Eclisse Lunare di Penombra


Fra la tarda serata del 10 febbraio e le prime ore dell’11 febbraio l’appuntamento da non perdere sarà con una nuova eclisse lunare parziale di penombra perfettamente osservabile in tutte le sue fasi da tutta l’Italia.
Infatti, considerando la latitudine di Roma, l’inizio della penombra è previsto per le ore 23:32 con altezza della Luna di 59°, la fase massima la notte successiva alle ore 01:43 con la Luna a 56°, mentre alle ore 03:55 dell’11 febbraio col nostro satellite a un’altezza di 36° è prevista la fine di questa eclisse parziale di penombra con una durata complessiva di 4 ore 23 minuti.
Per l’evento del 10/11 febbraio la frazione oscurata del disco lunare (definita “magnitudine di penombra”) sarà di 0,988 [continua a leggere].
Indice dei contenuti
Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio
➜ La Luna di febbraio. Osserviamo il mare Crisium di Francesco Badalotti
➜ Calendario degli eventi giorno per giorno
➜ Cielo di Febbraio di Coelum n. 208: tutti i principali eventi da non perdere!
➜ Alla scoperta del cielo, dalle costellazioni alle profondità del cosmo: la Lince (prima parte)
➜ I principali passaggi della ISS
➜ Il Club dei 100 asteroidi: tanti gli asteroidi in opposizione a febbraio, quale momento migliore per unirsi al Club?!
Tutti consigli per l’osservazione del cielo di febbraio su Coelum Astronomia 208
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Spirali sul Polo Nord di Marte

Un nuovo mosaico di immagini arriva dalla sonda Mars Express dell’ESA, e ci mostra la calotta polare nord del pianeta rosso con le sue caratteristiche depressioni a spirale. Generato dall’elaborazione di 32 “strisce” catturate tra il 2004 e il 2010, ricopre una superficie di circa un milione di chilometri quadrati. L’immagine di apertura, che ci mostra la superficie del Polo Nord visto in prospettiva, è stata ottenuta combinando le immagini stereografiche di Mars Express (vedi sotto) con i dati altimetrici dalla sonda Mars Global Surveyor (MGS) della NASA.

La calotta di ghiaccio del Pianeta Rosso è una struttura permanente, ma nella stagione invernale – in cui ci troviamo ora, per tutti i primi mesi del 2017 – le temperature sono abbastanza basse da far precipitare su di essa circa il 30 per cento del biossido di carbonio presente nell’atmosfera del pianeta, creando una copertura “stagionale” che arriva fino a un metro di spessore.
Durante i mesi estivi più caldi invece, la maggior parte del ghiaccio di anidride carbonica si trasforma direttamente in gas e fuoriesce nell’atmosfera, lasciando solo gli strati di ghiaccio d’acqua.
La calotta di ghiaccio è stata modellata nel tempo probabilmente dai forti venti che soffiano dal centro più elevato, verso i bordi inferiori, con un movimento a spirale dovuto alla stessa forza di Coriolis che provoca gli uragani sulla Terra.

Una caratteristica particolarmente evidente è una trincea di 500 km di lunghezza, e 2 km di profondità, che taglia la calotta quasi in due.
Il profondo canyon, noto come Chasma Boreale, si pensa sia una caratteristica relativamente antica, che sembra essersi formata prima delle caratteristiche spirali di ghiaccio, e in continua crescita (come profondità) man mano che nuovi depositi di ghiaccio si formano attorno ad essa…
Le rilevazioni radar, della superficie sottostante a quella visibile eseguite dagli strumenti a bordo di Mars Express e Mars Reconnaissance Orbiter, hanno rivelato che la calotta di ghiaccio è costituita da più strati di ghiaccio e polvere che si estendono fino a una profondità di circa 2 km.
Si tratta di una preziosa testimonianza per comprendere come i cambiamenti climatici del pianeta abbiano influito nelle modifiche, ad esempio, dell’inclinazione e dell’orbita del pianeta, che sappiamo essere variate nel corso di centinaia di migliaia di anni.

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Accademia delle Stelle
Iniziano a febbraio i due nuovi corsi rivolti a tutti:
Corso completo di Fotografia Astronomica: 10 lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per imparare a fotografare il cielo con qualsiasi strumentazione (che sia una semplice reflex o un telescopio). Il corso copre ogni aspetto della fotografia: dalla teoria all’esperienza sul campo all’elaborazione al computer, per realizzare immagini mozzafiato e di valore scientifico di panorami galattici, pianeti e altri oggetti celesti. Non è richiesto possesso di attrezzatura né una preparazione preliminare.
– Il corso si terrà tutti i giovedì sera dalle 21 alle 22.30, le attività pratiche si svolgeranno di sabato e saranno concordate in base al meteo.
Corso teorico di astronomia generale: un ciclo di 9 conferenze che offre uno sguardo su argomenti raramente trattati nei corsi divulgativi. Si vedrà quali leggi fisiche agiscono nei più importanti fenomeni astronomici per comprendere l’universo e la scienza che lo studia: approfondimenti di grandissimo interesse per gli appassionati. Un modulo riguarderà anche la meccanica quantistica.
– Gli incontri si svolgeranno tutti i lunedì dalle 21 alle 22.30 presso la nostra sede: sala conferenze San Gregorio Barbarigo, di fronte alla Metro B.
Info: Tel 349 7245167, eventi@ accademiadellestelle.org
Facebook: www.facebook.com/accademia.dellestelle
www. accademiadellestelle.org
Juno pronta per il suo primo perigiovio del 2017



La sonda americana Juno si sta preparando al suo quarto sorvolo scientifico delle nubi di Giove. Juno doppierà il perigiovio della propria traiettoria alle 13:57 ora italiana di oggi, quando la sonda si troverà appena 4300 chilometri al di sopra delle nubi gioviane, sfrecciando a oltre 208 mila chilometri orari. Durante il sorvolo, tutti e otto gli strumenti scientifici a bordo di Juno saranno operativi.
Nel perigiovio precedente, eseguito l’11 dicembre, lo strumento italiano JIRAM era stato disattivo a causa di un aggiornamento al software.
Le analisi preliminari dei dati raccolti durante i primi sorvoli rivelano che il campo magnetico e le aurore di Giove sono ben più vasti ed energetici di quanto previsto; inoltre, la divisione in fasce e bande che avvolgono il pianeta si estende molto in profondità, all’interno dell’atmosfera di Giove.
Juno si trova ancora nella sua traiettoria di cattura, caratterizzata da un periodo orbitale di 53 giorni. La manovra di riduzione del periodo che avrebbe dovuto inaugurare la campagna scientifica vera e propria di Juno, inizialmente prevista per il 19 ottobre 2016, è stata posticipata a data da definirsi a causa di vari problemi riscontrati dai sistemi di bordo.

Lo speciale sulla missione Juno su Coelum astronomia 202
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Gattini (…e aragoste) anche tra le stelle!

NGC 6334, la nebulosa Zampa di Gatto, si trova a circa 5500 anni luce dalla Terra, mentre l’Aragosta, NGC 6357, è più distante, a circa 8000 anni luce. Entrambe appartengono alla costellazione dello Scorpione e si trovano nei pressi dell’aculeo velenoso della coda.

Fu lo scienzato britannico John Herschel a vedere le prime tracce dei due oggetti, in notti consecutive nel giugno 1837, durante la sua spedizione di tre anni al Capo di Buona Speranza in Sud Africa. La potenza limitata dei telescopi a disposizione di Herschel, che osservava nella banda del visibile, gli permise di individuare solo l’impronta di un’unghia, la più brillante, della nebulosa Zampa di Gatto. Dovranno trascorrere molti decenni perché la vera forma delle nebulose divenga chiara nelle fotografie – e nascano così i loro nomi popolari.
Le tre impronte visibili della Zampa di Gatto, così come la zona delle chele nella nebulosa Aragosta, sono zone di gas – soprattutto idrogeno – eccitato dalla luce delle brillanti stelle neonate. Con una massa di circa 10 volte quella del Sole, queste stelle calde irraggiano soprattutto intensa luce ultravioletta. Quando questa luce incontra gli atomi di idrogeno rimasti nell’incubatrice stellare che ha prodotto le stelle, gli atomi si ionizzano facendo risplendere gli ampi oggetti nebulari, chiamati per questo nebulose a emissione.
Grazie alla potenza della camera OmegaCAM da 256 megapixel, questa nuova immagine del VST (Very Large Telescope Survey Telescope) rivela tentacoli di polvere oscura che si incuneano tra le due nebulose. Con la sua dimensione di 49511 x 39136 pixel, questa è una delle immagini più grandi mai rilasciate dall’ESO.
Nonostante gli strumenti d’avanguardia usati per osservare questi fenomeni, la polvere di queste nebulose è così fitta che la maggior parte del suo contenuto rimane nascosto alla vista. La nebulosa Zampa di Gatto è una delle incubatrici stellari più attive del cielo notturno: nutre migliaia di giovani stelle calde la cui luce visibile non può raggiungerci. Tuttavia i telescopi come VISTA dell’ESO, osservando in luce infrarossa, possono scrutare attraverso la polvere e rivelare l’attività di formazione stellare all’interno.


Osservando le nebulose in lunghezze d’onda (colori) diversi possiamo trovare somiglianze differenti. Per esempio, dal momento che, vista alle lunghezze d’onda più lunghe della luce infrarossa una parte di NGC 6357 sembra una colomba, mentre l’altra un teschio, la nebulosa si è guadagnata il nome aggiuntivo di nebulosa Guerra e Pace.
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Brillamenti nascosti, ma non troppo


Fermi, il satellite della Nasa che studia i fotoni gamma nello spazio, cui l’Italia partecipa con l’Infn, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), ha rivelato nuovi brillamenti solari ad altissima energia, che hanno avuto origine nella faccia non visibile del Sole.
La luce che deriva da queste violente eruzioni avvenute nel lato a noi nascosto della nostra stella, dovrebbe venire bloccata senza giungere a noi. Invece, gli scienziati della collaborazione Fermi sono riusciti a osservarla perché gli ioni prodotti e accelerati nei brillamenti, essendo elettricamente carichi, viaggiano lungo le linee del campo magnetico solare, che connettono il luogo dove è avvenuto il brillamento con parti anche distanti del Sole. Questi ioni interagiscono nelle zone più dense della superficie della nostra stella, producendo pioni che a loro volta decadono in raggi gamma: i fotoni di altissima energia, che sono stati, appunto, rivelati da Fermi grazie allo strumento LAT (Large Area Telescope) collocato a bordo del satellite.
La loro osservazione rappresenta quindi un’occasione unica per studiare come vengono accelerati gli ioni durante i brillamenti solari sul lato nascosto del Sole (chiamati in inglese behind-the-limb flares o btl).
«L’aspetto affascinante di queste misure fatte con il Fermi-Lat – spiega Melissa Pesce-Rollins ricercatrice della Sezione INFN di Pisa e membro della collaborazione Fermi-Lat – è proprio il fatto che è stato possibile per la prima volta osservare l’emissione gamma da altissima energia prodotta dagli ioni, che hanno viaggiato più di 500 mila km prima di interagire sulla faccia a noi visibile del Sole». Grazie al Fermi-Lat è stato possibile raddoppiare il numero di osservazioni di questi rari fenomeni: infatti, dagli anni ’80 del secolo scorso fino al lancio di Fermi nel 2008 erano stati rivelati solo 3 btl ma tutti con energie sotto i 100 MeV (megaelettronvolt, cioè 106 elettronvolt). Mentre nei primi 8 anni in orbita, Fermi ne ha rivelati altri tre con emissione fino ai GeV (gigaelettronvolt, 109 eV). Le osservazioni sono avvenute l’11 ottobre del 2013, il 6 gennaio e il 1° settembre 2014.
«Fermi ha rivelato decine di brillamenti solari caratterizzati da emissione gamma impulsiva con durata che spazia dai minuti alle ore, quasi un giorno nel caso più spettacolare» dice Patrizia Caraveo, responsabile per INAF dello sfruttamento scientifico dei dati Fermi Late direttrice dell’Istituto di Fisica Cosmica dell’Inaf di Milano. «Non c’è una chiara relazione tra la “classe” del brillamento (debole-medio-forte e fortissimo) e l’emissione gamma. Mentre tutti i brillamenti molto intensi generano emissione gamma, spesso Fermi rivela flusso gamma anche in corrispondenza di brillamenti medio-piccoli. Ancora più sorprendente è rivelare un flusso gamma impulsivo anche in assenza di un brillamento. C’è voluta un po’ di fantasia per immaginare la soluzione del mistero. Il brillamento si era effettivamente verificato, ma aveva avuto luogo nella parte del disco solare non visibile dalla Terra (ma sotto l’occhio attento delle missioni spaziali). Le particelle accelerate dal brillamento avevano cavalcato le linee di forza del campo magnetico fino a raggiungere la parte del Sole visibile dalla Terra e lì avevano dato spettacolo. Un fenomeno sorprendente e affascinante, come la nostra stella che non smette mai di stupirci».
I risultati dei tre btl visti con Fermi-Lat sono stati presentati il 30 gennaio nel corso della conferenza dell’Americal Physical Society (Aps) a Washington D.C., e pubblicati su The Astrophysical Journal il 31 gennaio.
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La Luna occulta Aldebaran



