I lampi radio veloci sono misteriosi segnali radio provenienti da altre galassie. La loro distanza implica una sorgente d’emissione incredibilmente potente e ci ha impedito finora di avere una chiara idea sulle loro origini. Inoltre, i lampi radio veloci possono essere usati per studiare l’Universo grazie all’interazione dei loro segnali con la materia nel cosmo. Nuovi strumenti appositamente costruiti stanno permettendo di capire sempre meglio questi enigmatici segnali e di utilizzarli per indagare l’Universo.
Data: 18 Febbraio 2021 Orario: 21.30 (UTC+1) A cura di: Ivan Delvecchio – Associazione AstronomiAmo Ospite: Daniele Michilli – Laurea presso Università la Sapienza di Roma, consegue il Dottorato di Ricerca nel 2018 presso ASTRON all’Università di Amsterdam, con una tesi sulla scoperta e caratterizzazione di sorgenti radio transienti. Dal 2018 ad oggi è postdoc presso l’Università McGill a Montréal (Canada) e lavora su osservazioni di segnale polarizzato proveniente da fast radio burst (FRB, o “lampi radio veloci”) all’interno della collaborazione CHIME/FRB. Esperto di questi fenomeni ancora poco conosciuti, ha ricevuto enorme visibilità grazie all’identificazione del primo FRB periodico (FRB 121102) finora rivelato, che gli è valsa la copertina della prestigiosa rivista Nature. Per la sua ricerca, adopera dati da numerosi telescopi radio (VLA, EVN, LOFAR, ecc), incluso il compianto Arecibo che è stato fondamentale proprio per la scoperta di FRB121102.
Desideriamo ricordare che sono ripresi in videochat i nostri tradizionali incontri del giovedì, a partire dalle ore 21:00, secondo il programma pubblicato sul nostro sito www.astrofilipc.it nella sezione “Attività”.
Saranno poi organizzate alcune interessanti conferenze tenute da alcuni nostri soci laureati in astronomia, secondo il seguente calendario:
18 febbraio 2021: relazione dal titolo “Le stelle pulsar” (a cura di Patrizia Bussatori)
Analisi del segnale per la rivelazione delle onde gravitazionali con la Prof.ssa Pia Astone (Università degli Studi La Sapienza di Roma – Collaborazione LIGO-Virgo)
Webinar: 18 febbraio: Fast Radio Burst con il Dr. Daniele Michilli
Classica congiunzione comoda da osservare quella proposta per la tarda serata del 18 febbraio. Alle ore 22:20, guardando verso ovest, potremo vedere una falce di Luna (fase del 41%) avvicinarsi a 4° 35’ a sudest del pianeta Marte (mag. +0,8). I due astri, che si troveranno entro i confini della costellazione dell’Ariete, saranno alti 22° 54’ (Luna) e 26° 40’ (Marte) sull’orizzonte, guardando esattamente a ovest.
Se volessimo immortalare questo incontro in fotografia, dovremo scegliere dei soggetti del paesaggio circostante che si sviluppino in altezza (come ad esempio dei palazzi o degli alberi) oppure il consiglio è quello di attendere che Luna e Marte si siano avvicinati maggiormente all’orizzonte (attendendo ad esempio le 23:30) in modo da “giocare” con i due soggetti per creare interessanti composizioni che coinvolgano anche il paesaggio naturale.
Continua la settimana più trafficata dell’anno per il pianeta rosso. Dopo l’arrivo in orbita della sonda emiratina Hope, il veicolo cinese Tainwen-1 ha eseguito con successo l’ingresso in orbita marziana nel corso della mattinata del 10 febbraio 2021. Il suo viaggio, praticamente parallelo a quello della sonda Hope, è durato circa 7 mesi e si è concluso senza particolari inconvenienti.
— Ambasciata Repubblica Popolare Cinese in Italia (@AmbCina) February 10, 2021
Sono state eseguite quattro manovre correttive, l’ultima delle quali pochi giorni fa, e una manovra orbitale prestabilita per assicurare una corretta direzione di inserimento nel campo gravitazionale di Marte. Dopo l’ingresso nella sfera di influenza del pianeta rosso, Tianwen-1 ha quindi eseguito un rallentamento per entrare nella capture orbit, accendendo i propulsori per 15 minuti in prossimità del perigeo della traiettoria iperbolica che ha caratterizzato l’ingresso nella sfera di influenza del pianeta (SOI). A causa del ritardo di circa 10 minuti nelle comunicazioni dovuto alla grande distanza, la sonda ha eseguito autonomamente la manovra di rendez-vous sulla base delle istruzioni precedentemente inviate dal Beijing Aerospace Control Center. L’orbita di cattura, di forma ellittica, è caratterizzata da una minima altitudine al perigeo di 400 chilometri, un’inclinazione di 10° e un periodo di circa 10 giorni terrestri.
La missione ha rappresentato fino a oggi un totale successo, considerate le incertezze iniziali circa l’effettiva efficienza del lanciatore Lunga Marcia 5. È stata inoltre un’ottima occasione di collaborazione tra la CNSA, l’agenzia spaziale cinese, e numerose agenzie straniere: ESA, CNES (Francia), CONAE (Argentina) e FGG (Austria).
I primi scatti di #Marte da parte di #Tianwen1 quando si trovava a 2,2 milioni di km dal pianeta. Ora la sonda cinese si trova a 1,1 milioni di km, l'inserzione in orbita è prevista per mercoledì 10 febbraio. https://t.co/4exaYAMkx1
Per la prima volta nella storia dell’esplorazione di Marte è stata eseguita una missione comprensiva di orbiter, lander e rover. Il lander si separerà dall’orbiter fra circa due mesi, ovvero il tempo necessario per eseguire accurati rilevamenti dalla capture orbit e individuare il luogo di atterraggio. Ad oggi si ipotizza di atterrare nel mese di maggio nella parte meridionale dell’Utopia Planitia, già nota per i precedenti atterraggi del lander Viking 1 e del rover Pathfinder della NASA.
Nel frattempo è in atto un “sondaggio” che consentirà ai cittadini cinesi di decidere il nome del rover.
Obiettivi della missione
Il rover, alimentato a energia solare, studierà le caratteristiche morfologiche e chimiche del suolo marziano e la potenziale presenza di ghiaccio negli strati sotterranei mediante uno strumento radar. È inoltre dotato di camere panoramiche o multispettrali ad alta risoluzione, nonché di strumenti per analizzare la composizione delle rocce. L’orbiter, equipaggiato invece con sonar, camere ad alta risoluzione, magnetometro e rilevatore di particelle, avrà il compito di studiare la superficie marziana “a distanza”.
Esplorazioni alle sorgenti del Big Bang. 50 anni fa l’Apollo 14. Stazione Spaziale Internazionale: 20 anni di ricerca nello spazio.Coelum Astronomia di Febbraio 2021
è online, come sempre in formato multimediale digitale, scaricabile e stampabile in pdf e totalmente gratuito.
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La reazione del team all'arrivo di Mars Hope: diretta Dubai One.
“Una foto in bianco e nero di Marte scattata da Tianwen 1, la prima istantanea del velivolo cinese. Foto fornita dalla China National Space Administration
Dopo circa sette mesi di viaggio interplanetario e una serie di manovre correttive, la sonda al-Amal, in inglese Mars Hope, è arrivata in orbita marziana. Il rendez-vous con il pianeta rosso è stato completato il 9 febbraio alle ore 16:15 UTC. Il veicolo è efficacemente entrato in orbita marziana dove effettuerà per i prossimi 687 giorni terrestri (ovvero un periodo orbitale di Marte) studi relativi all’atmosfera del pianeta, alla sua evoluzione nel tempo e ai possibili scenari futuri.
La reazione del team all'arrivo di Mars Hope: diretta Dubai One.
Con l’arrivo in orbita marziana dell’Emirate Mars Mission (EMM) gli Emirati Arabi Uniti diventano il quinto promotore di missioni senza equipaggio su Marte, dopo gli Stati Uniti, la Russia, l’Unione Europea e l’India. La missione rappresenta inoltre un importantissimo traguardo per il Mohammed bin Rashid Space Centre (MBRSC) sotto un profilo scientifico-culturale. Come dichiarato dallo sceicco Mohammed Rashid Al Maktoum, primo ministro degli Emirati Arabi Uniti, il successo della missione (oltreché il nome stesso) rappresenta un messaggio di speranza e ottimismo nei confronti di tutta la comunità scientifica del paese.
Prossima missione in arrivo oggi è invece la sonda spaziale cinese Tianwen-1. In viaggio verso Marte dallo scorso 23 luglio, ha iniziato a scattare immagini in bianco e nero del pianeta a distanza ravvicinata (in apertura vediamo la prima di queste immagini), a testimonianza dell’arrivo della sonda nei pressi del pianeta.
