggi ancheVespero vs. Lucifero di Giorgia Hofer, un articolo del 2020 ma con tanti spunti e riferimenti utili per la ripresa del pianeta più luminoso del nostro cielo.
Sarà raggiunto e superato da Marte in una bella e stretta congiunzione nel tardo pomeriggio/sera del 13 luglio.
13 luglio La congiunzione Marte Venere I due pianeti saranno a solo mezzo grado di distanza, sull’orizzonte ovest-nordovest, nella costellazione del Leone. Venere apparirà splendente già subito dopo il tramonto, Marte sarà un po’ più difficile da osservare, non proprio al suo meglio (più di 4 magnitudini lo separano dal compagno) nel cielo chiaro del crepuscolo e basso sull’orizzonte. Ma guardate bene, via via che il cielo si farà più scuro, quel puntino che apparirà sotto a Venere è lui!
Una bellissima immagine, quasi un quadro, della congiunzione di Marte e Luna del 13 giugno scorso. Si tratta di una immagine composita a ben 14 mani (5 camere) degli amici del Gruppo Astrofili Palidoro. Cliccando sull'immagine tutti i dettagli delle riprese.
I due pianeti li potremo osservare anche nei giorni prima, mentre si avvicinano con una bella falce di Luna a far loro compagnia il 12 luglio, e nei giorni seguenti mentre si staranno allontanando sempre di più! Da questo momento, però, se Venere sarà sempre più facilmente visibile, Marte proseguirà nel suo declino, rendendosi praticamente inosservabile già verso la fine del mese.
Mercurio, sempre molto elusivo, potrà essere osservato nella prima parte del mese, basso nel cielo del mattino. La massima elongazione la raggiungerà il giorno 4, mentre il giorno 10 sarà al suo meglio di visibilità, sorgendo quasi un’ora e mezza prima del Sole. Poi ricomincerà a tuffarsi nel suo chiarore.
Per quanto riguarda invece i grandi pianeti ghiacciati, Urano e Nettuno, per i quali ricordiamo serve uno strumento per l’osservazione, la visibilità è buona. Urano continua ad anticipare la sua levata viaggiando tra le stelle dell’Ariete, sempre nella seconda parte della notte, mentre Nettuno, nel cielo dell’Acquario, sarà visibile per buona parte della notte fino al mattino, quando culminerà al meridiano sud.
LUNA
Per le informazioni sulle fasi, le librazioni e le formazioni da osservare rimandiamo alla rubrica dedicata la Luna di Luglio 2021.
vdB 142 Nebulosa Proboscide di Elefante di Arcangelo Di Palo, ripresa il 14 giugno scorso. I giorni di Luna Nuova sono i migliori per realizzare immagini del profondo cielo, oggetti per i quali serve uno strumento importante e una camera che fissi quei colori che il nostro occhio non riesce a percepire. Non mancate di sfogliare la nostra galleria di immagini Photocoelum (e inviarci le vostre) e di lasciare un commento agli autori! Per tutti i dettagli, cliccare sulll'immagine.
Per chi invece segue le elusive e sottilissime falci lunari, vicine alla Luna Nuova, appuntamento alle ore 02:28 del 6 luglio in fase di 25,5 giorni fra le stelle del Toro.
La superficie illuminata dal Sole apparirà praticamente come suddivisa in due parti: l’elevata albedo delle rocce anortositiche degli altipiani a ovest-sudovest in contrasto con le scure distese basaltiche dell’oceanus Procellarum a ovest-nordovest, unitamente alle rispettive cuspidi nord e sud.
La notte seguente, il 7 luglio, alle ore 03:24 sorgerà una stretta falce in fase di 26,6 giorni su cui apparirà notevole il contrasto fra aree a differenti livelli di albedo, in modo particolare la “macchia nera” del cratere Grimaldi inserita fra le chiare rocce anortositiche degli altipiani circostanti.
Risulterà senz’altro problematica la falce che sorgerà alle ore 04:01 dell’8 luglio in fase di 27,6 giorni per la vicinanza al sorgere del Sole. Attuate le indispensabili precauzioni, eventuali osservazioni fotovisuali andranno effettuate con la Luna in corrispondenza della linea dell’orizzonte.
Con la Luna in fase calante, appuntamento per la serata dell’11 luglio con una falce di 1,8 giorni che tramonterà alle ore 22:32. Anche in questo caso si consiglia di adottare le dovute precauzioni in caso di eventuali riprese fotovisuali.
Luna e luce cinerea in HDR di Andrea Rapposelli, ripresa del 15 giugno scorso. Cliccare sull'immagine per i dettagli della ripresa.
La serata successiva, il 12 luglio, una più comoda falce di 2,8 giorni tramonterà alle ore 23:04, pertanto con la concreta possibilità di effettuare osservazioni al telescopio delle numerose strutture già individuabili sulla sua ristretta superficie già illuminata dal Sole, situate fra il terminatore a ovest e il bordo lunare a est.
Infatti, oltre alle rispettive cuspidi nord e sud, attireranno l’attenzione le aree dei mari Crisium e Undarum, i grandi crateri sul lato est del mare Fecounditatis e tanti altri dettagli.
Per questa tipologia di osservazioni, oltre agli ormai noti parametri osservativi, risulterà determinante disporre di un orizzonte il più possibile libero da ostacoli e sperare nella clemenza delle condizioni meteorologiche, anche perché la stagione estiva può sempre riservare brutte sorprese.
Infografica del sistema planetario studiato da Cheops – Crediti Esa, dati: L. Delrez et al (2021)
Infografica del sistema planetario studiato da Cheops – Crediti Esa, dati: L. Delrez et al (2021)
Per la prima volta un esopianeta con un periodo di oltre cento giorni è stato individuato in transito su una stella abbastanza luminosa da essere visibile a occhio nudo.
La scoperta è stata realizzata grazie ai dati raccolti da Cheops, il satellite dell’Agenzia spaziale europea (Esa) dedicato alla caratterizzazione degli esopianeti con una importante partecipazione italiana, che vede coinvolti l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), l’Agenzia spaziale italiana (Asi) e l’Università di Padova. L’articolo che descrive la scoperta, guidata da Laetitia Delrez dell’Università di Liegi, in Belgio, è stato appena pubblicato sulla rivista Nature Astronomy.
La stella si chiama ν2 Lupi (in italiano si pronuncia “ni due Lupi”, gli anglosassoni userebbero invece “nu” per la translitterazione della lettera greca), è simile al Sole e si trova a poco meno di 50 anni luce dalla Terra in direzione della costellazione del Lupo. Si conoscono tre esopianeti intorno a questa stella, scoperti nel 2019 con lo strumento Harps (High Accuracy Radial velocity Planet Searcher) montato sul telescopio da 3,6 metri dell’Eso in Cile. Questi pianeti, denominati ‘b’, ‘c’ e ‘d’, hanno masse comprese tra quelle della Terra e di Nettuno e orbite rispettivamente di 11,6, 27,6 e 107,6 giorni. I due pianeti più interni – ovvero il ‘b’ e il ‘c’ – sono stati poi individuati anche dal satellite Tess della Nasa mentre transitavano sul disco della stella. Si conoscono solo tre stelle visibili a occhio nudo che ospitano più di un esopianeta e ν2 Lupi è tra queste.
I transiti planetari offrono una preziosa opportunità per studiare l’atmosfera, l’orbita, le dimensioni e l’interno di un pianeta. Inoltre, sistemi multiplanetari di cui si possono osservare i transiti, come quello di ν2 Lupi, permettono di confrontare in dettaglio diversi pianeti intorno alla stessa stella e dunque indagare i processi di formazione ed evoluzione dei pianeti.
In questo caso, il team di ricercatori e ricercatrici stava osservando ν2 Lupi con Cheops per studiare i transiti dei pianeti ‘b’ e ‘c’ e approfondire la comprensione di questo sistema. Durante un transito del pianeta ‘c’ hanno registrato anche un transito inaspettato del pianeta ‘d’, che si trova molto più lontano dalla stella rispetto agli altri due. Poiché gli esopianeti con lungo periodo orbitano così lontano dalle loro stelle, le possibilità di catturarne uno durante un transito sono molto basse, rendendo la scoperta di Cheops una vera sorpresa.
Infografica del sistema planetario studiato da Cheops – Crediti Esa, dati: L. Delrez et al (2021)
Le accurate osservazioni di Cheops hanno permesso di stimare il raggio del pianeta “d”, circa 2,5 volte quello della Terra, e il suo periodo: impiega poco più di 107 giorni per compiere un’orbita intorno alla sua stella, tra le orbite di Mercurio e Venere, per fare un paragone con il Sistema solare. Utilizzando poi osservazioni d’archivio da telescopi a terra, il team ha ricavato la sua massa, pari a 8,8 volte quella della Terra.
«Date le sue proprietà generali e la sua orbita, questo rende il pianeta ‘d’ un obiettivo unicamente favorevole per lo studio di un esopianeta con un’atmosfera a temperatura moderata intorno a una stella simile al Sole», commenta la prima autrice dell’articolo, Laetitia Delrez.
La combinazione di una stella ospite molto luminosa, un periodo orbitale lungo e la possibilità di effettuare osservazioni di follow-up rendono questo pianeta molto particolare. In futuro, con Cheops, si potranno addirittura cercare anelli o lune intorno a questo pianeta.
«Proprio perché questi esopianeti sono così rari da scoprire con questa tecnica, quelli conosciuti fino ad oggi sono spesso intorno a stelle così deboli da impedirne di studiarne ulteriormente la loro natura, e quindi sono ancora poco conosciuti. ν2 Lupi, invece, è abbastanza brillante per continuare ad osservarla sempre con Cheops e addirittura cercare anelli o lune intorno a questo pianeta. È quindi un ottimo obiettivo per altri telescopi, da terra o dallo spazio, attuali o futuribili, come l’Extremely Large Telescope o il James Webb Space Telescope», dice Roberto Ragazzoni, dell’Università di Padova e dell’Inaf di Padova.
«Ancora una volta l’estrema precisione fotometrica del piccolo telescopio di Cheops, insieme a un pizzico di fortuna, permette di studiare oggetti molto interessanti» commenta Elisabetta Tommasi, responsabile per l’Asi dell’accordo con l’Inaf per le attività scientifiche di Cheops, «arricchendo il vasto campione di mondi extrasolari, la cui conoscenza sarà approfondita nel prossimo futuro anche grazie alle missioni in preparazione Plato e Ariel».
Combinando i nuovi dati di Cheops con i dati d’archivio di altri osservatori, i ricercatori sono stati in grado di determinare con precisione le densità medie di tutti i pianeti conosciuti del sistema di ν2 Lupi, e porre vincoli stringenti sulle loro possibili composizioni. Hanno scoperto che il pianeta ‘b’ è principalmente roccioso, mentre i pianeti ‘c’ e ‘d’ sembrano contenere grandi quantità di acqua avvolta da atmosfere di idrogeno ed elio. In effetti, i pianeti ‘c’ e ‘d’ contengono molta più acqua rispetto al nostro pianeta: un quarto della massa di ciascun pianeta è costituito da acqua, rispetto a meno dello 0,1 per cento della Terra. Quest’acqua, tuttavia, non è liquida, ma assume la forma di ghiaccio ad alta pressione o di vapore ad alta temperatura.
L'immagine, presa con lo strumento SPHERE del Very Large Telescope dell'ESO, mostra la superficie della supergigante rossa Betelgeuse durante il calo di luminosità tra la fine del 2019 e inizio 2020. La prima immagine del gennaio 2019, mostra la stella con la sua normale brillantezza. mentre le successive mostrano il calo di luminosità superiore a qualsiasi variabilità precedente, localizzato in particolar modo nelle sue regioni meridionali. La sua luminosità è rientrata in valori normali nell'aprile 2020. Crediti: ESO/M. Montargès et al.
L'immagine, presa con lo strumento SPHERE del Very Large Telescope dell'ESO, mostra la superficie della supergigante rossa Betelgeuse durante il calo di luminosità tra la fine del 2019 e inizio 2020. La prima immagine del gennaio 2019, mostra la stella con la sua normale brillantezza. Le immagini successive mostrano il calo di luminosità superiore a qualsiasi variabilità precedente, che aveva portato alcuni a pensare che la stella fosse vicina a trasformarsi in supernova, che vediamo ora localizzato in particolar modo nelle sue regioni meridionali. La sua luminosità è rientrata in valori normali nell'aprile 2020. Crediti: ESO/M. Montargès et al.
Il calo di luminosità di Betelgeuse – un cambiamento evidente anche a occhio nudo – ha portato Miguel Montargès e la sua equipe a puntare il VLT dell’ESO verso la stella, alla fine del 2019. Un’immagine presa nel dicembre 2019, confrontata con un’immagine precedente scattata nel gennaio dello stesso anno, ha mostrato che la superficie stellare era significativamente più scura, specialmente nella regione meridionale. Ma gli astronomi non erano sicuri del perché.
L’equipe ha continuato a osservare la stella durante il periodo della “Grande Attenuazione“, catturando altre due immagini mai viste prima in gennaio e in marzo 2020. Nell’aprile 2020 la stella era tornata alla sua luminosità normale.
«Una volta tanto, abbiamo visto l’aspetto di una stella cambiare in tempo reale su una scala di settimane», afferma Montargès, dell’Observatoire de Paris, Francia, e KU Leuven, Belgio. Le immagini ora pubblicate sono le uniche che mostrano la superficie di Betelgeuse cambiare di luminosità nel tempo.
Nel loro nuovo studio, pubblicato oggi dalla rivista Nature, l’equipe ha rivelato che il misterioso oscuramento è stato causato da un velo polveroso che copriva la stella. A sua volta il velo era il risultato di un calo della temperatura sulla superficie stellare di Betelgeuse.
L'immagine mostra la posizione di Betelgeuse nella costellazione di Orione. È facilmente visibile anche ad occhio nudo essendo una stella non solo supergigante ma anche "vicina". Crediti: ESO/N. Risinger (skysurvey.org)
La superficie di Betelgeuse cambia regolarmente, mentre bolle giganti di gas si muovono, si restringono e si gonfiano all’interno della stella. L’equipe ha concluso che, qualche tempo prima della “Grande Attenuazione”, la stella aveva espulso una grande bolla di gas che si è quindi allontanata. Quando una zona della superficie si è raffreddata appena dopo, quella diminuzione di temperatura è stata sufficiente per far condensare il gas in polvere solida.
Betelgeuse ripresa a gennaio 2020, quando si avviava verso la minima luminosità raggiunta all'incirca a metà del febbraio seguente. Si vede chiaramente la aprte oscurata nel suo emisfero meridionale, assieme a un diffuso oscuramento di tutta la superficie. Ora sappiamo che la causa è stato uno spesso velo di polvere, emessa dalla stella stessa. Una nube di gas espulsi e solidificati, che ce l'ha nascosta solo temporaneamente. Crediti: ESO/M. Montargès et al.
«Abbiamo assistito direttamente alla formazione della cosiddetta polvere di stelle», aggiunge Montargès, il cui studio fornisce la prova che la formazione di polvere può avvenire molto rapidamente e molto vicino alla superficie di una stella. «La polvere espulsa dalle stelle fredde evolute, come l’espulsione a cui abbiamo appena assistito, potrebbe continuare fino a diventare uno dei mattoni costitutivi dei pianeti terrestri e della vita», dice Emily Cannon, di KU Leuven, anch’essa coinvolta nello studio.
Invece che il semplice risultato di un’esplosione polverosa, sono state proposte online alcune speculazioni sul fatto che che il calo di luminosità di Betelgeuse potesse segnalare la sua imminente morte in una spettacolare esplosione di supernova. Non si sono osservate supernove nella nostra galassia fin dal XVII secolo, quindi gli astronomi odierni non sanno esattamente cosa aspettarsi da una stella che si prepari a un simile evento. Tuttavia, questa nuova ricerca conferma che la “Grande Attenuazione” di Betelgeuse non è stata un segnale precursore del drammatico destino finale della stella.
La rossa Betelgeuse ripresa da Giorgia Hofer, nell'insieme della magnificenza della costellazione di cui fa parte, Orione. Nel numero di marzo 2020 di Coelum Astronomia, trovate qualche consiglio per riprendere e seguire la stella, con un pizzico di speranza di vederla, prima o poi, splendere come una supernova galattica. Cliccare sull'immagine per leggere l'articolo. Crediti Giorgia Hofer.
Assistere all’calo di luminosità di una stella così nota è stato emozionante sia per gli astronomi professionisti che per quelli dilettanti, come ben riassume Cannon: «Guardando le stelle di notte, questi minuscoli punti di luce scintillanti sembrano perpetui. Il calo di luminosità di Betelgeuse rompe questa illusione».
L’equipe ha utilizzato lo strumento Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch (SPHERE) installato sul VLT dell’ESO per visualizzare direttamente la superficie di Betelgeuse, insieme con i dati dello strumento GRAVITY installato sull’Interferometro del VLT (VLTI) dell’ESO, per monitorare la stella durante l’oscuramento. I telescopi, situati presso l’Osservatorio dell’ESO al Paranal nel deserto di Atacama in Cile, sono stati uno «strumento diagnostico vitale per scoprire la causa di questo evento di attenuazione», afferma Cannon. «Abbiamo potuto osservare la stella non come un singolo punto di luce, abbiamo potuto risolvere i dettagli della sua superficie e monitorarla durante l’evento», aggiunge Montargès.
Montargès e Cannon sono impazienti di sapere cosa porterà il futuro dell’astronomia, in particolare cosa porterà nel loro studio su Betelgeuse, una stella supergigante rossa, l’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO. «Con la capacità di raggiungere risoluzioni spaziali senza precedenti, l’ELT ci consentirà di visualizzare direttamente Betelgeuse con dettagli notevoli», conclude Cannon. «Espanderà anche in modo significativo il campione di supergiganti rosse per le quali possiamo ottenere immagini dirette della superficie con buona risoluzione, aiutandoci ulteriormente a svelare i misteri della produzione dei venti in queste stelle massicce».
Da venerdì 9 a domenica 11 luglio al Castello Malcavalca di Esanatoglia (MC) è in programma la quarta edizione di Galassica – Festival di Astronomia, un progetto a cura di Associazione Nemesis Planetarium in collaborazione con l’Università di Camerino.
L’edizione di quest’anno, Galassica 2021, dal titolo Destinazioni, si pone l’obiettivo di combinare un’offerta culturale di qualità e la connessione con la natura, come la socializzazione aspetti vitali per l’evoluzione e il benessere di una comunità.
Il luogo è di grande pregio architettonico e valore paesaggistico. Il castello, di epoca medievale, recentemente e sapientemente ristrutturato, è immerso nella Unione Montana Potenza Esino Musone, sotto un magnifico cielo libero da inquinamento luminoso, lungo il Cammino Francescano. Il titolo di quest’anno, Destinazioni, sintetizza il senso di questa edizione nelle sue declinazioni: natura, poesia, arte. Destinazioni come vette, mete di cammini, sentieri e missioni spaziali, come intenti della poesia, come obiettivi della ricerca scientifica, come prospettive della contaminazione artistica, come rimandi al destino dell’umanità, particolarmente incerto in questo passaggio epocale.
L’ispirazione poetica è Dante Alighieri, di cui quest’anno ricorrono settecento anni dalla nascita, mentre l’ispirazione artistica e grafica è Ivo Pannaggi, grande pittore e designer futurista, ospite del leggendario Bauhaus di Berlino, che ad Esanatoglia visse e lavorò. A lui è dedicato un percorso ad hoc, lo Spazio Pannaggi, aperto al pubblico nei giorni del festival, ideato nell’ambito di PalazzoLab, progetto di Epicentro11 per la rinascita culturale e turistica del territorio colpito dal sisma 2016.
Il cuore del Festival è l’astronomia, intesa sia come ricerca e innovazione che come sensibilizzazione ambientale e valorizzazione del cielo stellato.
Ricco e variegato il calendario delle proposte, con iniziative sia per l’infanzia che per il pubblico adulto. In programma ci saranno dei laboratori per docenti a cura di INAF e INFN, un avvincentescience show sulla robotica per bambine e bambini, e per i più piccini un divertente laboratorio manuale per confezionare la propria tuta da astronauta. Come da tradizione, il pomeriggio è dedicato al pubblico di esperti e appassionati, con conferenze di approfondimento sui temi più attuali di astrofisica e fisica nucleare. Spazio anche alla tecnologia con CosmoExperience, emozionante missione spaziale in realtà virtuale adatta a tutta la famiglia.
E per godere del meraviglioso contesto naturalistico, in serata percorso esperienziale ed escursione per i boschi circostanti il castello, con osservazione delle stelle sul prato, a cura dell’associazione locale Esatrail, nella magia della quiete notturna.
Nel rispetto delle norme antiCovid e grazie al supporto di attività e associazioni locali, ci sarà spazio anche per momenti di relax e socializzazione, finalmente in presenza, con selezione musicale a tema e punti ristoro dove gustare le eccellenze enogastronomiche del territorio, importante area di produzione vinicola.
Ampissimo spazio all’inclusione in questa edizione grazie alla collaborazione con l’Associazione Lulù e il paese del Sorriso. Un’attenzione riposta sin dalla progettazione all’accesso a tutti anche chi non favorito nella mobilità. Una cura che l’associazione Nemesis Planetarium si impegna a perseguire in maniera costante e crescente per tutte le attività organizzate anche in futuro.
Tutti gli eventi del festival sono a ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, ad eccezione dell’Escursione notturna, su prenotazione con quota di iscrizione a copertura assicurativa.
Galassica – Festival dell’astronomia è promosso da Nemesis Planetarium, UNICAM e Comune Esanatoglia.
Con il Patrocinio di Comune di Esanatoglia, INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica, INFN – Istituto Nazionale Fisica Nucleare, Università degli Studi G. D’Annunzio – Dipartimento di Scienze Psicologiche della salute e del territorio, Palazzo Lab – Borgo delle Idee, IAU – International Astronomical Union.
In collaborazione con MVA – Moon Village Association, Cooperativa Ossigeno, Osservatorio astronomico di Esanatoglia, associazione Lulù e il Paese del Sorriso, Epicentro11, Visione Futuro, Cicap Marche, Sistema Museale d’Ateneo – Unicam, Esatrail, Cantina di Esanatoglia, Libreria Kindustria di Matelica.
Galassica – Festival dell’Astronomia è gemellato con il Festival della Scienza di Genova.
Dopo tre decenni torna a farsi vivo l’interesse di NASA verso Venere, non con una ma addirittura con due missioni robotiche che verranno lanciate nel biennio 2028–2030.
Le sonde VERITAS e DAVINCI+. Credit NASA
L’annuncio è arrivato inaspettato lo scorso 2 giugno direttamente dal neoeletto amministratore Bill Nelson, durante la conferenza stampa sullo stato dell’agenzia. Le due missioni: DAVINCI+ e VERITAS, sono state scelte tra quattro contendenti nell’ambito del programma Discovery, che promuove e finanzia progetti di esplorazione robotica a costo relativamente basso.
L’ultima missione statunitense dedicata al nostro pianeta gemello risale al 1990 con la sonda Magellano, che rimase operativa fino al 1994. Attualmente intorno a Venere, anche se in un’orbita molto differente da quella prevista, opera solo la sonda giapponese Akatsuki lanciata nel 2010.
Con la missione EnVision l’Europa vola alla scoperta del pianeta gemello della Terra. A bordo della sonda uno strumento italiano che vede il coinvolgimento dell’ASI e la responsabilità dell’Università di Trento.
La missione EnVision, per comprendere come mai il pianeta a noi più vicino è così diverso da noi. Crediti: ESA
È ancora una volta Venere l’obiettivo della ricerca spaziale. Dopo pochi giorni dall’annuncio della NASA di realizzare due missioni per esplorare il “pianeta gemello della Terra” ora anche l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha messo nel suo mirino Venere con la missione EnVision.
Venere, il "gemello cattivo" della Terra. Un'immagine ripresa dalla missione ESA Venus Express nel luglio del 2007. Crediti: ESA/MPS/DLR-PF/IDA
E ci sarà anche l’Italia che, attraverso l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), avrà la responsabilità di realizzare il radar sounder per lo studio dei primi strati della superficie del pianeta a profondità dell’ordine di alcune centinaia di metri. Principal Investigator di questo strumento è Lorenzo Bruzzone del Dipartimento di Ingegneria e Scienza dell’Informazione e responsabile del Laboratorio di Telerilevamento (Remote Sensing Laboratory) dell’Università di Trento. L’obiettivo scientifico è quello di caratterizzare i diversi pattern stratigrafici e strutturali del sottosuolo; realizzare la mappatura della struttura delle unità geologiche esplorando le proprietà di elementi quali tesserae, pianure, colate laviche e detriti da impatto oltreché effettuare la rilevazione di strutture del sottosuolo non direttamente legate alla superficie.
«La partecipazione alla missione EnVision di ESA, insieme a quella prevista nella missione Veritas della NASA», ha dichiarato Barbara Negri, responsabile dell’unità Volo Umano e Sperimentazione Scientifica dell’Agenzia Spaziale Italiana, «permetterà all’Italia di ricoprire una posizione di leader per il programma di esplorazione del pianeta Venere, alla stregua di quanto è stato fatto per Marte. Per EnVision, l’ASI realizzerà il radar sounder, sulla base dell’importante heritage scientifico e industriale presente nel nostro Paese».
«EnVision affiancherà alla capacità di effettuare misure inedite su larga parte del pianeta, l’obiettivo di studiare in maniera dettagliata le regioni di maggiore interesse di Venere con l’insieme unico di strumenti che avrà a bordo» dichiara Lorenzo Bruzzone, dell’Università di Trentom, P.I. dello strumento. «Sarà la prima volta in assoluto che un radar sounder opererà sul nostro pianeta gemello. Le sue misure sotto-superficiali saranno fondamentali per la ricostruzione della storia geologica di Venere e contribuiranno alla comprensione dell’interazione tra superficie, sotto-superficie e atmosfera venusiana».
