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La Croce del Nord entra nell’era Frb

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La stazione di Medicina, con i due rami perpendicolari della Croce del Nord al centro, e l'antenna parabolica da 32 m sulla sinistra. Crediti: G. Bianchi
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La stazione di Medicina, con i due rami perpendicolari della Croce del Nord al centro, e l'antenna parabolica da 32 m sulla sinistra. Crediti: G. Bianchi

Un pezzo di questa storia inizia il 3 marzo 2021 alla Stazione radioastronomica di Medicina dell’Istituto nazionale di astrofisica. Siamo nella “bassa” bolognese, 30 chilometri a est del capoluogo emiliano, verso Ravenna e l’Adriatico. D’inverno non è rara la neve, d’estate non mancano le zanzare, e la leggenda vuole che mezzo secolo fa, proprio in questo angolo della Pianura Padana, ci fosse un ristorante che serviva dei tortelloni favolosi. È qui che, alle 16:17:29 ora locale, un segnale dalle profondità del cosmo raggiunge sei dei 64 cilindri di metallo che costituiscono uno dei due rami del primo radiotelescopio d’Italia, la Croce del Nord.

Pur nelle restrizioni imposte dalla terza ondata della pandemia da Covid-19, un piccolo gruppo di radioastronomi si trova a Medicina. Lavorano a diversi progetti e continuano a lavorare anche quando lo strumento, diligente e silenzioso, capta il rapidissimo segnale. Otto millesimi di secondo. Dieci, quindici volte più rapido del proverbiale batter d’occhio. Una tempistica che intuitivamente fa quasi a pugni con la dinamica non poi così movimentata della Croce del Nord che, invece, è proprio ciò che ha permesso allo storico radiotelescopio di intercettare questo breve lampo nelle onde radio a basse frequenze.

«Possiamo puntarlo solo in declinazione», spiega Germano Bianchi, ricercatore Inaf e responsabile della Croce del Nord, «e può osservare tutti gli oggetti che, durante il loro moto apparente da est a ovest, passano sul meridiano locale». Gli astronomi parlano di uno strumento “di transito”. Sta lì e guarda il cielo che gli passa sopra, come quando ci si sdraia a pancia in su in una notte d’estate, lasciando che la rotazione terrestre faccia il suo corso, srotolando un flusso continuo di sorgenti astronomiche sulla volta celeste. Solo che la Croce del Nord, essendo un radiotelescopio, può scrutare il cielo anche durante il giorno. Bianchi chiama in causa il paraocchi di un cavallo che, sul ciglio di una strada, guarda avanti e ogni tanto vede passare una macchina: «le macchine sono le radiosorgenti e il paraocchi è il campo di vista della Croce».

Tecnologie di ieri (e di oggi)

Radiotelescopi di transito come questo, un’avanguardia tecnologica ai tempi della sua costruzione, erano molto in voga fino agli anni ‘70-‘80 del secolo scorso perché relativamente semplici da costruire, senza costose parti meccaniche che hanno spesso bisogno di manutenzione. Inaugurato nel 1964, la Croce del Nord è ancora uno dei più grandi strumenti di questo tipo al mondo, con un’area di raccolta di circa 30mila metri quadrati – l’equivalente di sei campi da calcio – che garantisce una sensibilità elevata nelle osservazioni.

Dettaglio sulle antenne della Croce del Nord in una foto scattata a metà marzo 2021; in lontananza si riconosce la parabola da 32 metri. Crediti: G. Bianchi

Poi sono arrivate le grandi antenne orientabili, come quella di 32 metri di diametro che dal 1983 affianca la Croce del Nord a Medicina, oppure il Sardinia Radio Telescope (Srt), che con la sua potente parabola da 64 metri è da diversi anni il nuovo fiore all’occhiello della radioastronomia italiana. I grandi strumenti di transito sono passati in secondo piano per molti anni, per poi ritornare a sorpresa sulla scena dell’astronomia internazionale solo di recente. Il Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment (Chime), operativo dal 2017 in British Columbia, la provincia canadese che si affaccia sull’Oceano Pacifico, altro non è che una versione iper-moderna della Croce del Nord.