Crediti: W. X. Wan et al. Nature Astronomy 2020
Tianwen 1, è la prima missione indipendente su Marte della Cina, è stata lanciata da un razzo da trasporto pesante Long March 5 dal Wenchang Space Launch Center nella provincia di Hainan, e ha volato per 197 giorni e più di 465 milioni di chilometri nel suo viaggio verso il pianeta, dando il via al programma di esplorazione planetaria della nazione.
Da quanto comunicato dalla China Aerospace Science and Technology Corp, il principale appaltatore spaziale della nazione, condurrà un’operazione di “frenata” per decelerare e assicurarsi di venire catturata dalla gravità marziana, oggi 10 febbraio.
L’amministrazione spaziale, in precedenza, aveva dichiarato che se tutto fosse andato secondo i programmi, la sonda da 5 tonnellate metriche – formata da due parti principali, l’orbiter e la capsula di atterraggio – entrerà nell’orbita marziana oggi 10 febbraio attorno alle 13 (ora italiana), quando sarà a 193 milioni km dalla Terra.
Il veicolo spaziale ha già effettuato quattro correzioni a metà rotta e una manovra orbitale nello spazio profondo.
L’obiettivo finale della missione è far atterrare un rover sulla parte meridionale dell’Utopia Planitia di Marte – una vasta pianura all’interno di Utopia, il più grande bacino di impatto riconosciuto nel sistema solare – per condurre indagini scientifiche. il rilascio però, sicuramente la fase più rischiosa e ambiziosa della missione, è programmato per il mese di maggio. Ricordiamo infatti che l’atterraggio sul pianeta rosso non è semplice come si può pensare, nonostante le numerose missioni inviate…
Per saperne di più sulla missione, se ancora non l’avete letto, non perdete l’articolo Il Programma spaziale cinese e la corsa verso Martedi Elisabetta Bonora (aliveuniverse.today), uscito su Coelum Astronomia 246 in occasione della partenza della missione.
Sono tre le missioni in arrivo sul pianeta rosso in questi giorni, la terza e ultima ad arrivare, il 18 febbraio, sarà forse anche la più attesa e quella che ci terrà con il fiato sospeso fino all’ultimo: Perseverance il rover della NASA, pronto a scendere sulla superficie marziana per far fare un passo in più alla ricerca di tracce di vita microbica nel passato del pianeta. Ve ne parleremo in modo più approfondito nei prossimi giorni, ma intanto, per prepararvi potete leggere l’articolo sempre di Elisabetta Bonora “Perseverance. Conosciamo il nuovo rover in partenza per Marte” pubblicato sempre su Coelum Astronomia 246 e sempre in occasione della partenza.
Esplorazioni alle sorgenti del Big Bang. 50 anni fa l’Apollo 14. Stazione Spaziale Internazionale: 20 anni di ricerca nello spazio.
Coelum Astronomia di Febbraio 2021
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Lanciata il 19 luglio 2020, Mars Hope (conosciuta anche come Emirates Mars Mission o con il suo nome originale مسبار الأمل , Al Amal), si inserirà in orbita attorno a Marte alle 16:41 (ora italiana) di martedì 9 febbraio.
Per essere catturata correttamente dal campo gravitazionale marziano, Hope dovrà rallentare da 121mila a 18mila chilometri orari: un obiettivo che potrà raggiungere accendendo i suoi sei motori delta-V per 27 minuti. Questi motori sono già stati testati nel corso di alcune piccole manovre di correzione alla traiettoria della sonda, tuttavia l’inserimento orbitale resta il momento più rischioso dopo il lancio, in cui un errore si può pagare a caro prezzo. Per esempio, mancando il pianeta o schiantandosi sulla sua superficie, entrambi incidenti ben documentati nella storia dell’esplorazione marziana.
A causa della distanza di circa 11 minuti-luce che ci separa da Marte, tale da rendere impossibile un pilotaggio manuale da parte degli operatori di missione, la manovra di inserimento orbitale sarà integralmente automatica. Se ci saranno problemi, la sonda li dovrà risolvere autonomamente. «Quando vedremo l’accensione dei motori, la manovra sarà già completa a metà», ha detto Pete Withnell, programme manager di missione, durante una conferenza stampa. «Siamo osservatori, e vedremo cosa sarà successo, ma non potremo interagire in tempo reale».
L’orbita finale prevista per Hope, che verrà raggiunta alcuni mesi dopo l’inserimento di martedì, sarà compresa tra 28mila e 43mila chilometri di altitudine: una distanza ideale per scansionare il pianeta in maniera integrale, compito che Hope eseguirà ogni nove giorni per almeno un anno marziano (687 giorni terrestri.
La sonda Hope nei laboratori del Mohammed bin Rashid Space Centre. Crediti: Mbrsc
L’obiettivo principale della missione è monitorare la meteorologia e la climatologia marziana con i suoi tre strumenti scientifici. Emirs (Emirates Mars Infrared Spectrometer) è uno spettrometro infrarosso pensato per lo studio degli scambi di energia che avvengono nella bassa atmosfera e che ne guidano la dinamica globale. Exi (Emirates Exploration Imager) è invece una camera ad alta risoluzione – fino a 4K – che lavorerà alle frequenze visibili e ultraviolette e che sarà in grado di ottenere un dettaglio sulla superficie fino a 8 chilometri. Emus (Emirates Mars Ultraviolet Spectrometer), infine, è uno spettrometro ultravioletto per lo studio delle specie chimiche negli strati più alti dell’atmosfera, al di sopra dei 100 chilometri di altitudine.
Per saperne di più e seguire il countdown in tempo reale:
50 anni fa, oggi 5 febbraio, Alan Shepard ed Edgar Mitchell furono la terza coppia di astronauti a camminare sulla Luna, mentre Stuart Roosa li attendeva in orbita lunare per riportarli a casa.
Il platano Moon Tree piantato nel 1975 nel parco della Mississippi State University. L’albero è genitore di numerosi alberi di seconda generazione chiamati “Half Moon Tree”. Credits: NASA/Will Bryan
Roosa però non era solo nel modulo di comando, portava con sé mezzo migliaio di semi di cinque diverse varietà di alberi. Liquidambar styraciflua, pini Taeda, sequoie, abeti di Douglas e platani americani, tutte piante imponenti e robuste, sottoposte all’assenza di gravità (microgravità) e alle radiazioni di un viaggio tra la Terra e la Luna.
«Gli storici viaggi del programma Apollo avevano a che fare con esplorazioni ardite e incredibili scoperte scientifiche», dichiara Brian Odom, capo storico della NASA. «L’Apollo 14 includeva la più ampia gamma di esperimenti scientifici fino a quel punto nel programma, ma nel caso dei “Moon Trees” di Roosa, ha avuto a che fare con qualcosa che gli astronauti hanno portato con sé nel loro viaggio lunare e che è poi ha lasciato un segno indelebile nel paesaggio tornando a Terra».
In formato digitale e gratuito: clicca sull’immagine e leggi!
Qui vi raccontiamo la storia di questi alberi, e di come la NASA stia cercando di rintracciarli!
L’esperimento fu uno sforzo congiunto tra la NASA e il servizio forestale degli Stati Uniti. Aveva lo scopo di determinare gli effetti dello spazio profondo sui semi, ma anche il compito di sensibilizzare l’opinione pubblica sul servizio forestale e sul lavoro dei vigili del fuoco forestali, chiamati smokejumpers. Lo stesso Roosa, prima di diventare un aviatore militare e un astronauta, prestò servizio come smokejumper negli anni ’50, saltando giù dagli aeroplani per combattere gli incendi nelle grandi foreste.
Ad inventare il concetto alla base del progetto dei Moon Tree, così vengono chiamati gli alberi nati da quei semi, fu Ed Cliff, capo del servizio forestale. Cliff conosceva Roosa dai tempi del suo servizio nel corpo dei vigili del fuoco forestali, e contattò l’astronauta per proporre l’idea. Stan Krugman, un genetista del servizio forestale, venne incaricato del progetto e selezionò i semi che avrebbero volato fino all’orbita lunare dell’Apollo 14.
Prima del rientro dalla missione, il contenitore purtroppo si ruppe durante i processi di decontaminazione e i semi vennero mescolati insieme e vennero esposti al vuoto dello spazio, dal quale il contenitore doveva ripararli. L’esperimento era compromesso, e si temè anche che i semi fossero tutti morti e non potessero più germinare. Vennero comunque inviati agli uffici del servizio forestale a Gulfport, Mississippi e Placerville, in California, per vedere se qualcuno ce l’avesse fatta… germogliarono e furono fatti crescere in serra circa 450 alberelli!