Questa missione offrirà una visione senza precedenti del pianeta più simile alla Terra in termini di massa, dimensioni e raggio orbitale. L’uso della tecnologia radar insieme alla spettroscopia ad alta risoluzione e alla radio scienza consentirà lo studio del pianeta in un’ampia scala spaziale, dall’alta atmosfera fino all’interno del pianeta. Attraverso il suo approccio globale, EnVision affronterà questioni fondamentali sull’atmosfera, il clima, la geologia passata e presente di Venere e la loro potenziale interazione. Ciò fornirà preziose informazioni sull’evoluzione e l’attività attuale del pianeta, fornendo importanti indizi sui motivi per cui Venere si sia evoluto in maniera così diversa dalla Terra.
Un approfondimento dedicato alla ricerca di pianeti extrasolari e alla missione Cheops, a cura di Roberto Ragazzoni.
Oltre alla scienza di Venere, i risultati attesi da questa missione che partirà alla volta di Venere nei primi anni del 2030, sono rilevanti anche per la comprensione dell’abitabilità e dell’evoluzione dei pianeti terrestri nel Sistema Solare e altrove (inclusa la Terra e degli esopianeti simili a Venere), fornendo così ulteriori informazioni sul Sistema Solare a missioni come PLATO, ARIEL e CHEOPS.
Questa proposta osservativa è stata suddivisa nelle due serate del 15 e 16 giugno. Al fine di poter effettuare le suddette osservazioni con un differente angolo di illuminazione solare e in fase calante, sempre molto utile per lo studio di determinati dettagli della superficie della Luna, segnalo anche la nottata del 29 giugno quando poco dopo la mezzanotte sorgerà in fase di 18,4 giorni (e si tratta come sempre di indicazioni utili ogni volta che il nostro satellite si trova in condizioni simili di illuminazione). Ma veniamo alle due serate consecutive già indicate.
La Luna il 16 giugno sera.Il 15 giugno la Luna sarà in fase di 5,3 giorni ad un’altezza iniziale (intorno alle ore 22:00) di +29°, con frazione illuminata del 26% e visibile fin verso le ore 01:00 della notte seguente quando scenderà sotto l’orizzonte. La successiva serata utile invece, il 16 giugno, sarà in fase di 6,3 giorni a un’altezza iniziale di +34°, con frazione illuminata del 36% e visibile fino a poco dopo le ore 01:00 della notte successiva.
Per individuare il mare Tranquillitatis basterà orientare il telescopio sulla scura area basaltica situata fa i mari Serenitatis a nordovest, Fecounditatis a sudest e Crisium ad est e buone osservazioni a tutti.
Indice dei contenuti
Il cratere Beketov
Nome dedicato al chimico russo N. N. Beketov (1827-1911)
Cominciamo allora con l’osservazione del 15 giugno partendo a sudovest di Vitruvius e precisamente dal cratere Beketov di 9 km di diametro la cui origine viene fatta risalire al Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,9 a 3,2 miliardi di anni fa. Si tratta di una formazione lunare isolata nella pianura contornata da una cerchia di pareti alte 1000 mt ancora ben conservate, mentre nella platea non si scorgono dettagli degni di nota.
Il cratere Jansen
Nome assegnato da Madler nel 1837 dedicato all’ottico olandese Zacharias Janszoon, fu uno dei primi costruttori di telescopi.
Più a sud visitiamo ora il cratere Jansen e la zona circostante densamente ricca di interessanti dettagli. Si tratta di una struttura di 24 km di diametro la cui origine viene ricondotta al Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,9 a 3,2 miliardi di anni fa. Le pareti intorno al cratere, alte circa 600 mt, ne collocano l’appartenenza alla variegata categoria dei cosiddetti “crateri fantasma”, formazioni crateriformi quasi completamente sepolte sotto uno strato di materiali e antiche lave di cui ne emerge solamente la sommità delle pareti. Nella platea, appiattita, si scorgono vari minuscoli craterini di cui il più esteso ha un diametro di soli 3,6 km.
Un interessante dettaglio che merita almeno una visita è costituito da un allineamento di imponenti creste che dalla parete meridionale si estende verso sudest. Nell’area immediatamente esterna merita una citazione la Rima Jansen, uno stretto solco poco profondo proveniente dal Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,9 a 3,2 miliardi di anni fa ed esteso dalla Dorsa Barlowverso nordovest per circa 40 km fino al cratere Jansen-R.
Andiamo ora ad osservare la vicina Dorsa Barlow anch’essa risalente al medesimo Periodo Geologico e con età da 3,8 a 3,2 miliardi di anni. Si tratta di una dorsale ramificata e notevolmente variegata con andamento decisamente irregolare che si estende dal cono vulcanico “Jansen-2” fino in prossimità del cratere Vitruvius-M per 124 km.
Volendo ora passare in rassegna i crateri situati nell’area intorno a Jansen, a nord vediamo Jansen-D-E-L tutti con diametro di 7 km oltre al più vasto Jansen-R di 25 km di diametro, anche questo appartenente alla categoria dei crateri sepolti di cui ne osserviamo un altro a breve distanza ma di diametro inferiore. Un altro gruppo di tre crateri lo vediamo a sud costituito da Jansen-H-K-W con diametro rispettivamente di 7-6-3 km.
Il cratere Cajal
Nome dedicato al medico spagnolo Santiago Ramon y Cajal (1852-1934).
A sudest di Jansen il relativamente recente cratere Cajal di 9 km di diametro proveniente dal Periodo Geologico Copernicano collocato a non oltre 1 miliardo di anni fa. Si tratta di una struttura isolata nella pianura con pareti alte 1800 mt in buono stato di conservazione.
Il cratere Carrel
Nome dedicato al fisiologo e scrittore francese Alexis Carrel (1873-1944).
Orientiamo il telescopio su Carrel, un altro giovane cratere di 17 km di diametro risalente al Periodo Geologico Copernicano con età non superiore a i miliardo di anni fa. In questo caso le pareti intorno al cratere si presentano irregolari sul lato rivolto ad oriente, mentre sul fondo si potranno individuare numerosi rilievi montuosi estesi a gran parte della platea.
Nell’area esterna si segnala lo sviluppo di rilievi montuosi che dalla parete sud di Carrel si estendono a semicerchio fino al cratere Jansen-H quasi si trattasse di quanto oggi rimane di una antichissima struttura crateriforme di grande diametro. Poco a sud del cratere Carrel merita un’osservazione anche un solco rettilineo esteso per circa 50/55 km verso sudest.
Il cratere Sinas
Nome assegnato da Schmidt nel 1878 dedicato al mercante greco e mecenate dell’astronomia Simon Sinas (1810-1876), lasciò in eredità l’osservatorio di Atene.
Concentrando ora l’attenzione a sud-sudest di Carrel andiamo ad osservare il cratere Sinas di 14 km di diametro la cui origine viene ricondotta al Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. La cerchia delle pareti intorno al cratere, alta 2300 mt, si presenta ben conservata e con lunghe linee di creste mentre nella platea non si notano dettagli degni di nota.
Nell’area esterna segnalo a nord-nordovest il cratere Sinas-E di 9 km di diametro con pareti di 1700 mt mentre a sud-sudest Sinas-A di 5,8 km e Sinas-K di 5 km di diametro.
Il cratere Aryabhata
Dedicato all’astronomo e matematico indiano Aryabhata (476-550), fu autore di un trattato di astronomia (Aryabhatyam) e fece studi sul meccanismo delle eclissi.
Proseguendo sempre nel mare Tranquillitatis in direzione sud, vediamo ora Aryabhata, antichissima struttura di 22 km di diametro proveniente dal Periodo Geologico Pre Imbriano collocato da 4,5 a 3,8 miliardi di anni fa. Basta una veloce occhiata anche a basso ingrandimento per comprendere che si tratta del residuo di un cratere di cui oggi ne vediamo solamente le basse e degradate pareti est e sudest mentre la platea venne inglobata dalle lave nella piana di Tranquillitatis.
Il cratere Wallach
Dedicato al chimico tedesco Otto Wallach (1847-1931).
A sudovest, il piccolo cratere Wallach di 7 km di diametro formatosi nel periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. Si tratta di una struttura a conca dalla forma regolare e con pareti alte 1200 mt. Per quanto riguarda l’area esterna vi si potranno individuare numerosi rilievi montuosi, basse colline e innumerevoli crateri di vario diametro con la peculiarità che alcuni di questi costituiscono interessanti coppie di craterini privi purtroppo di denominazione ufficiale.
Il cratere Maskelyne
Dedicato all’astronomo inglese direttore della specola di Greenwich Nevil Maskelyne (1732-1811).
Una regione lunare veramente interessante è quella del cratere Maskelyne, situata in prossimità del bordo meridionale del mare Tranquillitatis allo sbocco del Sinus Asperitatis. Si tratta di una struttura crateriforme di 26 km di diametro originata nel Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. I ripidi bastioni intorno al cratere, alti 2500 mt, si presentano ben conservati e con lunghi terrazzamenti mentre nella platea prevalgono nettamente vari gruppi di monti e colline.
Nell’area esterna segnalo ad ovest-sudovest Maskelyne-B di 9 km di diametro con pareti di 2000 mt oltre ai crateri Maskelyne-Y e Maskelyne-X entrambi di 4 km e Maskelyne-G di 6 km di diametro. A sud Maskelyne-W di soli 4 km e a nord Maskelyne-K di 5 km, entrambi isolati fra gli immensi e scuri basalti di Tranquillitatis.
Andando ora a osservare la zona a est del cratere principale merita una visita Maskelyne-D, quanto oggi rimane di una presumibile struttura crateriforme di 33 km di diametro ormai quasi completamente distrutta e di cui non è noto il periodo geologico originario. Delimitata a nord, est e sudest da irregolari rilievi collinari disposti grossolanamente ad anfiteatro, la platea appare completamente inglobata nelle lave e nei materiali di Tranquillitatis. Immediatamente a nordovest di tale struttura vediamo l’irregolare Maskelyne-R di 13 km oltre al minuscolo Maskelyne-J di 4 km diametro sull’angolo di nordest. Infine a sud-sudest i più lontani Maskelyne-C di 9 km e Maskelyne-A di 29 km di diametro, quest’ultimo con la sua forma decisamente irregolare.
I crateri Menzel e Zahringer
Il primo dedicato all’astrofisico americano Donald H. Menzel (1901-1976), mentre il secondo al fisico tedesco Joseph Zahringer (1929-1970).
Procedendo da Maskelyne verso est a breve distanza dal margine sudorientale di Tranquillitatis, quasi al confine col mare Fecounditatis, oltre a Maskelyne-F di 21 km, si segnalano il piccolo cratere Menzel di soli 3 km di diametro e Zahringer di 12 km formatisi entrambi nel Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa.
I crateri Lawrence, Watts e Da Vinci
Dedicati rispettivamente al fisico americano Ernest O. Lawrence (1901-1958), all’astronomo americano Chester B. Watts (1889-1971) e a Leonardo da Vinci (1452-1519), fra i più insigni rappresentanti del Rinascimento italiano. Il nome di quest’ultimo fu assegnato da Peucker nel 1935.
Ancora più a est-nordest abbiamo invece alcune antichissime strutture la cui origine viene fatta risalire al Periodo Geologico Pre Imbriano collocato da 4,5 a 3,9 miliardi di anni fa, tra cui i crateri Lawrence di 26 km, Lawrence-Z di 17 km, Watts di 15 km e il più ampio ma decisamente irregolare Da Vinci di 39 km di diametro.
Immediatamente a nord di questi crateri la vasta e anche questa antichissima area pianeggiante del Sinus Concordiae di 165 km di diametro (praticamente un lembo di Tranquillitatis che si incunea verso est in direzione di Crisium) che vide la sua formazione nel Periodo Geologico Pre Imbriano collocato da 4,5 a 3,8 miliardi di anni fa. Peculiare la colorazione scura delle sue rocce basaltiche in notevole contrasto con la più elevata albedo delle rocce anortositiche dell’area circostante.
Cambiamo ora decisamente versante e orientiamo il telescopio in prossimità del margine sudoccidentale del mare Tranquillitatis dopo avere atteso però la successiva serata, il 16 giugno. Concentriamo pertanto l’attenzione su una bella coppia di crateri costituita da Sabinee Ritter.
I crateri Sabine e Ritter
Per entrambi i nomi furono assegnati nel 1837 da Madler, Il primo dedicato al fisico e matematico irlandese Edward Sabine (1788-1833), che partecipò come astronomo alla spedizione polare di Ross e Parry. Il secondo, dedicato al geografo tedesco Karl Ritter (1779-1859) e all’astrofisico e ingegnere tedesco Georg Dietrich August Ritter (1826-1908).
Iniziando da Sabine, si tratta di una struttura di 31 km di diametro giunta ai nostri giorni dal Periodo Geologico Imbriano Inferiore collocato a 3,8 miliardi di anni fa. Le ripide pareti intorno al cratere, alte 1500 mt, presentano un buono stato di conservazione e sono percorse da lunghi terrazzamenti.
Nella platea si potranno osservare svariati rilievi collinari con avvallamenti e piccoli craterini. nell’area esterna segnalo il minuscolo Sabine-A di soli 4 km.
Passando ora all’adiacente Ritter, il secondo componente di questa bella coppia, si tratta di un cratere di 32 km di diametro che vide la sua formazione nel Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa. Sulle pareti intorno al cratere, alte 1300 mt, non sarà difficile individuare lunghe e ripide linee di creste. Anche sul fondo del cratere Ritter sono in netta prevalenza numerosi rilievi collinari percorsi da alcune basse linee di creste disposte ad arco.
Nell’area esterna merita una citazione il breve allineamento costituito dai crateri Ritter-C e Ritter-B entrambi di 14 km oltre a Ritter-D di 7 km di diametro. L’interessante peculiarità di questi tre crateri consiste nel fatto che sono situati lungo lo sviluppo delle Rimae Ritter, un sistema di quattro larghi solchi paralleli orientati in direzione sudest-nordovest estesi per circa 104 km dall’area del cratere Ritter andando a terminare in prossimità dei crateri Ariadaeus-A e Ariadaeus-E, ipotizzandone anche la presumibile prosecuzione della vicina Rima Ariadaeus (già vista in un precedente articolo). L’origine delle Rimae Ritter viene fatta risalire al Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa.
Il cratere Manners
Dedicato all’ammiraglio e astronomo inglese Russel Henry Manners (1800-1870).
A breve distanza merita una osservazione Manners, un cratere di 15 km di diametro la cui formazione viene ricondotta al Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. Le pareti intorno al cratere, alte 1700 mt, sono regolari e presentano un buono stato di conservazione con lunghe linee di creste sommitali, mentre nella platea potranno essere individuati piccoli craterini e basse colline.
Nell’area esterna il minuscolo Manners-A di 3 km di diametro ad ovest.
Il cratere Arago
Nome assegnato da Madler nel 1837 dedicato all’astronomo e fisico francese Dominique Francois Arago (1876-1853), fu direttore dell’Osservatorio di Parigi e nel 1862 scrisse “L’Astronomia Popolare”.
A nordest di Manners una regione lunare veramente spettacolare è quella intorno al cratere Arago, una struttura crateriforme molto interessante di 27 km di diametro proveniente dal Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa.
Sulle ripide pareti intorno al cratere, alte 1800 mt, potranno essere individuati lunghi terrazzamenti mentre al telescopio la platea si rivelerà prevalentemente montuosa e percorsa da lunghi e profondi avvallamenti.
Nell’area esterna al cratere segnalo la linea di creste che dalla parete meridionale di Arago si estende in direzione sud smistandosi poi in un sistema di solchi (nessuna denominazione ufficiale) quasi paralleli che si incurvano verso sudest andando così a terminare in prossimità dei crateri Arago-B e Arago-C rispettivamente di 7 e 3 km di diametro.
Il cratere Lamont
Nome assegnato da Krieger nel 1912 e dedicato all’astronomo scozzese/tedesco John Lamont (1805-1879), individuò la relazione fra il ciclo delle macchie solari e quello delle variazioni del magnetismo terrestre.
Pochi chilometri a est di Arago è d’obbligo effettuare dettagliate osservazioni di una eccezionale struttura geologica del nostro satellite: l’antichissimo Lamont, la cui origine viene ricondotta al Periodo Geologico Pre Imbriano collocato da 4,5 a 3,9 miliardi di anni fa.
La notevole peculiarità di Lamont consiste nell’intricato sistema di dorsali concentriche e radiali che ne delimitano l’area interna di 60 km mentre il diametro più esterno raggiunge i 120 km, anche se ufficialmente le dimensioni sono di 75 km.
Molto probabilmente si tratta di un cratere inserito nella variegata categoria dei “crateri fantasma” quasi completamente sommerso dai notevoli strati di materiali e antichissime lave che ormai ricoprono la piana di Tranquillitatis. Praticamente è un sistema di basse creste e dorsali approssimativamente concentriche oltre a numerose linee di creste che si estendono radialmente dal centro del cratere in modo particolare in direzione nord e sud. Queste strutture, creste e dorsali, si innalzano solamente di poche centinaia di metri dal fondo di Tranquillitatis per cui si rendono meglio individuabili in condizioni di illuminazione solare radente, cioè quando l’area di Lamont viene a trovarsi in prossimità della linea del terminatore lunare. Quindi un’occasione da non perdere sperando nel seeing almeno decente.
Per questo mese ci fermiamo qui e in un prossimo articolo verrà il turno della regione del cratere Cauchy situata nell’angolo sudest di Tranquillitatis oltre agli innumerevoli rilievi vulcanici sparsi in questo vastissimo bacino da impatto fra cui i domi nei pressi dei crateri Arago, Vitruvius, Jansen, Sinas, Maraldi, ecc.
Uno spettacolare doppio selfie del lander e del rover, apparentemente ripresi da una fotocamera posata al livello del terreno
Uno spettacolare doppio selfie del lander e del rover, apparentemente ripresi da una fotocamera posata al livello del terreno
Dopo le emozionanti sequenze in bianco e nero pubblicate 20 giorni fa che testimoniavano la discesa di Zhurong dalla piattaforma lander, era calato un silenzio quasi totale sulla missione, rotto solo nei giorni scorsi dalla prima immagine del luogo di atterraggio, ripreso però dalla sonda-madre Tianwen-1 in orbita marziana. Erano circolate anche presunte indiscrezioni che spiegavano questo silenzio con difficoltà non meglio precisate nell’affrontare le ostili condizioni marziane, oppure nel comunicare i dati raccolti con l’orbiter. La mattina dell’11 giugno, però, le nuove attesissime immagini sono arrivate, prima trapelate su alcune pagine twitter specializzate e poi apparse anche sul sito ufficiale dell’agenzia spaziale nazionale CNSA.
Cominciamo dall’immagine in apertura, la più intrigante, definita da CNSA come “foto di gruppo itinerante”. Essa mostra il rover giunto circa 10 metri a sud rispetto alla piattaforma di atterraggio, visibile sullo sfondo. Zhurong ha rilasciato sul terreno una telecamera separata, precedentemente installata nella parte inferiore del veicolo; poi è indietreggiando per “mettersi in posa”. La telecamera a terra ha trasmesso l’immagine al rover tramite un collegamento wireless, poi è rimbalzata a terra ritrasmessa dal rover attraverso l’orbiter. Un simile selfie non si era mai visto in precedenza, abituati come siamo a quelli realizzati assemblando le immagini riprese dai rover americani che utilizzano a questo scopo la fotocamera montata sul braccio meccanico, sempre a una certa altezza da terra; mai si era vista una ripresa unica, scattata da un’angolazione al livello del suolo.
Immagine del lander ripresa da Zhurong, con dettaglio schiarito del foro scavato nel terreno da un retrorazzo - Credits: CNSA - Processing: Marco Di Lorenzo
Quella qui sopra è invece una splendida vista grandangolare della piattaforma di atterraggio, scattata da una fotocamera di navigazione del rover quando questo si trovava circa 6 metri più a sud, intorno al mezzogiorno locale. L’immagine mostra anche, immediatamente sotto la bandiera nazionale, il profondo foro scavato nel terreno da uno dei retrorazzi che hanno rallentato la discesa del lander nelle ultime fasi; la regione, evidenziata da una cornice azzurra, è stata ingrandita e rischiarata in alto a sinistra.
Credits: CNSA - Processing: Marco Di Lorenz
Qui a destra invece (cliccare sull’immagine per ingrandire), una vista con angolo più stretto e ad alta definizione della superficie in direzione SSE, qui in risoluzione leggermente ridotta rispetto all’originale; a parte le dune chiare in lontananza e il bordo di un cratere più vicino, la superficie appare relativamente piatta, con pietre sparse di diverse dimensioni e colori; in corrispondenza del bordo del cratere, le pietre sono più numerose, scure e angolose.
Ecco infine una bella panoramica a 360° ripresa dal rover quando era ancora sopra la piattaforma di atterraggio. Nell’inserto vediamo, ingrandito, il guscio superiore e il paracadute, posati a 350 metri di distanza e fotografati anche dagli orbiter Tianwen-1 e MRO. Il riquadro in azzurro evidenzia la regione inquadrata nella foto precedente, in modo indicativo dato che il punto di ripresa non è lo stesso.
Immagine del lander ripresa da Zhurong, con dettaglio schiarito del foro scavato nel terreno da un retrorazzo - Credits: CNSA - Processing: Marco Di Lorenzo
Zhang Kejian, direttore della National Space Administration, ha rilasciato una dichiarazione nel classico stile retorico e pomposo dove si sottolinea l’intenzione di implementare altre missioni di esplorazione spaziale, condividendo i dati scientifici di alta qualità e sostenendo la condivisione aperta, la cooperazione reciprocamente vantaggiosa e il rilascio tempestivo dei dati scientifici, “in modo che tutta l’umanità possa condividere i risultati dello sviluppo aerospaziale cinese”; sono intenti ammirevoli, anche se siamo ancora lontani dalla filosofia NASA (e in parte ESA) di pubblicare immagini e dati in maniera continuativa e quasi in tempo reale!
Un’ultima annotazione riguarda la qualità elevata delle prime due immagini, se confrontata con quelle inviate dai rover americani. In particolare, il cielo appare estremamente uniforme, non c’è alcun segno di “vignettatura” (oscuramento ai bordi) e l’orizzonte è assolutamente dritto, senza alcun accenno di distorsione. Probabilmente, non si tratta delle immagini originali ma di versioni già fortemente processate per rimuovere questi difetti dalle immagini “raw”.
Immagine di scoperta della AT2021kni ripresa da Koichi Itagaki.
Immagine di scoperta della AT2021kni ripresa da Koichi Itagaki.
Non abbiamo più aggettivi idonei per celebrare Koichi Itagaki, che ancora una volta mette a segno una nuova scoperta, la quarta per lui in questo 2021, per un totale di 163 scoperte, che gli permettere di occupare la terza posizione nella Top Ten mondiale amatoriale, raggiungendo il neozelandese Stuart Parker.
Nella notte del 26 aprile individua una nuova stella di mag.+16,7 nella galassia a spirale NGC7767 posta nella costellazione di Pegaso a circa 430 milioni di anni luce di distanza. Le condizioni di scoperta erano davvero molto difficili con la galassia bassa sull’orizzonte est e con i primi chiarori dell’alba a disturbare la ripresa. A causa di questa vicinanza al Sole, non è stato ancora possibile ottenere uno spettro di conferma, pertanto al transiente è stata assegnata la sigla provvisoria AT2021kni.
Si tratta sicuramente di una supernova scoperta dopo il massimo di luminosità e infatti il 17 maggio il programma ATLAS ha ripreso l’oggetto, diminuito di luminosità a mag. +17,6. Avevamo già contattato e intervistato Koichi Itagakiin occasione della sua scoperta n. 100 (vedi articolo: ), ma visto questo numero incredibile di scoperte, abbiamo deciso di contattarlo nuovamente per chiedergli qual è il segreto dei suoi successi. Ci ha risposto, come immaginavamo, che per ottenere delle scoperte è necessaria una buona dose di fortuna, ma è fondamentale riprendere il maggior numero di galassie possibile ogni notte che è sereno e controllarle nel più breve tempo possibile.
Koichi Itagaki accanto al suo strumento principale, un riflettore da 60cm F.5,7.
Adesso Itagaki dispone di tre Osservatori: Yamagata, Okayama e Kochi, con sei telescopi dedicati alla ricerca di supernovae: tre riflettori da 35cm F.11, un riflettore da 50cm F.6, un riflettore da 50cm F.6,8 e un riflettore da 60cm F.5,7.
Con questa imponente strumentazione, riprende in automatico principalmente le galassie del catalogo NGC e ogni telescopio ottiene circa 50 target all’ora.
Panoramica dei tre osservatori utilizzati da Koichi Itagaki.
Moltiplicando le ore disponibili a notte per i sei telescopi, anche se lo stesso Itagaki ci ha riferito che difficilmente riesce ad avere sereno contemporaneamente nei tre Osservatori, viene fuori un numero impressionante di galassie che supera le 1000 unità a notte. La cosa che però ci ha lasciato a bocca aperta è che Itagaki controlla tutte queste immagini da solo, senza l’ausilio di un programma automatico di controllo immagini. Non possiamo che inchinarci di fronte a tanta costanza ed esperienza.
Stuart Parker accanto al suo Celestron 14 nel suo osservatorio privato in Nuova Zelanda.
Per adesso, nel 2021, solo due astrofili sono riusciti a ottenere delle scoperte. Oltre all’incredibile giapponese, anche il neozelandese Stuart Parker ottiene una nuova scoperta, per difendersi dall’attacco dell’astrofilo del Sol Levante, la seconda del 2021 che gli permette di riprendersi in solitario la terza posizione nella Top Ten mondiale amatoriale, raggiungendo quota 164.