Uno dei motivi del grande revival di questi radiotelescopi ha molto a che vedere con il segnale ricevuto il 3 marzo scorso a Medicina, e si riassume in tre parole: fast radio burst (Frb), o lampi radio veloci. Come dice il nome, si tratta di brevissimi segnali ricevuti in banda radio, quasi esclusivamente da sorgenti al di là della nostra galassia, scoperti per la prima volta nel 2007. Ad oggi si conoscono un centinaio di sorgenti di Frb, ma la loro natura resta misteriosa, con decine e decine di modelli proposti per cercare di spiegare il meccanismo alla base di queste emissioni che fanno capolino, impreviste, nel firmamento radio. Un anno fa, la scoperta del primo Frb nella Via Lattea, peraltro in associazione con una magnetar, sembra indicare che queste stelle di neutroni altamente magnetizzate potrebbero celarsi (almeno) dietro alcuni dei lampi osservati finora, ma manca ancora una comprensione generale del fenomeno. Nel frattempo, intorno a questo enigma si è sviluppata una vivace attività di ricerca su tutti i fronti, dalle osservazioni in banda radio alla ricerca delle loro controparti nelle alte energie, fino alla modellizzazione teorica.

Secondo Gianni Bernardi, ricercatore Inaf a Bologna e coordinatore del programma di ricerca degli Frb con la Croce del Nord, sono tanti i casi scientifici oggi, «rilevanti soprattutto per la cosmologia ma nel nostro caso anche per i transienti, dove non hai necessariamente una sorgente preferita dove guardare, ma l’evento può capitare ovunque». Se non è importante la direzione verso cui si osserva, non c’è bisogno di spostare il telescopio da un punto all’altro del cielo, come si fa con le grandi antenne orientabili per studiare in dettaglio sorgenti radio specifiche, e vengono in aiuto i radiotelescopi di transito. Nel caso degli Frb, che durano pochi millisecondi e possono manifestarsi senza preavviso in qualsiasi parte del cielo, «non hai una grande necessità di sapere dove puntare, hai semplicemente bisogno di stare lì in cielo e aspettare che ne arrivi uno. Chiaramente, più cielo copri, meglio è».

A volte ritornano: lampi ripetuti

Impressione artistica di un Fast Radio Burst in viaggio verso la Terra. I colori rappresentano il fascio di luce che arriva a diverse lunghezze d’onda nella banda radio. In blu le lunghezze d’onda più corte, che arrivano svariati secondi prima di quelle in rosso, che corrispondono invece a lunghezze d’onda maggiori. Questo effetto si chiama dispersione ed è dovuto al fatto che il segnale radio passa attraverso a del plasma. Crediti: Jingchuan Yu, Planetario di Pechino

Ci vuole tempo per inquadrare un fenomeno relativamente nuovo e decisamente incostante come gli Frb. «In generale non sono periodici», sottolinea Maura Pilia, ricercatrice all’Inaf di Cagliari che si occupa di elaborare i dati ricevuti dai radiotelescopi, a caccia degli elusivi lampi. Eppure, nei quasi 14 anni dalla prima rilevazione, qualche linea tra i tanti puntini si inizia a intravedere. In particolare, è del 2016 la scoperta che alcuni Frb si ripetono. «Su un centinaio che si conoscono adesso, solo 20 si ripetono, cioè sono stati visti più di una volta». Anche quando si ripresentano, non sembra però esserci alcuna regolarità per questi imprevedibili fulmini nel cielo della radioastronomia.