Il Moon Tree di Washington Square, a Filadefia, attorno al 2000, quando ancora era in vita e in buone condizioni. Courtesy of Christopher Palmer
I Moon Tree sopravvissuti sono stati donati a membri del Congresso e ambasciatori stranieri e, tra il 1975 e i primi anni ’80, a scuole, università, parchi e uffici governativi, molti nell’ambito delle celebrazioni del bicentenario degli Stati Uniti nel 1976. Il primo Moon Tree mai piantato è stato un platano americano a Washington Square a Filadelfia, in Pennsylvania, nel 1975 proprio in preparazione per il Bicentenario degli Stati Uniti nel 1976. In un telegramma alle cerimonie per la semina dell’albero lunare del Bicentenario degli Stati Uniti, l’allora presidente Gerald Ford dichiarò: «Questo albero che è stato portato dagli astronauti Stuart Roosa, Alan Shepard ed Edgar Mitchell nella loro missione sulla Luna, è un simbolo vivente dei nostri spettacolari risultati umani e scientifici. È il giusto tributo al nostro programma spaziale nazionale che ha tirato fuori il meglio del patriottismo, della dedizione e della determinazione americana per il successo».
L’albero originale è però morto nel 2008 e nel 2011 si è cercato di rimpiazzarlo con un suo clone. Purtroppo il clone non è cresciuto bene, ed è quindi stato rimosso nel 2019, ma la placca originale rimane ancora, con l’intenzione di piantare un altro clone dello stesso albero.
La targa del Moon Tree a Cape Canaveral. Images courtesy of Lane Hermann.
Ne possiamo visitare uno al Kennedy Space Center, a Cape Canaveral in Florida, mentre un albero di Douglas svetta nel Washington State Capitol Campus, vicino alla fontana Tivoli, a Olympia, Washington DC. Altri alberi furono piantati in Brasile, in Svizzera e presentati, tra gli altri, all’imperatore del Giappone. Per lo più i luoghi sono stati scelti per garantire condizioni climatiche adeguate alle rispettive varietà di alberi. Alcuni alberi sono stati piantati accanto alle loro controparti coltivate sulla Terra, ma esattamente dove sono stati piantati tutti quegli “Alberi della Luna” è andato perduto nel tempo. La NASA sta cercando di localizzare e documentare gli alberi non ancora rintracciati, per scoprire se ce ne sono altri di vivi e le loro condizioni.
Dave Williams, scienziato della NASA al Goddard Spaceflight Center, è riuscito a documentare la posizione di circa 80 di questi alberi, e sta ora invitando gli americani a segnalare se è a conoscenza della posizione, o se ha partecipato alla cerimonia di semina, di un Moon Tree per ampliare la lista.
La mappa dei Moon Tree ad oggi noti. Credits: NASA
Dopo decenni di crescita, non si nota alcuna differenza evidente tra gli alberi cresciuti dai semi “lunari” e quelli che non hanno mai lasciato la Terra. Gli alberi di seconda generazione, cresciuti dai semi di Moon Tree, sono chiamati Half-Moon Trees e crescono anche loro in tutto il mondo. Uno di questi Half-Moon Tree è di casa al Marshall Space Flight Center della NASA a Huntsville, Alabama, all’esterno di un edificio che ha svolto un ruolo chiave nello sviluppo del razzo Saturn V che ha lanciato la missione Apollo 14.
Con la NASA che, assieme ai suoi partner internazionali, industriali e accademici si sta preparando a riportare gli esseri umani sulla Luna, con il programma Artemis, comprendere gli effetti dello spazio profondo sulla crescita delle piante è fondamentale. Gli astronauti che andranno sulla Luna e, in seguito, su Marte saranno troppo lontani dalla Terra per contare su regolari missioni di rifornimento di beni alimentari, e dovranno quindi essere in grado di coltivare alimenti freschi in autonomia.
Vent’anni di Stazione Spaziale Internazionale su Coelum Astronomia di febbraio 2021. Clicca sull’immagine e leggi!
Si può dire che gli esperimenti che stanno studiando la crescita di varie piante e raccolti, sulla Stazione Spaziale Internazionale, hanno nell’Apollo 14 le loro radici. Nel novembre 2020, l’astronauta della NASA Kate Rubins, all’interno della Expedition 64, è riuscita a portare a termine un raccolto di ravanelli, ma le coltivazioni a bordo oggi comprendono lattuga romana rossa, senape Mizuna e fiori di zinnia.
Ancora una volta missioni storiche come l’Apollo 14 hanno fornito una prima preziosa conoscenza di base, verificabile nel lungo tempo. Cinque decenni dopo la missione che ha portato i semi sulla Luna, i Moon Tree sono testimoni viventi e frondosi dei primi viaggi dell’umanità sulla Luna, mentre i raccolti cresciuti nello spazio da allora consentono la continuazione dell’esplorazione del cosmo da parte dell’umanità.
9 febbraio, ore 21:30: videoconferenza “Apollo 14: cinquanta anni fa sugli altipiani della Luna”. Alla videoconferenza possono partecipare sia i soci che il pubblico: dalla pagina facebook dell’Unione Astrofili Senesi
La travagliata missione Exomars dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), in collaborazione con l’agenzia russa Roscosmos, continua in realtà a lavorare alacremente e a fornire dati preziosi, nonostante i cambi di gestione (doveva essere in collaborazione con la NASA), i ritardi e i problemi avuti nell’arco della sua vita, dalla ideazione alla messa in opera. Se lander e rover di questa missione non hanno avuto vita facile (con lo schianto del lander Schiaparelli e i ritardi per la partenza di Rosalind, prevista ora per il 2022), l’ExoMars Trace Gas Orbiter, il satellite entrato fin da subito con successo in orbita marziana nel 2016, continua a fornire importanti dati e stupende immagini per lo studio del Pianeta Rosso.
In questi giorni l’ESA festeggia infatti il 20millesimo scatto della telecamera CaSSIS (Color and Stereo Surface Imaging System) a bordo di TGO. L’immagine è stata scattata il 13 dicembre 2020, e rilasciata il 28 gennaio scorso, e mostra un segmento delle Solis Dorsa, un prominente sistema di creste in un vasto altopiano vulcanico che copre un’area con un diametro di circa 5000 chilometri, noto come Tharsis. I dorsa sono creste montuose che, nel caso di Marte (ma anche ad esempio sulla Luna), si sono formate negli strati di lava basaltica a causa del carico e della flessione della crosta del pianeta e del mantello superiore, per via del raffreddamento interno del pianeta e dalla sua successiva contrazione. Lo studio delle dorsa, e in particolare della loro distribuzione e del loro orientamento, aiuta i ricercatori a comprendere i dettagli della complessa e dinamica storia geologica di Marte.
L’immagine mostra il sito di atterraggio di InSight su Marte, acquisita dallo strumento CaSSIS il 2 marzo 2019. L’immagine mostra un’area di circa 2,25 km x 2,25 km nella regione dell’Elysium Planitia. L’immagine originale aveva una scala di circa 4,5 m per pixel ed è stata espansa a 2,25 m per pixel per scopi di visualizzazione. ESA / Roscosmos / CaSSIS, CC BY-SA 3.0 IGO
In queste 20 mila immagini Cassis non ha solo ripreso formazioni marziane. Ricordiamo infatti anche, nel marzo del 2019, le riprese del lander InSight della NASA e la parti espulse durante la sua discesa verso la superficie del pianeta. Nell’immagine vediamo infatti un’area di circa 2,25 x 2,25 chilometri dove si intravedono InSight ma anche lo scudo termico, rilasciato appena prima dell’atterraggio (sul bordo di un cratere) e il guscio (backshell) utilizzato per proteggere il lander durante la discesa. È stata la prima volta che uno strumento europeo ha identificato uno dei sempre più numerosi veicoli umani inviati sulla superficie di Marte.
Cassis è un sistema di imaging ad alta risoluzione progettato per integrare i dati acquisiti dal resto degli strumenti a bordo di TGO, dedicati all’analisi dell’atmosfera marziana della ricerca di idrogeno sulla superficie, ed espande e integra le immagini di un altro famoso strumento, HiRISE (High Resolution Imaging Science Experiment), a bordo del Mars Reconnaissance Orbiter (MRO) della NASA.
Una vista del bordo del cratere Korolev (73,3ºN / 165,9ºE) ripreso il 15 aprile 2018. L’immagine è composta da tre immagini in diversi colori che sono state scattate quasi contemporaneamente, per produrre questa visualizzazione a colori. L’area ripresa è di circa 10×40 km. Il nord è decentrato in alto a sinistra. ESA / Roscosmos / CaSSIS
Indice dei contenuti
Esplorazioni alle sorgenti del Big Bang. 50 anni fa l’Apollo 14. Stazione Spaziale Internazionale: 20 anni di ricerca nello spazio.
Analisi del segnale per la rivelazione delle onde gravitazionali con la Prof.ssa Pia Astone (Università degli Studi La Sapienza di Roma – Collaborazione LIGO-Virgo)
Webinar:
4 febbraio: Esopianeti con il Dr. Fabio Del Sordo
18 febbraio: Fast Radio Burst con il Dr. Daniele Michilli
3 febbraio dalle 21:00 alle 23:00 – Missioni ESA: dietro le quinte…
Avete mai partecipato al lancio di un satellite? Vi siete mai domandati cosa succede nei momenti che precedono il lancio, presso una sala di controllo…? Ebbene, in compagnia dell’ing. Daniele Emanuele Chiuri, ci avventureremo in un viaggio “dietro le quinte” di alcune missioni ESA, tra le quali BepiColombo, e il suo viaggio verso il pianeta Mercurio. La serata verrà trasmessa in diretta sul nostro canale YouTube e qui sulla nostra pagina Facebook. Non mancate!