Nella notte del 6 maggio individua infatti una nuova stellina di mag.+17,4 nella galassia a spirale barrata IC4367, posta nella costellazione del Centauro a circa 190 milioni di anni luce di distanza. Nella notte dell’ 11 maggio dal Gemini Observatory con il telescopio Gemini South da 8,10 metri posto a 2700 metri sul Cerro Pachon in Cile viene ripreso un primo spettro di conferma. La SN2021ltk, questa la sigla definitiva assegnata, viene annoverata fra le supernovae di tipo I, ma non è ben chiara la sottoclasse. Pochi giorni più tardi, il 14 maggio, sempre dal Gemini Observatory, viene ripreso un nuovo spettro, con le caratteristiche questa volta più definite, che ribalta la classificazione iniziale e riclassifica la supernova di tipo II con i gas espulsi dall’esplosione che viaggiano a una velocità di circa 10.200 km/s.
Immagine di scoperta della SN2021ltk ripresa da Stuart Parker.
Per IC4367 si tratta della seconda supernova conosciuta, la prima fu la SN2005bq di tipo Ic, scoperta il 17 aprile 2005 dal famoso astrofilo sudafricano Berto Monard.
Anche questa supernova non è però un facile oggetto da riprendere dalle nostre latitudini. La galassia ospite si trova infatti alla declinazione di -39° e pertanto saranno avvantaggiati gli osservatori del Sud Italia. Per esempio da Catania IC4367 culmina in meridiano a 14° sopra l’orizzonte, mentre a Milano raggiunge solo 6° sopra l’orizzonte Sud.
Claudio Balcon.
Sul versante italiano, naturalmente non abbiamo nuove scoperte, ma ci possiamo consolare ancora una volta con lo splendido lavoro che Claudio Balcon sta portando avanti sul lato spettroscopia. Il bravo astrofilo bellunese, classificando per primo nel TNS nel 2021 già 10 supernovae, raggiunge quota 29 e diventa il primo astrofilo al mondo in fatto di classificazioni nel TNS superando l’astrofilo inglese Robin Leadbeater fermo a quota 28.
Il nostro Claudio è riuscito, con un semplice telescopio Newton da 200mm F.5 e uno spettrografo auto-costruito, a ottenere un altro incredibile record, classificando la supernova più lontana mai classificata da un astrofilo. Stiamo parlando della SN2021ljv posta nella galassia PGC33963 distante ben 630 milioni di anni luce. Al momento della classificazione la supernova aveva una luminosità prossima alla mag.+17,5 e situata molto vicina al nucleo della galassia ospite. Sono state pertanto necessarie 6 pose da 30 minuti, per un totale di 3 ore. I complimenti sono d’obbligo anche per il nostro Claudio.
Immagine della SN2021ljv in PGC33963 ripresa da Paolo Campaner con un riflettore da 400mm F.5,5 – somma di 13 immagini da 75 secondi.
La galassia Ugc 10738 vista di taglio dal Very Large Telescope dell’Eso, in Cile. Crediti: Jesse van de Sande/European Southern Observatory
La galassia Ugc 10738 vista di taglio dal Very Large Telescope dell’Eso, in Cile. Crediti: Jesse van de Sande/European Southern Observatory
Ebbene sì, la nostra galassia potrebbe non avere nulla di speciale, almeno dal punto di vista strutturale ed evolutivo. Ed essere dunque una galassia a spirale “simile” a tante altre sparse nel cosmo. A suggerirlo è il risultato di un nuova ricerca che ha permesso di rilevare una galassia strutturalmente molto simile alla Via Lattea, mettendo in dubbio l’unicità delle sue origini.
La galassia sosia in questione è Ugc 10738, dista da noi 320 milioni di anni luce e secondo il nuovo studio, i cui risultati sono pubblicati su Astrophysical Journal Letters, risulta avere un disco galattico bipartito – costituito cioè di due componenti ben distinte – del tutto simile a quello della nostra galassia.
Acquisite da un team internazionale di astronomi utilizzando ilVery Large Telescope (Vlt) dello European Southern Observatory, in Cile, le dettagliate immagini del piano di Ugc 10738 mostrano infatti due strutture discali simili a quelle che si osservano nella Via Lattea: un “disco spesso”, o thick disc, e un “disco sottile”, o thin disk. Distinguere i due dischi è stato possibile grazie alla prospettiva di taglio – trasversale – offerta dalla galassia. «È un po’ come distinguere le persone basse da quelle alte», spiega Nicholas Scott, ricercatore all’Arc Centre of Excellence for All Sky Astrophysics in 3 Dimensions (Astro 3D) e primo autore dello studio. «Se provi a farlo dall’alto è impossibile, ma se guardi di lato diventa relativamente facile».
La somiglianza non è finita qui. I dati sui rapporti di metallicità stellare raccolti da Muse, uno spettrografo 3D sviluppato per il Vlt, rivelano infatti che ciascun disco presenta una distribuzione stellare analoga a quella dei dischi della Via Lattea, con le stelle più vecchie – identificate dalla loro bassa metallicità – contenute nel disco “spesso” e quelle più giovani – a più alta metallicità, come il Sole – contenute invece in quello “sottile”.
Un numero speciale dedicato alla nostra galassia, in occasione del rilascio della DR2 di Gaia nel 2018. Clicca e leggi!
Poiché una struttura simile suggerisce un processo di formazione simile, aver identificato una galassia strutturalmente uguale alla nostra fa pensare che il suo processo di formazione non sia certo unico, e forse nemmeno raro, bensì comune. Per questo motivo gli autori dello studio ritengono che la struttura della Via Lattea non sia il frutto di una rara e violenta collisione avvenuta molto tempo fa con una galassia più piccola, ma probabilmente il prodotto di un’evoluzione graduale, tipica della formazione di galassie a spirale con disco.
«Le nostre osservazioni indicano che i dischi sottili e spessi della Via Lattea non si sono formati a causa di una gigantesca fusione, ma da una sorta di percorso predefinito di formazione ed evoluzione delle galassie», dice a questo proposito Scott. «Questi risultati ci inducono a pensare che le galassie con strutture e proprietà simili alla Via Lattea potrebbero essere descritte come quelle “normali”».
«Questa è una prova abbastanza forte del fatto che le due galassie possano essersi evolute nello stesso modo», aggiunge Jesse van de Sande, ricercatore presso la stessa struttura di ricerca e coautore dello studio, «ma stiamo esaminando altre galassie per esserne sicuri».
Lo studio ha due profonde implicazioni, osservano i ricercatori. «Si pensava che i dischi sottili e spessi della Via Lattea si fossero formati dopo una rara e violenta fusione di galassie, e che quindi probabilmente non sarebbero stati trovati in altre galassie a spirale», sottolinea Scott. «La nostra ricerca mostra che questa visione probabilmente è sbagliata, e che la Via Lattea si è evoluta “naturalmente”, senza il coinvolgimento di eventi catastrofici. Ciò significa che le galassie simili alla Via Lattea sono probabilmente molto comuni». D’altra parte, continua il ricercatore, «questo significa anche che possiamo usare le osservazioni accurate che abbiamo della Via Lattea come strumento per analizzare meglio galassie molto più distanti che, per ovvie ragioni, non possiamo vedere in dettaglio».
«Questo lavoro è un importante passo avanti nella comprensione di come le galassie con disco si siano formate molto tempo fa», conclude Ken Freeman, professore all’Australian National University e tra i firmatari dello studio. «Sappiamo molto su come si è formata la Via Lattea, ma c’è sempre stato il dubbio sul fatto che potesse essere una galassia a spirale atipica. Ora sappiamo che la sua formazione è abbastanza tipica, simile a quella di altre altre galassie a disco».
La cartina mostra l'aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 Giu > 00:00; 15 Giu > 23:00; 30 Giu > 22:00. Crediti Coelum Astronomia CC-BY
A quell’ora il cielo apparirà attraversato nel basso meridiano dalla costellazione del Sagittario, individuabile facilmente grazie alla sua caratteristica figura a “teiera”, e dallo Scorpione, in cui brilla la rossa Antares.
Più in alto, sempre rivolti a sud, si passerà dall’Ofiuco all’Ercole, con quest’ultimo situato quasi allo zenit. Il Leone, che ci ha accompagnati nei mesi passati, si starà invece avviando al tramonto, mentre verso est comincerà ad alzarsi l’asterismo del Triangolo estivo formato da Vega, Deneb e Altair (le stelle più brillanti di Lira, Cigno e Aquila), insieme ai ricchissimi campi stellari che compongono la Via Lattea. Sull’orizzonte di nordest, più tardi durante la notte, farà capolino la grande Galassia di Andromeda (M 31), che raggiungerà una buona altezza sull’orizzonte già prima dell’alba, precedendo il sorgere delle Pleiadi (M 45) nel Toro.
Continua l’esplorazione del cielo con la UAI, tra le rubriche passate dedicate al mese di giugno trovi anche:
In giugno, continua l’apparente moto di risalita del Sole, che il giorno 21, alle ore 05:32 ora locale, raggiungerà il punto di massima declinazione nord dell’eclittica (pari a +23° 26′). In quel momento si verificherà il solstizio estivo, che nell’emisfero boreale sancirà l’inizio dell’estate astronomica.
L’evento del mese che riguarda la nostra stella quest’anno però è l’Eclissi Anulare del 10 giugno, che in Italia sarà purtroppo visibile solo (molto) parzialmente e solo dalle regioni settentrionali.
L’eclissi sarà infatti visibile a nord della latitudine 42.4° N sulla costa tirrenica e della 43.2° N su quella adriatica. Come si può vedere dall’animazione della NASA qui a sinistra, i paesi interessati dalla totalità (il pallino rosso al centro dell’ombra lunare) sono quelli del nord del mondo, dal Canada alla Groenlandia alle regioni più a nord est della Russia, mentre la fase parziale sarà visibile, tra gli altri, da buona parte dell’Europa, ma solo delle regioni della parte nord del nostro Paese.
L’eclisse, per chi potrà goderne nella sua totalità, sarà un’eclissi di Sole anulare, ovvero il disco lunare – trovandosi vicino all’apogeo, il punto della sua orbita più lontano dalla Terra – non riuscirà a coprire quello del Sole, lasciandone intravedere il contorno, un “anello di fuoco” sicuramente suggestivo, anche se non suggestivo quanto il “buio di giorno” di una eclissi totale.
Qui sotto gli orari e una rappresentazione di quello che si potrà vedere per le principali località italiane (fonte UAI)
Eclissi parziale di Sole. Simulazione relativa a Milano, ore 12:18
Eclissi parziale di Sole. Simulazione relativa a Venezia, ore 12:25
Eclissi parziale di Sole. Simulazione relativa a Firenze, ore 12:19
L'eclissi anulare di Sole ripresa il 4 gennaio del 2011 dal satellite Hinode. Credit: NASA/Hinode/XRT
A Milano sarà osservabile dalle 11:35 alle 13:04 con il Massimo alle 12:18 – (Mag. 0.097)
A Venezia dalle 11:48 alle 13:05 con il Massimo alle 12:25 – (Mag. 0.070)
A Firenze dalle 11:52 alle 12:49 con il Massimo alle 12:20 – (Mag. 0.037)
Per quanto riguarda i pianeti, questo mese Giove e Saturno continuano a migliorare la loro visibilità, imperando nella seconda parte della notte, con il secondo che, sorgendo circa un’ora prima del fratello più grande, sarà visibile già prima della mezzanotte. Potremo poi osservarli verso sudest fino a vederli sbiadire nelle luci dell’alba.
Venere invece domina il cielo della sera, e così sarà per tutto il periodo estivo. Lo potremo osservare nelle luci del crepuscolo serale per vederlo tramontare all’inizio della notte astronomica. Il 12 giugno sarà impegnato in una bella congiunzione con la sottile falce di Luna (vedi anche più sotto), accompagnato dalle luci di Castore e Polluce, la brillante coppia dei Gemelli con la quale “circonderà” la flebile luce del falcetto di Luna. Marte osserverà la scena da poco più in là.
Congiunzione Venere-Mercurio di Paolo Bardelli. Una bella congiunzione tra Venere e Mercurio di fine maggio, ultimo saluto del piccolo pianeta roccioso che si prende una pausa nel cielo di giugno. Cliccare sull'immagine per i dettagli di ripresa... e per lasciare un commento all'autore!
Difficoltà nell’osservazione di Marte e Mercurio, praticamente inosservabili anche se il primo potrà essere intravisto nella prima parte del mese, subito dopo il tramonto, basso all’orizzonte ovest-nordovest, pronto a raggiungere la botte degli Aloidi, il periodo di lungo riposo verso la congiunzione eliaca di questo autunno. Ci saluterà con una bella quanto tenue congiunzione con la falce di Luna del 13 giugno (attenzione però, a metà luglio sarà protagonista di una strettissima congiunzione con Venere, osservabile praticamente in diurna, una bella sfida per i più esperti). Il secondo, molto più veloce nell’apparire e nello sparire dal cielo del crepuscolo (serale o del mattino in base al periodo), sarà invece in congiunzione eliaca il giorno 11.
I grandi pianeti ghiacciati, Urano e Nettuno, stanno sorgendo sempre prima nel crepuscolo dell’alba, in particolare Nettuno sorge un’ora dopo Giove, completando con Saturno un ideale terzetto di giganti nel cielo dell’alba. Idealmente perché, al contrario dei due giganti gassosi ben visibili a occhio nudo, per osservare Nettuno serve come sempre l’uso di uno strumento.
LUNA
Per la informazioni sulle fasi, le librazioni e le formazioni da osservare rimandiamo alla rubrica dedicata la Luna di Giugno 2021.
Falce di Luna crescente di Roberto Ortu. Clicca per maggiori informazioni sulla ripresa.
Per chi invece segue le falci lunari appuntamento per la nottata del 7 giugno quando alle ore 04:01 fra le stelle della Balena sorgerà una falce in fase di 26,3 giorni. L’esiguo margine di tempo a disposizione prima che prevalgano le luci dell’alba, non oltre i 30/40 minuti circa, sarà appena sufficiente per una rapida occhiata e per l’acquisizione di eventuali immagini. Con tutte le limitazioni del caso (accentuata turbolenza, cielo ormai non più buio) sarà comunque visibile l’estremo settore occidentale della Luna.
Il mattino seguente, 8 giugno, sorgerà alle 04:24 una falce di 27,3 giorni ancora più problematica della precedente alla quale, con tutte le indispensabili precauzioni del caso, ci si potrà dedicare esclusivamente negli istanti in cui sorge dall’orizzonte.
Per quanto riguarda la Luna Crescente, appuntamento per la serata dell’11 giugno con una falce di 1,4 giorni che tramonterà alle ore 22.21. Sull’esigua porzione di superficie illuminata non ci sarà proprio nulla da osservare pertanto lo scarso tempo a disposizione basterà probabilmente solo per alcune foto. La sera successiva, il 12 giugno, falce molto più comoda che tramonterà alle ore 23:12 in fase di 2,4 giorni fra le stelle dei Gemelli, preceduta da Venere e seguita da Marte.
Qualche rapida osservazione potrà essere effettuata lungo il bordo orientale della Luna, in ogni caso sempre interessante in modo particolare per le innumerevoli strutture ristrette fra il bordo e il terminatore.
Consideriamo come “falce lunare” anche quella che la sera del 13 giugno tramonterà alle ore 23:55 in fase di 3,4 giorni, affiancata da Marte che l’avrà raggiunta.Per le osservazioni al telescopio (ma anche ad occhio nudo) sulla sottile superficie visibile del nostro satellite sarà possibile ammirare l’intero mare Crisium oltre al lato est del mare Fecounditatis e le rispettive cuspidi nord e sud.
Per questa tipologia di osservazioni, oltre agli ormai noti parametri osservativi, risulterà determinante disporre di un orizzonte il più possibile libero da ostacoli e sperare nella clemenza delle condizioni meteorologiche, anche se la stagione estiva ormai avanzata può sempre riservare brutte sorprese.
Si sapeva già che Samantha Cristoforetti sarebbe tornata sulla ISS, ma oggi ESA ha annunciato che l’astronauta italiana raggiungerà la Stazione Spaziale Internazionale nel 2022 a bordo di una capsula Crew Dragon di SpaceX. Come membro della missione Crew-4, Samantha avrà come compagni gli astronauti NASA, Kjell Lindgren e Bob Hines.
Samantha, una volta in orbita, avrà l’onore e l’onere di assumere il ruolo di comandante della ISS durante la Expedition 68.
L'approfondimento dedicato alla Missione Beyond con Luca Parmitano comandante della ISS nel 2019. Clicca e leggi!
Samantha sarà il quinto comandante della Stazione Spaziale Internazionale dell’ESA e il quarto della classe del 2009, inoltre sarà la prima donna europea a ricoprire questo ruolo e il secondo cittadino italiano, dopo Luca Parmitano.
Le decisioni sull’assegnazione dell’equipaggio e sul ruolo che ogni astronauta deve ricoprire sulla Stazione Spaziale vengono prese con il consenso del Multilateral Crew Operations Panel (MCOP), che comprende rappresentanti di tutti e cinque i partner internazionali: l’agenzia spaziale europea ESA, l’agenzia spaziale statunitense NASA, l’agenzia spaziale russa Roskosmos, la Japan Aerospace Exploration Agency JAXA e l’agenzia spaziale canadese CSA.
L’astronauta dell’ESA Frank De Winne è stato il primo comandante europeo della Stazione Spaziale. Ora rappresenta l’ESA nel MCOP come capo dell’European Astronaut Centre e afferma che la nomina di Samantha dimostra il valore attribuito agli astronauti dell’ESA dai suoi partner internazionali.
Sebbene il controllo generale della Stazione spetti ai direttori di volo a Terra, il comandante della Stazione Spaziale lavora per promuovere lo spirito di squadra tra gli astronauti e tra gli equipaggi a Terra e quelli nello spazio, garantendo che tutti i membri possano esprimersi al meglio.
Non sono ancora stati definiti i dettagli della missione, come ad esempio quale Crew Dragon verrà utilizzata poiché potrebbe trattarsi di un veicolo nuovo oppure di uno di quelli che avrà già volato in missioni precedenti.
Sono già noti i nomi dei membri che giungeranno sulla ISS con le Sojuz russe. Sergej Prokop’ev, Anna Kikina e Dimitrij Petelin faranno parte della Expedition 68 raggiungendo la ISS con la Sojuz MS-22, mentre Oleg Kononenko, Nikolaj Cub e Andrej Fedjaev faranno parte della Expedition 69 dopo aver raggiunto la ISS a bordo della Sojuz MS-23.
Con questa nuova missione Samantha non potrà che migliorare il proprio e già ragguardevole record di giorni di presenza nello spazio che attualmente la vede a quota 199.
Superluna su Palidoro. La Superluna del 26 maggio scorso, ripresa da Palidoro in una vista spettacolare nei momenti più suggestivi mentre sorge sopra l’orizzonte. Foto di Giuseppe Conzo del Gruppo Astrofili Palidoro. Per i dettagli di ripresa, cliccare sull'immagine.
Già la prima notte di questo mese, 1 giugno, alle ore 01:54 la Luna sorgerà in fase di 20 giorni accompagnata dai pianeti Giove e Saturno mentre alle ore 09:24 del giorno successivo, il 2 giugno, sarà in Ultimo Quarto. Nel caso specifico sorgerà alle ore 02:20 in fase di 21,5 giorni alla distanza di 387499 km e visibile fino all’alba.
Per gli appassionati di osservazioni lunari potrebbe essere una buona occasione per passare in rassegna l’enorme quantità di dettagli individuabili sulle immense distese basaltiche di Procellarum, Imbrium, Nubium, Humorum e altri, oltre allo spettacolare “triangolo” costituito dai crateri Aristarchus – Copernicus – Grimaldi.
Alle ore 12:53 del 10 giugno avrà termine il corrente ciclo lunare con la fase di Luna Nuova e con la successiva ripartenza della fase crescente fino a raggiungere di sera in sera le migliori condizioni osservative.
La fase di Primo Quarto si avrà alle ore 05:54 del 18 giugno ma con la Luna a -35° sotto l’orizzonte mentre per effettuare osservazioni col telescopio sarà necessario attendere le ore serali a partire dalle 22:00 circa, col nostro satellite in fase di 8 giorni a un’altezza iniziale di +39° e visibile fino alle prime ore della notte seguente quando scenderà sotto l’orizzonte.
Anche se ormai gran parte delle strutture è stata ampiamente descritta nei precedenti articoli, volendo scorrere lungo la linea del terminatore potrà comunque rivelarsi interessante l’osservazione dei grandi crateri situati sul bordo orientale del mare Nubium, dal vastissimo Deslandres di 241 km di diametro per poi dedicarsi allo spettacolare allineamento dei grandi crateri da Walther (diametro 145 km) in direzione nord fino a Hipparchus (diametro 155 km) situato in prossimità dal Sinus Medii, con la concreta possibilità di individuare sempre nuovi dettagli oppure con una differente percezione degli stessi rispetto a precedenti osservazioni.
Al culmine della fase di Luna Crescente, alle ore 20:40 del 24 giugno, il nostro satellite sarà in Plenilunio, circa 40 minuti prima di sorgere (ore 21:19) alla distanza di 362.201 km dalla Terra e con diametro apparente di 32,99′, pertanto perfettamente osservabile fin verso l’alba del mattino seguente.
Si precisa che, per ovvi motivi, non vengono indicati i giorni in cui i punti di massima Librazione si allontanano dalla superficie lunare illuminata dal Sole.
Librazioni Regione Nordest
23 giugno
Librazione est cratere Mercurius. Fase 13 giorni, sorge 20:04.
24 giugno Librazione Mercurius/Humboldtianum. Fase 14 giorni, sorge 21:19.
Nel caso specifico la massima Librazione interesserà l’area intorno al bordo lunare alla latitudine di Hercules-Atlas nel settore nordest della Luna, ma potrebbe rivelarsi interessante anche andare ad osservare il bordo sud-sudovest dal cratere Schickardfino alla regione polare meridionale passando per Baillydi 311 km che vedremo illuminato solo per metà della sua platea.
Ripresa contestualmente la fase calante il nostro satellite di sera in sera abbandonerà progressivamente le comode ore serali per rintanarsi sempre più in orari notturni. Alle ore 00:46 del 30 giugno la Luna sorgerà per l’ultima volta nel corso di questo mese. Per l’occasione sarà in fase di 19,5 giorni con illuminazione al 69%. Con la lunga notte lunare ormai scesa sui mari Crisium, Fecounditatis e Nectaris potranno essere osservate in prossimità del terminatore vaste porzioni dei mari Frigoris, Serenitatis e Tranquillitatis ancora illuminate dal Sole sempre più basso sull’orizzonte della Luna.
La fase di Ultimo Quarto è prevista per il giorno successivo, 1 luglio, alle ore 23:11 ma ne riparleremo nel prossimo articolo.
➜ La Luna mi va a pennello. Se la fotografia non basta, Gian Paolo Graziato ci racconta come dipingere dei rigorosi paesaggi lunari, nei più piccoli dettagli… per poi lasciarsi andare alla fantasia e all’imaginazione!
Dopo il fatidico atterraggio annunciato il 16 maggio scorso, c’è stata una crescente delusione mista a una punta di scetticismo di fronte alla totale assenza di immagini a conferma del risultato. Una attesa così prolungata è insolita, la NASA ci ha abituati a vedere le prime riprese da parte di un rover praticamente in tempo reale, appena arrivano al centro di controllo, tipicamente entro un’ora dall’atterraggio. In questo caso, però, il ritardo era in buona parte giustificato dal fatto che, nei primi giorni, non è stato possibile stabilire un collegamento diretto e a “banda larga” tra il rover e l’orbiter che lo ha rilasciato e che funge anche da “ponte radio” per inviare tali dati a Terra.
In effetti, poco dopo il rilascio del complesso formato dal modulo di ingresso atmosferico, il lander e il rover, la sonda madre Tianwen-1 è stata impegnata in una serie di manovre per aggiustare la sua orbita e accorciarne il periodo. L’orbiter ha effettuato ben 4 accensioni in prossimità del peri-astro (il punto più vicino alla superficie marziana) e, nel giro di un paio di giorni, il periodo orbitale si è ridotto a 8,5 ore (circa un quarto della durata di un Sol); questo ha consentito di utilizzare l’orbiter come un ricevitore/ripetitore efficace dei dati provenienti dal rover.
Due fotogrammi tratti dai video del distacco della capsula, ripresi da due telecamere di controllo sull'orbiter. - Credits: CNSA - Processing: Marco Di Lorenzo
Così si è passati da una velocità di soli 2 bit al secondo dei dati di telemetria ricevuti a Terra, direttamente tramite il debole segnale del rover, a un collegamento UHF e banda X tramite l’orbiter con svariati kbit/s, per un volume totale che ora è stimato tra i 2,5 e i 6 Mbit al giorno. Le prime immagini dovrebbero essere giunte alle stazioni a Terra nelle prime ore di oggi e, a metà mattinata, hanno cominciato a circolare in rete. Sono apparse le prime due foto riprese al suolo e anche un paio di filmati sullo sganciamento del complesso dalla sonda madre, prima della discesa atmosferica (immagini qui sopra). Le ha rilasciate l’Amministrazione Spaziale Nazionale Cinese (CNSA) ma non sulla sua pagina ufficiale(che risulta di fatto inaccessibile al momento), bensì a questo link alternativo.
Delle due foto in apertura, quella a colori è stata ripresa dalla “mastcam” del rover, prima disposta orizzontalmente e ora innalzata sopra il “deck”. Si tratta, per la precisione, della telecamera di navigazione che verrà usata per identificare il percorso del rover sulla superficie; si vede la parte posteriore del rover, con i pannelli solari dispiegati e l’antenna ad alto guadagno puntata verso lo Zenith. Sullo sfondo, la superficie di Utopia Planitia è chiaramente visibile con pochi sassi sparsi.
Quella a destra, in bianco e nero, è invece una ripresa della telecamera “HazCam” anteriore; si tratta di una vista grandangolare e mostra, oltre al bordo della piattaforma di atterraggio (lander), anche la rampa già pronta con i due binari sui quali, sabato prossimo, il rover Zhu Rong dovrebbe discendere fino alla superficie, per poi scattare i primi selfie e iniziare le indagini sul terreno. Si notano in alto le due lunghe antenne del radar per l’analisi del sottosuolo e altri meccanismi, anch’essi dispiegati normalmente.