O almeno, questa era la situazione prima di gennaio 2020, quando la collaborazione Chime annuncia per la prima volta di aver trovato un fast radio burst che si ripresenta regolarmente. Si chiama Frb 180916.J10158+65, ma agli esperti basta la sigla 180916, che identifica la sua prima osservazione, nel settembre 2018. Da allora, come spiegano gli autori in un articolo apparso su Nature lo scorso giugno, il radiotelescopio canadese ha osservato il lampo ripresentarsi per ben 38 volte nel corso di un anno e mezzo, puntuale ogni due settimane – 16,35 giorni per l’esattezza – con una fase di attività di circa cinque giorni per ciascun ciclo. «Non è la periodicità che ci si aspettava, come quella delle pulsar per esempio», commenta Pilia. «Il fatto che sia giorni, decine di giorni, fa pensare che si tratti di un sistema binario».

La regolarità non è solo un indicatore prezioso per cercare di afferrare la natura di queste impenetrabili sorgenti. Da un punto di vista pratico, significa poter ottimizzare le osservazioni e l’analisi dati. Per il programma di ricerca degli Frb con la Croce del Nord, allora iniziato da poco e ancora in forma sperimentale, il periodico ripresentarsi di 180916 è un vero pozzo di informazioni. Non appena il team ne viene a conoscenza, racconta Pilia, decide subito di cominciare a osservarla.

In primo piano, alcune antenne del ramo nord-sud della Croce del Nord; in lontananza, le antenne del ramo est-ovest. Crediti: G. Bianchi

Così da oltre un anno, due volte al mese, per sei giorni di seguito, un’ora ogni giorno, l’osservatorio di Medicina volge i suoi radio-occhi verso la costellazione di Cassiopea, dove si trova la sorgente di questo Frb dalla rassicurante regolarità, sincronizzando le osservazioni nell’intervallo di tempo in cui è molto probabile che questa sia attiva, in attesa di captare un segnale. «Riusciamo a inseguire la sorgente durante il transito all’interno del campo di vista dell’antenna», spiega Giovanni Naldi, ricercatore Inaf che lavora a Medicina e che, insieme al collega Giuseppe Pupillo, si occupa del back-end del radiotelescopio, inclusa la pianificazione delle osservazioni, l’acquisizione dei dati e l’elaborazione preliminare usando software di pre-processing. «Abbiamo questo sistema automatico che sintetizza un beam elettronico che si sposta nel tempo, inseguendo di fatto la sorgente che si muove nel campo di vista. Questo Frb lo stiamo inseguendo per circa un’ora al giorno».

Chi cerca trova…

La campagna osservativa iniziata lo scorso anno non comprende solo la Croce del Nord ma anche Srt, che riesce a catturare ben tre lampi da questa sorgente già tra il 22 e il 24 febbraio 2020. Oltre ai radiotelescopi, partecipano anche osservatori in banda ottica, tra cui il Telescopio nazionale Galileo a La Palma e il Telescopio Copernico ad Asiago, entrambi dell’Inaf, e satelliti che scrutano il cielo nelle alte energie, tra cui l’italiano Agile, che sta contribuendo al più ampio monitoraggio mai realizzato nei raggi X per una sorgente di Frb. «È stata una copertura importante», aggiunge Pilia. «Fra l’altro, in alcuni frangenti, la Croce è stato l’unico radiotelescopio italiano in grado di osservare. Le osservazioni siamo riuscite a farle, l’analisi è ancora in corso».

Già, perché il progetto del gruppo guidato da Bianchi e Bernardi è nato senza fondi dedicati – un piccolo stanziamento è arrivato solo di recente – e viene portato avanti, con passione e tenacia, da un piccolo gruppo impegnato in diverse altre attività. «Il personale dedicato è veramente poco, con Fte [full-time equivalent, una misura che quantifica il tempo del personale effettivamente dedicato a un particolare progetto – ndr] prese in prestito da altri progetti», fa notare Bianchi. Un programma di osservazione condotto finora tra un progetto e l’altro, ma con una visione chiara: riqualificare uno strumento per acchiappare segnali scoperti per la prima volta più di quarant’anni dopo la sua costruzione.