La notte del 5 febbraio, tra le 23:15 e 23:30 circa a seconda della località, Aldebaran (mag. +0,85 stella alfa del Toro) sparirà dietro il lembo in ombra della falce di Luna crescente.
È l’occasione per mettere in pratica i consigli di Giorgia Hofer, che questo mese ci spiega proprio come cogliere il massimo, astrofotograficamente parlando, da questo tipo di fenomeno.
L’evento sarà visibile anche a occhio nudo, essendo Aldebaran una delle stelle più brillanti del nostro cielo e immergendosi nel lato in ombra di una Luna in fase del 70%. Un’accorgimento sarà quello di coprire la parte più brillante della Luna con un dito per continuare a seguire Aldebaran fino alla scomparsa.
Particolarmente suggestivo sarà proprio vedersi “spegnere” la stella nel momento di ingresso nel lembo oscuro del nostro satellite, dal quale riemergerà dal lembo illuminato dopo un periodo che dipende dalla vostra zona di osservazione.
Con un binocolo o con un telescopio l’evento sarà ancora più suggestivo, la brillante e arancione stella spegnersi e poi riapparire dal bordo frastagliato della Luna.
Si consiglia di seguire l’evento con un certo anticipo rispetto al momento di occultazione, e quindi della sua emersione, in modo da non mancare i due momenti principali.
Nelle ore precedenti, la Luna occulterà anche tutta una serie di stelline tra la terza e la sesta magnitudine, per le circostanze vedere gli eventi del mese giorno per giorno.
Indice dei contenuti
Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio
➜ Fotografare l’occultazione di Aldebaran da parte della Luna di Giorgia Hofer
➜ La Luna di febbraio. Osserviamo il mare Crisium di Francesco Badalotti
➜ Calendario degli eventi giorno per giorno
Tutti consigli per l’osservazione del cielo di febbraio su Coelum Astronomia 208
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Galileo Galilei Serata dedicata al padre della Scienza Moderna
L’appuntamento di sabato 11 febbraio 2017 è un’occasione molto particolare per conoscere la vita di un grande maestro.
Nei giorni dell’anniversario della sua nascita si parlerà di Galileo Galilei presso la Casa Della Partecipazione a Maccarese. Una conferenza tenuta da Gabriele Spaziani porterà tutti i partecipanti in un viaggio attraverso gesti, scoperte, curiosità e sorprese che lo scienziato italiano ha regalato al mondo intero. A seguire si potrà osservare la Luna attraverso una fedele riproduzione in cartone del telescopio storico che Galileo costruì nel 1610, facendo vivere a tutti coloro che vorranno essere presenti, l’emozione di guardare con i propri occhi proprio come egli faceva.
A seguire ci sarà la possibilità di osservare attraverso i telescopi moderni del Gruppo Astrofili Palidoro la Luna e altre meraviglie dell’Universo.
L’evento è patrocinato dal Comune di Fiumicino ed ha come media sponsor Coelum Astronomia e Frascati Scienza. L’appuntamento dunque è per sabato 11 febbraio 2017 alle ore 20.00. Per qualunque info è possibile scrivere gli astrofili alla mail info@astrofilipalidoro.it oppure chiamando il numero 3475010985 o ancora collegandosi al sito web www.astrofilipalidoro.it
L’ipnotica danza di quattro pianeti extrasolari


Moltissimi pianeti extrasolari, o esopianeti, sono tanto deboli e vicini alle proprie stelle da non essere visibili nemmeno con i più potenti telescopi. Per mettere in evidenza la loro presenza e scoprire le loro proprietà, quindi, ci si affida ai metodi indiretti che, a dispetto del nome poco rassicurante, sono molto precisi e affidabili. In pratica, si studiano le variazioni di velocità e/o luminosità che la stella subisce a causa dell’eventuale presenza di uno o più corpi celesti che le orbitano attorno. È tutto molto bello, elegante e funzionante ma anche l’occhio a volte vuole la sua parte e non sarebbe male riuscire a fotografare in modo diretto questi lontani mondi.

Per capire quanto è difficile riuscire a rubare un’immagine di un pianeta extrasolare, possiamo fare un paragone con il nostro Sistema Solare e il gigante dei pianeti: Giove. Ebbene, se osservato alla distanza di appena 30 anni luce (molto vicino!) apparirebbe separato dal Sole di appena mezzo secondo d’arco – circa le dimensioni apparenti di una moneta da due euro vista a più di 8 chilometri di distanza. Ma questa è solo una parte del problema, che diventa ancora più complicato se consideriamo la differenza di luminosità tra il Sole e Giove: diversi milioni di volte. In queste condizioni risulta quasi impossibile, con l’attuale generazione di telescopi, riuscire a osservare la debole luce del pianeta, che sarà soffocata dalla luminosità della stella. Meglio non pensare, allora, a come possa essere la situazione per i corpi più piccoli e interni (e interessanti) come Marte o, peggio, la Terra.
Non tutti i pianeti extrasolari, però, sono oltre le possibilità dei nostri migliori telescopi e un bell’esempio è rappresentato dalla stella HR8799, un astro nella costellazione di Pegaso, 1,5 volte più massiccio del Sole, formatosi solo 60 milioni di anni fa e distante circa 130 anni luce dalla Terra. Attorno a questa stella sono stati scoperti, con il metodo diretto, ben quattro pianeti giganti, con una massa dalle 7 alle 10 volte superiore a quella di Giove. Questi corpi celesti orbitano a grande distanza dalla propria stella, da 14,5 unità astronomiche per il più interno a 68 unità astrnomiche per il più esterno, vale a dire da 2 miliardi a 10 miliardi di chilometri, una distanza ben superiore a quella che nel Sistema Solare è occupata da pianeti (Nettuno, il più esterno, arriva a 4,5 miliardi di chilometri). Stiamo osservando quindi un sistema molto particolare, che non ha niente in comune con il nostro, sia per quanto riguarda la massa dei pianeti che la loro distanza. Meglio non pensare nemmeno a eventuali forme di vita perché questi oggetti potrebbero somigliare più a una debole stella che a un pianeta come siamo abituati a considerarlo.
Questi quattro pianeti giganti sono stati scoperti e seguiti con il telescopio Keck situato nelle Hawaii, un grande strumento dotato di ottiche adattive che riescono ad attenuare la turbolenza atmosferica della Terra muovendo diverse volte al secondo i tasselli che compongono lo specchio primario. Con particolari tecniche di elaborazione si è ridotto l’enorme disturbo della luce stellare e, come per magia, attorno a quest’anonima stellina sono comparsi quattro deboli punti.

Sono pianeti o stelle che sembrano prospetticamente vicine? Per scoprirlo, senza l’ausilio dei metodi indiretti, l’unico modo è seguirne il movimento: se questi quattro deboli punti ruotano attorno alla stella centrale allora non c’è dubbio: sono dei pianeti. La conferma della natura planetaria è arrivata poco dopo la loro scoperta ma ora, a distanza di oltre 7 anni da quella prima, spettacolare, foto, è trascorso sufficiente tempo per vedere un’altra piccola parte di Universo evolvere. L’animazione, composta dallo studente Jason Wang dell’Università della California, raccoglie le immagini acquisite al telescopio Keck dal 2009 al 2016 da parte di Christian Marois del National Research Council of Canada’s Herzberg Istitute of Astrophysics e mostra il lento ma evidente moto di questi lontanissimi mondi. I periodi di rivoluzione sono di circa 40 anni per il più interno e di 400 anni per il più esterno: servirà ancora molto tempo per osservare un’orbita completa ma questa animazione rappresenta un altro piccolo, e fondamentale, tassello della storia della nostra conoscenza del Cosmo.

Siamo ancora lontani dall’osservare pianeti di taglia terrestre vicini alle proprie stelle, e probabilmente sarà impossibile riuscire a risolvere il disco di questi oggetti e scrutare quindi la loro superficie (servirebbero telescopi ottici di centinaia, migliaia di chilometri di diametro), ma non c’è dubbio che in questo caso l’occhio è stato accontentato. Questi pianeti, anche per i più scettici, ora esistono, si possono osservare e se ne può tracciare il moto attorno alla stella.
Non sarà l’animazione più bella del mondo; non ci sono colori, sfumature, contrasti degni di spettacolari opere d’arte che inondano gli occhi di meraviglia, ma nonostante questo non riesco a smettere di osservarla, ipnotizzato dall’Universo in movimento, da quei mondi lontani centinaia di migliaia di miliardi di chilometri che obbediscono alle stesse leggi della fisica che permettono alla Terra di vivere tranquilla attorno alla nostra Stella.

Quei mondi sono reali, ci stanno comunicando la loro esistenza, le loro proprietà, il loro moto, così come appariva circa 130 anni fa. Quando la luce che stiamo osservando è partita da quel sistema, non avevamo ancora idea che nell’Universo ci fossero altri pianeti, persino altre galassie. Non eravamo neanche in grado di volare nell’aria, figuriamoci nello spazio.
Il tempo che la luce ha impiegato ad attraversare un centomillesimo del diametro della Galassia, uno schiocco di dita per l’Universo, è stato sufficiente per trasformarci da una società che usava i cavalli per spostarsi a una specie che ha camminato sulla Luna e ha esplorato tutti i pianeti del Sistema Solare. Una specie che ha costruito una mastodontica stazione spaziale a 400 km dalla superficie e che anche grazie a questa ha fatto immensi progressi in ogni ambito della scienza, dalla medicina all’astrofisica, dalla biologia alla geologia.
Questo, e molto altro, ci comunicano le immagini dell’Universo, se si guarda oltre la mera bellezza che colpisce la retina. Perché vedere attraverso gli occhi è bello, ma riuscire a osservare con la mente regala un’estasi ben più duratura e profonda di qualsiasi bella immagine.
Per approfondire: https://astrobiology.nasa.gov/news/a-four-planet-system-in-orbit-directly-imaged-and-remarkable/
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Allineamento Luna, Marte e Venere

La congiunzione avvenuta il 31 gennaio si trasforma e, mentre il lento moto apparente dei pianeti li mantiene all’incirca nella stessa posizione, la più veloce falce di Luna (fase = 17%) si sposterà lungo l’eclittica passando 8° e mezzo a nordovest di Marte (mag. +1,1), creando così il 1 febbraio un suggestivo allineamento a tre con Venere (mag. –4,7) poco più in basso.
I tre astri saranno visibili alti nel cielo già prima del crepuscolo (Marte, il più debole, sarà visibile per ultimo), e tramonteranno (Venere per primo) dietro l’orizzonte ovest a partire dalle 21:15 circa.
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➜ Fotografare la luce Cinerea della Luna di Giorgia Hofer su Coelum di gennaio 2017
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Hubble ricalcola la costante di Hubble


L’Universo si espande velocemente, ma quanto? C’è un parametro fondamentale nella cosmologia moderna che misura proprio questo valore, cioè l’accelerazione dell’Universo, ed è la costante di Hubble. Un gruppo internazionale di astronomi della collaborazione H0LiCOW, guidata da Sherry Suyu, ha utilizzato Hubble di NASA ed ESA e altri telescopi per cercare di definire questa costante tramite l’effetto gravitazionale di 5 galassie.

La lente gravitazionale è uno dei metodi indiretti per osservare oggetti talmente lontani da essere impossibili da osservare con gli strumenti da terra o dallo spazio. È il fenomeno per cui la luce di una galassia distante è deviata dall’influenza gravitazionale di una galassia più vicina a chi osserva, che agisce appunto come una lente e fa apparire la galassia (o un altro oggetto spaziale) alle sue spalle più grande e più luminosa. Per ottenere questo risultato è necessario che la galassia più distante sia quasi perfettamente situata dietro la “galassia lente”.
Le 5 galassie studiate dai ricercatori sono posizionate esattamente tra la Terra e altrettanti quasar (nuclei galattici attivi molto luminosi) distanti da noi. La luce proveniente da questi quasar viene piegata attorno alla massa delle galassie lenti a causa della forte attrazione gravitazionale. Come risultato vengono prodotte numerose immagini di quasar sullo sfondo, alcuni dei quali sembrano formare degli archi luminosi.
I valori ottenuti dal team di Suyu sono diversi da quelli misurati con il satellite Planck, che in ogni caso misura la costante di Hubble osservando la radiazione cosmica di fondo e non galassie, stelle e quasar. La velocità dell’espansione dell’Universo viene misurata in modi diversi con precisione sempre più accurata, e le eventuali discrepanze tra le diverse teorie potranno portare la fisica al di là della nostra attuale conoscenza dell’Universo, ha spiegato Suyu.
Dato che le galassie non creano distorsioni perfettamente sferiche e le lenti gravitazionali e i quasar non sono esattamente allineati, la luce dei diversi quasar di sfondo segue percorsi luminosi con lunghezze leggermente diverse. La luminosità dei quasar varia col tempo e i ricercatori possono vedere le diverse immagini con ritardi che dipendono dalle lunghezze dei percorsi adottati dalla luce.
Questi ritardi sono direttamente collegati al valore della costante di Hubble. «Il nostro metodo è il modo più semplice e diretto per misurare la costante di Hubble, in quanto utilizza solo la geometria e la relatività generale, non altre ipotesi», ha spiegato Frédéric Courbin dell’EPFL, in Svizzera. Sfruttando questi ritardi si è arrivati a determinare la costante di Hubble con una precisione di circa il 3,8 per cento. Il risultato ottenuto dal team H0LiCOW è di 71.9 ± 2.7 chilometri al secondo per megaparsec: un valore di velocità d’espansione dell’universo superiore a quello derivato da Planck (66.93 ± 0.62 km/s per megaparsec) misurando la radiazione del fondo cosmico.
Suyu ha concluso dicendo che «la costante di Hubble è fondamentale per l’astronomia moderna, perché può aiutare a verificare se la nostra immagine dell’Universo – composto da energia oscura, materia oscura e materia normale – è corretta o se, al contrario, manca qualcosa di fondamentale».
Per saperne di più:
- “H0LiCOW I. H0 Lenses in COSMOGRAIL’s Wellspring: Program Overview”, by Suyu et al.
- “H0LiCOW II. Spectroscopic survey and galaxy-group identification of the strong gravitational lens system HE 0435−1223”, by Sluse et al.
- “H0LiCOW III. Quantifying the effect of mass along the line of sight to the gravitational lens HE 0435−1223 through weighted galaxy counts”, by Rusu et al.
- “H0LiCOW IV. Lens mass model of HE 0435−1223 and blind measurement of its time-delay distance for cosmology”, by Wong et al
- “H0LiCOW V. New COSMOGRAIL time delays of HE 0435−1223: H0 to 3.8% precision from strong lensing in a flat ΛCDM model”, by Bonvin et al.
Guarda il servizio video su INAF-TV:
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Cielo di Febbraio 2017