Secondo la timeline pubblicata in questo sito, le indagini scientifiche vere e proprie inizieranno il 28 maggio (Sol 14) e dureranno fino al Sol 90, durata nominale della missione del rover. Quindi dopo ferragosto il rover dovrebbe interrompere le sue operazioni e l’orbiter tornerà nell’orbita di “mapping”, per poter esaminare la superficie dell’intero pianeta. Sulla base però delle esperienze precedenti dei due rover Yutu lunari, Zhurong potrebbe agevolmente sopravvivere oltre la sua durata nominale, magari comunicando meno spesso con la Terra e procedendo a velocità ridotta. Questo è prevedibile, tanto più che i suoi pannelli solari sono in grado di orientarsi e quindi scuotere almeno in parte la polvere che si dovesse depositare su di essi, una possibilità che invece non è stata prevista sui veicoli americani (i due rover Spirit/Opportunity e i lander Phoenix/Insight) decretandone la fine missione, comunque giunta molto oltre la durata nominale prevista.
Credits: CNSA / Weibo
Qui sopra, una mappa aggiornata del luogo di atterraggio ripreso dall’orbiter, le nuove coordinate di Zhurong sono 25,1° N, 109,9° E, circa 50 km più a nord della posizione inizialmente prevista. In pratica il rover si torva a circa 1700 km dal luogo in cui si è posato il lander Viking-2 nel 1976, sempre in Utopia Planitia ma decisamente più a Nord. Inoltre, il rover cinese si trova a oltre 2300 km da Curiosity e oltre 1800 km da Perseverance, gli altri due robot funzionanti su Marte; di conseguenza, non c’è alcuna speranza (o timore) che si possano mai incontrare!
Cos'è una Superluna? E una miniluna? Tutti i numeri con un pizzico di ironia assieme ad Aldo Vitagliano. Clicca e leggi.
L’Apod di oggi, 25 maggio, (il celebre sito della NASA, Astronomy Picture of the Day, che propone ogni giorno una diversa immagine astronomica) ha pubblicato un timelapse che mostra come cambia la luminosità della Luna durante un’eclissi lunare totale. Il video è di Wang Letian e Zhang Jiajie, ed è stato ripreso durante l’eclissi di 5 ore del 31 gennaio 2018.
Non perché sia qualcosa di mai visto, ma perché domani, 26 maggio, avverrà una di queste eclissi che oltre ad essere del tipo più “spettacolare” da osservare a occhio nudo (ricordate la magnifica eclissi di Luna in congiunzione con Marte in opposizione del 27 luglio 2018?), avverrà anche con la Luna vicina al perigeo (ovvero alla sua distanza minima dalla Terra): una super eclissi totale di Luna… o una eclissi totale di superluna?
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Quella di domani, per i fortunati che potranno osservarla, quindi sarà non solo una “Luna di sangue” (dal colore rossastro che prende durante il massimo, grazie alla luce riflessa da “tutti i tramonti” terrestri), ma anche una “superluna”, come ormai viene mediaticamente chiamata la Luna Piena vicina al perigeo (quindi al massimo della sua grandezza angolare e luminosità).
Purtroppo dall’Italia ci dovremo accontentare solo di quest’ultima, perché l’eclissi sarà visibile solo dal sud-est asiatico al sud-ovest delle Americhe, come mostra la grafica qui sotto.
Crediti NASA's Scientific Visualization Studio
Il fenomeno infatti inizia alle 10:47 (ora italiana), del 26 maggio e vede la Luna transitare nell’ombra della Terra dalle 11:45 alle 14:52, e si conclude alle 15:49. Il tutto quindi si svolgerà sotto ai nostri piedi…
Possiamo però consolarci con l’osservazione e la ripresa della Luna Piena, meteo permettendo, sempre bella e suggestiva, soprattutto sapendo che sarà “così vicina”. La Luna Piena sorgerà alle ore 21:13della medesima serata e dominerà praticamente incontrastata il cielo fino all’alba, e si troverà a una distanza di circa 363283 km.
PhotoCoelum. SuperLuna vs. MiniLuna di Nunzio Micale. Clicca sull'immagine per tutti i dettagli di ripresa.
In realtà, per quanto “ci giureremmo”, a occhio nudo non è così facile apprezzare la differenza tra una Superluna e una Luna Piena qualsiasi (serve un confronto fotografico), ma la suggestione fa il suo e, osservandola al suo sorgere, ci sembrerà ancora più grande, grazie a un effetto ottico dovuto alla vicinanza con il panorama che fa credere al nostro cervello di vederla più grande che se fosse alta in cielo. L’illusione, perché si tratta più di un’illusione che di un effetto ottico, è nota come “illusione lunare“.
Se poi il meteo non fosse dalla nostra parte, possiamo sempre rivivere le emozioni della Notte in Rosso dell’estate 2018 attraverso le più belle immagini dei nostri lettori!
La Full Flower Moonrise di Tiziano Boldrini, una Luna Piena che sorge riflessa sullo specchio d'acqua anche questa rilanciata dal sito Apod della NASA. Cliccando sull'immagine tutti i dettagli di ripresa.
Ferro e Nichel nella rarefatta atmosfera di una cometa. Nell'immagine vediamo lo spettro di luce della cometa C/2016 R2 (PANSTARRS), che vediamo sullo sfondo di questa grafica, con una sua immagine ripresa dal telescopio Speculum, dell'Osservatorio ESO di Paranal. Ogni picco chiaro nello spettro rappresenta un diverso elemento chimico, il ferro e il nichel sono evidenziati rispettivamente con una scintilla blu e arancione. Gli elementi sono stati individuati solo oggi grazie alla sensibilità dello strumento UVES, che arriva sotto ai 300nm. Le principali linee di questi due elementi si esprimono attorno ai 350nm, rendendosi visibili, anche se debolmente, proprio grazie a UVES, che può così "intitolarsi a pieno merito" la scoperta. Crediti: ESO/L. Calçada, SPECULOOS Team/E. Jehin, Manfroid et al.
Ferro e Nichel nella rarefatta atmosfera di una cometa. Nell'immagine vediamo lo spettro di luce della cometa C/2016 R2 (PANSTARRS), che vediamo sullo sfondo di questa grafica, con una sua immagine ripresa dal telescopio Speculum, dell'Osservatorio ESO di Paranal. Ogni picco chiaro nello spettro rappresenta un diverso elemento chimico, il ferro e il nichel sono evidenziati rispettivamente con una scintilla blu e arancione. Gli elementi sono stati individuati solo oggi grazie alla sensibilità dello strumento UVES, che arriva sotto ai 300nm. Le principali linee di questi due elementi si esprimono attorno ai 350nm, rendendosi visibili, anche se debolmente, proprio grazie a UVES, che può così "intitolarsi a pieno merito" la scoperta. Crediti: ESO/L. Calçada, SPECULOOS Team/E. Jehin, Manfroid et al.
«È stata una grande sorpresa rilevare gli atomi di ferro e nichel nell’atmosfera di tutte le comete che abbiamo osservato negli ultimi due decenni, circa 20, e anche in quelle lontane dal Sole in un ambiente spaziale freddo», afferma Jean Manfroid dell’Università di Liegi, Belgio, che ha condotto il nuovo studio sulle comete del Sistema Solare pubblicato il 19 maggio su Nature.
Gli astronomi sanno che i metalli pesanti esistono nell’interno polveroso e roccioso delle comete. Ma, poiché i metalli solidi di solito non “sublimano” (diventano gassosi) a basse temperature, non ci si aspettava di trovarli nell’atmosfera delle comete fredde che viaggiano lontano dal Sole. I vapori di nichel e ferro sono stati ora rilevati persino nelle comete osservate a più di 480 milioni di chilometri dal Sole, più di tre volte la distanza Terra-Sole.
L’equipe belga ha trovato ferro e nichel nell’atmosfera delle comete in quantità approssimativamente uguali. Il materiale nel nostro Sistema Solare, per esempio quello che si trova nel Sole e nei meteoriti, di solito contiene circa dieci volte più ferro che nichel. Questo nuovo risultato ha quindi implicazioni per la comprensione del Sistema Solare primitivo, ma l’equipe sta ancora decodificando quali siano.
«Le comete si sono formate circa 4,6 miliardi di anni fa, nel Sistema Solare giovanissimo, e da allora non sono cambiate. In questo senso, sono come fossili per gli astronomi», aggiunge il coautore dello studio Emmanuel Jehin, anch’egli dell’Università di Liegi.
Sebbene l’equipe belga stia studiando questi oggetti “fossili” con il VLT dell’ESO da quasi 20 anni, finora non aveva individuato la presenza di nichel e ferro nell’atmosfera. «Questa evidenza è passata inosservata per molti anni», spiega Jehin.
Qui l'immagine pulita della cometa, situata nella parte esterna del sistema solare C / 2016 R2 (PANSTARRS). Questa nuova immagine è stata catturata da un progetto basato presso l’osservatorio Paranal dell'ESO in Cile, chiamato “la ricerca di pianeti abitabili che transitano attorno a stelle ultra fredde (in inglese the Search for habitable Planets EClipsing ULtra-cOOl Stars), o SPECULOOS in breve. Le osservazioni di SPECULOOS mostrano che la coda di questa cometa cambia radicalmente in una sola notte, creando una serie dinamica di immagini. L'immagine, mostrata qui, e i fotogrammi di accompagnamento nel film time-lapse, includono osservazioni prese il 18 gennaio 2018 durante la fase di test del telescopio Callisto di SPECULOOS, sono state scattate quando la cometa era a 2,85 UA dal Sole (1 UA è la distanza Terra-Sole) e mentre viaggiava verso l'interno del Sistema Solare. Questa cometa è di particolare interesse per via dei rari composti e molecole che gli scienziati hanno rilevato nella sua chioma, monossido di carbonio e ioni azoto, che avendo righe distintive blu in emissione le hanno fatto avere l'appellativo di "cometa blu". Una cometa timida che orbita attorno al Sole solo una volta ogni 20.000 anni, il suo passaggio più recente è stato nel maggio 2018. L'immagine è stata scattata mentre il telescopio seguiva il movimento della cometa; le strisce luminose di luce sullo sfondo sono stelle lontane, ma la cometa e la sua chioma gassosa sono a fuoco, una testimonianza del potere di inseguimento di SPECULOOS. Crediti: ESO/SPECULOOS Team/E. Jehin
L’equipe ha utilizzato i dati dello strumento Ultraviolet and Visual Echelle Spectrograph (UVES) installato sul VLT dell’ESO, che utilizza una tecnica chiamata spettroscopia per analizzare le atmosfere delle comete a diverse distanze dal Sole. Questa tecnica consente agli astronomi di rivelare la composizione chimica degli oggetti cosmici: ogni elemento chimico lascia un’impronta unica – un insieme di linee – nello spettro della luce degli oggetti.
L’equipe belga aveva individuato linee spettrali deboli e non identificate nei dati UVES e, a un esame più attento, ha notato che indicavano la presenza di atomi neutri di ferro e nichel. Un motivo per cui gli elementi pesanti sono stati difficili da identificare è che sono presenti in quantità molto piccole: l’equipe stima che per ogni 100 kg di acqua nell’atmosfera delle comete ci sia solo 1 g di ferro e circa la stessa quantità di nichel.
«Di solito si trova 10 volte più ferro che nichel, mentre nelle atmosfere cometarie abbiamo trovato circa la stessa quantità di entrambi gli elementi. Siamo giunti alla conclusione che potrebbero provenire da un tipo speciale di materiale sulla superficie del nucleo della cometa, che sublima a una temperatura piuttosto bassa e rilascia ferro e nichel all’incirca nelle stesse proporzioni», spiega Damien Hutsemékers, un altro membro dell’equipe belga dell’Università di Liegi.
Sebbene il team non sia ancora sicuro di quale materiale si tratti, i progressi nel campo dell’astronomia – come l’imager e lo spettrografo ELT per il medio infrarosso (METIS) che verranno installati sull’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO ora in costruzione – consentiranno ai ricercatori di confermare la fonte degli atomi di ferro e nichel trovati nell’atmosfere di queste comete.
L’equipe belga spera che il loro studio spianerà la strada a future ricerche. «Ora si cercheranno quelle righe nei dati d’archivio da altri telescopi», conclude Jehin. «Riteniamo che questo innescherà anche nuovi lavori sull’argomento».
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Metalli pesanti interstellari
Un altro notevole studio pubblicato sempre il 19 maggio su Nature mostra che i metalli pesanti sono presenti anche nell’atmosfera della cometa interstellare2I/Borisov. Un’equipe in Polonia ha osservato questo oggetto, la prima cometa aliena a visitare il nostro Sistema Solare, utilizzando lo spettrografo X-shootersul VLT dell’ESO quando la cometa ci è passata vicino circa un anno e mezzo fa. Hanno scoperto che la fredda atmosfera di 2I/Borisov contiene nichel gassoso.
Nell'immagine viene illustrata la scoperta di nickel nell'atmosfera della cometa interstellare 2I/Borisov. Nello spettro, analogamente all'immagine precedente, sono indicate in arancione le righe dell'elemento. Sullo sfondo un'immagine reale della cometa ripresa dal Very Large Telescope (VLT) dell'ESO a fine 2019. Lo spettro è stato ripreso in questo caso dallo strumento X-shooter del Unit Telescope 2 (UT2, Kueyen) del VLT dell'ESO. Crediti: ESO/L. Calçada/O. Hainaut, P. Guzik and M. Drahus
«All’inizio abbiamo avuto difficoltà a credere che il nichel atomico potesse davvero essere presente in 2I/Borisov così lontano dal Sole. Ci sono voluti numerosi test e controlli prima che potessimo finalmente convincerci», afferma l’autore dello studio Piotr Guzik dell’Università Jagellonica in Polonia.
Lo speciale dedicato in occasione del passaggio della cometa. Clicca e leggi.
La scoperta è sorprendente perché, prima dei due studi pubblicati oggi, i gas con atomi di metalli pesanti erano stati osservati solo in ambienti caldi, come nell’atmosfera di esopianeti ultra caldi o in comete in evaporazione che passavano troppo vicino al Sole. 2I/Borisov è stata invece osservata quando si trovava a circa 300 milioni di chilometri dal Sole, circa il doppio della distanza Terra-Sole.
Studiare i corpi interstellari in dettaglio è fondamentale per la scienza perché trasportano informazioni inestimabili sui sistemi planetari alieni da cui provengono. «All’improvviso abbiamo capito che il nichel gassoso è presente nell’atmosfera delle comete in altri luoghi della galassia», afferma il coautore Michał Drahus, anche lui dell’Università Jagellonica.
Lo studio polacco e quello belga mostrano che 2I/Borisov e le comete del Sistema Solare hanno ancora più cose in comune di quanto si pensasse in precedenza. «Provate a immaginare che le comete del Sistema Solare abbiano i loro veri analoghi in altri sistemi planetari – ma quanto è bello?», conclude Drahus.
Ulteriori Informazioni
Questo studio è stato presentato in due articoli che verranno pubblicati dalla rivista Nature.
Nel caso specifico la scelta è caduta sulla serata del 18 maggio col nostro satellite in fase di 7 giorni (la serata successiva la Luna sarà in Primo Quarto) che intorno alle ore 21:30 si troverà ad un’altezza di +49° con frazione illuminata del 39,7%, visibile pertanto per tutta la serata fino a circa le 02:30 della notte seguente quando scenderà sotto l’orizzonte.
Per individuare la regione lunare oggetto delle nostre osservazioni basterà orientare il telescopio in prossimità del bordo occidentale della vastissima e scura area basaltica del mare Tranqullitatis.
Questo mese ci troviamo sul margine occidentale della vastissima e scura area basaltica del mare Tranqullitatis
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Il cratere Julius Caesar
Per quanto concerne il già citato Julius Caesar, si tratta di un vasto e antichissimo cratere di 94 km di diametro la cui origine viene fatta risalire al Periodo Geologico Pre Nectariano collocato da 4,5 a 3,9 miliardi di anni fa.
Le pareti intorno al cratere, che raggiungono l’altezza di 3400 metri, si presentano notevolmente degradate in modo particolare sul lato est, con la netta sovrapposizione di alcuni crateri secondari fra cui J.Caesar-G di 20 km, mentre a sud e sudest le pareti si riducono a semplici e bassi rilievi collinari. I segmenti maggiormente elevati dei bastioni montuosi intorno a Julius Caesar li potremo individuare sui lati ovest e nordovest dove si segnalano i crateri J.Caesar-A di 13 km e J.Caesar-B di 7 km di diametro oltre a J.Caesar-J e J.Caesar-H entrambi di soli 3 km.
Nella platea di Julius Caesar, quasi completamente pianeggiante ad eccezione del settore sudest, gli innumerevoli craterini e alcuni sottili solchi costituiranno un ottimo target per testare le ottiche del telescopio.
Nell’area esterna di questa antichissima struttura lunare, tralasciando la già vista rima Ariadaeus, sarà molto interessante visitare Julius Caesar-1 un notevole rilievo montuoso di origine vulcanica le cui dimensioni sono di 28 x 14 km, con forma allungata, ripide pareti e un piccolo cratere sommitale. A pochi km di distanza un altro scudo vulcanico noto come Ariadaeus-1 di 6 x 6 km. Entrambe le formazioni sono situate a sud, dove si segnalano anche J.Caesar-C e J.Caesar-D di 5 km di diametro.
A occidente l’irregolare Boscovich-E di 21 km con gli adiacenti Boscovich-A di 6 km e Boscovich-D di 5 km unitamente allo scudo vulcanico Boscovich-E1 di 15 x 15 km, situato proprio sulla parete sud di Boscovich-E.
Ritengo molto interessante e meritevole di approfondite osservazioni l’area a nord di J.Caesar fino in prossimità del Lacus Lenitatis. Si tratta di crateri estremamente irregolari e ricoperti di scure rocce basaltiche fra cui J.Caesar-P di 37 km di diametro di forma vagamente triangolare con l’adiacente J.Caesar-F di 19 km di forma ovale e con pareti quasi inesistenti per terminare con J.Caesar-Q di 32 km di diametro. Quest’ultimo cratere si differenzia dagli altri per le sue pareti presenti solo sui lati est e ovest risultando pertanto inesistenti a nord e sud. Infine a est, dopo una zona dominata da basse colline, si trova l’antichissimo Sinus Honoris in diretta comunicazione con l’adiacente settore nordovest del mare Tranquillitatis.
Il cratere Sosigenes e le sue rimae
Immediatamente all’esterno di Julius Caesar, esattamente a sudest, puntiamo ora il telescopio sul cratere Sosigenes di 19 km di diametro, affacciato sul bordo occidentale di Tranquillitatis, giunto fino ai nostri giorni dal Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa.
La cerchia delle pareti intorno al cratere, alta circa 1700 metri, presenta un discreto stato di conservazione con lunghe linee di cresta sommitali, mentre nella platea vi si potranno individuare solo minuscoli craterini.
Nell’area esterna citiamo Sosigenes-B di 4 km a sudovest, ma non si potrà perdere l’occasione per osservare in dettaglio il vicino Sosigenes-A di 12 km di diametro situato pochi km più a sudest. Anche questo è in discrete condizioni di conservazione con pareti regolari e una platea almeno apparentemente priva di dettagli particolarmente interessanti, mentre la peculiarità di questa struttura è costituita dalle Rimae Sosigenes, un sistema di solchi estesi per circa 160 km in direzione nord/sud ma con alcune differenziazioni.
Infatti vari segmenti paralleli da Sosigenes-A si estendono verso nord fino al cratere Maclear mentre un singolo segmento delle medesime Rimae si estende verso sud fino in prossimità del cratere Ariadaeus-E intersecando perpendicolarmente un’altra sottile fessurazione del suolo. Da notare infine come il segmento più orientale di queste rimae sia intersecato da una breve quanto evidente catena costituita da piccoli crateri e sprofondamenti.
Per individuare le Rimae Sosigenes come strumento ottico viene indicato un riflettore di almeno 300mm di diametro, ma vale quanto già scritto più volte in questi casi: provare anche con telescopi di diametro inferiore senza alcuna preclusione.
Il cratere Maclear
Per quanto riguarda Maclear, si tratta di un cratere di 20 km di diametro la cui formazione viene fatta risalire al Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa. La modesta cerchia montuosa intorno al cratere non supera l’altezza di 600 metri sulla quale non si evidenzia un particolare stato di degrado mentre la platea risulta relativamente piatta e di colore scuro.
Nell’area immediatamente esterna non potrà mancare una visita alle Rimae Maclear, costituite da solchi paralleli e distanziati orientati in direzione nord/sud estesi per circa 110 km verso il cratere Al-Bakri situato a sud del promontorio di Cape Acherusia. L’origine di questi solchi viene presumibilmente ricondotta al Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa.
Per l’osservazione delle Rimae Maclear viene indicato un riflettore di almeno 300mm anche se l’ultima parola, come nella maggior parte dei casi, spetterà ad un giudice dispotico quanto inappellabile: il seeing della serata.
Il cratere Ross
Proseguendo lungo il settore nordoccidentale del mare Tranquillitatis, vediamo ora il cratere Ross di 27 km di diametro la cui origine viene fatta risalire al Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. Le pareti intorno al cratere, alte 1800 metri, non sono particolarmente degradate ad eccezione della sovrapposizione di qualche piccolo cratere e alcuni evidenti sprofondamenti.
La platea si presenta relativamente piatta nella quale si potranno individuare numerosi rilievi collinari che dai versanti interni delle pareti si estendono verso il centro del cratere. Notare infine un rilievo in posizione quasi centrale decentrato verso ovest.
Nell’area esterna intorno al cratere si segnalano Ross-B di 6 km ad ovest, Ross-H di 5 km a sud, Ross-D di 9 km a nordest, mentre a sudest segnalo i crateri Ross-E-F-G di 4/5 km di diametro.
Il cratere Plinius
Proprio nell’angolo più nordoccidentale del mare Tranquillitatis, e a breve distanza dal margine meridionale del mare Serenitatis, vediamo ora il cratere Plinius di 44 km di diametro giunto fino ai nostri giorni dal Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa.
Si tratta di una notevole struttura lunare circondata da una ripida cerchia montuosa che raggiunge l’altezza di 2300 metri su cui sarà semplice individuare, oltre a vari piccoli crateri, anche lunghi terrazzamenti ad eccezione di vari collassamenti sulla parte settentrionale.
Sul fondo di Plinius l’osservazione potrà rivelarsi alquanto interessante. Infatti si potrà notare subito come l’area pianeggiante sia limitata solo a una porzione del settore orientale mentre il resto della platea è letteralmente occupato da innumerevoli rilievi sia collinari che montuosi distribuiti dal centro del cratere fino alla base delle pareti nord, ovest e sud. Si segnalano inoltre un sistema montuoso in posizione centrale e numerosi piccoli crateri.
Nell’area esterna, siamo ormai nella piana di Tranquillitatis, si segnalano Plinius-A di 4 km di diametro a sud, Tacquet-C di 6 km e Al-Bakri di 12 km a sudest, mentre a nord l’interessante sistema di solchi grossolanamente paralleli delle Rimae Plinius (Periodo Geologico Imbriano da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa) estesi per circa 130 km lungo l’estremità meridionale del mare Serenitatis fra l’antichissimo promontorio di Cape Acherusia di 41 km di lunghezza e 1500 metri di altezza (Periodo Geologico Pre Imbriano da 4,5 a 3,8 miliardi di anni fa) e il monte Argaeus la cui origine risale al Periodo Geologico Nectariano collocato a 3,9 miliardi di anni fa, esteso per 51 km di lunghezza e 2500 metri di altezza.
Per l’osservazione telescopica delle Rimae Plinius è richiesto uno strumento a riflessione di almeno 200mm di diametro, ma invito i possessori di telescopi di diametro inferiore a non rinunciare in partenza a questo target, naturalmente seeing permettendo.
Il cratere Dawes
A questo punto ci ritroviamo in corrispondenza dell’estremità settentrionale del mare Tranquillitatis e visitiamo Dawes, un cratere di 19 km la cui origine viene fatta risalire al Periodo Geologico Copernicano collocato a non oltre 1 miliardo di anni fa.
Si tratta di una formazione circolare in posizione isolata nella vastissima distesa basaltica fra Serenitatis a nord e Tranquillitatis a sud. La cerchia delle sue ripide pareti alte circa 2300 metri si presenta in buone condizioni di conservazione e con lunghe linee di creste sommitali, mentre nella sua platea sarà possibile individuare numerosi ed estesi rilievi collinari e lunghi avvallamenti anche curvilinei fino a rendere il fondo del cratere molto tormentato. È possibile notare anche un monte in posizione centrale.
All’esterno del cratere, immediatamente a est, si segnala la breve Rima Dawes di 15 km di lunghezza orientata in direzione nord/sud, praticamente un largo e curvilineo avvallamento.
Il settore settentrionale del mare Tranquillitatis
Proseguiamo con l’osservazione delle principali strutture del settore settentrionale del mare Tranquillitatis e, orientando il telescopio immediatamente a sud del monte Argaeus (già visto), centriamo nell’oculare il cratere Fabbroni di 12 km di diametro proveniente dal Periodo Geologico Copernicano collocato a non oltre di 1 miliardo di anni fa. La relativamente giovane età geologica di questa struttura lunare viene evidenziata dal buono stato di conservazione delle sue ripide pareti che si innalzano fino a 2100 metri, mentre sul fondo del cratere non si notano dettagli degni di nota.
Nell’area esterna al cratere, ad eccezione del già citato monte Argaeus a nord, col telescopio si potrà spaziare in lungo e in largo su una moltitudine di piccolissimi craterini, anonimi e sottili solchi oltre a qualche gruppo di basse colline.
E proprio dopo queste basse colline sul margine nordorientale di Tranquillitatis si consiglia una visita all’interessante cratere Vitruvius di 31 km di diametro. Questa struttura lunare vide la propria formazione nel Periodo Geologico Imbriano Superiore collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa.