Il primo fast radio burst captato dalla Croce del Nord. Il pannello in alto mostra il profilo del segnale ricevuto. Nel secondo pannello, il segnale è stato corretto tenendo conto della dispersione nel mezzo interstellare; il terzo indica la significatività della misura di dispersione, e il quarto mostra la misura di dispersione, identificata dalle linee diagonali. Crediti: G. Bernardi et al (2021)

Tutto cambia lo scorso 12 marzo. «Per la prima volta son saltata sulla sedia», ricorda Pilia che, da Cagliari, elabora i dati con software di rivelazione dei burst ed è quindi l’incaricata del gruppo a dire se effettivamente l’antenna di Medicina ha visto un Frb oppure no. «Fino ad ora avevamo avuto delle speranze di detection sia con questa sorgente che con altre, però erano a un livello di significatività che poteva essere dubbio. Invece questa volta era senza ombra di dubbio la nostra sorgente, abbiamo beccato un bel burst».

La firma inequivocabile del primo Frb captato dalla Croce del Nord è il profilo del segnale che si staglia sul rumore, molto più netto rispetto a quello di possibili burst registrati in precedenza. A conferma della detection c’è anche quello che gli astronomi chiamano ‘misura di dispersione’, un ritardo causato dall’interazione del segnale con il mezzo interstellare che pervade la Via Lattea. Quando un segnale arriva da molto lontano, come nel caso di un Frb, subisce un ritardo più alto nelle frequenze più basse rispetto a quelle più alte. «Noi diciamo che viene disperso», spiega Pilia. E in questo caso, «si vede che il picco è proprio intorno alla misura di dispersione in cui ce lo aspettiamo».

Una nuova vita per la Croce del Nord

Il piano è quello di trasformare il radiotelescopio di Medicina in uno strumento dedicato alla ricerca di questi enigmatici e fulminei echi radio, un obiettivo ambizioso per il quale sono stati necessari numerosi interventi di ammodernamento. Lavorando a frequenze basse, questo radiotelescopio non ha una superficie riflettente formata da pannelli, come nelle antenne paraboliche, ma è costituita da una moltitudine di fili di acciaio. «Se arriva a Medicina una giornata particolarmente ventosa, i fili di acciaio iniziano a vibrare», ricorda Bianchi. «Così come accade per uno strumento a corda, l’antenna si mette a suonare come fosse una grande arpa: fa un sibilo che io trovo molto piacevole da ascoltare». Un suono che potrebbe richiamare alla mente degli appassionati di cinema quel “rumore delle stelle” che incuriosiva la protagonista del film “Il deserto rosso” di Michelangelo Antonioni, interpretata da Monica Vitti, in una scena girata proprio sotto il ramo est-ovest dell’iconico radiotelescopio, la cui costruzione era allora quasi terminata.

Le antenne del ramo est-ovest della Croce del Nord e, in basso, alcuni dei “cilindri” del ramo nord-sud. Crediti: G. Bianchi

Il ramo della Croce del Nord immortalato nella pellicola Leone d’Oro al Festival di Venezia del 1964 comprende 25 strutture che insieme formano un’unica grande antenna cilindrico-parabolica, lunga 564 metri. L’upgrade tecnologico in corso coinvolge invece l’altro ramo, quello orientato in direzione nord-sud, costituito da 64 singole antenne, anch’esse di forma cilindrico-parabolica, che si susseguono per 625 metri a cadenza regolare, una ogni 10 metri. Questi “cilindri” raccolgono le onde radio provenienti dal cosmo e le riflettono, convogliando i segnali sulla linea focale, dove vengono poi trasformati in impulsi elettrici da analizzare.