26 febbraio dalle 21:00 alle 23:00 – Il giro della Luna in 80 mappe
Conferenza pubblica in collaborazione tra ARAR-Planetario di Ravenna e AAR. Torniamo a parlare di disegno astronomico assieme al dott. Alfonso Zaccaria, che ci racconterà la sua esperienza, resa pubblica nell’opera “Il giro della Luna in 80 mappe”. La serata si terrà sulla piattaforma ZOOM dell’ARAR e in diretta YouTube sul canale del planetario: https://www.youtube.com/user/planetarioravenna.
Desideriamo ricordare che sono ripresi in videochat i nostri tradizionali incontri del giovedì, a partire dalle ore 21:00, secondo il programma pubblicato sul nostro sito www.astrofilipc.it nella sezione “Attività”.
Saranno poi organizzate alcune interessanti conferenze tenute da alcuni nostri soci laureati in astronomia, secondo il seguente calendario:
4 febbraio 2021: relazione dal titolo “Metodi per ricavare le distanze in astronomia” (a cura di Michele Cifalinò) 18 febbraio 2021: relazione dal titolo “Le stelle pulsar” (a cura di Patrizia Bussatori)
2 febbraio ore 21:00 – Il Tempo da Galileo ai viaggi nel Tempo
Conferenza on line tenuta dalla Prof.ssa Marilù Chiofalo, Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa e INFN.
Questo campo di ricerca, relativamente nuovo, si fonda quindi su un desiderio di conoscenza ed esplorazione dello spazio la cui origine si perde nella notte dei tempi, ma fa riscontrare i primi risultati tangibili solo tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90. L’osservazione di esopianeti permette di formulare e verificare teorie su come i pianeti nascano, evolvano, e quanti mondi come il nostro possiamo sperare di scoprire nel cielo.
In questo seminario darò una visione d’insieme sugli esopianeti, dapprima con una descrizione dei metodi che ci permettono di cercarli nel cielo notturno e poi ripercorrendo alcune scoperte più importanti. Infine proporrò alcune riflessioni sulle prospettive per la comprensione della così detta abitabilità di questi mondi lontani.
Data: 4 febbraio 2021
Orario: 21:30 (UTC + 1)
A cura di: Ivan Delvecchio – Associazione AstronomiAmo
Ospite: Fabio del Sordo – Laurea presso l’Università di Pisa nel 2008, e Dottorato di ricerca nel 2013 presso NORDITA e Università di Stoccolma con una tesi su dinamo e flussi non rotanti. Già postdoc presso NORDITA, Università di Yale (USA) e CEA-Saclay (Francia). Dal 2018 è postdoc senior presso l’Università di Creta (Grecia), e da Ottobre 2020 lavora presso INAF-O.A. Catania. Esperto di campi magnetici astrofisici, dinamo e esopianeti, ha contribuito alla brillante scoperta di un secondo candidato esopianeta attorno a Proxima Centauri. Co-fondatore dell’associazione no-profit Galileomobile che organizza iniziative itineranti per condividere la cultura e passione per l’astronomia nelle scuole dei Paesi con meno risorse.
Per quanto riguarda l’aspetto del cielo, saranno predominanti ancora le costellazioni invernali, caratterizzate da stelle brillanti e facilmente riconoscibili: potremo osservare al meridiano il Cane Maggiore con la splendente Sirio e l’inconfondibile Orione, con l’Auriga allo zenit, facilmente riconoscibile grazie a Capella, la lucida della costellazione. A ovest staranno invece tramontando Pegaso e la Balena, con le sue deboli stelle, mentre a est il cielo mostrerà le prime avvisaglie degli asterismi primaverili. Sempre a est saranno facilmente riconoscibili il Leone, vero protagonista del cielo orientale, e le prime propaggini della Vergine. Più tardi, sorgerà anche la brillante Arturo nel Boote. Molto più in alto, quasi immobile a nord, vedremo il Grande Carro, in verticale, che sembrerà in procinto di rovesciarsi.
Sfoglia la gallery dedicata alle vostre foto della Grande Congiunzione di Giove e Saturno dello scorso 21 dicembre 2020.
Dopo la congiunzione eliaca di gennaio, Giove e Saturno hanno lasciato il campo aMarte, unico a brillare nel cielo della sera, e faranno capolino al mattino solo verso la fine del mese, ma ancora molto vicini al sorgere del Sole. Anche Venere si avvicina sempre più alla nostra stella, rendendosi visibile al mattino, con difficoltà solo nella prima decade del mese, lo ritroveremo solo ad aprile nei panni di Vespero. Mercurio ne approfitta e, nel corso del mese, occuperà il cielo del mattino, sempre a ridosso dell’alba come sua consuetudine, lo troveremo quindi con facilità dopo la metà del mese.
Le serate principali in cui osservarli e maggiori dettagli e informazioni anche sui più distanti Urano e Nettuno, non visibili a occhio nudo, su pianeti nani e asteroidi, li trovate come sempre su:
La Luna
Come ogni mese Francesco Badalotti ci guida attraversole formazioni più interessanti da osservare in ogni fasedel nostro satellite e ci indicatutte le librazionicon quelle zone del bordo tra lato visibile e lato nascosto della Luna che via via si rendono accessibili da Terra grazie al “dondolio” apparente della Luna nella sua orbita attorno alla Terra.
Prosegue poi il viaggio tra le principali formazioni della nostra Luna dal settore sudest verso nord(parte 10), questo mese consigliato per il 19 febbraio oppure nelle nottate del 2 e 3 febbraio (ma come sempre una guida utilizzabile ogni volta che il nostro satellite si trova in condizioni simili di illuminazione).
Per quanto riguarda inveceluce cinerea e le sottili falcil’appuntamento è nella seconda parte della notte e prima dell’alba l’8 e 9 febbraio e, dopo il Novilunio, le sere del 13 e 14 febbraio.
Hai compiuto un’osservazione?
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Spostamento di un brillamento esteso sul disco del Sole misurato il 27 marzo 2012
Presentato ieri, mercoledì 20 gennaio, su The Astrophysical Journal Supplement Series un primo, dettagliato ed esteso catalogo di brillamenti solari, violente esplosioni di radiazione elettromagnetica che hanno luogo nella corona solare (la parte più esterna dell’atmosfera della nostra stella), osservati nella frequenza gamma dal Large Area Telescope (Lat), uno dei due rivelatori installati a bordo del Fermi Gamma-ray Space Telescope della Nasa, nel periodo compreso tra il 2010 e il 2018. Lo studio di questi eventi, condotto dalla collaborazione internazionale responsabile di Fermi-Lat, a cui l’Italia partecipa attraverso i contributi forniti dall’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dall’Agenzia spaziale italiana (Asi), fa chiarezza sui fenomeni responsabili dell’emissione di fotoni ad alta energia che contraddistinguono i brillamenti. Un risultato che potrebbe avere importanti implicazioni nell’ambito dello space weather, disciplina che si occupa di indagare i fenomeni solari al fine di prevenire i possibili danni provocati da questi ultimi ai sistemi tecnologici utilizzati nello spazio o a terra nei settori delle telecomunicazioni e dei trasporti.
Spostamento di un brillamento esteso sul disco del Sole misurato il 27 marzo 2012
Lanciato nel 2008, il Fermi Gamma-ray Space Telescope è un rivelatore di raggi cosmici, in particolare di raggi gamma, cioè fotoni ad alta energia, per lo studio dei fenomeni astronomici estremi, una categoria a cui appartengono anche i brillamenti solari. Grazie ai due rivelatori con cui è equipaggiato, Lat e Gbm (Glast Burst Monitor), e alla sua orbita, posizionata a 550 chilometri dalla Terra, il telescopio è in grado di intercettare i raggi gamma prima che essi interagiscano con l’atmosfera del nostro pianeta e di stabilire con precisione la direzione e l’energia di ogni evento osservato. In particolare, per quanto riguarda Lat, la comunità di ricercatori italiani impegnati nella missione, supportata dall’Infn, dall’Inaf e dall’Asi, è stata responsabile dello sviluppo e della costruzione del tracciatore al silicio ed è attivamente impegnata nell’attività di analisi dei.
La grande sensibilità di Fermi-Lat ha reso possibile osservare ben 45 brillamenti solari verificatisi nel periodo di massima attività dell’ultimo ciclo solare. Un catalogo che ha aumentato di 10 volte il numero degli eventi fino a oggi noti, permettendo di individuare meccanismi differenti di emissione di fotoni solari ad alta energia: fenomeni prodotti dall’accelerazione di elettroni e ioni che si possono tuttavia manifestare con caratteristiche diverse. Oltre all’emissione da parte del Sole di lampi di raggi gamma della durata di qualche minuto, in coincidenza con brillamenti rivelati nei raggi X da altri satelliti, il telescopio spaziale ha infatti registrato eventi di sorprendente estensione e durata, fino a 20 ore, che non sembrano avere una controparte in altre lunghezze d’onda.