Sulla cerchia delle pareti intorno al cratere, non ancora degradate ed alte 1600 metri, si potranno individuare lunghe linee di creste sommitali oltre a vari sprofondamenti e numerosi piccoli crateri.
L’osservazione al telescopio della platea di Vitruvius consentirà di percepire la notevole presenza di innumerevoli rilievi collinari e lunghi avvallamenti estesi su gran parte del fondo del cratere. Ad eccezione della vasta regione lunare dei monti Taurus situata a nord/nordest di Vitruvius (che vedremo in un prossimo articolo), nell’area intorno al cratere si segnalano Vitruvius-M di 5 km di diametro a sud, Vitruvius-B di 18 km a sudest, Vitruvius-T di 15 km di diametro ad est e Vitruvius-L di 6 km a nord a breve distanza dall’omonimo monte Vitruvius.
Infine dal cratere Vitruvius si estende la vastissima distesa di Tranquillitatis da dove ripartiremo nella prossima puntata di giugno 2021.
Cenni storici
Cratere Julius Caesar: Nome dedicato al generale e uomo politico romano Caio Giulio Cesare (100-44 a.C.), descrisse le sue imprese nei “Commentari” (De bello gallico e De bello civili).
Cratere Sosigenes: Nome assegnato nel 1651 da Riccioli dedicato all’astronomo egiziano Sosigene (L° secolo a.C.), riformò il calendario su incarico di Giulio Cesare.
Cratere Maclear: Nome dedicato all’astronomo irlandese Thomas Maclear (1794-1879). Successe nel 1883 a Thomas Henderson nel ruolo di astronomo di Sua Maestà Britannica al Capo di Buona Speranza ed effettuò studi riguardo nebulose e comete.
Cratere Ross: Nel 1837 Madler dedicò il nome di questo cratere a due personaggi: James Clark Ross (1800-1862) esploratore scozzese che partecipò a varie spedizioni nell’artico tra il 1819 e il 1829 localizzando il polo magnetico settentrionale, mentre nel 1839/1842 durante una spedizione antartica esplorò il mare che porta il suo nome; Frank E. Ross (1874-1966) astronomo americano che eseguì studi in merito alla radiazione ultravioletta.
Cratere Plinius: Nome assegnato nel 1651 da Riccioli dedicato allo scienziato e storico Secondo Gaio Plinio detto “il Vecchio” (23-79 d.C.), autore dell’enciclopedia scientifica in 37 libri Storia Naturale, di cui il secondo volume dedicato all’astronomia classica. Morì in seguito all’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei.
Cratere Dawes: Nome assegnato da Birt/Lee nel 1865 dedicato al teologo e astronomo inglese Padre William Rutter Dawes, scopritore del “limite di Dawes”.
Cratere Fabbroni: Nome dedicato al chimico e uomo politico italiano Giovanni Valentino Mattia Fabbroni (1752-1822).
Cratere Vitruvius: Nome dedicato all’architetto romano Marco Vitruvio Pollione (I° secolo a.C.).
Con un balzo alla quota di 10 km avvenuto attorno alle 00:25 di oggi 6 maggio 2021 il quindicesimo prototipo della serie Starship ha finalmente eseguito correttamente la manovra di atterraggio. Non solo SN15 si è posato dolcemente a terra senza schiacciare le gambe di supporto, ma è anche sopravvissuto ad un principio di incendio senza esplodere.
Ecco il video per rivivere le emozioni della diretta.
Starship SN15 durante il volo orizzontale – Credits: SpaceX
Il profilo di volo è rimasto quasi lo stesso dei suoi predecessori.
Dopo una salita alla quota di 10 km compiuta nel giro di 4 minuti circa, accompagnata dallo spegnimento progressivo e controllato dei propulsori Raptor, il gigantesco prototipo ha svolto la manovra belly flop che lo ha portato in volo orizzontale.
I due Raptor accesi pochi istanti prima dell’atterraggio – Credits: SpaceX
Nonostante le immagini intermittenti è stato poi possibile seguire alcuni istanti della traiettoria di discesa controllata, dove la principale differenza tra questo e i balzi precedenti è apparsa chiara: a raddrizzare e far atterrare SN15 sono stati due motori Raptor contemporaneamente, tenuti accesi fino al momento di contatto col suolo.
SN15 a terra, leggermente discosta dal centro della piazzola, con le prime fiamme dell’incendio – Credits: SpaceX
Immediatamente dopo l’atterraggio, alla base di SN15 si è sviluppato un piccolo incendio che ha riportato alla mente le circostanze della distruzione di SN10, avvenuta proprio a causa di un incendio nella zona dei motori vari minuti dopo il suo rientro. Al momento in cui scriviamo l’incendio appare domato e dal razzo vengono liberati, tramite apposite valvole di sfogo, i fumi dei propellenti ancora presenti nei suoi serbatoi.
È dunque il caso di scomodare l’aggettivo “storico” per definire questo volo, che oltre all’obiettivo più ovvio, cioè un atterraggio riuscito, segna anche l’esordio di un nuovo design per le Starship, non evidente all’esterno ma presente in vari dettagli dei sottosistemi di bordo. Possiamo solo sperare che Elon Musk decida di fornire qualche dettaglio extra nel corso dei prossimi giorni.
La stazione di Medicina, con i due rami perpendicolari della Croce del Nord al centro, e l'antenna parabolica da 32 m sulla sinistra. Crediti: G. Bianchi
La stazione di Medicina, con i due rami perpendicolari della Croce del Nord al centro, e l'antenna parabolica da 32 m sulla sinistra. Crediti: G. Bianchi
Un pezzo di questa storia inizia il 3 marzo 2021 alla Stazione radioastronomica di Medicinadell’Istituto nazionale di astrofisica. Siamo nella “bassa” bolognese, 30 chilometri a est del capoluogo emiliano, verso Ravenna e l’Adriatico. D’inverno non è rara la neve, d’estate non mancano le zanzare, e la leggenda vuole che mezzo secolo fa, proprio in questo angolo della Pianura Padana, ci fosse un ristorante che serviva dei tortelloni favolosi. È qui che, alle 16:17:29 ora locale, un segnale dalle profondità del cosmo raggiunge sei dei 64 cilindri di metallo che costituiscono uno dei due rami del primo radiotelescopio d’Italia, la Croce del Nord.
Pur nelle restrizioni imposte dalla terza ondata della pandemia da Covid-19, un piccolo gruppo di radioastronomi si trova a Medicina. Lavorano a diversi progetti e continuano a lavorare anche quando lo strumento, diligente e silenzioso, capta il rapidissimo segnale. Otto millesimi di secondo. Dieci, quindici volte più rapido del proverbiale batter d’occhio. Una tempistica che intuitivamente fa quasi a pugni con la dinamica non poi così movimentata della Croce del Nord che, invece, è proprio ciò che ha permesso allo storico radiotelescopio di intercettare questo breve lampo nelle onde radio a basse frequenze.
«Possiamo puntarlo solo in declinazione», spiega Germano Bianchi, ricercatore Inaf e responsabile della Croce del Nord, «e può osservare tutti gli oggetti che, durante il loro moto apparente da est a ovest, passano sul meridiano locale». Gli astronomi parlano di uno strumento “di transito”. Sta lì e guarda il cielo che gli passa sopra, come quando ci si sdraia a pancia in su in una notte d’estate, lasciando che la rotazione terrestre faccia il suo corso, srotolando un flusso continuo di sorgenti astronomiche sulla volta celeste. Solo che la Croce del Nord, essendo un radiotelescopio, può scrutare il cielo anche durante il giorno. Bianchi chiama in causa il paraocchi di un cavallo che, sul ciglio di una strada, guarda avanti e ogni tanto vede passare una macchina: «le macchine sono le radiosorgenti e il paraocchi è il campo di vista della Croce».
Tecnologie di ieri (e di oggi)
Radiotelescopi di transito come questo, un’avanguardia tecnologica ai tempi della sua costruzione, erano molto in voga fino agli anni ‘70-‘80 del secolo scorso perché relativamente semplici da costruire, senza costose parti meccaniche che hanno spesso bisogno di manutenzione. Inaugurato nel 1964, la Croce del Nord è ancora uno dei più grandi strumenti di questo tipo al mondo, con un’area di raccolta di circa 30mila metri quadrati – l’equivalente di sei campi da calcio – che garantisce una sensibilità elevata nelle osservazioni.
Dettaglio sulle antenne della Croce del Nord in una foto scattata a metà marzo 2021; in lontananza si riconosce la parabola da 32 metri. Crediti: G. Bianchi
Poi sono arrivate le grandi antenne orientabili, come quella di 32 metri di diametro che dal 1983 affianca la Croce del Nord a Medicina, oppure il Sardinia Radio Telescope (Srt), che con la sua potente parabola da 64 metri è da diversi anni il nuovo fiore all’occhiello della radioastronomia italiana. I grandi strumenti di transito sono passati in secondo piano per molti anni, per poi ritornare a sorpresa sulla scena dell’astronomia internazionale solo di recente. Il Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment (Chime), operativo dal 2017 in British Columbia, la provincia canadese che si affaccia sull’Oceano Pacifico, altro non è che una versione iper-moderna della Croce del Nord.
Uno dei motivi del grande revival di questi radiotelescopi ha molto a che vedere con il segnale ricevuto il 3 marzo scorso a Medicina, e si riassume in tre parole: fast radio burst (Frb), o lampi radio veloci. Come dice il nome, si tratta di brevissimi segnali ricevuti in banda radio, quasi esclusivamente da sorgenti al di là della nostra galassia, scoperti per la prima volta nel 2007. Ad oggi si conoscono un centinaio di sorgenti di Frb, ma la loro natura resta misteriosa, con decine e decine di modelli proposti per cercare di spiegare il meccanismo alla base di queste emissioni che fanno capolino, impreviste, nel firmamento radio. Un anno fa, la scoperta del primo Frb nella Via Lattea, peraltro in associazione con una magnetar, sembra indicare che queste stelle di neutroni altamente magnetizzate potrebbero celarsi (almeno) dietro alcuni dei lampi osservati finora, ma manca ancora una comprensione generale del fenomeno. Nel frattempo, intorno a questo enigma si è sviluppata una vivace attività di ricerca su tutti i fronti, dalle osservazioni in banda radio alla ricerca delle loro controparti nelle alte energie, fino alla modellizzazione teorica.
Secondo Gianni Bernardi, ricercatore Inaf a Bologna e coordinatore del programma di ricerca degli Frb con la Croce del Nord, sono tanti i casi scientifici oggi, «rilevanti soprattutto per la cosmologia ma nel nostro caso anche per i transienti, dove non hai necessariamente una sorgente preferita dove guardare, ma l’evento può capitare ovunque». Se non è importante la direzione verso cui si osserva, non c’è bisogno di spostare il telescopio da un punto all’altro del cielo, come si fa con le grandi antenne orientabili per studiare in dettaglio sorgenti radio specifiche, e vengono in aiuto i radiotelescopi di transito. Nel caso degli Frb, che durano pochi millisecondi e possono manifestarsi senza preavviso in qualsiasi parte del cielo, «non hai una grande necessità di sapere dove puntare, hai semplicemente bisogno di stare lì in cielo e aspettare che ne arrivi uno. Chiaramente, più cielo copri, meglio è».
A volte ritornano: lampi ripetuti
Impressione artistica di un Fast Radio Burst in viaggio verso la Terra. I colori rappresentano il fascio di luce che arriva a diverse lunghezze d’onda nella banda radio. In blu le lunghezze d’onda più corte, che arrivano svariati secondi prima di quelle in rosso, che corrispondono invece a lunghezze d’onda maggiori. Questo effetto si chiama dispersione ed è dovuto al fatto che il segnale radio passa attraverso a del plasma. Crediti: Jingchuan Yu, Planetario di Pechino
Ci vuole tempo per inquadrare un fenomeno relativamente nuovo e decisamente incostante come gli Frb. «In generale non sono periodici», sottolinea Maura Pilia, ricercatrice all’Inaf di Cagliari che si occupa di elaborare i dati ricevuti dai radiotelescopi, a caccia degli elusivi lampi. Eppure, nei quasi 14 anni dalla prima rilevazione, qualche linea tra i tanti puntini si inizia a intravedere. In particolare, è del 2016 la scoperta che alcuni Frb si ripetono. «Su un centinaio che si conoscono adesso, solo 20 si ripetono, cioè sono stati visti più di una volta». Anche quando si ripresentano, non sembra però esserci alcuna regolarità per questi imprevedibili fulmini nel cielo della radioastronomia.
O almeno, questa era la situazione prima di gennaio 2020, quando la collaborazione Chime annuncia per la prima volta di aver trovato un fast radio burst che si ripresenta regolarmente. Si chiama Frb 180916.J10158+65, ma agli esperti basta la sigla 180916, che identifica la sua prima osservazione, nel settembre 2018. Da allora, come spiegano gli autori in un articolo apparso su Nature lo scorso giugno, il radiotelescopio canadese ha osservato il lampo ripresentarsi per ben 38 volte nel corso di un anno e mezzo, puntuale ogni due settimane – 16,35 giorni per l’esattezza – con una fase di attività di circa cinque giorni per ciascun ciclo. «Non è la periodicità che ci si aspettava, come quella delle pulsar per esempio», commenta Pilia. «Il fatto che sia giorni, decine di giorni, fa pensare che si tratti di un sistema binario».
La regolarità non è solo un indicatore prezioso per cercare di afferrare la natura di queste impenetrabili sorgenti. Da un punto di vista pratico, significa poter ottimizzare le osservazioni e l’analisi dati. Per il programma di ricerca degli Frb con la Croce del Nord, allora iniziato da poco e ancora in forma sperimentale, il periodico ripresentarsi di 180916 è un vero pozzo di informazioni. Non appena il team ne viene a conoscenza, racconta Pilia, decide subito di cominciare a osservarla.
In primo piano, alcune antenne del ramo nord-sud della Croce del Nord; in lontananza, le antenne del ramo est-ovest. Crediti: G. Bianchi
Così da oltre un anno, due volte al mese, per sei giorni di seguito, un’ora ogni giorno, l’osservatorio di Medicina volge i suoi radio-occhi verso la costellazione di Cassiopea, dove si trova la sorgente di questo Frb dalla rassicurante regolarità, sincronizzando le osservazioni nell’intervallo di tempo in cui è molto probabile che questa sia attiva, in attesa di captare un segnale. «Riusciamo a inseguire la sorgente durante il transito all’interno del campo di vista dell’antenna», spiega Giovanni Naldi, ricercatore Inaf che lavora a Medicina e che, insieme al collega Giuseppe Pupillo, si occupa del back-end del radiotelescopio, inclusa la pianificazione delle osservazioni, l’acquisizione dei dati e l’elaborazione preliminare usando software di pre-processing. «Abbiamo questo sistema automatico che sintetizza un beam elettronico che si sposta nel tempo, inseguendo di fatto la sorgente che si muove nel campo di vista. Questo Frb lo stiamo inseguendo per circa un’ora al giorno».
Chi cerca trova…
La campagna osservativa iniziata lo scorso anno non comprende solo la Croce del Nord ma anche Srt, che riesce a catturare ben tre lampi da questa sorgente già tra il 22 e il 24 febbraio 2020. Oltre ai radiotelescopi, partecipano anche osservatori in banda ottica, tra cui il Telescopio nazionale Galileo a La Palma e il Telescopio Copernico ad Asiago, entrambi dell’Inaf, e satelliti che scrutano il cielo nelle alte energie, tra cui l’italiano Agile, che sta contribuendo al più ampio monitoraggio mai realizzato nei raggi X per una sorgente di Frb. «È stata una copertura importante», aggiunge Pilia. «Fra l’altro, in alcuni frangenti, la Croce è stato l’unico radiotelescopio italiano in grado di osservare. Le osservazioni siamo riuscite a farle, l’analisi è ancora in corso».
Già, perché il progetto del gruppo guidato da Bianchi e Bernardi è nato senza fondi dedicati – un piccolo stanziamento è arrivato solo di recente – e viene portato avanti, con passione e tenacia, da un piccolo gruppo impegnato in diverse altre attività. «Il personale dedicato è veramente poco, con Fte [full-time equivalent, una misura che quantifica il tempo del personale effettivamente dedicato a un particolare progetto – ndr] prese in prestito da altri progetti», fa notare Bianchi. Un programma di osservazione condotto finora tra un progetto e l’altro, ma con una visione chiara: riqualificare uno strumento per acchiappare segnali scoperti per la prima volta più di quarant’anni dopo la sua costruzione.
Il primo fast radio burst captato dalla Croce del Nord. Il pannello in alto mostra il profilo del segnale ricevuto. Nel secondo pannello, il segnale è stato corretto tenendo conto della dispersione nel mezzo interstellare; il terzo indica la significatività della misura di dispersione, e il quarto mostra la misura di dispersione, identificata dalle linee diagonali. Crediti: G. Bernardi et al (2021)
Tutto cambia lo scorso 12 marzo. «Per la prima volta son saltata sulla sedia», ricorda Pilia che, da Cagliari, elabora i dati con software di rivelazione dei burst ed è quindi l’incaricata del gruppo a dire se effettivamente l’antenna di Medicina ha visto un Frb oppure no. «Fino ad ora avevamo avuto delle speranze di detection sia con questa sorgente che con altre, però erano a un livello di significatività che poteva essere dubbio. Invece questa volta era senza ombra di dubbio la nostra sorgente, abbiamo beccato un bel burst».
La firma inequivocabile del primo Frb captato dalla Croce del Nord è il profilo del segnale che si staglia sul rumore, molto più netto rispetto a quello di possibili burst registrati in precedenza. A conferma della detection c’è anche quello che gli astronomi chiamano ‘misura di dispersione’, un ritardo causato dall’interazione del segnale con il mezzo interstellare che pervade la Via Lattea. Quando un segnale arriva da molto lontano, come nel caso di un Frb, subisce un ritardo più alto nelle frequenze più basse rispetto a quelle più alte. «Noi diciamo che viene disperso», spiega Pilia. E in questo caso, «si vede che il picco è proprio intorno alla misura di dispersione in cui ce lo aspettiamo».
Una nuova vita per la Croce del Nord
Il piano è quello di trasformare il radiotelescopio di Medicina in uno strumento dedicato alla ricerca di questi enigmatici e fulminei echi radio, un obiettivo ambizioso per il quale sono stati necessari numerosi interventi di ammodernamento. Lavorando a frequenze basse, questo radiotelescopio non ha una superficie riflettente formata da pannelli, come nelle antenne paraboliche, ma è costituita da una moltitudine di fili di acciaio. «Se arriva a Medicina una giornata particolarmente ventosa, i fili di acciaio iniziano a vibrare», ricorda Bianchi. «Così come accade per uno strumento a corda, l’antenna si mette a suonare come fosse una grande arpa: fa un sibilo che io trovo molto piacevole da ascoltare». Un suono che potrebbe richiamare alla mente degli appassionati di cinema quel “rumore delle stelle” che incuriosiva la protagonista del film “Il deserto rosso” di Michelangelo Antonioni, interpretata da Monica Vitti, in una scena girata proprio sotto il ramo est-ovest dell’iconico radiotelescopio, la cui costruzione era allora quasi terminata.
Le antenne del ramo est-ovest della Croce del Nord e, in basso, alcuni dei “cilindri” del ramo nord-sud. Crediti: G. Bianchi
Il ramo della Croce del Nord immortalato nella pellicola Leone d’Oro al Festival di Venezia del 1964 comprende 25 strutture che insieme formano un’unica grande antenna cilindrico-parabolica, lunga 564 metri. L’upgrade tecnologico in corso coinvolge invece l’altro ramo, quello orientato in direzione nord-sud, costituito da 64 singole antenne, anch’esse di forma cilindrico-parabolica, che si susseguono per 625 metri a cadenza regolare, una ogni 10 metri. Questi “cilindri” raccolgono le onde radio provenienti dal cosmo e le riflettono, convogliando i segnali sulla linea focale, dove vengono poi trasformati in impulsi elettrici da analizzare.
«Attualmente un cilindro ha una unica linea focale», chiarisce Bianchi. «Noi l’abbiamo divisa in 4 e così abbiamo ampliato il campo di vista di 4 volte». Questo permette di osservare una porzione un po’ più grande di cielo, nella speranza di captare qualche burst in più, ma anche satelliti e space debris. «La prima parte di upgrade dei primi 8 cilindri è iniziata grazie a Stelio Montebugnoli», aggiunge Naldi, ricordando il precedente responsabile della stazione radioastronomica di Medicina come «la persona che ha visto questa potenzialità grande e ha avuto la lungimiranza di ridare questa nuova vita alla Croce del Nord». Un altro pezzo di questa storia inizia proprio in quegli anni, dal 2006 in poi, quando il radiotelescopio viene proposto al consorzio Ska, che allora stava nascendo, come lo strumento su cui mettere alla prova gli algoritmi che sarebbero poi stati applicati per lo Ska Observatory, la più grande facility al mondo per la radioastronomia, attualmente in costruzione tra Australia e Sud Africa.
In alto, veduta aerea della Stazione di Medicina, con i due rami perpendicolari della Croce del Nord. In basso, schema dei “cilindri” che formano il ramo nord-sud. Fonte: N. Locatelli et al. Mnras, 2020
Da allora, la trasformazione della Croce del Nord procede per passi successivi. Dopo i primi 8 cilindri si è passati a 16, quest’anno si è raggiunta quota 32, ed entro il 2023 dovrebbe essere completato l’aggiornamento dell’intero ramo. L’ammodernamento della struttura prevede anche l’installazione della fibra ottica per il trasporto del segnale, che ha sostituito i vecchi cavi coassiali, e di nuove macchine più potenti ed efficienti all’interno della sala controllo. Le innovazioni tecnologiche iniziano a dare i loro frutti l’anno scorso, quando sei cilindri del ramo nord-sud riescono a catturare impulsi radio provenienti dalla pulsar B0329+54, una stella di neutroni che compie una rotazione in meno di un secondo. Un rapido segnale, dunque, non troppo dissimile da quello di un Frb. Questa osservazione dà fiducia al piccolo team, che in un anno continua ad accumulare dati inseguendo diverse sorgenti di Frb, grazie anche al supporto tecnico di diversi colleghi impegnati presso la stazione di Medicina e di collaboratori alle università di Oxford e Malta.
Fino a quel fatidico 12 marzo, quando il software di analisi di Pilia conferma la prima detection. «Io ero a Srt in realtà, stavo facendo altre osservazioni, nel frattempo stavo guardando i dati della Croce», racconta la ricercatrice. Nel frattempo, a Bologna, Bernardi sta partecipando a un meeting in modalità remota. Con la coda dell’occhio intravede una email inviata dalla collega di Cagliari, che immagina contenga in allegato una figura da includere in un documento in preparazione, proprio sul programma di osservazioni della Croce del Nord. Ma non ha il tempo di aprirla. Poi un messaggio su Whatsapp: “Ma non hai visto l’email?”
«Quando ho aperto l’email ho subito chiamato Maura e nella chiamata Skype abbiamo aggiunto Germano, Giovanni e Giuseppe», ricorda Bernardi. Magicamente, era pronto anche lo spumante. «Ho preso questa bottiglia che avevo conservato in frigo da qualche tempo e abbiamo fatto un grande brindisi».
A sinistra: Germano Bianchi apprende da Maura Pilia della prima detection di un fast radio burst da parte della Croce del Nord. A destra: Bianchi, Pilia e Gianni Bernardi festeggiano il risultato su Skype.
L’analisi dei dati continua. Probabilmente il telescopio ha captato qualche altro burst anche prima dello scorso marzo, ma le tracce sono ancora nascoste nella mole di dati da elaborare. Un lavoro che non può sovrapporsi a quello osservativo, poiché la macchina che acquisisce i dati è la stessa usata dal team per analizzarli. Gli Frb non sono infrequenti: Chime, che guarda ogni giorno tutto il cielo – dieci minuti per porzione di cielo – ne ha registrati un migliaio in circa due anni di osservazioni, molti dei quali sono burst ripetuti provenienti dalle stesse sorgenti. Certo, si tratta un telescopio un po’ diverso da quello di Medicina, che coinvolge personale più numeroso e finanziamenti più consistenti. Adesso, con il primo riscontro osservativo alle spalle, i ricercatori sperano di poter creare un gruppo dedicato proprio allo studio degli Frb con la Croce del Nord.
La storia più grande
A volte, anche qui sulla Terra, certe storie si mettono in moto ben prima di catapultarsi nella vita di alcuni dei loro protagonisti. Questo è ancor più vero nel cosmo, dove i segnali luminosi viaggiano per milioni, miliardi di anni a 300mila chilometri al secondo prima di raggiungere i telescopi e gli astronomi che, interpretando quei segnali, tentano di decifrarne l’origine. È proprio il caso di questa storia, che non inizia nel marzo 2021 con l’arrivo del segnale a Medicina, né nel gennaio 2020 con l’annuncio della periodicità di questo Frb, né tantomeno nel 2006 con il rilancio della Croce del Nord o addirittura nel 1964 con la sua inaugurazione. Questa storia inizia circa 485 milioni di anni fa, quando sulla Terra si era agli albori del periodo geologico Ordoviciano, era paleozoica. Non erano ancora apparsi i mammiferi, né uccelli o rettili, e nemmeno molte delle piante che conosciamo oggi. La vita sul nostro pianeta era principalmente acquatica, e nelle profondità sottomarine stavano comparendo i primi organismi vertebrati. Allo stesso tempo, nella periferia della galassia a spirale Sdss J015800.28+654253.0, un corpo celeste non meglio identificato, forse parte di un sistema binario, emetteva un rapido lampo, uno di tanti, in uno dei suoi cicli regolari, scanditi ogni 16,35 rotazioni di un lontano, insignificante pianeta roccioso, il terzo in orbita intorno a una stella che molto più avanti sarebbe stata chiamata Sole.