«Attualmente un cilindro ha una unica linea focale», chiarisce Bianchi. «Noi l’abbiamo divisa in 4 e così abbiamo ampliato il campo di vista di 4 volte». Questo permette di osservare una porzione un po’ più grande di cielo, nella speranza di captare qualche burst in più, ma anche satelliti e space debris. «La prima parte di upgrade dei primi 8 cilindri è iniziata grazie a Stelio Montebugnoli», aggiunge Naldi, ricordando il precedente responsabile della stazione radioastronomica di Medicina come «la persona che ha visto questa potenzialità grande e ha avuto la lungimiranza di ridare questa nuova vita alla Croce del Nord». Un altro pezzo di questa storia inizia proprio in quegli anni, dal 2006 in poi, quando il radiotelescopio viene proposto al consorzio Ska, che allora stava nascendo, come lo strumento su cui mettere alla prova gli algoritmi che sarebbero poi stati applicati per lo Ska Observatory, la più grande facility al mondo per la radioastronomia, attualmente in costruzione tra Australia e Sud Africa.

In alto, veduta aerea della Stazione di Medicina, con i due rami perpendicolari della Croce del Nord. In basso, schema dei “cilindri” che formano il ramo nord-sud. Fonte: N. Locatelli et al. Mnras, 2020

Da allora, la trasformazione della Croce del Nord procede per passi successivi. Dopo i primi 8 cilindri si è passati a 16, quest’anno si è raggiunta quota 32, ed entro il 2023 dovrebbe essere completato l’aggiornamento dell’intero ramo. L’ammodernamento della struttura prevede anche l’installazione della fibra ottica per il trasporto del segnale, che ha sostituito i vecchi cavi coassiali, e di nuove macchine più potenti ed efficienti all’interno della sala controllo. Le innovazioni tecnologiche iniziano a dare i loro frutti l’anno scorso, quando sei cilindri del ramo nord-sud riescono a catturare impulsi radio provenienti dalla pulsar B0329+54, una stella di neutroni che compie una rotazione in meno di un secondo. Un rapido segnale, dunque, non troppo dissimile da quello di un Frb. Questa osservazione dà fiducia al piccolo team, che in un anno continua ad accumulare dati inseguendo diverse sorgenti di Frb, grazie anche al supporto tecnico di diversi colleghi impegnati presso la stazione di Medicina e di collaboratori alle università di Oxford e Malta.

Fino a quel fatidico 12 marzo, quando il software di analisi di Pilia conferma la prima detection. «Io ero a Srt in realtà, stavo facendo altre osservazioni, nel frattempo stavo guardando i dati della Croce», racconta la ricercatrice. Nel frattempo, a Bologna, Bernardi sta partecipando a un meeting in modalità remota. Con la coda dell’occhio intravede una email inviata dalla collega di Cagliari, che immagina contenga in allegato una figura da includere in un documento in preparazione, proprio sul programma di osservazioni della Croce del Nord. Ma non ha il tempo di aprirla. Poi un messaggio su Whatsapp: “Ma non hai visto l’email?”

«Quando ho aperto l’email ho subito chiamato Maura e nella chiamata Skype abbiamo aggiunto Germano, Giovanni e Giuseppe», ricorda Bernardi. Magicamente, era pronto anche lo spumante. «Ho preso questa bottiglia che avevo conservato in frigo da qualche tempo e abbiamo fatto un grande brindisi».

A sinistra: Germano Bianchi apprende da Maura Pilia della prima detection di un fast radio burst da parte della Croce del Nord. A destra: Bianchi, Pilia e Gianni Bernardi festeggiano il risultato su Skype.

L’analisi dei dati continua. Probabilmente il telescopio ha captato qualche altro burst anche prima dello scorso marzo, ma le tracce sono ancora nascoste nella mole di dati da elaborare. Un lavoro che non può sovrapporsi a quello osservativo, poiché la macchina che acquisisce i dati è la stessa usata dal team per analizzarli. Gli Frb non sono infrequenti: Chime, che guarda ogni giorno tutto il cielo – dieci minuti per porzione di cielo – ne ha registrati un migliaio in circa due anni di osservazioni, molti dei quali sono burst ripetuti provenienti dalle stesse sorgenti. Certo, si tratta un telescopio un po’ diverso da quello di Medicina, che coinvolge personale più numeroso e finanziamenti più consistenti. Adesso, con il primo riscontro osservativo alle spalle, i ricercatori sperano di poter creare un gruppo dedicato proprio allo studio degli Frb con la Croce del Nord.