Mentre è generalmente accettato che le conversioni del campo magnetico solare siano responsabili dell’accelerazione delle particelle che generano le radiazioni di breve durata, per la prima volta Fermi-Lat ha fornito evidenze che sembrano confermare l’ipotesi secondo cui le emissioni prolungate siano generate da espulsioni di massa coronale. «Questi eventi», spiega Melissa Pesce-Rollins, ricercatrice della sezione di Pisa dell’Infn, «sono in grado di accelerare particelle cariche per ore e sono sempre associate agli eventi di lunga durata osservate da Fermi. In qualche caso questa seconda categoria di eventi si genera sul lato nascosto del Sole, ma diventa visibile proprio per effetto della propagazione magnetica del plasma coronale emesso, che sposta la generazione dei raggi gamma sul lato visibile della nostra stella».
La campagna di osservazione di Fermi ha inoltre consentito di localizzare per la prima volta, all’interno del disco solare, le aree in cui avvengono i brillamenti di più alta energia, individuando in esse comportamenti legati alle due tipologie di eventi classificati e consolidando le ipotesi sulle modalità di accelerazione delle particelle responsabili dell’emissione gamma. «Nei casi in cui siamo riusciti ad ottenere una localizzazione», sottolinea Pesce-Rollins, «abbiamo visto che la zona di origine delle emissioni dei brillamenti estesi si sposta in funzione del tempo. Un aspetto che non si presenta invece negli eventi di breve durata, in cui la localizzazione dell’emissione corrisponde alla posizione di provenienza delle radiazioni nei raggi X, dovute all’accelerazione degli elettroni. Questo risultato suggerisce che per i brillamenti solari gamma ci sono almeno due meccanismi diversi di accelerazione degli ioni: uno responsabile della componente impulsiva, cioè breve, e uno della componente a lunga durata, che è in grado di spostare la posizione dell’emissione sul disco in funzione del tempo».
«Studiare l’emissione gamma di alta energia del Sole è un’opportunità “unica” dal momento che tutte le altre stelle sono penalizzate dal fattore distanza che le pone fuori della portata dei nostri strumenti», dice Patrizia Caraveo, responsabile Inaf per Fermi-Lat. «Per questo è importante non lasciarsi scappare l’occasione per migliorare la comprensione della nostra stella. Fermi ha fatto proprio questo, osservando il Sole tutte le volte che la stella entra nel suo campo di vista durante le spazzolate continue del cielo che costituiscono il normale modo operativo del satellite. Con la pubblicazione dei risultati ottenuti tra il gennaio 2010 e il gennaio 2018, Fermi-Lat fornisce per la prima volta la copertura gamma di quasi un intero ciclo solare. Dal momento che l’emissione gamma del Sole è collegata con le macchie solari, Fermi-Lat ci offre un’occasione originale per festeggiare i 400 anni della loro scoperta da parte di Thomas Harriot, Johannes Fabricius e Galileo Galilei».
«Questo incredibile risultato», sottolinea infine Elisabetta Cavazzuti, responsabile del programma Fermi per l’Asi, «corona un lungo lavoro guidato dal team italiano all’interno della collaborazione internazionale Fermi-Lat e conferma l’importanza di monitorare il cielo continuamente per molti anni con strumenti sensibili e affidabili quali il Large Area Telescope a bordo di Fermi. A differenza degli eventi astronomici unici e più clamorosi che portano grande enfasi mediatica, un catalogo è un lavoro apparentemente meno rilevante ma in realtà, basandosi su robuste analisi omogenee per i diversi eventi che lo compongono e richiedendo una solidità statistica, consente lo studio e il confronto sul lungo periodo diventando quindi una pietra importante nello studio dei fenomeni celesti».
Speciale 2021. Gli Eventi del Cielo e le Missioni Spaziali dell’anno che sta iniziando.
Coelum Astronomia di Gennaio 2021
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In questo ritratto del telescopio spaziale Hubble, vediamo i resti gassosi di una stella massiccia esplosa circa 1.700 anni fa. Il “cadavere stellare”, un resto di supernova chiamato 1E 0102.2-7219, si trova nella Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della nostra Via Lattea. Crediti: NASA, ESA e J. Banovetz e D. Milisavljevic (Purdue University)
In questo ritratto del telescopio spaziale Hubble, vediamo i resti gassosi di una stella massiccia esplosa circa 1.700 anni fa. Il “cadavere stellare”, un resto di supernova chiamato 1E 0102.2-7219, si trova nella Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della nostra Via Lattea. Crediti: NASA, ESA e J. Banovetz e D. Milisavljevic (Purdue University)
Studiando direzioni e velocità di espansione di un resto di supernova, un gruppo di astronomi ha provato a tornare indietro nel tempo, per risalire all’epoca dell’esplosione di una supernova vicina.
La progenitrice è una stella esplosa molto tempo fa nella Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della nostra Via Lattea. La stella esplosa ha lasciato un cadavere gassoso in espansione, un residuo di supernova chiamato 1E 0102.2-7219, che l’Osservatorio Einstein della NASA ha scoperto per la prima volta ai raggi X.
Come detective in un “cold case”, i ricercatori hanno setacciato le immagini d’archivio scattate da Hubble, analizzando le osservazioni in luce visibile effettuate a 10 anni di distanza. Il team di ricerca, guidato da John Banovetz e Danny Milisavljevic della Purdue University di West Lafayette, nell’Indiana, ha così misurato le velocità di 45 gruppi di materiale espulso, ricchi di ossigeno, dall’esplosione di supernova. L’ossigeno ionizzato è infatti un eccellente tracciante, perché emette luce più intensa nella luce visibile.
Per calcolare l’età precisa dell’esplosione, gli astronomi hanno scelto i 22 di questi gruppi, o “nodi”, che si stanno muovendo più velocemente, stabilendo che potessero essere quelli meno rallentati dal passaggio attraverso il materiale interstellare, e il cui tragitto fosse quindi quello meno “modificato” dopo l’esplosione. Studi precedenti infatti, avevano utilizzato la media della velocità di tutti i gruppi di materiale gassoso identificati per calcolare l’età dell’esplosione, senza però tener conto che, in alcuni casi, l’espulsione veniva rallentata dallo scontro con il materiale più denso, espulso dalla stella prima che esplodesse come una supernova. Per effettuare una stima più accurata, in questo nuovo studio si è così deciso di eliminare quest’ultimi.
«Uno studio precedente ha confrontato le immagini prese a distanza di anni con due diverse camere montate su Hubble, la Wide Field Planetary Camera 2 e la Advanced Camera for Surveys (ACS)», spiega Milisavljevic. «Ma il nostro studio confronta i dati acquisiti con la stessa fotocamera, l’ACS, rendendo il confronto molto più solido; i nodi erano molto più facili da tracciare utilizzando lo stesso strumento. Poter fare un confronto così pulito di immagini scattate a 10 anni di distanza, è testimonianza della longevità di Hubble».
Tracciando il movimento di questi nodi all’indietro, come nel rewind di una registrazione, fino a quando il materiale del resto di supernova si è concentrato in un punto, hanno così identificato il sito dell’esplosione.
A questo punto, calcolando quanto tempo i nodi più veloci hanno impiegato per viaggiare dal centro dell’esplosione alla loro posizione attuale hanno ottenuto una stima del momento in cui è avvenuta l’esplosione: la luce della supernova sarebbe arrivata sulla Terra 1.700 anni fa, durante il declino dell’Impero Romano. Sfortunatamente, non ci sono registrazioni note nella storia di questo evento titanico.
Oltre allo studio dei gas e delle particelle in movimento, Hubble ha anche registrato la velocità di una stella di neutroni, sospettata di essere il nucleo frantumato della stella esplosa, identificata la prima volta con osservazioni del Very Large Telescope dell’European Southern Observatory in Cile, in combinazione con i dati dell’Osservatorio a raggi X Chandra della NASA.
Ma secondo le stime degli autori, la stella di neutroni avrebbe dovuto spostarsi a più di 2 milioni di miglia all’ora dal centro dell’esplosione per essere arrivata alla sua posizione attuale. «È piuttosto veloce e al limite della velocità con cui pensiamo che una stella di neutroni possa muoversi, anche ricevendo un calcio dall’esplosione della supernova», sostiene Banovetz. «Indagini più recenti mettono in dubbio che l’oggetto sia effettivamente la stella di neutroni sopravvissuta all’esplosione della supernova. Potrebbe essere solo un ammasso compatto di supernova espulso che si è acceso, e i nostri risultati vanno verso questa conclusione».
La caccia alla stella di neutroni potrebbe però essere ancora aperta. «Il nostro studio non risolve il mistero, ma fornisce una stima della velocità per la stella di neutroni candidata», ha concluso Banovetz.