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Indice dei contenuti EFFEMERIDI
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LunaSole e PianetiCometa 45P |
Per quanto riguarda l’aspetto del cielo, nella prima parte della notte predomineranno ancora le costellazioni invernali, verso le 20:30 saranno infatti in meridiano il Cane Maggiore e Orione, con l’Auriga allo zenit. A ovest staranno invece già tramontando Pegaso e la Balena, mentre a est il cielo sarà già occupato dagli asterismi primaverili, tra cui saranno facilmente riconoscibili il Leone e le prime propaggini della Vergine. Più tardi sorgerà anche la brillante Arturo nel Boote, mentre a ovest comincerà a essere evidente il declino di Orione verso l’orizzonte. Molto più in alto, quasi immobile a nord, il Grande Carro sembrerà in procinto di rovesciarsi. Marte e Venere saranno sicuramente i pianeti più facili da osservare, già nelle prime ore della sera, mentre Giove sorgerà solo più tardi, nel cielo della Vergine. Per vedere Saturno nell’Ofiuco bisognerà invece attendere la seconda parte della notte.
➜ Scopri le costellazioni del cielo di febbraio con la UAI
Sole
Il 16 febbraio il Sole si sposterà dal Capricorno all’Acquario (ovviamente stiamo parlando di costellazioni, non di “segni astrologici”), proseguendo nel contempo la “risalita” dell’eclittica a una velocità media in declinazione di circa 20 primi al giorno: partendo dai –17°,4 di inizio mese supererà i –10° alla fine. Da questo ne deriverà un corrispondente aumento dell’altezza sull’orizzonte al momento del passaggio in meridiano. Aumenteranno così anche le ore di luce, tanto che la sera, in media, si potrà iniziare a osservare con il massimo contrasto non prima delle 19:15, fino alle 5:30 del mattino dopo. La durata della notte astronomica, in continua diminuzione, in febbraio sarà in sostanza in media di poco superiore alle 10 ore.
Questo mese gli eventi da non perdere sono due: L’eclissi penombrale di Luna del 10 febbraio e l’occultazione di Aldebaran del 5 febbraio da parte della Luna. A quest’ultimo evento è dedicata anche la rubrica di astrofotografia Uno scatto al mese di Giorgia Hofer!
I dettagli degli eventi li trovi su
➜ Cielo di Febbraio di Coelum n. 208: tutti i principali eventi da non perdere!
➜ Alla scoperta del cielo, dalle costellazioni alle profondità del cosmo: la Lince (prima parte)
➜ La Luna di febbraio. Osserviamo il mare Crisium
➜ I principali passaggi della ISS
➜ Il Club dei 100 asteroidi: tanti gli asteroidi in opposizione a febbraio, quale momento migliore per unirsi al Club?!
➜ Calendario degli eventi giorno per giorno
E le Supernovae? Oltre alla rubrica mensile, beh… questo mese tutto il numero è dedicato alle Supernovae!
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VIAGGIO NEL COSMO Appunti di Astronomia all’esplorazione di pianeti, stelle e galassie
Lunedì 30 Gennaio, ore 18:30 – EVOLUZIONE DELL’UNIVERSO
LA COSMOLOGIA PUO’ AVERE FINE? Relatore: Prof. Edoardo Bogatec (Circolo Culturale Astrofili Trieste).
Sala Incontri del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste, Via dei Tominz 4. Ingresso libero fino ad esaurimento posti.
INFO:
Museo Civico di Storia Naturale di Trieste
tel: 040 675 4603 / 040 375 8662
web: www.museostorianaturaletrieste.it
mail: sportellonatura@comune.trieste.it
Circolo Culturale Astrofili Trieste
web: www.astrofilitrieste.it
mail: info@astrofilitrieste.it
Apollo 1 – 50 anni fa la tragedia

Era il 27 gennaio del 1967, esattamente 50 anni fa. Tre uomini, tre astronauti, il primo equipaggio per la nuova capsula Apollo, perirono a causa di un incendio scoppiato improvvisamente durante la missione Apollo 1 (ex Apollo 204).
Virgil “Gus” Grissom, Ed White e Roger Chaffee, furuno i primi tre astronauti americani a morire nell’ambito di un programma spaziale NASA.
L’incidente di Apollo 1 fu provocato da una serie di sfortunati eventi a catena. In breve, l’atmosfera all’interno della capsula, costituita da ossigeno puro e portata a 14kpa sopra la pressione atmosferica terrestre, accelerò e amplificò l’incendio, innescato da una scintilla elettrica partita da un cavo di rame rimasto privo della propria guaina isolante per l’usura generata dalle continue aperture e chiusure del portello di entrata.
Tutti i materiali all’interno della capsula avevano proprietà ignifughe, ma non per le condizioni che erano state create in cabina, appunto, l’ossigeno puro e la pressione così alta.
Benché le fiamme sviluppate avessero avvolto gli astronauti iniziando a fondere le tute e tutto quello che si poteva fondere all’interno del capsula, gli astronauti non morirono di ustioni, bensì per l’inalazione venefica dei fumi e del monossido di carbonio generati dalla combustione.
Tutto avvenne in soli 17 secondi, secondi interminabili preceduti dalle grida di dolore degli astronauti.
Sheryl Chaffee (figlia di Roger Chaffee, ha lavorato anche lei alla NASA per 33 anni).
Alle 18,31 ora locale Grissom esclamò qualcosa come “hey” o “fire” e due secondi dopo Roger Chaffie dette l’allarme con la storica e agghiacciante frase: “Fire! We’ve got fire in the cockpit!” cioè “Fuoco! C’è del fuoco nella cabina!”
Le procedure di emergenza per liberare la cabina richiedevano 90 secondi, troppi per rispondere ad una situazione del tutto nuova e imprevista.

Il portellone della capsula, concepito per aprirsi verso l’interno e solo a cabina depressurizzata condannò i tre uomini alla morte e li consegnò alla storia come i primi (e purtroppo non ultimi) astronauti NASA deceduti in missione (sebbene quella di Apollo 1 fosse in realtà un’esercitazione, poi trasformata in missione ufficiale per onorare la memoria del terzetto).
L’incidente gettò molti dubbi sulla possibilità di realizzare l’obiettivo fissato dal compianto Presidente Kennedy di raggiungere la Luna prima della fine del 69. La NASA sequestrò ogni cosa intorno all’area di lancio e istituì una commissione per fare luce sulle cause dell’incidente.
La capsula Apollo fu riprogettata nuovamente e vennero risolti 1407 problemi di collegamento, la pressurizzazione non fu più di 14 kpa sopra il valore di pressione atmosferica, ogni cavo, elettrico o idraulico fu rivestito di isolante e tutti quello che poteva incendiarsi venne sostituito con materiali totalmente ignifughi e soprattutto il portellone di accesso fu riprogettato per aprirsi verso l’esterno.
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Ecco a voi l’idrogeno metallico


Isaac Silvera e Ranga Dias, ricercatori del Lyman Laboratory of Physics alla Harvard University di Cambridge, negli USA, attraverso una speciale morsa con punte di diamante sono riusciti a creare idrogeno metallico, quello che viene considerato come il “sacro Graal” della fisica delle altissime pressioni, essendo stato teorizzato quasi un secolo fa ma finora mai dimostrato in maniera inequivocabile, anche se studi recenti (come questo dell’Università di Edimburgo) ci erano andati molto vicino.

Oltre a consentire agli scienziati di rispondere a quesiti fondamentali sulla natura stessa della materia, si ritiene che questo materiale possa avere un’ampia gamma di applicazioni pratiche, compresa la realizzazione di superconduttori a temperatura ambiente. Il procedimento con cui Silvera e Dias hanno ottenuto questo materiale – certamente il più raro sulla faccia della Terra e, potenzialmente, uno dei più preziosi – è descritto sull’ultimo numero della rivista Science.
Per crearlo in laboratorio, i due ricercatori hanno torchiato all’inverosimile un minuscolo campione di idrogeno, imprimendogli una pressione di 495 gigaPascal, un livello che non si sperimenta nemmeno al centro della Terra. A tali pressioni estreme l’idrogeno molecolare solido – che consiste di molecole disposte nel reticolo tipico dei solidi – si rompe, e le molecole si dissociano per trasformarsi in idrogeno atomico, che è un metallo.
«Una previsione molto importante è che l’idrogeno metallico sia meta-stabile», dice Silvera. «Ciò significa che rimarrà metallico anche quando si smette di esercitare la pressione, come i diamanti sintetici prodotti sottoponendo la grafite ad alte temperature e pressioni». Se il materiale rimane stabile, si potrà quindi verificare se effettivamente l’idrogeno metallico agisca come un superconduttore a temperatura ambiente. «Che sarebbe rivoluzionario», aggiunge Silvera, «visto che, con un conduttore tradizionale, il 15 per cento dell’energia elettrica viene persa dalla dissipazione durante la trasmissione».
Non solo risparmio energetico, ma una pletora di applicazioni pratiche trarrebbe beneficio da un siffatto materiale, ad esempio rendendo possibili sistemi di trasporto a levitazione magnetica, aumentando l’efficienza delle vetture elettriche e migliorando, in generale, le prestazioni di molti dispositivi elettronici e dei sistemi di produzione e immagazzinamento dell’energia.
L’idrogeno metallico è poi, in sé, un’incredibile riserva di energia, proporzionale all’enorme quantità di energia necessaria a crearlo. Questo lo renderebbe perfetto come propellente per razzi spaziali, molto più potente degli attuali, rendendo l’esplorazione spaziale più abbordabile di quanto lo sia ora.

Per creare il nuovo materiale, Silvera e Dias hanno utilizzato un dispositivo noto come cella a incudine di diamante, dove sono utilizzati diamanti sintetici, accuratamente lucidati mediante un processo di corrosione reattiva mediante ioni e poi ricoperti da un sottilissimo strato di ossido d’alluminio per impedire che l’idrogeno penetri nella loro struttura cristallina.
Dopo più di quarant’anni di esperimenti sull’idrogeno metallico, e molti più decenni dalla sua teorizzazione, vedere il materiale per la prima volta, è stata un’enorme emozione per i ricercatori. «Quando Ranga, che conduceva l’esperimento in laboratorio, mi ha chiamato dicendomi “Il campione risplende”, sono immediatamente corso di sotto, ed era effettivamente idrogeno metallico», ricorda Silvera. «È un risultato straordinario, e, anche se al momento esiste solo all’interno di questa cella a incudine di diamante ad alta pressione, è una scoperta fondamentale e molto innovativa».
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “Observation of the Wigner-Huntington transition to metallic hydrogen“, di Ranga P. Dias e Isaac F. Silvera
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Un nuovo tassello da NuSTAR per comprendere l’evoluzione dell’enigmatica Supernova Camaleonte

«We’re made of star stuff»
Carl Sagan
“Siamo fatti di materia di stella”, diceva l’astronomo Carl Sagan, di “polvere di stelle”… Intendeva ovviamente letteralmente! Le reazioni nucleari, infatti, che sono avvenute nelle stelle più antiche hanno generato gran parte degli elementi che compongono il nostro Universo, il nostro Sistema Solare, il nostro pianeta e quindi anche noi stessi. Ed è quando stelle massicce muoiono di morte violenta, esplodendo come supernove, che questo materiale viene espulso e disperso nello spazio.
Una supernova in particolare rappresenta ancora una sfida per gli astronomi, i loro modelli non riescono a spiegare del tutto il modo in cui i suoi resti si sono dispersi e il materiale che li compone.