La storia più grande

A volte, anche qui sulla Terra, certe storie si mettono in moto ben prima di catapultarsi nella vita di alcuni dei loro protagonisti. Questo è ancor più vero nel cosmo, dove i segnali luminosi viaggiano per milioni, miliardi di anni a 300mila chilometri al secondo prima di raggiungere i telescopi e gli astronomi che, interpretando quei segnali, tentano di decifrarne l’origine. È proprio il caso di questa storia, che non inizia nel marzo 2021 con l’arrivo del segnale a Medicina, né nel gennaio 2020 con l’annuncio della periodicità di questo Frb, né tantomeno nel 2006 con il rilancio della Croce del Nord o addirittura nel 1964 con la sua inaugurazione. Questa storia inizia circa 485 milioni di anni fa, quando sulla Terra si era agli albori del periodo geologico Ordoviciano, era paleozoica. Non erano ancora apparsi i mammiferi, né uccelli o rettili, e nemmeno molte delle piante che conosciamo oggi. La vita sul nostro pianeta era principalmente acquatica, e nelle profondità sottomarine stavano comparendo i primi organismi vertebrati. Allo stesso tempo, nella periferia della galassia a spirale Sdss J015800.28+654253.0, un corpo celeste non meglio identificato, forse parte di un sistema binario, emetteva un rapido lampo, uno di tanti, in uno dei suoi cicli regolari, scanditi ogni 16,35 rotazioni di un lontano, insignificante pianeta roccioso, il terzo in orbita intorno a una stella che molto più avanti sarebbe stata chiamata Sole.

Immagine della galassia ospite di Frb 180916 (al centro) acquisita con il telescopio Gemini-Nord di 8 metri alle Hawaii. La posizione del lampo radio veloce nel braccio a spirale della galassia è contrassegnata da un cerchio verde. Crediti: Osservatorio Gemini / Nsf OiarLab / Aura

«Questa sorgente è molto interessante, è molto vicina», nota Pilia. Vicina in senso astronomico, chiaramente. Rispetto ad altre distanti miliardi di anni-lucela galassia che ospita la sorgente di Frb 180916 non è terribilmente lontana: “solo” 485 milioni di anni-luce. «È stata localizzata velocemente e poi è molto attiva, quindi possiamo studiarla con grande dettaglio, almeno si spera». Il team continua a tenerla d’occhio con la Croce del Nord, insieme ad altre sorgenti di Frb, anche in vista della possibilità di osservare questi oggetti sul fronte opposto dello spettro elettromagnetico, nei raggi X e gamma. Tra queste sorgenti c’è pure l’unica nota nella nostra galassia, quella che tanto ha fatto parlare di una possibile correlazione tra lampi radio veloci e magnetar nel corso dell’ultimo anno. E mentre i meccanismi fisici alla base di questo fenomeno restano sconosciuti, l’ingresso di un nuovo telescopio in un filone di ricerca così avvincente non può essere che benvenuto.

«Abbiamo capito che avevamo fatto un pezzo di storia, che avevamo raggiunto una milestone importante», commenta Bernardi. Poco dopo la chiamata Skype di gruppo, il ricercatore invia la figura che mostra la detection a uno dei collaboratori del progetto, Giancarlo Setti, professore emerito dell’Università di Bologna, coinvolto nella realizzazione della Croce del Nord sin dai primi sviluppi. «Mi ha detto: “Bellissimo, da incorniciare”. Dopo mi ha anche detto: “In realtà noi lo sapevamo fin dall’inizio che fosse possibile”. Io ho risposto: “Diciamo che adesso che l’abbiamo visto sono più convinto”».

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