La rappresentazione artistica mostra la galassia ID2299, il risultato di una collisione tra galassie, e parte del suo gas mentre viene espulso in una "coda mareale" come risultato della fusione.Nuove osservazioni fatte con ALMA, di cui l'ESO è un partner, hanno catturato le primissime fasi di questa espulsione, prima che il gas raggiungesse le grandi scale rappresentate nell'immagine. Crediti: ESO/M. Kornmesser
La rappresentazione artistica mostra la galassia ID2299, il risultato di una collisione tra galassie, e parte del suo gas mentre viene espulso in una “coda mareale” come risultato della fusione. Nuove osservazioni fatte con ALMA, di cui l’ESO è un partner, hanno catturato le primissime fasi di questa espulsione, prima che il gas raggiungesse le grandi scale rappresentate nell’immagine. Crediti: ESO/M. Kornmesser
Le galassie iniziano a “morire” quando smettono di formare stelle, ma finora gli astronomi non avevano mai visto chiaramente l’inizio di questo processo in una galassia lontana. Usando ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui l’ESO (European Southern Observatory) è un partner, alcuni astronomi hanno ora osservato una galassia espellere quasi la metà del gas che serve per la formazione stellare. Questa espulsione sta avvenendo a un tasso sorprendente, equivalente a 10 000 soli all’anno: la galassia sta rapidamente perdendo il materiale che sarebbe servito per creare nuove stelle. L’equipe ritiene che questo evento spettacolare sia stato innescato dalla collisione con un’altra galassia, il che potrebbe portare gli astronomi a ripensare a come le galassie smettono di dare vita a nuove stelle.
«È la prima volta che osserviamo una tipica galassia massiccia con alta formazione stellare nel lontano Universo che sta per “morire” a causa di una massiccia emissione di gas freddo», afferma Annagrazia Puglisi, autrice principale del nuovo studio, dell’Università di Durham, nel Regno Unito e del Saclay Nuclear Research Centre (CEA-Saclay), in Francia. La galassia, ID2299, è così distante che la sua luce impiega circa 9 miliardi di anni per raggiungerci; la vediamo quindi in un’epoca in cui l’Universo aveva solo 4,5 miliardi di anni.
Gli astronomi hanno osservato che l’espulsione del gas sta avvenendo a un tasso equivalente a 10.000 soli all’anno ed è arrivata a rimuovere, sorprendentemente, il 46% del gas freddo totale da ID2299. Poiché la galassia sta anche formando stelle molto rapidamente, centinaia di volte più velocemente della nostra Via Lattea, il gas rimanente verrà rapidamente consumato, spegnendo completamente ID2299 in poche decine di milioni di anni.
L’evento responsabile della spettacolare perdita di gas, secondo l’equipe, è una collisione tra due galassie, che si sono fuse per formare ID2299. L’elusivo indizio che ha svelato agli scienziati questo scenario è stato l’associazione del gas espulso a una «coda mareale». Le code mareali sono flussi allungati di stelle e gas che si estendono nello spazio interstellare, prodotti per esempio quando due galassie si fondono, di solito troppo deboli per essere visti in galassie lontane. Tuttavia, l’equipe è riuscita a osservare questa struttura relativamente luminosa proprio mentre veniva lanciata nello spazio e a identificarla come una coda mareale.
La maggior parte degli astronomi ritiene che i responsabili del lancio di materiale di formazione stellare nello spazio siano i venti causati dalla formazione stellare stessa e dall’attività del buco nero al centro di galassie massicce. Questa espulsione pone così fine alla capacità delle galassie di creare nuove stelle. Il nuovo studio pubblicato oggi su Nature Astronomy suggerisce che anche gli scontri e le fusioni di galassie possono essere all’origine dell’espulsione nello spazio dei gas.
«Il nostro studio suggerisce che le espulsioni di gas possono essere prodotte dalla fusione di galassie e che venti e code mareali possono apparire molto simili», spiega il coautore dello studio Emanuele Daddi di CEA-Saclay. Per questo motivo, alcuni dei gruppi che in precedenza hanno identificato venti emessi da galassie lontane potrebbero in effetti aver osservato code mareali che espellevano gas. «Questo potrebbe portarci a rivedere la nostra comprensione di come le galassie muoiono», aggiunge Daddi.
Puglisi concorda sull’importanza della scoperta: «Ero entusiasta di scoprire una galassia così eccezionale! Ero ansioso di saperne di più su questo strano oggetto perché ero convinto che ci fosse una lezione fondamentale da imparare sull’evoluzione delle galassie distanti».
Questa sorprendente scoperta è stata fatta per caso, mentre l’equipe stava ispezionando una survey di galassie realizzata con ALMA, progettata per studiare le proprietà del gas freddo in più di 100 galassie lontane. ID2299 era stata osservata da ALMA solo per pochi minuti, ma il potente Osservatorio, situato nel nord del Cile, ha permesso al team di raccogliere dati sufficienti per rilevare sia la galassia che la sua coda di materia in espulsione.
«ALMA ha gettato nuova luce sui meccanismi che possono arrestare la formazione di stelle in galassie lontane. Assistere a un evento di così grande distruzione aggiunge un pezzo importante al complesso puzzle dell’evoluzione delle galassie», conclude Chiara Circosta, ricercatrice presso l’University College di Londra, Regno Unito, che ha contribuito alla ricerca.
In futuro, l’equipe potrebbe utilizzare ALMA per effettuare osservazioni di questa galassia più profonde e a risoluzione più elevata, per comprendere meglio la dinamica del gas espulso. Le future osservazioni con l’ELT (Extremely Large Telescope) dell’ESO potrebbero consentire all’equipe di esplorare le connessioni tra le stelle e il gas in ID2299, facendo nuova luce sulle modalità di evoluzione delle galassie.
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Speciale 2021. Gli Eventi del Cielo e le Missioni Spaziali dell’anno che sta iniziando.
Particolare la congiunzione che ci attende per il giorno20 gennaio, alle ore 20 circa. Si tratta di un incontro tra due pianeti: il sempre affascinante Marte (mag. +0,2) e il remoto gigante di ghiaccio Urano (mag. +5,7).
Se osservato a occhio nudo, questo incontro risulterà sicuramente sfuggente, al punto che il Pianeta Rosso ci sembrerà quasi essere stato abbandonato a se stesso, “piantato in asso” senza alcun riguardo ad aspettare invano in un appuntamento astrale. Ma se passeremo all’osservazione binoculare (immagine qui a destra), potremo accorgerci facilmente che in realtà all’appuntamento è presente anche Urano, la cui magnitudine, però, non ci consente di apprezzarne la presenza con la stessa facilità di Marte.
I due pianeti si troveranno tra le stelle dell’Ariete a una distanza reciproca di 1° 36’ alle ore 20 del 20 gennaio con Marte che si posizionerà a nordovest di Urano in un sistema di riferimento equatoriale. All’orario indicato i soggetti saranno molto alti sull’orizzonte sud-sudovest, poco più di 54°.
Allargando un po’ la nostra visuale, vedremo che a poca distanza, quasi 9° a sud di Marte, è presente anche la Luna al Primo Quarto. Il chiarore lunare renderà più complessa l’osservazione di Urano, soggetto di per sé già ostico, e in queste condizioni al limite dell’impossibilità per essere rintracciato a occhio nudo anche sotto cieli tersi e limpidi.
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Se abbiamo seguito la danza tra Giove, Saturno e Mercurio dei giorni precedenti, il 14 gennaio, sempre alle ore 17:20, potremo godere di un ultimo atto di quella danza celeste, ma con un cambio nel gruppo di attori.
Saturno infatti sarà già molto basso e affogato nelle luci del tramonto: potremo distinguere bene Giove (mag. –1,9) e Mercurio (mag. –0,9), questa volta in compagnia di una bella e sottilissima falce di Luna (fase del 3%).
Il nostro satellite naturale si troverà a circa 4° 6’ a est di Mercurio e 7° 54’ a nordest di Giove. Il più basso tra i due pianeti, Giove, si sarà a 5° 50’ di altezza sull’orizzonte di sudovest. Proprio come nel precedente evento citato poco sopra, l’osservazione (e forse ancor di più la fotografia) non sarà semplice, soprattutto per via della luminosità del cielo, con il Sole che si trova ad appena 3° e mezzo sotto l’orizzonte. Consigliamo tuttavia di tentare l’osservazione perché potrebbe comunque essere una buona occasione per andare a caccia di una sottile falce lunare, come descritto anche nel box dedicato.