Si tratta della supernova Camaleonte, SN 2014C, il cui aspetto è cambiato drasticamente nel corso di un anno, al di fuori di qualsiasi classificazione. L’ipotesi principale ad oggi è che la stella che le ha dato origine abbia espulso il suo materiale in modo estremamente massiccio verso la fine della sua vita, prima di esplodere come supernova, andando contro tutti i modelli che spiegano questo tipo di esplosioni. Per spiegare quanto osservato, si dovrebbero però rivedere alcune delle idee ormai consolidate sull’evoluzione della fine vita di stelle di grande massa.
«La supernova camaleonte può rappresentare un nuovo meccanismo di come le stelle massicce rilasciano gli elementi creati nei loro nuclei al resto dell’Universo», ci dice Raffaella Margutti – assistente professore di fisica e astronomia presso la Northwestern University di Evanston, Illinois – a capo di uno studio sulla SN 2014C, pubblicato questa settimana su The Astrophysical Journal.
Solitamente (vedi al link indicato sopra) le supernovae vengono classificate di Tipo I o II in base alla quantità di idrogeno trovata nei loro resti (molto poca nelle Tipo I, più rilevante nelle più rare di Tipo II). Ma per SN 2014C questo non è stato sufficiente.
Osservandola da diversi telescopi terrestri, gli astronomi hanno concluso che la camaleonte si è trasformata da una supernova di Tipo I a una di supernova di Tipo II, dopo il collasso del suo nucleo, come riportato in uno studio condotto da Dan Milisavljevic nel 2015 (Harvard- Smithsonian center for Astrophysics di Cambridge, Massachusetts). Nelle osservazioni iniziali, infatti, non è stata vista la classica riga di assorbimento dell’idrogeno, che caratterizza le Tipo II, ma dopo circa un anno, le tracce di idrogeno erano più che evidenti: le onde d’urto che si propagano dall’esplosione stavano colpendo un guscio di materiale dominato dall’idrogeno al di fuori della stella. Da dove è arrivato tutto questo idrogeno?
Nel nuovo studio, il telescopio spaziale della NASA NuSTAR (Nuclear Spectroscopic Telescope Array, per l’osservazione nei raggi X ad alta energia), ha permesso agli scienziati di rilevare come la temperatura degli elettroni, accelerati dall’esplosione della supernova, sia cambiata nel corso del tempo. Usando questa misura hanno stimato la velocità con la supernova si è espansa e quanto del suo materiale si trova ora nel guscio esterno.
Ed è proprio qui, in come ha creato questo suo guscio, che SN 2014C ha fatto qualcosa di veramente misterioso: ha espulso un sacco di materiale – principalmente idrogeno, ma anche elementi più pesanti – da decenni a secoli prima di esplodere. Ha espulso l’equivalente di una massa solare, cosa che normalmente le stelle non fanno negli ultimi anni di vita.
E anche gli Osservatori Chandra e Swift sono stati utilizzati per dipingere ulteriormente il quadro dell’evoluzione di questa supernova. Grazie alle loro osservazioni è infatti emerso che, a sorpresa, la supernova si era illuminata in raggi X proprio dopo l’esplosione iniziale, indizio in più che doveva già esserci un guscio di materiale colpito dalle onde d’urto dell’esplosione.
Ma perché la stella ha espluso così tanto idrogeno prima di esplodere? È possibile che ci manchi ancora qualche tassello nella comprensione delle reazioni nucleari che avvengono nei nuclei di stelle massicce possibili supernovae. Oppure può essere che la stella non sia morta da sola: una stella compagna in un sistema binario può aver influenzato l’evoluzione e portato a tale insolita morte la progenitrice di SN 2014C. Una teoria, questa, che si accompagnerebbe al fatto che circa sette stelle massicce su dieci hanno effettivamente una compagna.
A questo punto si dovrà focalizzare ulteriormente lo studio delle fasi finali della vita di queste stelle, con il vantaggio di poter continuare a studiare “in diretta” le conseguenze di questa supernova sconcertante.
«L’idea che una stella possa espellere una così grande quantità di materia in un breve intervallo di tempo è un concetto completamente nuovo», ci spiega Fiona Harrison, NUSTAR pricipal investigator al Caltech di Pasadena. «Mette alla prova i nostri fondamenti sull’evoluzione di stelle massicce, e su come eventualmente esplodono, disperdendo gli elementi chimici necessari alla vita».
Per ulteriori informazioni su NUSTAR, visitare i siti: www.nasa.gov/nustarhttp – www.nustar.caltech.edu
Marte – Incontri ravvicinati con il Pianeta Rosso
Sempre al centro dell’attenzione per le numerose missioni esplorative, tra cui ExoMars, che vede la collaborazione di ESA e Roscomsos e la significativa partecipazione del nostro Paese attraverso l’ASI, il pianeta Marte è il protagonista di una mostra organizzata a Roma dall’ASI in partenariato con il Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo.
La rassegna sarà aperta al pubblico, con ingresso libero, presso l’Aula Ottagona del Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano (Via Giuseppe Romita 8, Roma).
La mostra unisce, con un coerente filo conduttore, il passato di Roma, con le statue che rappresentano il Dio della Guerra, al futuro, attraverso le prossime missioni marziane e la colonizzazione del Pianeta Rosso. Un futuro che, come per il passato, vedrà l’Italia protagonista. Tra questi due estremi, la storia, la cultura e la scienza, i primi studi di Schiaparelli e i disegni dei ‘suoi’ canali, il cinema di fantascienza e l’impresa dell’uomo di conoscere il gemello del proprio pianeta.
A questa esposizione hanno fornito il loro prezioso contributo, l’Agenzia Spaziale Europea, l’Istituto Nazionale di Astrofisica, oltre a Leonardo Finmeccanica, Thales Alenia Space e National Geographic Channel.
Un meteorite e fango secco per Curiosity?
Il rover Curiosity, impegnato nell’esplorazione dell’area alle pendici del Monte Sharp, si è nuovamente imbattuto in alcune conformazioni geologiche che hanno destato l’interesse dei ricercatori.

In una delle immagini raccolte dal rover lo scorso 12 gennaio e rese pubbliche dalla NASA, appare evidente la presenza di un tozzo frammento metallico levigato: si tratta di un nuovo meteorite ferroso? Ricordiamo che l’ultimo analogo ritrovamento risale solo allo scorso novembre (leggi Coelum News https://www.coelum.com/news/curiosity-meteorite-ferroso). La notizia non è ancora stata confermata dalla NASA ma il lucido oggetto di colore grigio scuro, con i suoi riflessi metallici e le forme levigate tipiche di una roccia che abbia subito il rovente passaggio attraverso l’atmosfera, è del tutto simile ai frammenti meteorici già trovati in precedenza. La coincidenza è interessante, soprattutto se teniamo in considerazione che dei reperti meteorici trovati sulla Terra, appena l’1% è di composizione ferrosa. Nessuna ipotesi è ancora esclusa, compresa quella che si possa trattare di un masso marziano, levigato e lucidato dalla lenta ma inesorabile attività dei venti e della polvere del pianeta.

Il secondo ritrovamento è interessante perché costituirebbe un ulteriore indizio per ricostruire la storia climatica del pianeta, un tempo forse bagnato dall’acqua: si tratta di una lastra di roccia che presenta una “ragnatela” di sedimenti e forme poligonali a quattro o cinque lati simili a quelli riscontrabili qui sulla Terra su un terreno fangoso essiccato. Secondo i rilevamenti, tali strutture si sarebbero formate circa tre miliardi di anni fa in seguito a un processo di evaporazione o sotto la pressione degli strati rocciosi superiori. Le vene visibili nell’immagine potrebbero essere le crepe originali, poi colmate dalla polvere o da minerali trasportati dalle falde sotterranee. L’azione erosiva dei venti avrebbe poi lasciato esposta la superficie dell’affioramento, rimuovendo via via gli strati superficiali più soffici. Questi dati secondo Ashwin Vasavada, Project Scientist della missione, concordano con gli altri indizi che supportano la tesi della presenza di antichi laghi nel cratere Gale che «variavano in profondità e durata temporale, talvolta, scomparendo del tutto».
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Dalla NASA alla vita quotidiana

Spesso ci si chiede se valga davvero la pena investire miliardi di dollari nelle missioni spaziali e nella ricerca nel campo della fisica e dell’astrofisica. Allo stesso tempo in molti non sanno che decine e decine di invenzioni pensate per lo spazio e create (nella maggior parte dei casi) da ricercatori della NASA vengono utilizzate da anni nella nostra vita quotidiana. Dal rivestimento antigraffio degli occhiali (in origine dedicato alle visiere dei caschi degli astronauti) al materiale memory foam di cui molti materassi sono fatti (utilizzato nello spazio per proteggere dagli urti gli astronauti), passando per i dispositivi senza filo a batteria (la tecnologia risale a quando nel 1960 la Black & Decker e la Nasa idearono la prima trivella usata sulla Luna) e gli apparecchi ortodontici “invisibili” (il materiale TPA – translucent polycrystalline alumina – è stato sviluppato dal NASA Industrial Application Center).
La lista è molto lunga e ogni anno (dal 1976) viene aggiornata dall’agenzia spaziale statunitense in un catalogo con cui vengono presentati i 50 brevetti tecnologici che hanno avuto le maggiori ricadute nella nostra vita negli ultimi 12 mesi (vai al sito NASA Spinoff), dalla medicina ai trasporti, dall’ambiente alla sicurezza pubblica. Nelle 237 pagine del report 2017 troviamo diverse invenzioni interessanti. Ne abbiamo selezionate una dozzina.

CONDOTTI TERMICI PER OPERAZIONI NEUROCHIRURGICHE – La NASA ha contribuito a lanciare sul mercato i prodotti della Thermacore, un’azienda leader nella produzione di condotti termici, cioè tubi utilizzati per “controllare” il calore in modo che si possa disperdere in modo sicuro. Tutto grazie al vapore e al materiale di cui sono fatti, cioè il rame. Le applicazioni di questi condotti sono state diverse negli ultimi decenni nel settore spaziale soprattutto su satelliti e sonde: le differenze di temperatura nei satelliti non rotanti tra il lato rivolto verso il Sole e il lato all’ombra causavano errori nelle parti elettroniche, per questo sono stati installati i tubo termici che hanno aiutato a portare il calore verso gli apparati più freddi. Le applicazioni sulla Terra sono importanti in campo medico: nelle operazioni al cervello i neurochirurghi utilizzano delle pinze bipolari, che sfruttano l’elettricità per tagliare e cauterizzare il tessuto con precisione assoluta. La tecnologia Thermacore permette di dissipare il calore prodotto dall’energia elettrica per garantire la sicurezza del paziente.

ABBIGLIAMENTO TERMICO, DA CALDO A FREDDO E VICEVERSA – La NASA e le aziende di tutto il mondo collaborano da anni per portare sulla Stazione spaziale internazionale e nella vita di tutti i giorni materiali in grado di proteggere da temperature eccessivamente fredde ed eccessivamente calde. Le tute spaziali devono garantire agli astronauti un’adeguata protezione termica durante le famose “passeggiate” nello spazio. La tecnologia utilizzata da decenni nella produzione di abbigliamento termico spaziale viene utilizzata oggi per prevenire i danni cerebrali dopo gli attacchi di cuore o ictus, migliorare le prestazioni sportive, per il trattamento di traumi, ed evitare il surriscaldamento sotto pesanti strati di equipaggiamento anche sui posti di lavoro. In questo settore sono popolari i materiali a cambiamento di fase, che assorbono calore passando dallo stato solido a quello liquido (come il ghiaccio in una bevanda calda) e, se esposti a temperature più fredde, rilasciano calore tornando allo stato solido. Il concetto alla base di questi materiali è stato utilizzato nella produzione di coperte termiche utilizzate nei reparti di maternità (soprattutto in regioni disagiate del mondo) per la cura dei bimbi appena nati.

DA ORION ALLE FOTOCAMERE DEI CRASH TEST – Ricordate il lancio dell’Orion Deep Space? Per monitorare le diverse fasi test di volo della capsula progettata per il volo umano nello spazio profondo, gli ingegneri del Johnson Space Center della NASA hanno utilizzato una speciale camera ultraleggera e ad alta velocità in grado di memorizzare una quantità incredibile di dati in tempo reale, supportando allo stesso tempo tutti i traumi di volo, dal decollo al rientro atmosferico fino all’ammaraggio. Si tratta di un dispositivo della Integrated Design Tools (IDT), specializzata in videocamere costruite per utilizzi scientifici e industriali soprattutto durante i crash test (anche delle auto). La videocamera è in grado di memorizzare dai 10 ai 12 Gb di dati al secondo e le sue peculiarità tecniche e di resistenza le rendono perfette per lo spazio ma anche per utilizzi militari, quando le missioni sono troppo pericolose per gli esseri umani.

MENO VIBRAZIONI, PIÙ SICUREZZA SISMICA – Troppe vibrazioni durante il lancio dei razzi? La NASA anni fa trovò una soluzione per evitare i rischi dovuti a questa problematica: utilizzare un “ammortizzatore” ultraleggero (nello specifico uno smorzatore a massa risonante) a basso costo che dissipasse l’energia delle vibrazioni su una massa secondaria utilizzando un combustibile liquido. Oggi questi dispositivi (in gergo tecnico vengono chiamati anche assorbitori armonici) sono lo standard nel settore edile, dai ponti ai grattacieli che devono resistere a oscillazioni e vibrazioni dovute a vento e terremoti.

MONITORARE LE FREDDE NUVOLE DA LASSÙ – La NASA, come sappiamo, non si occupa solo di spazio, ma monitora anche il nostro pianeta e il cielo tramite satelliti e strumenti direttamente a terra. Gli ingegneri dell’agenzia spaziale americana, in collaborazione con diverse aziende, hanno progettato un sensore particolare per monitorare le nubi fredde che potrebbero creare disagi, soprattutto agli aerei in volo a causa del ghiaccio. Il sensore, low-cost e ultraleggero, è alla base di un network che allerta le compagnie aree in caso di condizioni meteo proibitive. Adesso il dispositivo è stato venduto anche fuori dagli Stati Uniti.

ECCO IL SEGRETO DELLE FOTOCAMERE HD – La tecnologia che ci permette di avere sui nostri cellulari fotocamere sempre più ad alta definizione e all’avanguardia è nata – ma guarda un po’! – alla NASA, per la precisione presso il Jet Propulsion Laboratory (JPL). Gli ingegneri hanno progettato anni fa leggeri dispositivi di imaging (destinati a scopi scientifici) utilizzando la tecnologia dei CMOS complementary metal-oxide semiconductor) per creare quelli che oggi conosciamo come sensori a pixel attivi (APS o active pixel sensor). I sensori CMOS sono diventati in pochi anni più compatti, affidabili e meno costosi e quindi perfetti per essere integrati nei dispositivi mobili (oltre che in macchine altamente professionali e complesse) tanto da scalzare completamente dal mercato i dispositivi ad accoppiamento di carica (CCD o charge-coupled device) per anni utilizzati per la fotografia astronomica. Oggi le famose GoPro, quelle piccole telecamerine che si possono montare sui caschi delle biciclette o indossare sopra i vestiti, si basano proprio sulla tecnologia CMOS, il cui mercato nel 2015 ha raggiunto il fatturato di 10 miliardi di dollari.

I FILTRI BLU CHE PROTEGGONO GLI OCCHI – L’occhio umano, a differenze di altre specie animali, è in grado di percepire tutti i colori dello spettro elettromagnetico ma è molto sensibile al blu e al verde. Negli anni novanta, uno scienziato dell’Ames Research Center (con fondi NASA) ha sviluppato dei filtri ottici per bloccare la luce blu e verde, consentendo alle altre tonalità di distinguersi e di rendere gli oggetti mimetizzati più visibili nelle foreste. Il suo lavoro è stato successivamente commercializzato attraverso un accordo con NASTEK. Di recente la Optic Nerve Inc. ha creato una linea di occhiali da sci che filtrano circa il 95 per cento della luce blu, che diffusa dalle molecole d’aria crea una particolare foschia intorno alle montagne e agli oggetti in particolari condizioni meteorologiche (come la neve) interferendo con la visione umana. La tecnologia di filtraggio ottica sviluppata dalla NASA permette agli sciatori di aumentare la capacità di distinguere gli oggetti del 12-15%.