Immagine della galassia ospite di Frb 180916 (al centro) acquisita con il telescopio Gemini-Nord di 8 metri alle Hawaii. La posizione del lampo radio veloce nel braccio a spirale della galassia è contrassegnata da un cerchio verde. Crediti: Osservatorio Gemini / Nsf OiarLab / Aura
«Questa sorgente è molto interessante, è molto vicina», nota Pilia. Vicina in senso astronomico, chiaramente. Rispetto ad altre distanti miliardi di anni-luce, la galassia che ospita la sorgente di Frb 180916 non è terribilmente lontana: “solo” 485 milioni di anni-luce. «È stata localizzata velocemente e poi è molto attiva, quindi possiamo studiarla con grande dettaglio, almeno si spera». Il team continua a tenerla d’occhio con la Croce del Nord, insieme ad altre sorgenti di Frb, anche in vista della possibilità di osservare questi oggetti sul fronte opposto dello spettro elettromagnetico, nei raggi X e gamma. Tra queste sorgenti c’è pure l’unica nota nella nostra galassia, quella che tanto ha fatto parlare di una possibile correlazione tra lampi radio veloci e magnetar nel corso dell’ultimo anno. E mentre i meccanismi fisici alla base di questo fenomeno restano sconosciuti, l’ingresso di un nuovo telescopio in un filone di ricerca così avvincente non può essere che benvenuto.
«Abbiamo capito che avevamo fatto un pezzo di storia, che avevamo raggiunto una milestone importante», commenta Bernardi. Poco dopo la chiamata Skype di gruppo, il ricercatore invia la figura che mostra la detection a uno dei collaboratori del progetto, Giancarlo Setti, professore emerito dell’Università di Bologna, coinvolto nella realizzazione della Croce del Nord sin dai primi sviluppi. «Mi ha detto: “Bellissimo, da incorniciare”. Dopo mi ha anche detto: “In realtà noi lo sapevamo fin dall’inizio che fosse possibile”. Io ho risposto: “Diciamo che adesso che l’abbiamo visto sono più convinto”».
Regalino di Pasqua di Lamberto Sassoli. La Luna, ripresa il 4 aprile scorso, si frappone alle stelle Nunki e Namalsadirah I del Sagittario. Per i dettagli della ripresa cliccare sull'immagine.
Volendo approfittarne per qualche osservazione col telescopio, lungo la linea del terminatore, si potrà partire dal settore nordest con l’estremità orientale del mare Frigoris da cui si potrà scendere verso sud in direzione della Palus Somniorum per poi scandagliare il lato est del mare Serenitatis dominato dal grande cratere Posidonius di 99 km di diametro con alle spalle i monti Taurus. Successivamente si potrà orientare il telescopio sulla vasta e scura distesa basaltica del mare Tranquillitatis in cui sarà molto interessante andare alla ricerca degli innumerevoli dettagli individuabili sulla sua variegata superficie anche con piccoli strumenti intorno ai 100mm di diametro così come riguardo la regione del mare Nectaris, meno estesa ma altrettanto ricca di spettacolari strutture geologiche, tra cui la famosa triade Theophilus, Cyrillus, Catharina con l’imponente scarpata dei monti Altai e i crateri Fracastorius e Piccolomini.
Ancora più a sud il settore sudest del vastissimo e altrettanto spettacolare altipiano meridionale costituirà un’inesauribile fonte di entusiasmanti osservazioni anche con un seeing almeno decente.
"Regalino di Pasqua" di Lamberto Sassoli. La Luna, ripresa il 4 aprile scorso in fase di Ultimo Quarto, si frappone alle stelle Nunki e Namalsadirah I del Sagittario. Per i dettagli della ripresa cliccare sull'immagine.
Trattandosi di una fase di Luna Calante, alle ore 21:50 del 3 maggio il nostro satellite si troverà in Ultimo Quarto ma a -55° al di sotto dell’orizzonte, pertanto chi intendesse effettuare qualche osservazione col telescopio dovrà attendere fino a notte inoltrata quando la Luna sorgerà in fase di 22 giorni, ricordando come in Ultimo Quarto vi sia la netta prevalenza delle scure e immense distese basaltiche dell’oceanus Procellarum e del bacino di Imbrium.
Alle ore 21:00 dell’11 maggio questo ciclo lunare giungerà al suo capolinea col Novilunio con la contestuale immediata ripartenza della fase di Luna Crescente che porterà progressivamente il nostro satellite nelle migliori condizioni osservative in modo particolare per quanto concerne la comodità di programmare osservazioni nelle ore serali.
Dopo il transito in meridiano delle 19:38, alle ore 21:13 del 19 maggio la Luna sarà in Primo Quarto in fase di 8 giorni e osservabile fino alle prime ore della notte seguente quando intorno alle 03:00 circa scenderà sotto l’orizzonte.
Riguardo al primo Quarto di Luna si è già detto e scritto di tutto ma rimane impagabile, almeno personalmente, la soddisfazione di aprire il telescopio e dirigerlo verso una delle sue numerosissime strutture geologiche situate in prossimità del terminatore e su questa alternare tutti gli oculari disponibili per cercare di individuare ogni minimo dettaglio anche se parzialmente nascosto dalle ombre proiettate dal Sole in corrispondenza di determinati rilievi.
Naturalmente tutto questo a prescindere di chi considera ancora l’osservazione lunare come una materia per “principianti”. Appare inoltre innegabile come nella fase di Primo Quarto prevalgano nettamente i vastissimi altipiani con la più elevata albedo delle loro rocce anortositiche, a prescindere dalle meno estese distese basaltiche dei mari Frigoris, Serenitatis, Tranquillitatis, Crisium, Fecounditatis, Nectaris.
Il capolinea della fase di Luna Crescente si avrà alle ore 13:14 del 26 maggio col nostro satellite in Plenilunio alla distanza di 363283 km dalla Terra e in età di 14,7 giorni.
Pertanto per chi intendesse programmare qualche osservazione del globo lunare completamente illuminato dal Sole segnaliamo che dovrà attendere almeno fino alle ore 21:13 della medesima serata quando dall’orizzonte sorgerà quel bel pallone più o meno giallastro con tonalità aranciate che dominerà praticamente incontrastato nell’ormai (forse….) mite cielo di maggio fino all’alba, quando cederà il posto al sorgere del Sole.
Quanto può offrire la Luna Piena all’Astrofilo appassionato di osservazioni lunari è già stato ampiamente trattato in un precedente articolo e forse basterebbe concederle almeno qualche occhiata col telescopio per rendersi conto della reale situazione sfatando certi comodi luoghi comuni, anche se poi la libera scelta è sempre soggettiva e in ogni caso più che legittima (per la serie: “guarda pure dove vuoi, nessuno ti dice niente…!”).
Questa Luna Piena sarà anche una delle lune più grandi dell’anno, visto che cadrà con la Luna Piena in prossimità del perigeo, raggiunto nelle primissime ore del mattino, alle ore 03:53, con una distanza Terra-Luna di 357.309 km.
A partire dal Plenilunio in avanti la Fase Calante riporterà progressivamente il nostro satellite a rendersi osservabile sempre più dalla tarda serata fino alle ore della notte, concludendo questo mese quando alle ore 01:20 del 31 maggio sorgerà in fase di 19,7 giorni e perfettamente visibile fino verso l’alba.
Nel caso specifico, sulla sua superficie sarà possibile osservare vaste porzioni dei mari Frigoris, Serenitatis e Tranquillitatis in prossimità del terminatore, oltre agli immensi Imbrium e Procellarum estesi su gran parte del settore occidentale della Luna, in netto contrasto con la maggiore albedo degli altipiani.
LIBRAZIONI nel mese di MAGGIO
(In ordine di calendario, per i dettagli vedere le rispettive immagini).
Si precisa che, per ovvi motivi, non vengono indicati i giorni in cui i punti di massima Librazione si allontanano dalla superficie lunare illuminata dal Sole.
Librazioni Regione Nordest: solo diurne.
27 maggio: Librazione est mare Crisium (Goddard/Plutarch). Fase 15 giorni, sorge 21:13. (In Luna Piena alle 13:14).
➜ La Luna mi va a pennello. Se la fotografia non basta, Gian Paolo Graziato ci racconta come dipingere dei rigorosi paesaggi lunari, nei più piccoli dettagli… per poi lasciarsi andare alla fantasia e all’immaginazione!
L'immagine dedicata dal sito NASA Apod a Michael Collins: si tratta dell'ultima immagine, restaurata digitalmente, del crescente di Terra ripresa da un essere umano dallo spazio. Scattata dall'equipaggio dell'Apollo 17, il 17 dicembre del 1972, mostra la Terra da un punto di vista esclusivo, dal quale l'hanno potuta osservare solo 24 esseri umani nella storia, Michael Collins è stato uno di loro. Crediti: Apollo 17, NASA; Restoration - Toby Ord
Scompare all’età di 90 anni Michael Collins, il terzo uomo della missione Apollo, colui che attese nel modulo di comando, in orbita lunare, Armstrong e Aldrin, che facevano la storia come primi uomini a mettere piede sul nostro satellite, e che si assicurò di riportarli a terra sani e salvi.
«Ci spiace comunicare che il nostro amato padre e nonno ci ha lasciati oggi, dopo una coraggiosa battaglia contro il cancro. Ha passato i suoi ultimi giorni in pace, con la sua famiglia al fianco. Mike ha sempre affrontato le sfide della vita con eleganza e umiltà, e ha affrontato questa sua sfida finale allo stesso modo. Ci mancherà terribilmente. Ma sappiamo anche quanto fortunato Mike si sentiva per aver vissuto la vita che ha avuto. Onoreremo il suo desiderio per noi di celebrare, e non piangere, quella vita. Unitevi a noi nel ricordare con gioia e affetto il suo acume, la sua sobria determinazione e la sua saggia prospettiva, guadagnate entrambe dal poter osservare la Terra dallo spazio e guardarla attraverso le calmi acque dal ponte della sua barca da pesca».
Il 16 luglio 2019, per il 50° anniversario del lancio dell'Apollo 11 sulla Luna, vediamo Michael Collins mentre parla ai membri del team di lancio dell'Apollo 11 e all'attuale team di lancio di Artemis 1, nella Firing Room 1 del Centro Controllo di Lancio del Kennedy Space Center della NASA in Florida. Una sorta di passaggio di consegne che ha emozionato tutti, chi era lì per parlare avendo fatto la storia dell'esplorazione umana dello spazio, e chi è lì ora a raccogliere questa eredità e a riprenderne il cammino. Credito immagine: NASA
Quello che forse non tutti sanno è che Collins è nato a Roma, figlio di un generale dell’esercito americano, che il 31 ottobre del 1930, giorno della nascita di Collins, era di istanza nel nostro paese.
Per ricordarlo vi invitiamo a rileggere la storia della sua straordinaria vita, che abbiamo pubblicato in occasione dei 50 anni della missione Apollo 11, raccontata da Luigi Pizzimenti che ha avuto l’occasione di conoscerlo.
Rappresentazione artistica di un brillamento stellare visto dal pianeta Proxima b, un mondo potenzialmente simile alla Terra. Crediti: Nrao / S. Dagnello
Rappresentazione artistica di un brillamento stellare visto dal pianeta Proxima b, un mondo potenzialmente simile alla Terra. Crediti: Nrao / S. Dagnello
È durato sette secondi. Sulla Terra è stato visto circa due anni fa, il primo maggio 2019. Ma avendo avuto origine a oltre 40mila miliardi di km da noi (dunque a poco più di quattro anni luce di distanza), quando è avvenuto, qui dalle nostre parti, era ancora il 2015. Parliamo di un flare, o brillamento. Dunque di un’eruzione d’energia e materia di potenza spaventosa – l’energia di miliardi di bombe. Un brillamento avvenuto, in questo caso, non sul Sole ma sulla stella a esso più vicina: Proxima Centauri. È stato il più grande brillamento mai registrato sulla nostra dirimpettaia galattica – cento volte più potente di quelli prodotti dal Sole – e uno fra i più violenti mai visti in tutta la nostra galassia.
Proxima centauri è una nana rossa. La sua massa è circa un ottavo di quella del Sole, del quale è coetanea. E le orbitano attorno almeno duepianeti, forse abitabili. Un motivo in più, oltre al fatto di essere la nostra vicina di casa, per renderla un’osservata speciale. E infatti erano ben nove i telescopi – da terra e dallo spazio – che in quel giorno d’inizio maggio avevano gli occhi puntati su di lei, nell’ambito di una campagna osservativa che si è svolta nel corso di diversi mesi nel 2019 per un totale di 40 ore. Nove telescopi, cinque dei quali hanno registrato in diretta il superbrillamento
«Nell’arco di pochi secondi, vista alle lunghezze d’onda dell’ultravioletto la luminosità della stella è aumentata di 14mila volte», ricorda Meredith MacGregor della University of Colorado a Boulder, prima autrice dello studio sul fenomeno pubblicato questa settimana su The Astrophysical Journal Letters.
Un evento che certo non depone a favore della presenza, da quelle parti, di eventuali forme di vita – anche se è durato solo sette secondi. Inoltre è stato il più potente, ma non l’unico, nell’arco delle 40 ore di campagna osservativa. La stima degli scienziati è che i superflare siano fenomeni pressoché quotidiani, per una stella come Proxima Centauri. Occorre poi moltiplicarli per miliardi di anni, per farsi un’idea della raffica di radiazioni subita dai pianeti che la circondano.
Rappresentazione artistica di un brillamento di Proxima Centauri. In primo piano è raffigurato l’esopianeta Proxima b. Crediti: Roberto Molar Candanosa / Carnegie Institution for Science, Nasa/Sdo, Nasa/Jpl
«Se mai ci fosse qualche forma di vita sul pianeta più vicino a Proxima Centauri, dovrebbe essere molto diversa da qualsiasi altra presente qui sulla Terra. Un essere umano, su quel pianeta, avrebbe passato un brutto momento», osserva MacGregor a proposito dell’evento del 2019.
I brillamenti stellari avvengono quando – a seguito di una riconnessione magnetica – la stella accelera gli elettroni a velocità che si avvicinano a quella della luce. Gli elettroni accelerati interagiscono con il plasma altamente carico che costituisce la maggior parte della stella, provocando un’eruzione che produce emissioni lungo tutto lo spettro elettromagnetico.
Spettro elettromagnetico che l’impiego di più telescopi sensibili a diverse lunghezze d’onda – fra i quali Hubble, Tess e Alma – ha consentito di tenere sott’occhio come raramente avviene. L’approccio multibanda ha così portato a una fra le analisi più approfondite mai condotte sui brillamenti di una stella della nostra galassia. Con risultati per alcuni aspetti sorprendenti. Debole in luce visibile, il flare ha generato un’enorme ondata di radiazioni non solo ultraviolette ma anche radio – in particolare in banda millimetrica, mai osservata prima per un flare stellare.
Con i contributi di Marco Malaspina, Isabella Pagano, Giusi Micela, Mario Damasso, Raffaele Gratton, Sabrina Masiero, John Robert Brucato, Amedeo Balbi, Claudio Elidoro,Gianpietro Marchiori e Massimiliano Tordi e l’intervista esclusiva con Giovanni Bignami.
La Maniglia d’Oro di Lamberto Sassoli. Un arco brillante si staglia sul terminatore della Luna: questo interessante fenomeno accade quando sui Montes Jura il Sole è appena sorto ma il Sinus Iridum alla loro base si trova ancora in ombra. Cliccando sull'immagine tutti i dettagli della ripresa su PhotoCoelum. Crediti: Coelum Astronomia / Lamberto Sassoli
Indice dei contenuti
II Parte
Nella rubrica che curo di mese in mese ci siamo concentrati nell’osservazione della Luna, anche senza l’ausilio di strumenti ottici, ammirandone i molteplici aspetti nei più svariati contesti paesaggistici, oppure utilizzando un semplice binocolo o un piccolo telescopio. Tante sono le strutture superficiali che la Luna ci offre e ci invita a osservare: siamo forse abituati ad ammirare i grandi crateri, le ripide catene montuose, ricche di alti bastioni, e i mari. Ma, di fronte a tanta bellezza, l’osservatore potrebbe chiedersi quanto realmente grandi siano quei dettagli che, all’oculare del telescopio, in fin dei conti, appaiono così minuti.
Leggi la prima parte su Coelum Astronomia 253. È gratis: clicca sull'immagine e leggi!
Di certo, se potessimo librarci in volo sulla superficie selenica, potremmo avere una migliore percezione delle dimensioni di tutte quelle magnifiche strutture…
Questa serie di articoletti si propone di evidenziare una differente e probabilmente più realistica percezione, certamente in alcuni casi un po’ estremizzata, dei dettagli delle strutture superficiali del nostro satellite naturale, se osservate in stretta relazione a elementi naturali o artificiali di analoghe dimensioni esistenti sul nostro pianeta. In tal modo potremo riuscire ad avere immediatamente la giusta percezione delle dimensioni, grazie al paragone con qualcosa che a noi è sicuramente più familiare e vicino.
Dopo aver dato un’idea delle dimensioni dei mari della Luna e del trio di crateri Theophilus, Cyrillus e Catharina, passiamo ora a una delle più spettacolari strutture del nostro satellite, il Sinus Iridum situato sul margine settentrionale del mare Imbrium, come se si trattasse di un enorme golfo con uno sviluppo costiero di circa 500 km lineari.
Considerata la sua conformazione, ho ritenuto plausibile la sovrapposizione alla costa ligure, centrandone l’immagine sulla città di Genova. In questo modo si può constatare la sua estensione verso occidente fino alla località costiera di Frejus, tra Nizza e Tolone, mentre l’estremità orientale si estende fino alla città di Piombino, in Toscana!
Conoscendo abbastanza bene il Sinus Iridum, dopo svariati anni di osservazioni al telescopio, devo ammettere che vedere questa struttura sovrapposta alla costa ligure (pur con gli inevitabili limiti) ha talmente attirato la mia attenzione al punto da osservarla come se mi trovassi all’oculare del telescopio!
A questo punto, potevano mancare gli Appennini lunari?
Assolutamente no, meglio ancora se posti a confronto con gli Appennini terrestri, cioè quelli di casa nostra che costituiscono la spina dorsale della penisola italiana.
Le medesime dimensioni in lunghezza di questa catena montuosa lunare, 650 km, (vedi immagine telescopica a lato) vengono indicate dalla linea retta gialla (estesa all’incirca da Firenze a Crotone) presente sul corrispondente tratto di Appennini terrestri, la cui lunghezza totale raggiunge però di 1200 km.
Per una guida all’osservazione degli Appennini lunari (e alle migliori condizioni di illuminazione del nostro satellite per osservarli) leggi anche la mia:
Completiamo il terzetto di questa puntata con un’altra eccezionale struttura del nostro satellite: il grande cratere Clavius situato sull’altipiano meridionale della Luna, con un diametro di 231 km.
Per un paragone plausibile di questa struttura geologica lunare rispetto a un ambiente terrestre ho pensato a una virtuale sovrapposizione sul settore più meridionale del mare Tirreno, centrandone l’immagine in corrispondenza del Marsili, il più grande vulcano sottomarino europeo (70 x 30 km, altezza di 3000 metri dal fondo marino ma con la sommità posta a 450 metri sotto il livello del mare).
Pertanto il cratere Clavius andrebbe a occupare un’area (considerate sempre la circonferenza di colore giallo!) a breve distanza dalle zone costiere di Sicilia, Calabria e Campania meridionale.
Immaginare di trovarsi in prossimità di una struttura con le dimensioni del cratere Clavius, 231 km di diametro e pareti alte 4600 metri dalla base del cratere, deve costituire indubbiamente uno spettacolo grandioso, anche ipotizzando questa grande struttura lunare adagiata sul fondo del mare Tirreno: le sue pareti emergerebbero per oltre mille metri sopra al livello del mare!
Forse alcuni ne avrebbero percepita una minore o maggiore estensione una volta sovrapposto sulla corrispondente area del globo terrestre, in questo caso sul mare Tirreno meridionale?
Nella terza parte, saremo alle prese con il più grande cratere esistente sull’emisfero lunare rivolto verso il nostro pianeta, Bailly, e l’eccezionale e spettacolare faglia della Rupes Recta (o Straight Wall). Con quali formazioni terrestri le mettereste a confronto? Provate a indovinare quali sceglieremo su queste pagine…
L'ombra di Ingenuity in volo, ripresa dallo stesso elicottero drone. - Credit: NASA
Il 19 aprile 2021 verrà ricordato perché per la prima volta un mezzo progettato dall’uomo è decollato e atterrato su un pianeta che non sia la Terra. Si tratta senza alcun dubbio di una nuova pietra miliare nella storia dell’esplorazione dello spazio. Il drone-elicottero Ingenuity della NASA è diventato così il primo veicolo a compiere un volo controllato e motorizzato su un altro pianeta. Dopo aver ricevuto i primi dati dall’elicottero tramite il rover Perseverance Mars della NASA, il team di specialsti del Jet Propulsion Laboratory, ha confermato che il volo è stato un successo.
«Così come l’X-15 è stato un precursore dello Space Shuttle, Mars Pathfinder e il suo rover Sojourner hanno fatto lo stesso per tre generazioni di rover su Marte. Non sappiamo esattamente dove ci porterà Ingenuity, ma i risultati di oggi indicano che il cielo, almeno su Marte, potrebbe non essere il limite.» Questa la dichiarazione di Steve Jurczyk, amministratore (facente funzioni) della NASA.
Altimetria del volo dell’elicottero – Credit: NASA
L’elicottero, alimentato da energia solare, è decollato alle 9:34 ora italiana, le 12:33 local mean solar time (ora di Marte), nel momento in cui il team di Ingenuity ha stabilito che avrebbe avuto energia sufficiente e trovato condizioni di volo ottimali. I dati dell’altimetro hanno indicato che Ingenuity è salito a un’altitudine di 10 piedi (3 metri) e ha mantenuto un volo stazionario stabile per 30 secondi per poi discendere, toccando nuovamente la superficie di Marte e concludendo un volo durato 39,1 secondi. Nelle prossime ore i tecnici della NASA analizzeranno i dati per approfondire altri dettagli del volo.
Poiché l’invio e la ricezione di qualsiasi comunicazione da e per Marte impiega circa 3 ore per l’andata e altrettante per il ritorno a Terra, Ingenuity non può essere pilotato da remoto con un joystick, e per questo stesso motivo il suo volo non è stato osservabile in tempo reale dalla Terra. L’elicottero ha volato in totale autonomia, governato dai sistemi di guida, navigazione e controllo di bordo che eseguivano algoritmi sviluppati dal team del JPL.
Thomas Zurbuchen, amministratore associato della NASA per la scienza, ha annunciato il nome dell’aeroporto marziano su cui è avvenuto il volo. «Ora, 117 anni dopo che i fratelli Wright sono riusciti a fare il primo volo sul nostro pianeta, l’elicottero Ingenuity della NASA è riuscito a compiere questa straordinaria impresa su un altro mondo. Sebbene questi due momenti iconici nella storia dell’aviazione possano essere separati dal tempo e da centinaia di milioni di chilometri, ora saranno collegati per sempre. In omaggio ai due innovativi produttori di biciclette di Dayton, questo primo di molti aeroporti su altri mondi sarà ora conosciuto come Wright Brothers Field, in riconoscimento dell’ingegnosità e dell’innovazione che continuano a spingere l’esplorazione».
Il capo pilota di Ingenuity, Håvard Grip, ha annunciato che l’International Civil Aviation Organization (ICAO), l’agenzia internazionale per l’aviazione civile, ha presentato alla NASA e alla Federal Aviation Administration la designazione “IGY” quale nominativo di chiamata ICAO di Ingenuity, proprio come se si trassasse di un volo civile terrestre. Questi dettagli saranno inclusi ufficialmente nella prossima edizione della pubblicazione ICAO, la Designators for Aircraft Operating Agencies, Aeronautical Authorities and Services che includerà anche la designazione “JZRO” per il cratere Jezero, quale luogo di atterraggio.
Mars Helicopter – Credit: NASA
Occorre ricordare che Ingenuity è un dimostratore tecnologico, poiché il suo scopo è quello di verificare se la futura esplorazione del Pianeta Rosso possa includere anche una prospettiva aerea. Infatti l’elicottero-drone, lungo 49 cm e pesante 1,8 kg, non contiene strumenti scientifici all’interno della sua fusoliera. Questo primo volo era pieno di incognite. Il Pianeta Rosso ha una gravità significativamente inferiore a quella della Terra, circa un terzo, e un’atmosfera estremamente rarefatta con una pressione al suolo che è circa l’1% di quella del nostro pianeta. Ciò significa che ci sono relativamente poche molecole d’aria con cui le pale del rotore di Ingenuity – lunghe 1,2 m – possono interagire per raggiungere un assetto di volo. L’elicottero contiene componenti unici, oltre a parti commerciali standard, molte provenienti dall’industria degli smartphone, che sono state collaudate nello spazio profondo per la prima volta con questa missione.
Il progetto Mars Helicopter è passato in poco più di sei anni dallo studio di fattibilità a un concetto ingegneristico e, infine, alla realizzazione del veicolo. Parcheggiato a circa 65 m di distanza, da Van Zyl Overlook, il rover Perseverance non solo ha agito da ponte radio per le comunicazioni tra l’elicottero e la Terra, ma ha anche documentato le operazioni di volo con le proprie telecamere. Le immagini delle Mastcam-Z e Navcam del rover forniranno dettagli aggiuntivi sul volo dell’elicottero.
Luogo da cui il rover Perseverance ha osservato il volo – Credit: NASA
L'aaprofondimento sulla missione a cura di Elisabetta Bonora di aliveuniverse.today su Coelum Astronomia 246. Clicca e leggi!Perseverance è atterrato con Ingenuity attaccato al ventre lo scorso 18 febbraio. Il 3 aprile l’elicottero è stato rilasciato sulla superficie del cratere Jezero. Ingenuity ha effettuato il suo volo al 16° sol (giorno marziano) della finestra di 30 sol precedentemente stabilita. Nel corso dei prossimi tre sol, gli specialsti a Terra riceveranno e analizzeranno tutti i dati e le immagini del volo e formuleranno un piano per il secondo volo di collaudo, previsto non prima del 22 aprile. Se l’elicottero sopravvivrà al secondo volo, il team a Terra valuterà il modo migliore per espandere il profilo di volo di Ingenuity.