L’orbita eliocentrica percorsa da 2009 JF1 (in bianco) ha l’afelio a 3,3 Ua, ben esterno all’orbita di Marte, e perielio a 0,49 Ua, interno all’orbita di Venere. L’inclinazione dell’orbita è di 6,1° e per completare un intero giro sono necessari 1,59 anni. L’asteroide passa molto vicino all’orbita della Terra nel tratto corrispondente all’inizio del mese di maggio. Crediti: Jpl
L’asteroide 2009 JF1 è stato scoperto il 4 maggio 2009 dal riflettore Cassegrain da 1,52 m che si trova sul monte Lemmon in Arizona, telescopio che va alla ricerca di nuovi asteroidi near-Earth nell’ambito dellaCatalina Sky Survey (Css). Dopo la scoperta, l’asteroide venne confermato dal telescopio da 50 cm di diametro dell’australiana Siding Spring Survey (Sss), l’equivalente australe della Css. La Sss è stata chiusa nel 2013 per mancanza di fondi, un vero peccato perché era l’unica survey professionale di asteroidi near-Earth di tutto l’emisfero australe. Nel complesso, di 2009 JF1 sono state raccolte 25 osservazioni astrometriche in 30 ore. L’arco orbitale osservato è quindi molto breve, di conseguenza l’orbita dell’asteroide è incerta, specie per quanto riguarda la posizione dell’asteroide lungo l’orbita. Chiaramente l’incertezza sulla posizione dell’asteroide nello spazio aumenta a mano a mano che ci si allontana dalla data della scoperta.
L’orbita eliocentrica percorsa da 2009 JF1 (in bianco) ha l’afelio a 3,3 Ua, ben esterno all’orbita di Marte, e perielio a 0,49 Ua, interno all’orbita di Venere. L’inclinazione dell’orbita è di 6,1° e per completare un intero giro sono necessari 1,59 anni. L’asteroide passa molto vicino all’orbita della Terra nel tratto corrispondente all’inizio del mese di maggio. Crediti: Jpl
Sappiamo che la minima distanza che l’orbita nominale può raggiungere con l’orbita terrestre è di circa 15mila km, di conseguenza 2009 JF1 può arrivare a passare a meno di 9mila km dalla superficie terrestre. La magnitudine assoluta di 2009 JF1 è elevata, circa +27, per cui è un oggetto di piccole dimensioni, fra i 7 e i 24 metri di diametro a seconda del valore che si assume per la riflettività superficiale. Si tratta di un asteroide che può essere osservato solo quando è molto vicino alla Terra e il fatto che sia stato scoperto a inizio maggio non è casuale: è in questo periodo dell’anno che la Terra passa per il nodo discendente dell’orbita dell’asteroide e quindi – se l’asteroide si trova più o meno nella stessa posizione – la probabilità di scoprirlo è maggiore rispetto a ogni altro periodo dell’anno.
Il 6 maggio 2022 alle 08:10 Ut 2009 JF1 passerà a circa 12 milioni di km dalla Terra, circa 31 volte la distanza media Terra-Luna. Si tratta di una distanza enorme, ma a causa dell’arco orbitale osservato molto corto, la posizione è incerta e – secondo i calcoli del sistema Sentry della Nasa – c’è una probabilità di 1/4000 che 2009 JF1 possa colpire la Terra.
La probabilità d’impatto è molto bassa, ma anche ammettendo di ricadere nello scenario peggiore l’eventuale collisione dell’asteroide con la Terra non avrebbe conseguenze di rilievo: l’atmosfera terrestre disintegrerebbe l’asteroide durante la caduta e – a seconda delle dimensioni – si avrebbero scenari simili a quelli dalla caduta del piccolo asteroide in Cina il 22 dicembre 2020 fino all’evento di Chelyabinsk del 15 febbraio 2013. Quindi niente che non sia già successo senza serie conseguenze. Per questo motivo il rischio di 2009 JF1 è valutato zero nella Scala Torino e -2,88 nella Scala Palermo. La Scala Torino va da 0 a 10, dove 0 indica una probabilità di collisione remota o con effetti trascurabili, mentre 10 indica una collisione certa con un oggetto in grado di sconvolgere la superficie e l’atmosfera terrestre. La Scala Palermo è un po’ più tecnica perché è il logaritmo in base 10 del rischio e può assumere anche valori negativi. Comunque, solo quando si trovano valori compresi fra -2 e 0 la situazione richiede attenzione, mentre per valori positivi la situazione si fa pericolosa. Come si vede, entrambe la scale ci dicono che 2009 JF1 non è un problema. Addirittura, secondo il sistema NeoDyS-2 dell’Università di Pisa, il valore del rischio nella Scala Palermo è di -3,72.
Un’immagine che mostra il fireball generato dalla caduta di un piccolo asteroide presso Chelyabinsk, Russia, il 15 febbraio 2013
La velocità d’impatto dell’asteroide è stimata in circa 26,4 km/s, assumendo un diametro medio di 15,5 m e una densità media di circa 2500 kg per metro cubo (un valore ragionevole per un piccolo asteroide), risulta un’energia cinetica di circa 400 kt, pari a 25 volte l’energia sviluppata durante l’esplosione atomica di Hiroshima.
Nonostante questo valore dell’energia cinetica posseduta da 2009 JF1 possa apparire elevato, l’asteroide molto probabilmente si disintegrerebbe in atmosfera fra i 30 e i 40 km di quota e al suolo arriverebbero solo piccoli frammenti, oltre a una debole onda d’urto praticamente innocua. Per quanto riguarda 2009 JF1 possiamo dormire sonni tranquilli.
Abbiamo avuto bisogno di qualche giorno per elaborare un lutto che ci tocca in modo diretto e ci ha lasciati letteralmente senza parole, in un periodo in cui i lutti per altri collaboratori e amici più o meno vicini non sono certo mancati. Nei giorni scorsi avrete sicuramente visto i tanti ricordi e pensieri che si sono rincorsi nei social e online, nella comunità di astrofili, che raccoglieremo nel prossimo numero della rivista, ed è ancora con grande dolore che vogliamo ricordare Rodolfo Calanca, che ci ha lasciati all’improvviso lo scorso 2 gennaio.
Da lungo tempo collaboratore della rivista Coelum Astronomia, di cui è stato anche vice direttore, e vulcanico personaggio impegnato nella divulgazione dell’Astronomia anche al di fuori degli schemi. A lui piaceva definirsi “eventologo ed eventogeno”, in riferimento alla moltitudine di progetti a tema culturale e astronomico di cui si faceva organizzatore. Riusciva a coinvolgere nei suoi eventi tra i più noti astronomi e astrofili ma anche personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo, sempre per parlare del cielo e delle sue meraviglie.
Qui trovate la sua autobiografia, mentre lo ricorda per noi Giovanni Anselmi, ex direttore di Coelum e grande amico di Rodolfo.
Ho conosciuto Rodolfo Calanca nell’ottobre 1995 a Fanano: paesino dell’appennino modenese dove si stava tenendo un convegno di astronomia digitale.
Ricordo che legammo subito. Lui, un omone falso magro con la testa da console romano, si aggirava per i locali dove si tenevano le conferenze, quasi sempre solo e un po’ ai margini. E quello che mi colpì di lui fu proprio il contrasto tra il calore e la simpatia che emanava mentre sul palco teneva una relazione e quel suo aggirarsi solitario e ombroso quando ne scendeva.
Atteggiamento che di solito sta a indicare personalità predisposte al martirio di se stesse in difesa di una supposta superiorità intellettuale. Il che potrebbe sembrare un difetto, ma non lo è.
E non lo è specialmente se poi ti accorgi che l’individuo solitario, quando lo vai a importunare come feci io con Rodolfo, si rivela persona alla mano e assolutamente lieta di dividere con te tutto il suo sapere (e qualcuna delle sue Grandi speranze)..
Così, riconoscendo qualcosa l’uno negli occhi dell’altro, ci salutammo, ripromettendoci di approfondire la conoscenza per eventuali collaborazioni future.
Non ricordo se nel salutarlo gliene accennai, ma proprio in quel tempo, con Roberta Zabotti, stavamo cercando di mettere insieme un gruppo di persone interessate a impegnarsi nella fondazione di una nuova rivista di Astronomia. Così che qualche tempo dopo Rodolfo iniziò, prima brevemente ne Il Cielo e poi per lunghi anni in Coelum, a collaborare con articoli e rubriche che concordavamo in lunghissime telefonate, o di persona durante le sue frequenti visite alla redazione di Mestre.
Rodolfo era un uomo che viveva in epoche differenti. In lui c’era lo scienziato del seicento, erudito su tutto ciò che riguardava l’astronomia del passato, e insieme il tecnologo del presente, entusiasta del mondo digitale.
Ingegnere di formazione, da giovane era stato tra i fondatori dell’Osservatorio di Cavezzo (MO), paese in cui era nato il 24 febbraio 1953, e tra i primi in Italia a costruire e usare una Camera CCD. Sempre come inseguito da una profonda inquietudine, condizione che lo costringeva (io credo) a misurarsi con una forse esagerata quantità di sempre nuovi progetti, Rodolfo era infatti capace di amare l’astronomia in ogni sua manifestazione, inventandosi ruoli, competenze e missioni che andavano dall’applicazione matematica, alla storia e alla ricerca sul campo passando per l’organizzazione minuziosa di eventi e spettacoli legati a certi suoi particolari corti circuiti mentali. Continue ebollizioni d’idee per cui Rodolfo, come un Leonardo da Vinci sempre in cerca di committenza, si aggirava in cerca di aiuti e sovvenzioni che purtroppo non arrivavano mai nella quantità sperata. E tutto questo si è poi riversato in un centinaio di articoli che in 20 anni di stretta collaborazione hanno trattato su Coelum, di cui per lungo tempo fu anche vice direttore, i più svariati aspetti della scienza astronomica.