APPARECCHI ACUSTICI A LUNGA DURATA – La NASA ha passato anni a perfezionare la tecnologia delle batterie argento-zinco, accoppiata a quanto pare perfetta per garantire una lunga durata delle volgarmente chiamate “pile”, però con scarsi risultati nell’utilizzo spaziale. L’azienda californiana ZPower ha preso il brevetto del Glenn Research Center della NASA per farne un successo commerciale: per la prima volta dopo anni di tentativi, sul mercato si trovano delle batterie ricaricabili perfette per gli apparecchi acustici. Pensate che queste batterie possono durare tutto il giorno con una carica!

I TRATTORI COL PILOTA AUTOMATICO – C’è un altro brevetto proveniente dal JPL che ha un importante utilizzo nella vita quotidiana, anche in agricoltura. Si tratta – forse – di uno dei maggiori contributi all’umanità che la NASA abbia mai dato: la tecnologia GPS (Global Positioning System). In questo caso specifico non parliamo di navigatori di grido, bensì di trattori automatizzati e autonomi che si servono della tecnologia GPS e della correzione satellitare per essere spostati, monitorati e controllati a distanza in tutta sicurezza. I ricevitori che permettono la guida remota dei trattori sono poco costosi e non richiedono la presenza di antenne radio nelle vicinanze, e per questo possono essere utilizzati in tutto il mondo. La guida automatizzata riduce il tempo e le risorse necessarie per la cura dei campi e aumenta la resa delle colture.

FERTILIZZANTI A LENTO RILASCIO – Per andare su Marte bisogna prima di tutto cercare di procacciarsi il cibo in loco. Per questo sulla ISS tre anni fa è partito il programma Veggie, un sistema di produzione per alimenti freschi in schiera che utilizza LED rossi e blu e un particolare fertilizzante a rilascio lento. In particolare, il fertilizzante utilizzato dagli astronauti sulla Stazione spaziale internazionale si chiama Florikan ed è il frutto della collaborazione di un’azienda della Florida con la NASA. Florikan permette di controllare il rilascio dei nutrienti per evitare il deflusso massimizzando il beneficio per la pianta. Il fertilizzante utilizzato sulla ISS e oggi in tutto il mondo ha un rapporto azoto-fosfato-potassio di 14-4-14 che sembra perfetto se applicato ogni 100 o 180 giorni.

LIDAR, IL LASER DELLA NASA AMICO DEGLI ARCHEOLOGI – Chi l’avrebbe mai detto che l’astrofisica e l’archeologia fossero due discipline così vicine! LIDAR, la tecnologia sviluppata dalla NASA per misurare le distanze astronomiche grazie alla luce laser, è uno dei brevetti più utilizzati oggi nella ricerca di oggetti provenienti da epoche passate. Si tratta di sensori laser che permettono agli archeologi di localizzare più facilmente fossili e ossa nascosti sotto terra. Anche se chi ha sviluppato LIDAR inizialmente andava in cerca di qualcosa di diverso e di molto più lontano, come pianeti, lune e asteroidi. La società che produce questi scanner laser usati in archeologia ne ha di recente montato uno su OSIRIS-REx, la sonda NASA che dovrebbe riportare sulla Terra il primo campione di un asteroide prelevato in loco.

CENERE AL CEMENTO, CEMENTO ALLA CENERE – Il lancio di un razzo non è una passeggiata e come abbiamo già visto, gli ingegneri cercano metodi e tecnologie sempre più innovative che garantiscano sicurezza in fase operativa. Un team di ricercatori e ingegneri della Louisiana Tech University ha progettato quello che può essere considerato il cemento del futuro: un calcestruzzo geopolimerico realizzato con ceneri volanti prodotte dalla combustione del carbone. I test hanno confermato una forte resistenza del materiale al calore e alla corrosione. Presto la cenere di scarto verrà trasformata in cemento in tutti gli Stati Uniti per essere utilizzato non solo nelle basi di lancio ma anche per l’edilizia civile.
Per saperne di più:
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- Vai la sito della NASA
- Val alla sezione degli Spinoff
- Scarica la brochure degli Spinoff 2017
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Guarda il servizio video su INAF-TV:
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A disposizione del pubblico il Calendario meccanico universale di Giovanni Plana

Pochi sanno che nel cuore di Torino è custodito un vero e proprio tesoro ingegneristico: il Calendario meccanico Universale (detto anche della Ressurrezione) di Plana.
Giovanni Antonio Amedeo Plana (1781-1864) era un insigne astronomo torinese vissuto a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo, padre dell’Osservatorio Astronomico di Torino e interessato al moto della Luna. In particolare diede un grande impulso all’informatica moderna dei calcolatori: invitò il famoso scienziato “proto-informatico”, che per primo ebbe l’idea di un calcolatore programmabile, Charles Babbage a Torino e realizzò un proprio calendario perpetuo nel 1831 in due esemplari, ma tenne per se il suo funzionamento. Non lo espose in alcuna conferenza o trattato ed è rimasto sconosciuto fino al 2015, quando il calendario è stato analizzato nel dettaglio e riprodotto per la prima volta da quattro team di studenti del Politecnico di Torino.

Il Calendario della Ressurrezione è ora visibile a Torino nella sagrestia della appena restaurata Cappella dei Mercanti di Torino. In mezzo a diversi oggetti sacri, potrete ora ammirare il Calendario e, di fronte, il modello in scala 2:3 realizzato dagli studenti primi classificati tra i quattro team impegnati nell’analisi e nella scoperta del suo funzionamento.
L’apparente semplicità del lato frontale scompare alla vista del lato posteriore, dotato di numerosi tamburi, dischi, nastri scorrevoli, catene, ruote dentate e viti senza fine in legno, tela e metallo. I nove cilindri (ovvero, gli elementi di “memoria a sola lettura”) riportano i ben 46.000 numeri del calendario visualizzati frontalmente.

Il calendario fornisce tutte le informazioni sul giorno della settimana, comprese le festività liturgiche cattoliche (periodiche e non periodiche, comprese le festività mobili come la Pasqua, forse la più complessa) per ogni anno su un lasso di tempo di ben 4 mila anni dall’anno 1 D.C. Sono comprese le differenze tra il calendario giuliano (fino al 1582) e quello successivo, gregoriano: la differenza di durata tra anno solare e anno gregoriano (il primo 11 minuti più lungo) ha fatto sì che la loro risincronizzazione abbia fatto “sparire” i giorni compresi tra il giovedì 4 e il venerdì 15 ottobre 1582, assenti dai dati.
L’input fornito in ingresso è l’anno: il quadrante frontale visualizza tutte le informazioni relative ai giorni e ai mesi di quell’anno, giorni della settimana, lettere domenicali, e l’Epatta – ovvero l’età della Luna nel suo ciclo di lunazione, rilevante proprio nel calcolo della Pasqua.
Ma rimandiamo la trattazione sulla storia e il funzionamento del Calendario perpetuo a un articolo più approfondito su uno dei prossimi numeri di Coelum Astronomia! Restate sintonizzati…
Per il momento non perdete l’opportunità di vedere da vicino questo gioiello del calcolo astronomico esposto nella sagrestia della Cappella dei Mercanti, finalmente aperta al pubblico dopo il restauro.
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Luna, Marte e Venere e passaggio della ISS


Gennaio ci saluta con un’altra stupenda congiunzione tripla.
Una sottile falce di Luna (fase del 15%) si troverà al crepuscolo a un’altezza di circa 30° sull’orizzonte sudovest, a formare un brillante triangolo con Marte (a circa 6° a nord) e Venere (a circa 4° a sudovest).
I tre astri si muoveranno poi in formazione fino a tramontare sotto l’orizzonte ovest attorno tra le 21:15 e le 21:30.
Osservata dal Centro Italia la congiunzione si arricchirà anche dell’ultimo passaggio del mese (e il primo serale) della Stazione Spaziale Internazionale.
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Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio
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➜ La Luna di Gennaio. Osserviamo i crateri Theophilus, Cyrillus e Catharina di Francesco Badalotti su Coelum di gennaio 2017
➜ Fotografare la luce Cinerea della Luna di Giorgia Hofer su Coelum di gennaio 2017
➜ I principali passaggi della ISS
Tutti consigli per l’osservazione del cielo di febbraio su Coelum Astronomia 208
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Saturno e una sottilissima falce di Luna
La mattina del 24 gennaio, alle ore 6:45 circa, una sottilissima falce di Luna (fase 13%) e Saturno (mag. +0,5) si incontreranno in una congiunzione che li porterà a circa 3,6° di distanza reciproca. Molto più in basso sull’orizzonte est (a circa 5°) si troverà anche il piccolo Mercurio (mag. +0,7) a completare il quadro.
Si tratta di una bella circostanza per immortalare in una fotografia non facile i tre astri, coinvolgendo anche il paesaggio circostante, e per far risaltare la luce cinerea della Luna, come ci racconta in questo stesso numero Giorgia Hofer a pagina 98.
Indice dei contenuti
Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio
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➜ Fotografare la luce Cinerea della Luna di Giorgia Hofer su Coelum di gennaio 2017
Tutti consigli per l’osservazione del cielo di gennaio su Coelum Astronomia 207
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VIAGGIO NEL COSMO Appunti di Astronomia all’esplorazione di pianeti, stelle e galassie
Lunedì 23 Gennaio, ore 18:30 – IL CIELO NELLA STORIA
GLI STUDI ASTRONOMICI DALL’ETA’ TARDO-ANTICA ALL’ALTO MEDIOEVO Relatore: Paolo Badalotti.
Sala Incontri del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste, Via dei Tominz 4. Ingresso libero fino ad esaurimento posti.
INFO:
Museo Civico di Storia Naturale di Trieste
tel: 040 675 4603 / 040 375 8662
web: www.museostorianaturaletrieste.it
mail: sportellonatura@comune.trieste.it
Circolo Culturale Astrofili Trieste
web: www.astrofilitrieste.it
mail: info@astrofilitrieste.it
Allineamento Marte, Venere e lambda Aquari

Il 21 gennaio, dopo il tramonto, all’incirca dalle ore 18:00, sarà possibile osservare una congiunzione tripla tra i pianeti Marte (mag. +1,0), Venere (mag. – 4,5) e la stella lambda Aquarii (mag. +3,8), allineati a una trentina di gradi sull’orizzonte sudovest.
Più in basso sempre in linea, a 1° e mezzo circa a sud di lambda Aquarii, sarà osservabile anche il pianeta Nettuno (mag. +7,9), ma solo aiutandosi con un binocolo o un piccolo telescopio, data la sua luminosità sempre troppo bassa per l’osservazione a occhio nudo.
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Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio
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#citizenscience Cosa dovrà riprendere la sonda Juno della NASA nel prossimo flyby? Lo decidete voi!

Citizen science o solo marketing? Più probabilmente entrambe le cose, che male non fa…
Sappiamo già che nella sua missione Juno, che sta studiando l’atmosfera di Giove, la NASA ha volutamente previsto una camera non scientifica. La JunoCam, infatti, è dedicata alla raccolta di immagini per il pubblico, che ha sempre più fame di immagini dal cosmo e che, in questo modo, riesce a seguire una missione complessa e importante come quella in corso attorno al gigante gassoso del nostro Sistema Solare. Anche se comunque, le informazioni tratte dalle immagini andranno a completare i dati raccolti dagli strumenti scientifici.
Ora, per la prima volta, non solo immagini dedicate al pubblico, ma la richiesta di un vero e proprio coinvolgimento diretto: la scelta, tramite votazione pubblica, di dove puntare la camera nei prossimi passaggi ravvicinati della missione!
Dove dovrebbe puntare il suo obiettivo Juno nel prossimo passaggio del 2 febbraio? Per la prima volta si potrà votare: il voto è iniziato ieri 19 gennaio (alle 20:00 ora italiana) e si concluderà il 23 gennaio alle 18:00, sempre ora italiana.
«Non vediamo l’ora di vedere la partecipazione di nuove persone che possano poi diventare parte della comunità e del team di imaging della JunoCam», ha detto Candy Hansen, Juno co-investigator del Planetary Science Institute, Tucson, Arizona. «Stà al pubblico ora decidere la migliore inquadratura per riprendere l’atmosfera di Giove, nel corso del prossimo flyby».
Nella pagina della community di Juno, infatti, non è solo possibile votare le zone da far riprendere a Juno, ma anche: scaricare le immagini grezze e proporre la propria elaborazione (come l’immagine di apertura); rintracciare e discutere dei particolari più interessanti visibili nelle imagini o delle tecniche di elaborazione; oltre che a condividere riprese e dati di Giove raccolti con la propria strumentazione.