Ecco, infine, il video della conferenza stampa trasmessa in streaming la sera del 19 aprile, con molte immagini e dettagli tecnici aggiuntivi.
Immagine della SN2021hpr in NGC 3147 ripresa dall’astrofilo lituano Simas Satkauskas con un telescopio RASA11 munito di camera ASI183MC – somma di 35 immagini da 120 secondi.
Immagine della SN2021hpr in NGC 3147 ripresa dall’astrofilo lituano Simas Satkauskas con un telescopio RASA11 munito di camera ASI183MC – somma di 35 immagini da 120 secondi.
L’astrofilo giapponese Koichi Itagaki stupisce ancora e realizza la sua terza scoperta del 2021.
Koichi Itagaki.
Nella notte del 2 aprile, Itagaki si accorge di una debole stellina di mag. +17,7 nella galassia a spirale NGC 3147 posta nella costellazione del Drago a circa 130 milioni di anni luce di distanza e situata a soli 7° dal Polo Nord celeste.
La notte seguente la scoperta, dall’Osservatorio di Asiago con il telescopio Copernico da 1,82 metri, viene ripreso lo spettro di conferma. La classificazione della SN2021hpr, questa la sigla definitiva assegnata, non è però facile. Per gli astronomi di Asiago siamo di fronte a una supernova di tipo I, con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiano all’impressionante velocità di circa 21.000 km/s, ma in queste prime fasi dell’esplosione rimane un’incertezza sulla possibilità di essere davanti a una supernova di tipo Ic oppure a una di tipo Ia.
Immagine della SN2021hpr in NGC 3147 ripresa da Paolo Campaner il 16 aprile con la supernova al massimo di luminosità. Riflettore da 400mm F.5,5 – somma di 20 immagini da 75 secondi.
Sempre dall’Osservatorio di Asiago, nella notte fra il 6 e il 7 aprile, viene ripreso un ulteriore spettro e questa volta non ci sono più dubbi: la SN2021hpr è una supernova di tipo Ia scoperta due settimane prima del massimo di luminosità, che infatti si è verificato intorno al 16 aprile, con una magnitudine apparente che ha sfiorato la mag. +14.
Con questa scoperta Itagaki eguaglia il record, da lui stesso detenuto, di scoprire tre supernovae nella stessa galassia. L’incredibile giapponese aveva realizzato la precedente tripletta nella stupenda galassia a spirale M 61.
Da notare che in NGC 3147 non si è ancora spenta l’esplosione della SN2021do scoperta il 2 gennaio dal programma professionale Zwicky Transient Facility (ZTF) e attualmente ancora visibile anche se molto debole, oltre la mag. +19.
Con questa sesta supernova nota, NGC 3147 diventa una delle galassie più prolifiche in fatto di eventi di supernova. Le cinque precedenti sono state come detto la SN2021do (di tipo Ic), le altre due scoperte di Itagaki, la SN2008fv di tipo Ia e la SN2006gi di tipo Ib, e andando più indietro nel tempo la SN1997bq scoperta dall’astronomo britannico Stephen Laurie e da quello americano Ronald Zissel (di tipo Ia), infine la SN1972H scoperta dall’astronomo russo Vitaly Goranskijdi della quale non fu possibile ottenere la classificazione.
Un elogio al giapponese va fatto anche per la rapidità con cui ha comunicato celermente la scoperta nel TNS, battendo nell’ordine il programma professionale americano ATLAS, che aveva un’immagine ripresa sempre il 2 aprile un minuto e 21 secondi prima di Itagaki, quello americano dello ZTF, che aveva un’immagine del 1° aprile, e i russi del Caucasian Mountain Observatory, che avevano un’immagine del 31 marzo con la supernova molto debole a mag. +19,30.
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Concludiamo la rubrica con un’altra interessante supernova , ancor più luminosa della precedente.
Stupenda immagine a largo campo della SN2021hiz in IC 3322A ripresa dall’astrofilo lituano Simas Satkauskas con un telescopio RASA11 munito di camera ASI183MC – somma di 54 immagini da 120 secondi. Nel campo è visibile anche la galassia NGC 4365 e numerose altre galassie minori.
È stata scoperta nella notte del 30 marzo, dal programma professionale americano di ricerca supernovae denominato Zwicky Transient Facility (ZTF), nella galassia a spirale barrata vista di taglio IC 3322A, posta nella costellazione della Vergine e distante circa 85 milioni di anni luce.
Immagine della SN2021hiz in IC 3322A ripresa da Paolo Campaner il 15 aprile con la supernova al massimo di luminosità. Riflettore da 400mm F.5,5 – somma di 23 immagini da 75 secondi.
IC 3322A si trova all’interno dell’ammasso di galassie della Vergine a circa 1,5° a sudovest della galassia ellittica M 49 e a circa 3° a nordest della galassia a spirale M 61. La galassia ospite è accompagnata in cielo dalla galassia ellittica NGC 4365, ma nel campo sono visibili molte altre galassie più piccole.
Al momento della scoperta il transiente brillava di mag. +17,7 ma già la notte seguente era salita alla mag. +16,5. Nella notte del 31 marzo, a meno di 24 ore dalla scoperta, dal Cerro Tololo Observatory con il SOAR Souther Astrophysical Research Telescope, un moderno telescopio da 4,10 metri con ottiche attive posto a 2.700 metri di altitudine sul Cerro Pachon in Cile viene ottenuto lo spettro di conferma.
La SN2021hiz è una giovane supernova di tipo Ia scoperta 15 giorni prima del massimo di luminosità. Pertanto anche questa seconda supernova ha raggiunto il massimo di luminosità intorno alla metà di aprile con una magnitudine apparente che ha sfiorato la notevole mag. +13, permettendoci di ottenere delle belle immagini di una supernova molto luminosa immersa in campo galattico ricco di galassie.
Due immagini della SN2021hiz in IC 3322A riprese da Paolo Campaner il 4 e il 15 aprile che mostrano l’incremento di luminosità della supernova. Riflettore da 400mm F.5,5.
La regione lunare oggetto della proposta osservativa di questo mese verrà facilmente individuata puntando il telescopio sull’altipiano situato fra le scure aree basaltiche dei mari Vaporum e Tranquilitatis. Per l’occasione le date prescelte sono quelle del 18 e del 19 aprile, seguendo l’avanzare del terminatore (ma come sempre sono consigli validi ogni volta che la Luna si trova in condizioni simili di illuminazione).
Indice dei contenuti
18 aprile. Lungo le Rimae Hypatia
Iniziamo dunque dalla sera del 18 aprile con la Luna in fase di 6,7 giorni, illuminazione al 35,3%, che alle ore 21:00 si troverà a un’altezza di +52° e perfettamente visibile fino alle prime ore della notte successiva quando intorno alle ore 02:30 circa scenderà sotto l’orizzonte.
Le immagini in questo articolo sono ottenute dal globo lunare di "Atlante Lunare Virtuale"
L’origine di questa interessante formazione lunare viene fatta risalire al Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa. Come estremità orientale delle Rimae Hypatia può essere indicato un piccolo craterino alla base meridionale di un lungo rilievo collinare situato fra i crateri Torricelli-G di 4 km e Moltke-B di 5 km di diametro. Superato quest’ultimo, il solco si allarga notevolmente e prosegue in direzione nordovest andando a terminare in prossimità dei crateri Sabine e Schmidt.
Da segnalare anche il segmento parallelo di circa 60 km da Sabine verso sudest, la biforcazione presente all’altezza di Moltke-B e infine il curioso craterino Moltke-AC di soli 4 km di diametro collocato proprio all’interno del solco. Per l’individuazione di questi solchi viene indicato un telescopio riflettore di almeno 200mm ma, come sempre, sarà importante tentare anche con strumenti di diametro inferiore senza alcuna preclusione, un buon seeing può consentire grosse soddisfazioni. Ad esempio con un’attenta osservazione si potrà notare che il segmento principale non è un’unica struttura ma è composto da almeno due, forse tre, ulteriori segmenti consecutivi, oltre agli innumerevoli minuscoli craterini sparsi sul fondo.
Tornando all’estremità più occidentale delle Rimae Hypatia passiamo ora al cratere Schmidt di 12 km di diametro proveniente dal Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. Considerata la relativamente giovane età geologica, il cratere presenta un buono stato di conservazione, con una cerchia di ripide pareti alte 2300 mt abbastanza uniformi e non degradate.
Procedendo verso nordovest lungo il bordo di Tranquillitatis si incontra Dionysius, un cratere di 19 km di diametro relativamente giovane, la cui origine viene ricondotta al Periodo Geologico Copernicano collocato a non oltre 1 miliardo di anni fa. La cerchia delle ripide pareti intorno al cratere, alta 2700 metri, si presenta decisamente regolare e ben conservata. Nella platea non si notano strutture di rilievo ma solo minuscole colline molto utili per mettere alla prova le ottiche del telescopio.
Peculiarità di tale struttura può essere considerata la luminosa raggiera che si sviluppa radialmente intorno al cratere, anche se non molto estesa ma con un raggio di oltre 130 km di lunghezza e con la curiosa presenza di raggi di colore più scuro.
Per quanto riguarda l’area esterna citiamo Dionysius-A di 3 km a sud e Dionysius-B di 4 km ad ovest.
De Morgan, Caley e Whewell
Con una breve deviazione e allontanandoci un poco da Tranquillitatis andremo a osservare alcuni interessanti crateri che vengono a costituire un notevole e fotogenico terzetto di cui il primo che vediamo è De Morgan, formazione lunare di 10 km di diametro proveniente dal Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. La cerchia delle pareti intorno al cratere, alta circa 2000 mt, presenta un discreto stato di conservazione anche se in prossimità della linea di cresta sommitale probabilmente sarà possibile individuare almeno alcuni dei vari minuscoli craterini che vi si trovano. Nell’area esterna, immediatamente ad ovest, si potrà tentare di percepire una struttura appartenente alla tipologia dei cosiddetti “crateri fantasma”, purtroppo privo di denominazione ufficiale, le cui pareti degradate emergono per circa un centinaio di metri dagli strati di materiale lavico ormai solidificato che ne riempì il fondo.
Poco a nord di De Morgan abbiamo il più ampio Cayley, un cratere di 15 km di diametro la cui origine viene fatta risalire al Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una struttura lunare che esibisce un discreto stato di conservazione con le sue ripide pareti alte 3100 metri disseminate solo da microscopici craterini, ben difficilmente individuabili con gli strumenti solitamente utilizzati dagli astrofili, anche se tentare non costa nulla… Infine nella platea non vi sono dettagli degni di nota ad eccezione di vari craterini.
Veniamo ora all’ultimo componente di questo bel terzetto, il cratere Whewell, di 15 km di diametro anche questo proveniente dal Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa. Leggermente più degradato rispetto ai suoi due vicini appena visti, sul lato ovest delle pareti di Whewell alte 2300 metri, andò letteralmente a sovrapporsi un cratere di circa 3 km di diametro purtroppo privo di denominazione ufficiale.
Nella platea, in assenza di dettagli rilevanti, potrebbe rivelarsi abbastanza interessante scandagliare a fondo il versante interno delle pareti insistendo sulle innumerevoli minuscole strutture a basso contrasto che dalla sommità della cerchia montuosa sono tutte orientate verso il fondo del cratere. Nell’area esterna si segnalano i crateri Whewell-A e Whewell-B rispettivamente di 4 e 3 km di diametro.
Il Cratere Ariadeus e la sua Rima
Tornando sul margine di Tranquillitatis è venuto il momento di orientare il telescopio sul cratere Ariadaeus di 12 km di diametro la cui origine risale al Periodo Geologico Eratosteniano collocato da 3,2 a non meno di 1 miliardo di anni fa.
I bastioni montuosi intorno a questo cratere, alti 1800 metri e non eccessivamente ripidi, non sono degradati ad eccezione del lato orientale sul quale andò parzialmente a sovrapporsi Ariadaeus-A di 8 km.
Tralasciando la platea, priva di dettagli, nell’area esterna citiamo Ariadaeus-F di 3 km ad est e Ariadaeus-D di 4 km a nordovest, mentre poco più a nord merita una visita Ariadaeus-E di 24 km di diametro. Si tratta di una struttura con pareti decisamente danneggiate e completamente assenti verso oriente dove entra in diretta comunicazione con la distesa basaltica del mare Tranquillitatis.
La notevole peculiarità di questa regione lunare consiste nel cratere Ariadaeus quale punto di partenza di una eccezionale formazione lunare, la Rima Ariadaeus. Si tratta di un largo solco che con andamento più o meno rettilineo si sviluppa in senso est-ovest per una lunghezza di circa 230 km ed una profondità mediamente intorno ai 500 metri proveniente dal Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa.
Osservando attentamente non sfuggirà che tale struttura è composta da almeno 2/3 segmenti consecutivi mentre a circa metà della sua lunghezza, proprio in prossimità del cratere Silberschlag (diametro 14 km) interseca una sorta di promontorio o rilievo montuoso esteso fino a Silberschlag-S, cratere di 34 km dalla curiosa forma decisamente irregolare.
La Rima Ariadaeus con la sua estremità più occidentale va a terminare in prossimità del cratere Hyginus-Z di 28 km di diametro situato al confine fra Sinus Medii e mare Vaporum. Da segnalare inoltre due ramificazioni, una ad est con un segmento che devia verso sud in direzione del cratere Dionysius e l’altra ad ovest con un ulteriore segmento che viene a creare una vera e propria interconnessione con la non lontana Rima Hyginus.
Sul fondo di questo eccezionale solco sarà possibile andare a individuare una innumerevole quantità di piccoli craterini in un continuo alternarsi con numerosi rilievi collinari, linee di creste e depressioni e se il seeing sarà favorevole ci sarà da divertirsi.
Nell’area lungo la Rima Ariadaeus merita un’osservazione “Julius Caesar 1” situato fra i crateri Ariadaeus-E e Julius Caesar. Si tratta di una formazione lunare molto interessante essendo un rilievo di origine vulcanica da vulcanismo estrusivo con dimensioni di 28×14 km con pareti ripide e un craterino sommitale.
Da segnalare inoltre Silberschlag-A di 7 km e Silberschlag-D di 4 km, oltre a Silberschlag-P di 25 km di diametro letteralmente attraversato dal largo solco della Rima Ariadaeus per la cui osservazione viene indicato uno strumento rifrattore di almeno 100mm di diametro.
19 aprile. Lungo la Rima Hyginus fino al monte Schneckenberg
Visto che siamo già qui vogliamo lasciar perdere la Rima Hyginus? Nessun problema! Bisogna solo attendere la serata successiva, il 19 aprile, in quanto la linea del terminatore non la possiamo spostare a nostro piacimento ma dobbiamo aspettare che scorra lentamente sulla superficie della Luna da est verso ovest consentendo al Sole di illuminare le strutture che intendiamo osservare. Nel caso specifico il nostro satellite sarà in fase di 7,7 giorni con illuminazione al 45% che alle ore 21:00 si troverà ad un’altezza di +60°.
Per quanto riguarda la Rima Hyginus si tratta di una eccezionale struttura la cui origine viene ricondotta al Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa, presumibilmente un antichissimo tubo di lava con andamento sinuoso parzialmente collassato in seguito ad attività sismica o impatti di meteoriti. La lunghezza di questo spettacolare solco lunare raggiunge i 230 km orientato in senso sudest-nordovest a delimitare indicativamente il Sinus Medii dal mare Vaporum, con la sua estremità più orientale collocata fra i crateri Agrippa-B di 4 km e Silberschlag di 14 km – in corrispondenza di un minuscolo craterino contornato da un evidente alone scuro – estendendosi verso nordovest fino a raggiungere il settore meridionale del mare Vaporum, terminando in prossimità di un’area montuosa isolata a sud del piccolo cratere Hyginus-D di 5 km di diametro. Mediamente la larghezza del solco è di circa 3 km.
Anche con un piccolo strumento di circa 100mm non dovrebbe essere difficile individuare l’infinita serie di dettagli presenti sul fondo di questa spettacolare formazione lunare, infatti basterà un seeing discreto anche se non eccezionale per togliersi grosse soddisfazioni col proprio telescopio.
Partendo dall’estremità sudest apparirà subito evidente come non si tratti di un semplice solco come ce ne sono tanti altri sulla Luna, ma ne percepiremo la notevole irregolarità e il continuo alternarsi di craterini e avvallamenti.
Dall’interconnessione col segmento proveniente dalla Rima Ariadaeus, il solco di Hyginus si fa decisamente più profondo e tra vari sprofondamenti e altri piccoli crateri andiamo a osservare il cratere Hyginus di 10 km di diametro la cui origine risale al Periodo Geologico Imbriano collocato da 3,8 a 3,2 miliardi di anni fa. Questa formazione lunare, contornata da basse pareti alte non più di 800 metri, ha la peculiarità di trovarsi proprio a metà del percorso della Rima Hyginus dalla quale viene letteralmente attraversata.
All’osservazione telescopica sarà piuttosto semplice notare come, proseguendo da qui in direzione nordovest, il fondo della Rima Hyginus si presenterà come una serie di allineamenti di piccoli craterini alcuni alla portata anche di telescopi amatoriali, intervallati da tratti meno tormentati. Si consiglia di visitare le interessanti ramificazioni esistenti in corrispondenza dell’estremità nordoccidentale di questa Rima altamente spettacolare (sud mare Vaporum).
Infine dal cratere Hyginus alcuni sottili solchi si estendono in direzione sudovest per andare a confluire nell’altrettanto spettacolare sistema delle Rimae Triesnecker situate in prossimità dell’omonimo cratere nel Sinus Medii. Per l’osservazione di questa eccezionale struttura lunare viene richiesto un riflettore di almeno 200mm di diametro anche se, come sempre, conviene tentare in ogni caso col proprio telescopio a prescindere dal diametro “teoricamente indicato” in quanto non esistono dogmi assoluti da rispettare perché la vera soddisfazione consisterà nell’essere riusciti anche solamente a individuare determinati dettagli con la propria ricerca personale, e poi provare non costa nulla….
Nell’area circostante della Rima Hyginus, oltre al cratere Hyginus-S di 29 km di diametro con la sua platea basaltica di colore scuro e quasi privo di pareti, potrebbe rivelarsi molto interessante individuare il monte Schneckenberg (precedentemente noto come “Hyginus Beta”) la cui peculiarità consiste nella sua inusuale forma a spirale.
Alla fine del 1800 il selenografo JN Krieger ne assegnò tale denominazione che fu poi inclusa nel 1935 nell’elenco ufficiale dell’Unione Astronomica Internazionale, anche se nel 1961 tale nome venne cancellato dalla IAU in quanto non rispondeva ai requisiti richiesti. Osservando l’area immediatamente a nord di tale struttura si potrà percepire la presenza di ristrette e delicate striature disposte radialmente rispetto al grande bacino del mare Imbrium, derivando probabilmente la propria origine dal consistente strato di ejecta di notevole spessore accumulati in seguito alla formazione di Imbrium andando in tal modo a ricoprire gran parte delle preesistenti strutture. Gli eventi sopra descritti potrebbero essere stati all’origine della inusuale forma a spirale del monte Schneckenberg. Comunque anche questo è un ottimo target da non sottovalutare.
Il mare Vaporum
Spostandoci un poco verso nord completiamo questa puntata con l’osservazione del mare Vaporum, una vasta e antichissima regione relativamente pianeggiante ricoperta da scure rocce basaltiche con una superficie di 55000 kmq e un diametro di circa 240 km, la cui origine viene fatta risalire al Periodo Geologico Pre Imbriano collocato da 4,5 a 3,8 miliardi di anni fa.
L’area di Vaporum è delimitata a nord dalla imponente e spettacolare catena montuosa degli Appennini lunari (già vista in un precedente articolo), a ovest da una vasta regione collinare che la separa dall’adiacente Sinus Aestuum mentre ad est, oltre la regione dei “Grandi Laghi” (anche questa già analizzata), si estende il grande mare Serenitatis.
A prescindere dalle strutture già viste in precedenti articoli, sul fondo di Vaporum citiamo Hyginus-W di 22 km, l’irregolare cratere Boscovich di 48 km con pareti di 1800 mt con la sua scura platea attraversata dagli stretti solchi delle Rimae Boscovich estese per 41 km e Boscovich-P di 67 km con la sua inusuale forma allungata probabile fusione di più crateri contornato da pareti notevolmente degradate. Si segnala Manilius-C di 7 km sulla parete nordest.
Per ora fermiamoci qui, nel prossimo articolo si ritorna sul margine ovest del mare Tranquillitatis e si ripartirà dal vasto cratere Julius Caesar di 94 km di diametro.
Rimae Hypatia: Nome assegnato nel 1651 da Riccioli dedicato a Ipazia (IV-V secolo), studiosa di matematica e filosofa neoplatonica di Alessandria dove visse e dove venne linciata da fanatici cristiani.
Cratere Dionysius: Nome probabilmente assegnato da Van Langren e dedicato a San Dionisio o Dionigi l’Areopagita (I° secolo d.C.).
Cratere Schmidt: Nome assegnato da Birt/Lee nel 1865 dedicato all’astronomo tedesco Johann Friedrich Julius Schmidt (1825-1884), fu direttore dell’Osservatorio di Atene e realizzò una mappa dei crateri lunari, dedicò tale nome inoltre all’ottico tedesco di origine estone Bernard Schmidt (1879-1935). Operò presso l’Osservatorio di Amburgo-Bergedorf. Come costruttore di ottiche astronomiche ideò il sistema ottico noto come “telescopio di Schmidt”, dedicato al naturalista sovietico Otto J. Schmidt.
Cratere De Morgan: Nome assegnato da Birt/Lee nel 1865 dedicato al matematico inglese nato in India Augustus De Morgan (1806-1871).
Cratere Cayley: Nome assegnato da Birt/Lee nel 1865 dedicato al matematico inglese Arthur Cayley (1821-1895).
Cratere Whewell: Nome assegnato da Birt/Lee nel 1865 dedicato al filosofo della storia e naturalista inglese William Whewell (1794-1866).
Cratere Ariadaeus: Nome dedicato ad Ariadaeus oppure Arrhidaeus (morto 317 a.C.), fratellastro di Alessandro Magno, dopo il quale regnò col nome di Filippo III°.
Cratere Hyginus: Nome assegnato nel 1651 da Riccioli dedicato a Caio Giulio Igino (I° secolo a.C.)
Mare Vaporum: Denominazione apparsa per la prima volta nella mappa lunare di Grimaldi nel 1651, mentre era denominato Propontis nella carta lunare di Johannes Hevelius realizzata nel 1647.
Cratere Boscovich: Denominazione assegnata da Schroter nel 1802 dedicata all’astronomo, fisico e matematico oltre che gesuita Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787). Fu promotore della fondazione dell’Osservatorio di Milano Brera e fu tra i primi ad accertare la legge di Newton.
Mare Tranquillitatis: Denominazione che comparve nel 1651 sulla mappa lunare di Riccioli con riferimento alla “calma”, come mare Serenitatis, Palus Smnii, Lacus Somniorum.
Un'immagine di 2I/Borisov scattata con lo strumento FORS2 installato sul VLT (Very Large Telescope) dell'ESO alla fine del 2019, quando la cometa è passata vicina al Sole. Poiché la cometa viaggiava a una velocità vertiginosa, circa 175.000 chilometri all'ora, le stelle sullo sfondo appaiono come strisce di luce dovute al moto del telescopio che seguiva la traiettoria della cometa. I colori in queste strisce conferiscono all'immagine un tocco psichedelico e sono il risultato della combinazione di osservazioni in diverse bande di lunghezza d'onda, evidenziate dai diversi colori mostrati in questa immagine composita. Crediti: ESO/O. Hainaut
2I/Borisov è stata scoperta dall’astronomo dilettante Gennady Borisov nell’agosto 2019.
È stato confermato poche settimane dopo che l’oggetto proveniva dall’esterno del Sistema Solare. «2I/Borisov potrebbe rappresentare la prima cometa veramente incontaminata mai osservata», afferma Stefano Bagnulo dell’Osservatorio e Planetario di Armagh, Irlanda del Nord, Regno Unito, che ha guidato il nuovo studio pubblicato oggi su Nature Communications. L’equipe ritiene che la cometa non fosse mai passata vicino a nessuna stella prima di passare vicino al Sole nel 2019.
Bagnulo e colleghi hanno utilizzato lo strumento FORS2 installato sul VLTdell’ESO, situato nel nord del Cile, per studiare la cometa in dettaglio utilizzando una tecnica chiamata polarimetria.
La polarimetria è una tecnica che serve per misurare la polarizzazione della luce. La luce diventa polarizzata, per esempio, quando passa attraverso determinati filtri, come le lenti degli occhiali da sole polarizzati, ma anche il materiale di cui sono composte le comete. Studiando le proprietà della luce solare polarizzata dalla polvere di una cometa, i ricercatori possono ottenere informazioni sulla fisica e la chimica delle comete.
Poiché questa tecnica viene regolarmente utilizzata per studiare le comete e altri piccoli corpi del nostro Sistema Solare, questo ha permesso all’equipe di confrontare il visitatore interstellare con le nostre comete locali.
L’equipe ha scoperto che 2I/Borisov ha proprietà polarimetriche distinte da quelle delle comete del Sistema Solare, con l’eccezione della cometa Hale-Bopp.
La cometa Hale-Bopp ha ricevuto molto interesse da parte del pubblico alla fine degli anni ’90 poiché era facilmente visibile a occhio nudo e anche perché era una delle comete più incontaminate che gli astronomi avessero mai visto. Prima del suo passaggio più recente, si pensa che Hale-Bopp sia passata vicino al Sole solo una volta e quindi sia stata a malapena influenzata dal vento e dalle radiazioni solari. Ciò significa che era rimasta incontaminata, con una composizione molto simile a quella della nuvola di gas e polvere che l’aveva formata – insieme con il resto del Sistema Solare – circa 4,5 miliardi di anni fa.