Chiunque, in base al proprio livello di esperienza, può essere parte di questo progetto di “scienza partecipata”. Basta conoscere un minimo di inglese, unirsi alla comunità… e lasciarsi coinvolgere!
Il sito della community di JunoCam
La pagina di votazione per il flyby del 2 febbraio
Lo speciale sulla missione Juno su Coelum astronomia 202
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Cosa ci aspetta nel 2017? Tutte le missioni spaziali che segneranno l’anno che verrà, e i principali eventi astronomici da non perdere su Coelum Astronomia di gennaio.
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Premio Letterario Galileo 2017 per la divulgazione scientifica
Il 18 gennaio 2017 presso il Centro culturale Altinate San Gaetano a Padova, la Giuria Scientifica del Premio letterario Galileo, presieduta dal chimico e scrittore Dario Bressanini, ha selezionato la cinquina delle opere finaliste che saranno votate nei prossimi mesi dalla Giuria popolare.
«Sono molto soddisfatto dei lavori della Giuria – ha sottolineato il Presidente Dario Bressanini – ne è uscita una cinquina molto legata all’attualità, sia ai problemi del nostro presente sia alle recentissime scoperte della scienza».
La Giuria popolare sarà formata da studenti delle classi IV degli istituti superiori di tutte le province italiane e determinerà, nell’ambito della cinquina, l’opera da premiare. La cerimonia di premiazione del vincitore si terrà, anche questa in forma pubblica, il 5 maggio 2017 a Padova, presso il Palazzo della Ragione a partire dalle ore 16.00.
Questi i cinque volumi scelti:
- Andrea Grignolio con “Chi ha paura dei vaccini?“, Codice Edizioni, 2016;
- Alessandro Amato con “Sotto i nostri piedi. Storie di terremoti, scienziati e ciarlatani“, Codice Edizioni, 2016;
- Guido Tonelli con “La nascita imperfetta delle cose“, Rizzoli Editore, 2016;
- Silvia Bencivelli e Daniela Ovadia con “È la medicina, bellezza!“, Carocci Editore, 2016;
- Guido Barbujani con “Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo“, Editori Laterza, 2016.
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Info Settore Cultura Turismo Musei e Biblioteche Palazzo Moroni Tel. ++39 49 8205626-5623-5611
Informazioni per le scuole: ++39 49 8204517-5626 E-mail: premiogalileo@comune.padova.it
Pieghevole informativo – Pagina facebook – Padovacultura.padova.net
Ricordiamo poi Recensire la scienza, l’atteso concorso parallelo al Premio Galileo che da anni è seguito e apprezzato da un vastissimo pubblico. Tutti potranno, per una volta, diventare critici letterari e cimentarsi in una recensione dei cinque libri finalisti pubblicando il loro scritto sulla pagina facebook ufficiale del Premio Galileo. I “mi piace” decreteranno i vincitori (regolamento e info a breve alla pagina facebook.com/premio.galileo.padova/).
Incontri con gli autori finalisti e eventi collaterali
Anche quest’anno a partire dal mese di marzo si terranno gli incontri con gli autori dei libri finalisti. Studenti e cittadini avranno la possibilità di conoscere più da vicino i cinque studiosi selezionati dalla giuria scientifica in altrettante giornate dedicate ciascuna ad una pubblicazione con l’ormai sperimentata modalità dei due incontri: quello del mattino dedicato alle scuole superiori della città (trasmesso in diretta streaming per le scuole di tutta Italia) e quello pomeridiano aperto al pubblico.
Gli incontri con gli autori saranno introdotti e accompagnati da sei appuntamenti a cadenza quindicinale in collaborazione con il CICAP:
La scienza dei Mostri “di carta”
Fondamenti scientifici e fantasie irrazionali sulle creature letterarie del mistero
presso il Centro culturale Altinate/San Gaetano, via Altinate, 71 – Padova
Inizio incontri: ore 21.00
- 1 febbraio: Marco Ciardi “Ippogrifi, draghi e unicorni: scienza e magia da Galileo a Harry Potter”.
- 15 febbraio: Lorenzo Montali “Leggende, gatti alati e fantasmi: il fascino del mistero”.
- 8 marzo: Massimo Polidoro “Sherlock Holmes e il mistero di Jack lo Squartatore”.
- 15 marzo: Lorenzo Rossi “Dal Kraken a Moby Dick: quando i mostri diventano veri”.
- 5 aprile: Luigi Garlaschelli “Misteri macabri: da Frankenstein agli zombi”.
- 19 aprile: Andrea Ferrero “Chi ha paura delle streghe?”.
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Nelle pagine che seguono le schede dei cinque libri in concorso.
Invitiamo tutti i lettori a leggerli e a esprimere la propria opinione.
Il Premio Letterario Galileo 2016 è promosso dal Comune di Padova, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, della Regione del Veneto, della Fondazione Il Campiello e dell’Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti in Padova e in collaborazione con l’Università degli Studi di Padova.
Il Premio Galileo ha il sostegno della Fondazione Antonveneta.
Con la collaborazione di: APS Advertising, Auriga, Hotel Galileo, Morellato – Gioielli da vivere, Promovies, Noleggiami.eu, Cicap, Inaf, Planetario Padova, Education First-Vacanze Studio e Corsi di Lingue all’Estero.. Media sponsor: Rai Radio3, Focus, Coelum, il Bo, il Vivi Padova, Radio Bue.it, Planck.
Un anno intorno al Sole
Un ritratto al giorno per 366 giorni, sempre alla stessa ora e dalla stessa prospettiva. Una campagna di osservazione che riporta alla mente il progetto fotografico del bizzarro tabaccaio Auggie Wren, sapientemente interpretato da Harvey Keitel in Smoke, pellicola di Wayne Wang co-diretta insieme a Paul Auster.
Soggetto del reportage firmato PROBA-2, non è certamente l’angolo di Brooklyn tra la Terza Strada e la Settimana Avenue, ma la nostra stella, immortalata per tutto il 2016, sempre a mezzanotte in punto. Ogni immagine, montata nel collage finale rilasciato il 16 gennaio scorso dall’ESA, è composta da una raffica di 30 scatti ripresi dalla fotocamera SWAP, strumento specializzato nelle lunghezze d’onda dell’ultravioletto estremo e dedicato allo studio della parte più esterna dell’atmosfera solare, nota come corona.

Le immagini, elaborate al fine di esaltare le caratteristiche del disco solare, documentano nel 2016 una tendenza al minimo dell’attività del sole nell’ambito dell’attuale ciclo undecennale. Durante tali periodi viene registrata una diminuzione del numero di macchie solari, di regioni attive e di eruzioni. La regione più attiva registrata nel 2016 è visibile nell’immagine ripresa il 17 luglio. La macchia luminosa più prossima al centro del Sole ha prodotto otto dei 20 brillamenti più potenti verificatisi lo scorso anno.
Il 24 novembre è stato invece osservato, nell’area più settentrionale del Sole, uno dei più grandi buchi coronali. Si tratta di regioni scure che indicano bassi livelli di emissioni ma sono in grado di produrre veloci flussi di vento solare che possono scatenare tempeste geomagnetiche sulla Terra.
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E’ morto Eugene Cernan, “l’ultimo Uomo sulla Luna”
«We leave as we came, and, God willing, we shall return,
with peace and hope for all mankind».
Capitano Eugene Cernan
Eugene Cernan, l’ultimo uomo ad aver camminato sulla Luna nel dicembre del 1972, ci ha lasciato il 16 gennaio 2017, aveva 82 anni.
Cernan era stato colpito da un ictus diversi mesi fa che lo aveva indebolito. Ha lottato, entrando e uscendo dall’ospedale fino alla fine del 2016. La famiglia ha preferito mantenere il massimo riserbo sulle sue condizioni fino alla fine.

L’umanità perde l’ennesimo moonwalkers e oggi sono rimasti 6 dei 12 uomini che hanno avuto il privilegio di posare i piedi sul nostro satellite naturale e a vedere la Terra dalla Luna.
Eugene Cernan fu uno dei 14 astronauti selezionati dalla NASA nel mese di ottobre 1963. Fu pilota durante la missione Gemini 9 con il comandante Thomas Stafford – un volo di tre giorni nel giugno 1966 – durante la quale effettuò una complessa EVA (Extra-Vehicular Activity) restando due ore al di fuori della capsula in orbita terrestre. Nel maggio del 1969 effettuò la sua seconda missione come pilota del modulo lunare di Apollo 10, il collaudo generale prima dell’allunaggio di Apollo 11. La missione confermò le prestazioni, la stabilità e l’affidabilità del modulo di comando e servizio Apollo e quella del modulo lunare. La missione scese a poco più di 14 chilometri dalla superficie della luna. In un’intervista di alcuni anni fa, Cernan scherzando, ma non troppo, disse: «Continuo a dire all’amico Neil Armstrong che noi di Apollo 10 abbiamo tracciato quella linea bianca nel cielo, la strada verso la Luna fino a pochi chilometri in modo che lui non potesse perdersi e tutto ciò che doveva fare era solo atterrare».

Naturalmente la sua missione più importante è stata Apollo 17: con il compagno Harrison “Jack” Smith restò tre giorni sulla Luna effettuando tre uscite extraveicolari molto proficue – mentre il terzo membro dell’equipaggio, Ronald E. Evans, li attese a bordo del Modulo di Comando in orbita lunare. L’utilizzo del lunar rover permise ampie esplorazioni della Taurus-Littrow Valley, la raccolta di numerosi chilogrammi di campioni lunari e diversi esperimenti sul suolo lunare.
Apollo 17 ha stabilito inoltre diversi nuovi record per il volo spaziale umano, tra cui: il più lungo volo con atterraggio lunare (301 ore, 51 minuti); la più lunga attività extraveicolare sulla superficie lunare (22 ore, 6 minuti); il più alto peso totale dei campioni lunari raccolti (111 kg); e il tempo più lungo in orbita lunare (147 ore, 48 minuti).
Al momento di lasciare per l’ultima volta la superfice lunare, Cernan pronunciò questa frase:
«I’m on the surface; and, as I take man’s last step from the surface, back home for some time to come – but we believe not too long into the future – I’d like to just [say] what I believe history will record. That America’s challenge of today has forged man’s destiny of tomorrow. And, as we leave the Moon at Taurus-Littrow, we leave as we came and, God willing, as we shall return: with peace and hope for all mankind. Godspeed the crew of Apollo 17».
(Mentre compio l’ultimo passo umano sulla superficie, per tornare a casa in attesa delle future esplorazioni – ma crediamo non troppo nel futuro – voglio dire ciò che credo la storia ricorderà, che la sfida Americana odierna ha forgiato il destino degli uomini di domani. E, mentre lasciamo Taurus-Littrow sulla Luna, la lasciamo come arrivammo e, Dio volendo, come ritorneremo, in pace e speranza per tutta l’umanità. Dio assista l’equipaggio di Apollo 17).

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A tu per tu con il Capitano
Il mio rapporto personale con il Capitano era di lunga data. L’ho incontrato in molte occasioni e in varie parti del mondo, anche nella mia città: Milano. Era un uomo con una grande personalità, affabile e naturalmente orgoglioso della sua carriera astronautica. Di seguito alcune delle sue risposte più significative.
Cernan: «Una delle cose che ho osservato è che quasi nessuna delle domande che ricevo riguardano la tecnologia che abbiamo utilizzato. Le persone non chiedono quanto velocemente andavamo mentre orbitavamo intorno alla Luna, le domande che le persone fanno sono sull’umanità di questa esperienza. Che cosa sentivate? Come dormivate? Eravate spaventati? Vogliono sapere dell’esperienza di fare il primo passo sulla Luna. Rispondo che è stato importante per me e nessuno me lo può portare via. Per me i passi memorabili sono stati gli ultimi».

La sua esperienza è stata solo tecnologica o anche di fede?
Cernan: «Quello che ho visto mentre guardavo la Terra dalla Luna, era tutto troppo bello per essere accaduto per caso. Guardando la Terra, ho avuto la sensazione che fossi seduto sulla veranda di Dio».
Sulla Luna pensavate ai rischi che correvate?
Cernan: «Abbiamo trascorso tre giorni di duro lavoro, avevamo una missione da compiere. Ero consapevole che se fossi caduto e la mia tuta si fosse strappata o se il motore non si fosse riacceso sarei potuto morire, ma non vivevo tutto questo con paura. Siamo stati sempre consapevoli dell’ambiente ostile che ci circondava. Abbiamo scavato trincee e fatto carotaggi, scattato migliaia di foto di quella “magnifica desolazione”. Jack (Schmitt, pilota del modulo lunare) ha fatto un ottimo lavoro come geologo. Era sempre molto concentrato nel suo lavoro. Ho dovuto dirgli: “Jack, prenditi una pausa, lo devi a te stesso, guarda dove sei!”».
Capitano come si torna alla vita di tutti i giorni sulla Terra?
Cernan: «Torni a casa ed è tutto normale. Avevo vissuto sulla luna per 72 ore e poi ero di nuovo nel mondo reale. È talmente incredibile che spesso mi chiedo se ho fatto quello che penso, se è successo davvero. Sono rimasto nel programma spaziale per 13 anni ed è stato come se qualcuno avesse tagliato quegli anni dalla mia vita e mi avesse messo in un mondo diverso – nel caso di Apollo 17 è stato letteralmente così! – e poi mi ha mandato di nuovo al mio mondo originale. È quasi come se avessi vissuto due vite diverse».

Gli astronauti sono delle persone speciali?
Cernan: «Siamo solo la punta della lancia. Con Armstrong, Shepard, Lovell e tutti gli altri abbiamo rappresentato le persone che ci hanno inviato sulla Luna. È importante ricordare che tutti insieme siamo andati sulla Luna. Ecco perché fino a quando ci saremo, andremo ancora in giro a raccontare la nostra avventura, perché abbiamo la responsabilità di ispirare le nuove generazioni».
Per saperne di più
Cernan ha scritto un libro di memorie The Last Man on the Moon, dal quale è stato tratto un documentario omonimo del libro che racconta la sua vita.
Se vi interessa approfondire, ho scritto: Progetto Apollo “Il sogno più grande dell’uomo” dove troverete i dettagli di tutte le missioni, oltre a interviste e immagini inedite.
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Tracce di microbi nelle rocce marziane?
Perché inviamo sonde verso pianeti lontani e lune ghiacciate? Perché costruiamo telescopi sempre più potenti? Trovare vita intelligente è il sogno di ogni astrofisico. Per adesso gli alieni in carne e ossa ce li possiamo dimenticare, ma gli astrobiologi potrebbero aver invividuato indizi di attività microbiologica passata su Marte, dove un giorno arriverà anche l’uomo. Di recente un gruppo di ricercatori dell’Isafom-Cnr ha pubblicato su International Journal of Astrobiology uno studio in cui vengono evidenziate affinità strutturali tra le microbialiti terrestri – rocce di origine batterica – e i sedimenti marziani non solo sul piano microscopico, ma anche macroscopico.
I due ricercatori italiani Nicola Cantasano e Vincenzo Rizzo dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche di Cosenza (Isafom-Cnr) si sono concentrati su delle fotografie delle rocce marziane provenienti dai rover Opportunity, Spirit e Curiosity (della NASA) e hanno rilevato analogie anche nelle tracce attribuibili alla produzione batterica di gas e di gelatine adesive altamente plastiche.
«Attestato già nel 2009 che le lamine sub-millimetriche dei sedimenti marziani e le cosiddette Blueberry (sferule ematitiche di dimensioni millimetriche) non erano omogenee, ma costituite da aggregazioni strutturali di grumi e microsferule più piccole (da 1 a 3 decimi di millimetro), i primi studi si erano concentrati sulla morfologia delle singole microstrutture, individuando altre interessanti aggregazioni, quali polisferule, filamenti e filamenti intrecciati di microsferule», spiega Cantasano. «L’attenzione si è poi spostata sulla dislocazione di tali microstrutture sul piano di osservazione: la tessitura delle immagini è infatti una sorta di marker genetico che dipende dall’ambiente di sedimentazione e dalla attività batterica. Tale analisi, eseguita su un gruppo di circa 40 coppie di immagini, sia dei rover che di microbialiti museali, ha evidenziato l’esistenza di interessanti trame a filamenti intrecciati, con forti parallelismi morfologici alla stessa scala».
Questi parallelismi microtessiturali sono stati rilevati anche da altre ricerche sviluppate negli ultimi anni. «L’Università di Siena ha avviato un’analisi matematica frattale multiparametrica delle coppie di immagini, i cui risultati confermarono che esse sono identiche», aggiunge Rizzo. «Un ulteriore studio morfologico del Laboratorio de Investigaciones Microbiológicas de Lagunas Andinas-LIMLA su campioni di microbialiti viventi provenienti dal deserto di Atacama (Cile) ha permesso di evidenziare grazie alla pigmentazione organica che tali microstrutture e microtessiture esistono e sono un prodotto dell’attività batterica. Tuttavia, poiché le strutture a scala meso e macroscopica sono considerate discriminanti per il riconoscimento di tali rocce, nello studio attuale l’analisi microscopica è stata integrata da osservazioni sistematiche a scala maggiore. La quantità, la varietà e la specificità dei dati raccolti accreditano per la prima volta, in modo consistente, che le analogie non possono essere considerate semplici coincidenze».
La tecnologia va avanti a passi di gigante e gli strumenti sono sempre più avanzati. I ricercatori hanno inventato telescopi giganti e rover per la ricerca di vita nello spazio, ma finora la vita che conosciamo qui sulla Terra non esiste altrove. Abbiamo chiesto un parere a Filippo Giacomo Carrozzo, ricercatore dell’INAF-IAPS di Roma.
«La probabilità di trovare attività biologica in corso su Marte sono basse perché oggi il pianeta è una Terra piuttosto inospitale. Il problema maggiore sta nella mancanza di uno scudo capace di fermare le radiazioni dannose per la vita. Sui pianeti questo scudo è il campo magnetico che, avvolgendoli, non permette ai raggi cosmici e alle particelle cariche del vento solare di passare. Su Marte questo scudo naturale oggi è praticamente assente, riducendo la superficie ad una Terra sterilizzata», spiega Carrozzo.
Uno dei problemi alla base della mancanza di vita è il freddo, ovviamente dovuto anche alla lontananza dal Sole: «La temperatura media, di gran lunga sotto lo zero, non rappresenta un problema serio; sulla Terra, nelle regioni artiche, alcuni organismi riescono a sopravvivere fino anche a -100°C. Per azionare i processi biologici gli esseri viventi hanno bisogno di energia, sulla Terra la fonte principale è fornita dal Sole. Su Marte, la luce solare arriva con una intensità minore del 56%. Una quantità sufficiente, paragonabile a quella che si ha a poche ore prima del tramonto. Se poi aggiungiamo che esseri viventi possono sopravvivere sfruttando altri tipi di energia come quella chimica, è evidente che questa sul pianeta potrebbe non rappresentare un grosso ostacolo».
Carrozzo sottolinea, inoltre, l’importanza dell’acqua per la vita: «È l’elemento principale, tutti gli organismi viventi ne se sono composti in grandissima parte, il nostro corpo per esempio ne è costituito per il 60% circa. Il detto “dove c’è acqua c’è vita” vale anche per Marte. Sul Pianeta rosso questa molecola, essenziale alla vita, è presente in grande quantità; l’unico ostacolo è rappresentato dal fatto che si presenta sotto forma di ghiaccio o vapore. Tuttavia, la vita dipende in modo decisivo dalla disponibilità di acqua in forma liquida e le condizioni marziane ne permettono l’esistenza in solo per brevissimi istanti. Alla luce di ciò, personalmente credo che, se dobbiamo ricercare la vita su Marte, dobbiamo farlo scavando. È sotto la superficie che potrebbero essersi create delle nicchie di sopravvivenza dove la vita può ancora resistere, lontano dalle estreme condizioni a cui è sottoposta la sua superficie. Le ricerche condotte negli ultimi 30 anni in ambienti estremi sulla Terra hanno mostrato che la vita è in grado di colonizzare praticamente ogni ambiente, basta che sia disponibile energia, acqua liquida e i giusti elementi».
Tornando allo studio del CNR, Carrozzo chiarisce: «Ogni essere vivente è costituito da una moltitudine di biomolecole, ma la maggior parte è composta da pochi elementi: il carbonio, l’idrogeno, l’ossigeno, l’azoto, il fosforo e lo zolfo sono gli elementi base per la creazione delle molecole funzionali alla vita. Sulla Terra sono presenti in abbondanza, su Marte molto meno. Tuttavia, non deve essere stato sempre così. La vita, se è nata quasi contemporaneamente sui due pianeti, circa 4 miliardi di anni fa, può aver avuto la stessa occasione di proliferare. L’ambiente marziano, per una serie di motivi, è purtroppo cambiato nel tempo rendendolo ostile e producendo una landa deserta. Quelle tracce potrebbero però essere sopravvissute. La mancanza di una tettonica a placche, che sulla Terra gioca un ruolo importante nel rimodellare la superficie, potrebbe aver conservato meglio i fossili all’interno delle rocce che aspettano solo di essere raccolte. Nel frattempo quello che possiamo fare è studiare il centinaio di meteoriti che sono stati riconosciuti come campioni di suolo marziano. Al loro interno gli scienziati cercano batteri sotto forma di fossili, biomolecole, o strutture riconducili a prodotti di attività biologica come nel caso del lavoro svolto dai ricercatori italiani Rizzo e Cantasano del CNR».
«I due ricercatori dell’Isafom-Cnr di Cosenza sono solo un esempio dei molti colleghi che si occupano di astrobiologia e di esogeologia in Italia, tra cui quelli in forza all’Istituto Nazionale di Astrofisica», continua Carrozzo. «Da decenni l’Italia gioca un ruolo di primissimo piano nella ricerca di vita al di fuori della Terra. I ricercatori italiani sono impegnati nelle più importanti missioni per l’esplorazione del Sistema Solare e nel futuro il contributo del nostro Paese resta una preziosa risorsa per lo studio dei corpi planetari di interesse astrobiologico come Marte, Europa e Titano. Una nuova frontiera che sta destando sempre più interesse nella comunità scientifica è l’analisi dei pianeti extrasolari. L’impiego dei telescopi di nuova generazione sta riducendo la distanza che ci separa nella comprensione di questi sistemi planetari e nei prossimi anni potrebbe fornire delle importanti risposte sulla vita al di fuori del nostro Sistema solare».
Per saperne di più:
Leggi lo studio. “Structural parallels between terrestrial microbialites and Martian sediments: are all cases of ‘Pareidolia’?”, International Journal of Astrobiology, di Vincenzo Rizzo e Nicola Cantasano
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Juno riprende la Grande Macchia Rossa

La sonda americana Juno ha catturato una nuova fotografia dell’iconica Grande Macchia Rossa, una massiccia tempesta che imperversa nell’atmosfera di Giove da secoli.
Nell’immagine risultano visibili anche alcune delle cosiddette “perle” di Giove — tempeste ovali e biancastre — e una seconda formazione, situata nelle immediate vicinanze della Grande Macchia Rossa e nota come Ovale BA. Questa tempesta si formò nel 2000, in seguito alla fusione di tre formazioni minori.
L’immagine è stata scattata alle 23:30 ora italiana dell’11 dicembre 2016 da una distanza di 458 800 chilometri dal gigante gassoso. La foto originale è stata leggermente alterata da Roman Tkachenko, nell’ambito del programma promosso dalla NASA al fine di coinvolgere il pubblico nell’elaborazione delle immagini scattate dalla fotocamera Junocam a bordo di Juno.
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Leggi anche
La pagina, nel sito della missione, dedicata alla Junocam community, dove la NASA invita il pubblico a partecipare alla missione in vari modi, tra i quali mettendo a disposizione le immagini grezze per l’elaborazione e la trasformazione da parte di chiunque voglia cimentarsi.
Juno è arrivata! Tutto sulla missione alla scoperta dei segreti dell’atmosfera di Giove su Coelum Astronomia di luglio/agosto 2016
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Allineamento Luna, Giove e Spica

Sorgeranno poco dopo la mezzanotte dall’orizzonte est per poi muoversi verso l’orizzonte sud, dove verranno colti dalle prime luci del mattino alti nel cielo (Giove sarà in transito al meridiano, con un’altezza di oltre 40° alle 5:43).
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Tutte le effemeridi di Luna e pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio
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➜ Il Cielo del 2017. Tutti i principali eventi dell’anno che verrà! di Giovanna Ranotto su Coelum di gennaio 2017
➜ La Luna di Gennaio. Osserviamo i crateri Theophilus, Cyrillus e Catharina di Francesco Badalotti su Coelum di gennaio 2017
➜ Fotografare la luce Cinerea della Luna di Giorgia Hofer su Coelum di gennaio 2017
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LE STELLE PIU’ GRANDI Relatore: Stefano Schirinzi (Circolo Culturale Astrofili Trieste).
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Passaggio della ISS nei pressi di Saturno e Mercurio… ma non solo!


Mercurio e Saturno, visibili in coppia al mattino bassi sull’orizzonte sudest per quasi tutto il mese, avranno un motivo in più per essere osservati la mattina del 16 gennaio, quando, attorno alle 6:40 si troveranno in prossimità dell’ultimo tratto del passaggio della Stazione Spaziale Internazionale, che subito dopo sparirà sotto l’orizzonte.

Il Centro e il Sud Italia saranno avvantaggiati per la luminosità della Stazione Spaziale, che brillerà di magnitudine circa –3,2, e per il passaggio ravvicinato ai due pianeti (dal Centro Italia si vedrà passare proprio in mezzo, dal Sud poco a est di Mercurio).
Il Nord Italia invece vedrà una ISS meno luminosa (mag. –2,6) ma potrà osservarla, nel primo tratto del suo percorso, passare nei pressi prima della Luna e quindi di Giove, per poi tramontare sempre a pochi gradi di distanza a ovest di Saturno e Mercurio.
Per pochi fortunati dell’estremo Nord sarà anche un transito sul disco lunare! Controllate le circostanze esatte dalla vostra posizione.
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#citizenscience: Einstein@Home trova nuove pulsar gamma

Le stelle sono tante, milioni di milioni, ma quelle di neutroni sono anche difficili da scovare. Soprattutto se si va a “spigolare” là dove si è già rastrellato quasi tutto quel che aveva da offrire il campo celeste. Un articolo appena pubblicato su Astrophysical Journal presenta ora il nuovo raccolto realizzato grazie al progetto di calcolo distribuito Einstein@Home nell’archivio dati del telescopio spaziale Fermi, il satellite della NASA dedicato allo studio della radiazione gamma di alta e altissima energia, cui l’Italia collabora con ASI, INAF e INFN.
Un’analisi che avrebbe preso più di un migliaio di anni su un singolo computer, in meno di un anno ha infatti permesso di trovare più di un dozzina di nuove pulsar – stelle di neutroni in rapida rotazione – nei dati di Fermi. Grazie alla potenza di calcolo donata da volontari di Einstein@Home, un’equipe internazionale guidata da ricercatori dell’Istituto Max Planck per la fisica gravitazionale di Hannover, in Germania, ha setacciato l’archivio alla ricerca della periodicità, caratteristica rivelatrice di una pulsar, in 118 sorgenti gamma di natura sconosciuta rilevate da Fermi.