Analizzando la polarizzazione insieme al colore della cometa per raccogliere indizi sulla sua composizione, l’equipe ha concluso che 2I/Borisov è in realtà ancora più incontaminato di Hale-Bopp. Ciò significa che trasporta le tracce intonse della nuvola di gas e polvere da cui si è formata.
«Il fatto che le due comete siano notevolmente simili suggerisce che l’ambiente in cui ha avuto origine 2I/Borisov non è così diverso per composizione dall’ambiente originario del Sistema Solare», dice Alberto Cellino, coautore dello studio, dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Torino, Italia.
Olivier Hainaut, un astronomo dell’ESO in Germania che studia le comete e altri oggetti vicini alla Terra, ma non è coinvolto in questo nuovo studio, concorda: «Il risultato principale – che 2I/Borisov è diversa da qualsiasi altra cometa eccetto Hale-Bopp – è molto forte», dice, aggiungendo che «è molto plausibile che si siano formati in condizioni molto simili».
«L‘arrivo di 2I/Borisov dallo spazio interstellare ha rappresentato la prima opportunità per studiare la composizione di una cometa da un altro sistema planetario e verificare se il materiale che proviene da questa cometa è in qualche modo diverso dalla nostra varietà nativa», spiega Ludmilla Kolokolova, del Università del Maryland negli Stati Uniti, che è stata coinvolta nella ricerca pubblicata da Nature Communications.
Bagnulo spera che gli astronomi abbiano un’altra opportunità, ancora migliore, per studiare in dettaglio una cometa errante prima della fine del decennio. «L’ESA ha in programma di lanciare Comet Interceptor nel 2029, che avrà la capacità di raggiungere un altro oggetto interstellare in visita, se ne viene scoperto uno su una traiettoria adeguata», dice, riferendosi a una imminente missione dell’Agenzia spaziale europea.
Una storia delle origini nascosta nella polvere
Una rappresentazione artistica di come potrebbe apparire la superficie della cometa 2I/Borisov. Nonostante i telescopi, sia dalla terra che dallo spazio, abbiano catturato immagini di questa cometa, non abbiamo osservazioni ravvicinate della sua forma o superficie, non resta quindi che agli artisti immaginare come la superficie della cometa potrebbe apparire, sulla base delle informazioni scientifiche raccolte. Crediti: ESO/M. Kormesser
Anche senza una missione spaziale, gli astronomi possono utilizzare i numerosi telescopi della Terra per ottenere informazioni sulle diverse proprietà delle comete erranti come 2I/Borisov. «Immagina quanto siamo stati fortunati che una cometa proveniente da un sistema distante anni luce abbia semplicemente fatto un viaggio alla nostra porta per caso», dice Bin Yang, astronomo dell’ESO in Cile, che ha anche approfittato del passaggio di 2I/Borisov attraverso il nostro Sistema per studiare questa misteriosa cometa. I risultati del suo gruppo sono pubblicati su Nature Astronomy.
Yang e il suo team hanno utilizzato i dati di ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui l’ESO è un partner, nonché del VLT dell’ESO, per studiare i granelli di polvere di 2I/Borisov per raccogliere indizi sulla nascita e le condizioni della cometa nel suo sistema originario.
Hanno scoperto che la chioma della cometa – un involucro di polvere che circonda il suo corpo principale – contiene ciottoli compatti, granelli di circa un millimetro o più grandi. Inoltre, hanno scoperto che la quantità relativa di monossido di carbonio e acqua nella cometa cambiava drasticamente man mano che si avvicinava al Sole.
L’equipe, che comprende anche Olivier Hainaut, afferma che questo indica che la cometa è composta da materiali che si sono formati in punti diversi del suo sistema planetario.
Le osservazioni di Yang e del suo gruppo suggeriscono che la materia nella casa planetaria di 2I/Borisov è stata mescolata da zone vicine alla sua stella a zone più lontane, forse a causa dell’esistenza di pianeti giganti, la cui forte gravità agita il materiale nel sistema. Gli astronomi ritengono che si tratti di un processo simile a quello che si è verificato all’inizio della vita del nostro Sistema Solare. Anche se 2I/Borisov è stata la prima cometa solitaria a passare vicino al Sole, non è però stato il primo visitatore interstellare.
Il primo oggetto interstellare che è stato osservato passare dal nostro Sistema Solare è ʻOumuamua, un altro oggetto studiato con il VLT dell’ESO nel 2017. Originariamente classificato come una cometa, ‘Oumuamua è stato successivamente riclassificato come asteroide in quanto mancava di chioma.
Rappresentazione artistica di una nana bruna. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Rappresentazione artistica di una nana bruna. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Le nane brune, brown dwarfs in inglese, sono tra gli oggetti celesti più strani e affascinanti del cosmo. Sono corpi troppo grandi per essere considerati pianeti e troppo piccoli per essere vere e proprie stelle. La loro massa è infatti insufficiente a innescare la fusione nucleare, motivo per cui vengono spesso chiamate “stelle fallite”.
Ma c’è anche un’altra caratteristica unica che contraddistingue questi corpi. È la rapida rotazione intorno al proprio asse: non c’è pianeta o stella, pulsar escluse, la cui velocità di rotazione sia paragonabile a quella di queste “trottole” spaziali, che possono arrivare a compiere una rotazione anche in meno di due ore. Come termine di paragone basti pensare che la Terra ruota attorno al proprio asse una volta ogni 24 ore, mentre Giove e Saturno impiegano circa 10 ore. Il Sole lo fa invece in media ogni 27 giorni, con leggere variazioni tra i poli e l’equatore.
Una delle domande che si pongono gli astronomi è se vi sia un limite alla velocità di rotazione delle nane brune. Secondo quanto riporta uno studio accettato per la pubblicazione su The Astronomical Journal, condotto da un team di ricercatori guidati dalla canadese Western University, un limite c’è, ed è vicino ai periodi di rotazione delle tre nane brune più veloci che siano mai state scoperte finora.
Le tre nane brune in questione sono 2Mass J0348−6022, 2Mass J1219+3128 e 2Mass J0407+1546. Hanno tutte un diametro più o meno simile a quello di Giove ma sono tra le 40 e le 70 volte più massicce. E – qui viene il bello – hanno periodi di rotazione di 1.08 ore, 1.14 ore e 1.23 ore rispettivamente, corrispondenti a velocità di 103.5, 79 e 82.6 chilometri al secondo. Valori dunque inferiori al periodo di rotazione di 1.4 ore di 2Mass J22282889−4310262, la nana bruna detentrice del vecchio record di velocità di rotazione.
A dire il vero nel 2016, in un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, due ricercatori hanno riportato un periodo di rotazione di 0.288 ore (pari a un giro ogni 17 minuti) per la nana bruna Wisepc J112254.73 255021.5, ma in uno studio pubblicato l’anno successivo, utilizzando il Very Large Array, è stato trovato un periodo più lungo: 1.93 ore. Dunque, i corpi oggetto dell’articolo ora in uscita su The Astronomical Journal sarebbero le nane brune che ruotano più velocemente di qualsiasi altra mai scoperta fino a oggi.
Megan Tannock – dottoranda presso la University of Western Ontario, in Canada, nonché autrice principale della pubblicazione che riporta la scoperta – e i suoi colleghi hanno determinato i rapidi tassi di rotazione dei tre corpi celesti utilizzando i dati d’archivio di Spitzer, il telescopio spaziale della Nasa da gennaio del 2020 a riposo. I ricercatori hanno quindi condotto osservazioni di follow-up con il telescopio Gemini North di Maunakea, alle Hawaii, e il telescopi Magellano del Carnegie Institution for Science, in Cile. I risultati ottenuti da queste indagini hanno sostanzialmente confermato le misure di Spitzer: le tre nane brune completano una rotazione attorno al proprio asse all’incirca una volta ogni ora. Si tratta di periodi orbitali così brevi da essere prossimi – dicono i ricercatori – a un limite di rotazione valido per tutte le nane brune.
«Nonostante le estese ricerche condotte dal nostro e da altri team, non è stata trovata alcuna nana bruna che ruoti più velocemente», osserva Tannock. «Una velocità di rotazione maggiore potrebbe portare una nana bruna ad autodistruggersi».
Ciò che ha spinto gli astronomi a trarre questa conclusione è il fatto che le tre nane brune hanno quasi la stessa identica velocità di rotazione, nonostante le loro età stimate siano molto diverse: 3.5 miliardi di anni per 2Mass J0348-6022, 900 milioni per 2Mass J1219+3128 e 800 milioni per 2Mass J0407+1546. Un fatto strano, se si considera che questi corpi con l’avanzare dell’età si raffreddano, si contraggono e tendono a girare sempre più velocemente.
Immagine che mostra le velocità di rotazione della nana bruna 2Mass J0348-6022, di Giove e Saturno. Le forme sferoidali di questi tre corpi vengono confrontate con cerchi perfetti, disegnati in bianco nell’immagine. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Secondo i ricercatori, le velocità di rotazione dei tre corpi non sarebbero dunque paragonabili per pura coincidenza, ma sono piuttosto il risultato del raggiungimento di un limite di velocità.
Ma davvero questi oggetti potrebbero andare incontro a distruzione se ruotassero a velocità maggiori? Tutti gli oggetti rotanti generano una forza centrifuga perpendicolare all’asse di rotazione, che aumenta quanto più velocemente ruota l’oggetto e che è controbilanciata, fino a un certo punto, dalla forza di gravità. Il risultato di queste forze contrapposte è che il corpo diventa uno sferoide “panciuto” all’equatore e schiacciato ai poli. Gli scienziati chiamano questa “schiacciatura” oblazione. Saturno, che come Giove ruota una volta ogni 10 ore, ha un’oblazione significativa. Secondo gli autori dell’articolo, le tre nane brune hanno probabilmente gradi di oblazione simili. Ciò non significa che le nane brune siano in procinto di disintegrarsi. In altri oggetti cosmici rotanti ci sono meccanismi di frenata naturali che impediscono loro di autodistruggersi. Non è ancora chiaro tuttavia se meccanismi simili esistano nelle nane brune, aggiungono i ricercatori.
«Trovare una nana bruna che ruota così velocemente da perdere la sua atmosfera nello spazio sarebbe spettacolare, ma finora non abbiamo osservato nulla di simile», sottolinea Tannock. «Ciò significa o che qualcosa sta rallentando le nane brune prima che raggiungano quell’estremo o che non possono arrivare arrivare a quelle velocità. I nostri risultati supportano una sorta di limite alla velocità di rotazione, ma non ne conosciamo il meccanismo alla base».
Ma come spiegare allora i modelli secondo cui la velocità di rotazione massima di una nana bruna dovrebbe essere dal 50 all’80 per cento più veloce rispetto al periodo di rotazione di un’ora descritto in questo studio?
«È possibile che queste teorie non abbiano ancora il quadro completo», dice Stanimir Metchev dellaUniversity of Western Ontario, co-autore dell’articolo. «Potrebbe entrare in gioco qualche fattore sconosciuto che non permette alla nana bruna di ruotare più velocemente. Ulteriori osservazioni e studi teorici potrebbero ancora svelare se esiste un meccanismo di frenata che impedisce alle nane brune di autodistruggersi e se ci sono nane brune che ruotano ancora più velocemente nell’oscurità».
Atmosfere mattutine di Lamberto Sassoli. "La falce di Luna calante preannuncia la venuta di un nuovo giorno". La sottile falce di Luna del 9 marzo mattina, tutti i dettagli di ripresa cliccando sull'immagine.
La caccia alle falci lunari si apre nelle prime ore dell’8 aprile quando alle ore 05:46 sorgerà una falce di 25,7 giorni fra le stelle dell’Acquario.
Si tratterà di un’osservazione problematica in quanto il tempo a disposizione sarà veramente ridotto (circa 25 minuti al massimo) prima che le luci dell’alba cancellino lo spettacolo. Pertanto eventuali osservazioni e foto dovranno essere effettuate con la Luna ancora in prossimità dell’orizzonte adottando le opportune e indispensabili precauzioni per non intercettare la luce solare.
Altra falce veramente problematica sorgerà il mattino seguente, 9 aprile, alle ore 06:09 ma con un tempo ancora più limitato: intendo precisare che queste due falci vengono citate solo per il cosiddetto “dovere di cronaca” consigliandone l’individuazione solo ad astrofili con una certa esperienza.
Per quanto riguarda le falci lunari in Luna crescente, appuntamento per il tardo pomeriggio del13 aprile con una sottile falce di 1,7 giorni che alle ore 21:30 scenderà sotto l’orizzonte. Anche in questo caso si ritiene importante attendere che la Luna si trovi il più possibile in prossimità dell’orizzonte.
La sera seguente, il14 aprile, tramonterà alle ore 22:33 una più comoda falce di 2,7 giorni.
Già visibile poco prima delle ore 21:00 circa, sulla cui porzione illuminata dalla luce solare sarà possibile individuare innumerevoli strutture tra cui il mare Humboldtianum, il settore orientale del mare Crisium con i piccoli mari adiacenti oltre agli spettacolari crateri lungo il lato est del mare Fecunditatis (Langrenus, Vendelinus, Petavius, Furnerius), il tutto in una invidiabile condizione osservativa in quanto letteralmente “stretti” fra il bordo lunare e la linea del terminatore.
Imperdibile occasione per scandagliare queste formazioni geologiche in alta risoluzione sperando in un seeing all’altezza della situazione anche se la modesta declinazione (max +18°) potrebbe risultare deleteria accentuando gli effetti della turbolenza. Attendiamo veramente i vostri lavori in PhotoCoelum.
Per questa tipologia di osservazioni, oltre agli ormai noti parametri osservativi, risulterà determinante disporre di un orizzonte il più possibile libero da ostacoli e sperare nella clemenza delle condizioni meteorologiche, anche se la stagione invernale ormai terminata può sempre riservare brutte sorprese.
Mars Perseverance sol 43 (dettaglio) Rear Right HazcamCrediti: NASA/JPL-Caltech - Processing: Elisabetta Bonora & Marco Faccin / aliveuniverse.today
Ingenuity ripreso da Perseverance durante il sol 43 (dettaglio) dalla Rear Right Hazcam. Crediti: NASA/JPL-Caltech - Processing: Elisabetta Bonora & Marco Faccin / aliveuniverse.today
Le temperature notturne nel cratere Jezero possono raggiungere i meno 90 gradi Celsius mettendo a dura prova l’elettronica e i componenti a bordo. Ingenuity si è separato da Parseverance il 3 aprile scorso, dopo una procedura che ha richiesto 6 sol di attività.
L'aaprofondimento sulla missione a cura di Elisabetta Bonora di aliveuniverse.today su Coelum Astronomia 246. Clicca e leggi!Nel primo giorno marziano, il team ha attivato un dispositivo per la rottura dei bulloni, aprendo il meccanismo di blocco che ha tenuto Ingenuity saldamente ancorato alla pancia del rover durante il lancio e l’atterraggio su Marte. Il sol seguente, un dispositivo pirotecnico ha tagliato i cavi, consentendo al braccio robotico che tratteneva Ingenuity di iniziare a ruotare l’elicottero fuori dalla sua posizione orizzontale. Nel frattempo, Ingenuity ha esteso due dei suoi quattro piedi. Durante il terzo sol, un piccolo motore elettrico ha finito di ruotare il drone portandolo completamente in verticale. Durante il quarto sol sono state estese le altre due gambe. Nella posizione finale, l’elicottero è rimasto sospeso a circa 13 centimetri sulla superficie marziana. A questo punto Ingenuity era penzolante, collegato a Perserverance solo da bullone e un paio di dozzine di minuscoli contatti elettrici. Durante il quinto sol, il team ha sfruttato l’ultima opportunità di utilizzare Perseverance per caricare le sei batterie di Ingenuity. Il sesto sol ogni collegamento è stato rimosso, il done si è posato sul suolo e Perseverance si è velocemente allontanato per permettere al piccolo pannello solare in cima ai rotori di ricevere immediatamente la luce del Sole.
Il questo video abbiamo raccolto le varie fasi dell’intera operazione.
Questa immagine a bassa risoluzione è stata ripresa il 3 aprile dalla fotocamera a bordo di Ingenuity, quando il drone ha toccato il suolo ma era ancora sotto la pancia di Perseverance (in fondo si vedono in parte le ruote del rover). Crediti: NASA/JPL-Caltech
«Questa è la prima volta che Ingenuity è da solo sulla superficie di Marte», ha dettoMiMi Aung, project manager di Ingenuity presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA. «Ma ora abbiamo la conferma di avere il giusto isolamento, i giusti riscaldatori e abbastanza energia per sopravvivere alla notte fredda, che è una grande vittoria per la squadra. Siamo entusiasti di continuare a preparare Ingenuity per il suo primo test di volo».
Ideare un velivolo abbastanza piccolo da stare sul rover, abbastanza leggero da volare nella sottile atmosfera di Marte ma abbastanza resistente da sopravvivere alle temperature gelide, è stata una bella sfida per gli ingegneri.
Mars Perseverance sol 43 Ingenuity - Rear Hazcam Panorama. Il mosaico a piena risoluzione (4784 × 816 pixel) è disponibile sul nostro album di Flickr. Crediti: NASA/JPL-Caltech - Processing: Elisabetta Bonora & Marco Faccin / aliveuniverse.today
Nei prossimi due giorni, Ingenuity raccoglierà informazioni sulle prestazioni dei sistemi di controllo termico e di alimentazione. Queste informazioni verranno utilizzate per mettere a punto i sistemi ed aiutare il drone a sopravvivere alle dure notti di Marte durante l’intero periodo dell’esperimento di volo. Poi, saranno testate pale e rotore. Inoltre, sarà controllata l’unità di misura inerziale ed il computer di bordo (alimentato da un Qualcomm Snapdragon 801 un processore ARM quad-core a 2.2Ghz) incaricati di pilotare autonomamente l’elicottero.
Se tutti i controlli preliminari andranno bene, il primo tentativo di Ingenuity di decollare dal suo “campo d’aviazione” di 10 x 10 metri, avverrà non prima della sera dell’11 aprile …. e sarà storia!
Immagine della AT2021gfp in ESO 42-G14 ripresa da Stuart Parker in remoto dal Cile con un telescopio Richey-Chretien da un metro di diametro – somma di 4 immagini da 600 secondi.
In questi primi tre mesi del 2021, mentre tutti gli astrofili che portano avanti questo tipo di ricerca provano a contrastare lo strapotere dei programmi professionali, non poteva che essere il solito astrofilo giapponese Koichi Itagaki a mettere a segno il suo secondo centro nel 2021, raggiungendo la quota di 161 scoperte totali che gli permette di occupare la quarta posizione della Top Ten mondiale amatoriale.
Da notare che il veterano astrofilo del Sol Levante vanta al suo attivo, in questo inizio 2021, anche la scoperta una Nova nella galassia M31.
L’astrofilo giapponese Koichi Itagaki.
Nella notte del 17 marzo il bravo ed esperto astrofilo giapponese, che dispone di una considerevole schiera di telescopi (superiore a tutti quelli dell’ISSP messi insieme!), individua una nuova stella di mag. +16,9 nella galassia ellittica NGC 5018, posta nella parte meridionale della costellazione della Vergine, a circa 120 milioni di anni luce di distanza e situata a circa 8° a sud della stella Spica.
A tempo di record, appena nove ore dopo la scoperta, con il Southem African Large Telescope, un bestione di oltre 10 metri di diametro posto a circa 370 Km a nordest di Città del Capo in Sudafrica, viene ripreso lo spettro di conferma. La SN2021fxy, questa la sigla definitiva assegnata, è una giovane supernova di tipo Ia scoperta circa due settimane prima del massimo di luminosità, con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiano a una velocità di circa 18.000 km/s.
Immagine della SN2021fxy in NGC5018 ripresa da Riccardo Mancini con un Newton 250mm F.5 e 20 minuti di posa.
NGC 5018 ha un modulo di distanza di circa 33 e poiché come sappiamo tutte le supernovae di tipo Ia raggiungono la magnitudine assoluta di -19, la luminosità della SN2021fxy ha infatti raggiunto la magnitudine apparente di circa +14 (33-19=14) verso la fine del mese di marzo o nei primi giorni del mese di aprile, visto che è presente un assorbimento da polveri talmente leggero da togliere alla supernova solo 0,3 magnitudini. Si potranno perciò ottenere delle belle immagini sfruttando il fatto che NGC 5018 è affiancata in cielo dalla compagna NGC 5022, una galassia a spirale barrata vista di taglio.
Le due galassie sembrerebbero essere legate fra loro gravitazionalmente, trovandosi infatti alla stessa distanza. L’unico inconveniente è rappresentato dalla bassa declinazione dei due oggetti (-19,30°) che penalizzerà principalmente gli osservatori del Nord Italia. Chi dispone di strumenti a largo campo potrebbe includere nel quadretto anche NGC 5006, una galassia a spirale barrata vista di faccia e situata leggermente più a nordovest.
Stupenda immagine di NGC5018 con NGC5022 e NGC5006 ripresa nel 2018 da un team di ricercatori guidati dalla Dott.sa Marilena Spavone con il VLT Survey Telescope da 2,56 metri all’Osservatorio del Panaral dell’ESO in Cile.
NGC 5018 aveva visto esplodere al suo interno un’altra supernova conosciuta, la SN2002dj scoperta il 12 giugno 2002 dal programma LOTOSS e anche questa di tipo Ia.
Indice dei contenuti
Dall’emisfero meridionale
Stuart Parker accanto al suo Celestron 14 nel suo osservatorio privato in Nuova Zelanda.
Dall’emisfero meridionale, Stuart Parker, leader del programma amatoriale di ricerca supernovae denominato BOSS, risponde al giapponese Itagaki individuando la sua prima supernova del 2021 e consolidando la sua terza posizione nella Top Ten amatoriale che lo vede adesso a quota 163 scoperte.
Immagine della AT2021gfp in ESO 42-G14 ripresa da Stuart Parker in remoto dal Cile con un telescopio Richey-Chretien da un metro di diametro – somma di 4 immagini da 600 secondi.
Nella notte del 18 marzo il neozelandese si accorge di una nuova stellina di mag. +17,3 nella galassia ESO 42-G14 posta nella costellazione dell’Uccello del Paradiso, a circa 230 milioni di anni luce di distanza. La supernova non è visibile dal nostro emisfero, poichè si trova alle declinazione di -74° ma pubblichiamo l’immagine che lo stesso Parker ha ripreso in remoto dal Cile la stessa notte della scoperta. Al momento in cui scriviamo non è stato ancora ripreso lo spettro di conferma, pertanto al transiente è stata per adesso assegnata la sigla provvisoria AT2021gfp.
Dall’Italia
Claudio Balcon accanto al suo Newton 200mm F.5
Sul versante italiano, tutto tace a livello di scoperte, ma ci possiamo consolare con lo stupendo lavoro che Claudio Balcon sta portando avanti sul lato spettroscopia amatoriale.
In questi primi tre mesi del 2021, utilizzando un semplice telescopio Newton da 200mm F.5 e uno spettrografo auto-costruito, il bravo astrofilo bellunese è riuscito infatti a classificare per primo nel portale TNS ben 4 supernovae, 3 novae in M31 – in collaborazione con gli astronomi cinesi del Okayama Observatory – e una variabile cataclismica della nostra galassia.
A dimostrazione che anche con semplici strumenti, uniti però a una grande esperienza e costanza, si possono ottenere grandi risultati e dare un contributo importante alla ricerca scientifica.
Chiudiamo la rubrica segnalando una interessante supernova scoperta nella galassia NGC 3310 nella notte del 20 marzo dal programma professionale di ricerca supernovae denominato DTL40.
La galassia ospite è una spirale barrata peculiare posta nella costellazione dell’Orsa Maggiore, a una distanza di circa 40 milioni di anni luce, ed è considerata una galassia starburst, cioè con una forte e rapida formazione stellare.
Immagine della SN2021gmj in NGC3310 ripresa da Paolo Campaner con un riflettore da 400mm F.5,5 – somma di 30 immagini da 30 secondi.
L’oggetto è stato scoperto quando brillava di mag. +16,0 e appena 13 ore più tardi – dall’Osservatorio del Roque de los Muchachos nelle Isole Canarie con il Liverpool Telescope da 2 metri – è stato ripreso lo spettro di conferma che ha permesso di classificare la supernova di tipo II molto giovane.
Nella stessa notte, anche dall’Osservatorio di Asiago è stato ripreso lo spettro, confermando che la SN2021gmj, questa la sigla definitiva assegnata, è una supernova di tipo II scoperta pochi giorni dopo l’esplosione, con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiano ad una velocità di circa 13500 km/s. Purtroppo questo transiente non è molto luminoso, anzi siamo forse di fronte a una delle supernovae di tipo II più deboli, con una magnitudine assoluta di appena -15, e infatti difficilmente riuscirà a raggiungere la magnitudine apparente di +15. Sarà però possibile ottenere ugualmente delle belle immagini di una fotogenica galassia già alta in prima serata.
Rimane solo il rammarico che se fosse stata una supernova di tipo Ia avremmo potuto ammirare un oggetto che al massimo di luminosità avrebbe raggiunto la notevole mag. +11,5.
Stupenda immagine della SN2021gmj in NGC3310 ripresa dall’astrofilo lituano Simas Satkauskas con un telescopio RASA11 munito di camera ASI183MC – somma di 113 immagini da 120 secondi.
Questa è la terza supernova conosciuta esplosa in NGC 3310. Le due precedenti furono la SN1991N scoperta il 29 marzo 1991 da due astrofisici americani Saul Perlmutter e Carlton Pennypacker, che si rivelò essere una rara supernova di tipo Ic/b, e la SN1974C scoperta il 26 febbraio 1974 dall’astronomo olandese Piet van der Kruit e dall’astronomo americano Halton Arp, famoso per aver redatto il catalogo che porta il suo nome di galassie peculiari e interagenti.
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