Al centro di 13 di queste sorgenti è stata individuata una pulsar. Tutte queste stelle superdense sono risultate giovani, astronomicamente parlando, con età comprese tra decine e centinaia di migliaia di anni. Due ruotano in modo sorprendentemente lento, più lento rispetto a qualsiasi altra pulsar in raggi gamma nota. Un’altra ha fatto registrare un “sobbalzo”, un cambiamento improvviso di origine sconosciuta nella sua rotazione, altrimenti regolare.
«Abbiamo scoperto tante nuove pulsar per tre ragioni principali: l’enorme potenza di calcolo fornita da Einstein@Home, lo sviluppo di nuovi e più efficienti metodi di ricerca, e l’utilizzo di dati Fermi-LAT recentemente migliorati», commenta Colin Clark dell’Istituto Max Planck, primo autore della nuova ricerca. «L’insieme di questi tre elementi ha fornito una sensibilità senza precedenti per il nostro grande campionamento su oltre 100 sorgenti del catalogo Fermi-LAT».
Le stelle di neutroni sono i residui compatti di esplosioni di supernova e consistono di materia estremamente densa. A causa dei loro intensi campi magnetici e della rotazione estremamente veloce, emettono fasci di onde radio e di raggi gamma, che, se sono sufficientemente direzionati verso la Terra, rendono visibile la stella di neutroni una o due volte per rotazione, da cui il nome pulsar.
Rintracciare queste pulsazioni periodiche è molto difficile per le pulsar in raggi gamma. In media solo una decina di fotoni gamma al giorno sono rilevati per una pulsar tipica dal Large Area Telescope, strumento a bordo di Fermi. Per determinare la periodicità, devono essere analizzati anni di dati, durante i quali la pulsar ruota miliardi di volte. Per ogni fotone si deve determinare esattamente quando, durante una singola rotazione di una frazione di secondo, è stata inviato. Si può facilmente intuire come la potenza di calcolo necessaria per queste ricerche “alla cieca”, quando poche o nessuna informazione sulla pulsar è nota in anticipo, sia enorme. Grazie al progetto Einstein@Home, negli ultimi quattro anni sono state scoperte 21 pulsar in raggi gamma, più di un terzo di tutte quelle scoperte con tecniche di blind search.
«All’inizio della missione Fermi, quando l’unica pulsar gamma senza emissione radio era Geminga, mi era sembrato impossibile che fosse così facile scoprire, solo grazie ai dati gamma, una dozzina di nuove pulsar» commenta Patrizia Caraveo, responsabile per INAF dello sfruttamento scientifico dei dati Fermi LAT e direttrice dell’Istituto di Fisica Cosmica dell’INAF di Milano. «Ma era solo la prima scrematura, che aveva evidenziato gli oggetti più brillanti. Poi il lavoro è continuato e, quando il tasso di scoperta è stato rallentato dalla limitazione della potenza di calcolo, i colleghi tedeschi hanno iniziato a sfruttare le potenzialità del calcolo distribuito organizzato nel sistema Einstein@Home. I risultati sono stati strabilianti e, con l’ultimo annuncio di 13 nuove pulsar gamma senza emissione radio, la famiglia delle sorgenti simili a Geminga tocca quota 70. Un numero che non avrei mai osato nemmeno immaginare».
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Congiunzione Venere e Nettuno

La sera del 12 gennaio alle ore 20:25 il pianeta Venere (mag. –4,4) e il remoto Nettuno (mag. +7,9) si incontreranno (ovviamente da un punto di vista puramente prospettico, si intende) in una bella e stretta congiunzione.
Nettuno sarà osservabile solo attraverso l’uso di uno strumento, per la sua bassa luminosità, ma lo si troverà a soli 24′ da Venere.
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Nella costellazione del Cigno comparirà una nuova stella


Le stelle, come tutto l’Universo, sono in continua evoluzione anche se noi esseri umani, che a malapena viviamo 100 anni, molto raramente possiamo assistere a evidenti cambiamenti del nostro cielo. È ancora più raro poi riuscire a prevedere con precisione dove e quando possa avvenire una di quelle trasformazioni sconvolgenti che in pochi secondi possono segnare il destino di una stella e l’aspetto di una costellazione. L’emblema di questa snervante incertezza è rappresentato da Betelgeuse, brillante supergigante rossa della costellazione di Orione, la migliore candidata a esplodere come supernova. Tutta la comunità scientifica è infatti d’accordo nell’affermare che la terribile esplosione che porrà fine alla sua vita è imminente e sarà tanto energetica da rendersi visibile per mesi, persino di giorno, come fosse un secondo, lontano Sole. Imminente, però, significa che può accadere in ogni momento da qui ad almeno 50 mila anni nel futuro. Se per l’Universo è un battito di ciglia, per noi diventa un tempo difficile da tollerare.
Per nostra fortuna la scienza non smette di fare passi in avanti e le cose stanno lentamente cambiando. Non siamo in grado di dire a che ora esploderà Betelgeuse, ma sembra che possiamo rimettere l’orologio su un evento che, se si verificherà, sarà di certo la spettacolare conferma dell’avanzamento delle nostre conoscenze dei sistemi binari e ci regalerà per qualche mese una nuova, brillante stella nel cielo.

Nella costellazione dei Cigno, in quel campo di centinaia di migliaia di stelle osservate in 3 anni dal telescopio spaziale Kepler, alla caccia di pianeti extrasolari di taglia terrestre, è stato trovato un sistema molto raro e altrettanto interessante. Chiamato secondo la sterile nomenclatura scientifica KIC 9832227, è un sistema formato da due stelle di massa simile che orbitano vicinissime le une alle altre. E vicinissime vuol dire che le orbite sono tanto strette che gli astri condividono già l’atmosfera e parte degli strati superficiali; tanto vicine che la reciproca forza mareale è così forte da averle allungate come se fossero una goccia d’acqua in bilico su un fiore che si guarda allo specchio prima di cadere. Nel gergo scientifico sono dette binarie a contatto, sistemi abbastanza comuni, ma queste sono talmente in contatto che il loro destino sembra già ben delineato con una precisione che fino a questo momento non ha avuto problemi.

I due astri ruotano attorno al comune centro di massa, quel punto che tanto cerchiamo quando vogliamo tenere in equilibro un cucchiaio sul nostro dito. Le orbite, però, non sono più stabili. Le atmosfere stellari in contatto stanno rallentando il moto di entrambe le componenti, così che la distanza reciproca diminuisce velocemente nel tempo. A un certo punto si arriverà al contatto finale: le due stelle entreranno in collisione con gli strati più densi e quando questo accadrà i due sistemi si fonderanno in un unico oggetto. Questo raro evento di fusione tra due astri centinaia di volte più grandi del nostro pianeta innescherà dei violenti processi di fusione nucleare, nient’altro che una gigantesca esplosione, o una serie di esplosioni miliardi di miliardi di volte più potenti della più terribile bomba termonucleare mai concepita dall’uomo. Il fenomeno è chiamato nova rossa (red nova in inglese) ed è ancora avvolto dal mistero poiché sono pochissimi i fenomeni osservati associabili a un evento del genere.
Quello che sembra probabile è che la fusione di due stelle inneschi un’esplosione la cui luminosità è inferiore a quella di una supernova ma superiore a quella di una nova classica. Le novae, ben conosciute e studiate, sono nane bianche che accrescono materia da parte di una stella compagna vicina. Quando sulla superficie della nana bianca se ne accumula in quantità sufficiente, questa si fonde tutta insieme, producendo una violenta esplosione termonucleare. La nana bianca non viene distrutta e continua di solito a risucchiare materia, quindi il fenomeno di nova è in genere periodico. Una nova rossa, invece, è un evento che avviene una sola volta per un sistema e produce una luce dal colore rosso.
Sebbene avvolte nel mistero, quello che più interessa a chi si vuole godere lo spettacolo non è poi così misterioso. Nel 2008 è stata osservata una rara nova rossa a seguito della fusione delle stelle del sistema V1309 Scorpii. L’aumento di luminosità è stato di circa 10 magnitudini, ovvero 10 mila volte. KIC 9832227 è distante circa 1700 anni luce a al momento brilla di magnitudine 12. Se durante la fusione e l’esplosione come nova rossa aumenterà la sua luminosità come V1309 Scorpii, potrebbe diventare luminosa quanto la stella polare. In pratica, per qualche mese in cielo avremo una stella nuova che ridisegnerà i connotati della costellazione del Cigno.

Quando è prevista la comparsa di questa luminosa “stella” temporanea?
Qui il capolavoro è tutto scientifico. Osservando per anni questo peculiare oggetto e le variazioni nel periodo orbitale delle due stelle, Larry Molnar e i suoi colleghi del Calvin College in Grand Rapids, Michigan, hanno concluso che nel febbraio del 2022 le due stelle si fonderanno e innescheranno la grande esplosione chiamata nova rossa. L’incertezza nella predizione è di circa 6 mesi, un errore accettabile per le nostre vite, non come quella che accompagna la fine di Betelgeuse! Molnar e colleghi hanno sottoposto il loro studio completo ad Astrophysical Journal. Per chi fosse curioso di capire meglio cosa sono queste ancora misteriose novae rosse e come hanno operato i ricercatori per arrivare a questa intrigante predizione, consiglio di consultare l’articolo. Anche se lungo e difficile da comprendere, rappresenta sempre un’ottima occasione per capire come opera la scienza, proponendo ferree prove oggettive e verificabili nella spiegazione di qualsiasi evento. Non è, forse, un operato che ci tornerebbe molto utile anche nella vita di tutti i giorni, invece di scatenare guerre d’opinione basate sul nulla?
Scriviamo quindi un bel promemoria da qualche parte ma restiamo aggiornati. I calcoli di Molnar sembrano al momento corretti, ma non possiamo avere la certezza che abbia ragione, perché non conosciamo a fondo le caratteristiche del sistema KIC 9832227, né come reagiscono due astri che stanno sul punto di fondersi. In ogni caso, a meno di avere una sfortuna colossale, tra qualche anno avremo per qualche tempo una nuova stella e sarà un evento unico. Non ricapiterà mai più nella storia della Terra, figuriamoci quindi nella nostra, assistere alla comparsa di una nova rossa tanto brillante da decorare come un prezioso rubino celeste l’ala destra della meravigliosa costellazione del Cigno.
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Per saperne di più
Lo studio pubblicato sul sito del Calvin College, e sottoposto all’Astrophysical Journal
Il poster di presentazione, sempre sul sito del Calvin College, delle principali evidenze che hanno portato a considerare KIC 9832227 candidata nova rossa
Per approfondire le vostre conoscenze in astronomia, sia come scienza che come pratica amatoriale, non possiamo che consigliare la lettura dei libri dell’autore di questo articolo, Daniele Gasparri ➜ nel suo blog un’offerta da non perdere!
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Hubble e le Voyager uniscono le forze

Mentre le Voyager proseguono il loro incredibile viaggio, iniziato quarant’anni fa, oltre il Sistema Solare, il telescopio spaziale Hubble mappa la strada che le sonde si troveranno davanti. La combinazione dei dati forniti dalle due missioni sta fornendo importanti indizi su come il nostre Sole viaggia attraverso lo spazio interstellare.
«Si tratta di una grande opportunità per confrontare i dati delle misure in situ delle Voyager con quelli di Hubble», ha detto Seth Redfield della Wesleyan University di Middletown (Connecticut), a capo della ricerca.
«Le Voyager stanno campionando piccole regioni dello spazio nel loro viaggio, ma non abbiamo idea se le caratteristiche di queste aree sono tipiche o rare. Hubble ci fornisce una visione d’insieme e contestualizza i dati delle Voyager». Con le osservazioni di Hubble si spera quindi di arrivare a caratterizzare le proprietà fisiche del mezzo interstellare locale.
Le due sonde veterane dello spazio stanno ora attraversando il bordo più esterno dell’eliosfera, al confine del dominio solare.
La Voyager 1 è in testa, per così dire, e ha iniziato ad assaggiare lo spazio interstellare, la regione tra le stelle piena di gas, polvere e materiale espulso durante gli eventi catastrofici. La navicella si trova a più di 20 miliardi di chilometri dalla Terra ed è di fatto l’oggetto più lontano costruito dall’uomo. Tra 40.000 anni circa, quando ormai non sarà più operativa, passerà a 1,6 anni luce della stella Gliese 445 nella costellazione Giraffa.
La gemella Voyager 2, invece, si trova a 17 miliardi di chilometri dalla Terra. Punta in direzione della stella Ross 248, nella costellazione di Andromeda, dalla quale passerà a 1,7 anni luce sempre tra 40.000 anni circa mentre tra 296.000 anni raggiungerà Sirio, la stella più brillante dei nostri cieli.

Ma intanto, per i prossimi 10 anni le sonde misureranno, lungo il loro percorso, il mezzo interstellare, i campi magnetici e i raggi cosmici, mentre Hubble completerà queste informazioni mappando la struttura interstellare dell’itinerario, analizzando con lo spettrografo di bordo come il mezzo interstellare assorbe la luce proveniente dalle stelle di sfondo.
Hubble ha scoperto che la Voyager 2 finirà fuori dalla nube interstellare che circonda il Sistema Solare in un paio di migliaia di anni. In base a questi dati, gli astronomi prevedono che il veicolo spaziale trascorrerà 90.000 anni in una seconda nuvola per passare poi in una terza. Le informazioni che la sonda potrebbe raccogliere sarebbero estremamente utili e rivelare variazioni negli elementi chimici e origini diverse.
Una prima analisi della composizione delle nubi, infatti, rivela lievi variazioni nella percentuale di elementi chimici presenti. «Queste variazioni potrebbero significare che le nubi interstellari si formano in modi diversi, o in aree diverse per poi riunirsi» ha detto Redfield.
Dai dati di Hubble i ricercatori ipotizzano che il Sole stia passando attraverso un agglomerato di materiale che potrebbe influenzare la sua eliosfera, quella grande “bolla” che contiene il nostro Sistema solare e che viene prodotta dal potente vento solare della nostra stella. Al confine dell’eliosfera, chiamato eliopausa, il vento solare continua a spingere verso l’esterno contro il mezzo interstellare.
Le osservazioni di Hubble e Voyager 1 si stanno spingendo oltre questo confine, dove è presumibile che l’ambiente interestellare sia influenzato dai venti provenienti da altre stelle: «Sono davvero incuriosito dall’interazione tra le stelle e l’ambiente interstellare», confida Redfield, «questi tipi di interazioni si verificano intorno a gran parte delle stelle e si tratta di un processo dinamico». La nostra eliosfera infatti si comprime quando il Sole si muove attraverso una zona di mezzo interstellare più denso, e si espande quando invece si trova in una zona meno densa, variazioni dovute anche alla pressione del vento stellare esterno e alla composizione del mezzo interstellare attorno alle altre stelle.
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