In un suo racconto scritto per appoggiare e pubblicizzare una delle sue ultime idee, quella de il “Borgo di Urania”, una utopica cittadella delle stelle, Rodolfo previde scherzosamente anche la sua morte, raccontata da una lapide che così diceva: In memoria di Rodolfo Calanca (1953-2009), ideatore di questo sacro tempio di Urania.
Rodolfo se n’è andato invece il 2 gennaio scorso, ancora giovane e ancora vulcanico come un Giove tonante.
Un amico e un ricordo gentile dei tempi passati. Un cupo presentimento per quelli presenti.
Corsi online: Dal 13 gennaio al 24 febbraio 2021: Analisi del segnale per la rivelazione delle onde gravitazionali con rivelatori LIGO e Virgo
Obiettivo del corso è lo studio dei segnali gravitazionali dalla teoria fino alla detection “pratica” di un segnale sul proprio PC. Si parte da introduzione teorica di fisica e astrofisica per giungere a esercitazioni.
Il corso è tenuto dalla Prof.ssa Pia Astone, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, tra i sei firmatari dell’articolo sulla prima detection di un’onda gravitazionale.
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14.01.2021: Esopianeti tenuto dal Dr. Fabio Del Sordo
21.01.2021: Astronomia dei Neutrini tenuto dal Dr. Matteo Agostini
Nel tardo pomeriggio dei giorni tra il 9 e il 12 gennaio, quando ancora il cielo sarà rischiarato dalle intense luci del tramonto, guardando verso ovest, potremo ammirare l’evoluzione di una bella congiunzione planetaria che vedrà ancora coinvolti i due pianeti gassosi giganti, Giove e Saturno, e il piccolo Mercurio. Sarà una vera e propria danza quella in cui questi pianeti si esibiranno, molto bella da osservare a occhio nudo oppure da immortalare in una fotografia che riunisca in un unico scatto le riprese effettuate su diversi giorni.
Si inizia la sera del 9 gennaio, alle ore 17:20. L’orario scelto permette di arrivare a un compromesso tra la luminosità del cielo – e la conseguente possibilità di “staccare” i pianeti dal fondo – e l’altezza degli oggetti coinvolti, che saranno comunque molto bassi sull’orizzonte. Per osservare al meglio il fenomeno consigliamo di scegliere una location che permetta un’ampia visuale fino all’orizzonte, senza ostacoli per la vista.
Con il passare dei minuti il cielo si farà più scuro e i pianeti, quindi, più evidenti, ma saranno sempre più bassi: Saturno infatti, il primo dei pianeti a tramontare, scenderà sotto l’orizzonte alle ore 18. Il 9 gennaio vedremo quindi il brillante Giove (mag. –2,0) sovrastare gli altri pianeti, alto circa 5° 50’, con Saturno (mag. +0,6) subito sotto, a sudest di Giove, ben più difficile da scorgere considerata la sua magnitudine e, più sotto ancora, a sud di Giove, Mercurio (mag. –0,9). I tre formano un interessante triangolo luminoso. Giove si troverà a circa 2° 8’ da Saturno, che a sua volta disterà da Mercurio 1° 45’.
Il giorno seguente, il 10 gennaio alla medesima ora, vedremo chiaramente i pianeti giganti aver perso altezza sull’orizzonte, mentre Mercurio l’ha guadagnata, portandosi a circa 5° e mezzo di altezza sull’orizzonte.
Questo andamento proseguirà anche nei giorni seguenti e in particolare il giorno 12 vedremo finalmente il piccolo Mercurio raggiungere la posizione più elevata, superando in altezza (anche se di poco, ponendosi a 6° 56’) il re dei pianeti del Sistema Solare.
Per ciò che riguarda Saturno, invece, con il passare dei giorni noteremo che sarà sempre più difficile scorgerlo, al punto da non riconoscerlo più, ormai perso tra i colori del tramonto.
L’Associazione Astronomica del Rubicone (AAR) propone a tutti i propri soci a partire dal mese di gennaio due corsi online di astronomia sulla piattaforma GoToMeeting: il corso base di astronomia e il corso di astrofisica. Nel corso base di astronomia, in programma nella prima metà dell’anno, l’Associazione esplora i concetti principali della materia in modo semplice e coinvolgente. Le lezioni, a cura di astrofili, astrofisici ed esperti del settore, sono relative all’esplorazione spaziale e all’astronautica, agli oggetti celesti, ai cicli cosmici e ai calendari, all’archeoastronomia e al disegno astronomico. Parallelamente al corso base, parte il corso di astrofisica, pensato per gli addetti ai lavori, a cura dell’astrofisico Oriano Spazzoli e del consigliere dell’AAR Massimiliano Matteuzzi e dedicato, quest’anno, alla fisica quantistica e alle applicazioni astrofisiche. Per informazioni: https://bit.ly/2WkfLFD
L’Associazione Tuscolana di Astronomia (ATA) offre al pubblico di ragazzi e adulti il corso teorico “Star Academy”: dieci lezioni virtuali – sulla piattaforma GoToMeeting – a cura di ricercatori afferenti a Università e a Istituti di ricerca, tra cui l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), per conoscere la complessità dell’Universo. In particolare, le lezioni sviluppano e approfondiscono i temi della planetologia, dell’evoluzione stellare e della cosmologia. Il corso si concluderà nel mese di marzo e sarà seguito dal corso “Il cielo a portata di mano” sull’uso del telescopio e sull’astrofotografia – l’ultimo della Scuola di Astronomia dell’ATA di durata annuale Per informazioni: https://bit.ly/2LHSECU.
Proprio le numerose ore di buio permettono, in questo periodo, di spaziare dalle costellazioni autunnali più orientali (come i Pesci, il grande Pegaso o la più debole Balena), ancora visibili in prima serata verso ovest, fino alle regioni ricche di nebulose, ammassi e stelle splendenti tipiche del cielo invernale, per terminare, nella seconda parte della notte, con le prime avvisaglie della grande concentrazione di galassie del cielo primaverile, tra le plaghe celesti della Vergine e del Leone.
Giove, Saturno, la Luna e il Faro di Kevin Saragozza
La prima parte del mese la dedicheremo ancora a Giove e Saturno, che dopo la Grande Congiunzione dello scorso Solstizio d’Inverno, ora iniziano a perdere altezza e visibilità (Saturno più velocemente di Giove) e ad allontanarsi tra loro, non senza darci però ancora un paio di suggestive occasioni per osservarli e riprenderli. Marte resta nel cielo della sera, a nostra disposizione, ma anche lui anticipa il suo tramonto e diminuisce la sua brillantezza. Nel cielo della sera si fa invece spazio Mercurio, in una delle sue migliori visibilità per l’anno appena iniziato e si accompagnerà a Luna e pianeti finalmente alla sua portata. Venere mantiene, ancora per poco, il presidio del crepuscolo del mattino, diretto verso la congiunzione eliaca di fine marzo. Nemmeno i pianeti più distanti (non visibili a occhio nudo) Urano e Nettuno, gli faranno compagnia, anche loro relegati alla prima parte della notte.
Come ogni mese Francesco Badalotti ci guida attraversole formazioni più interessanti da osservare in ogni fasedel nostro satellite, ci indicatutte le librazionicon quelle zone del bordo tra lato visibile e lato nascosto della Luna che via via si rendono accessibili da Terra grazie al “dondolio” apparente della Luna nella sua orbita attorno alla Terra.
Prosegue poi il viaggio tra le principali formazioni della nostra Luna dal settore sudest verso nord(parte 9), questo mese consigliato per il 20 gennaio (ma come sempre una guida utilizzabile ogni volta che il nostro satellite si trova in condizioni simili di illuminazione), con un approfondimento sull’osservazione del sito di atterraggio dell’Apollo 16, dove gli astronauti Young e Duke, trascorsero 71 ore, con 20 ore e 14 minuti in attività extraveicolare, percorrendo 26,7 km sul suolo lunare a bordo del “Lunar Roving Vehicle – LRV”, raccogliendo un totale di 94,7 kg di campioni di rocce lunari ed effettuando carotaggi fino a una profondità di 3 metri! Sarò suggestivo osservare quelle lande, forse più noiose rispetto al resto delle formazioni lunari, ma sicuramente cariche di significato in un periodo in cui già si programma una nuova tappa per l’esplorazione umana della Luna.
Per quanto riguarda inveceluce cinerea e le sottili falcil’appuntamento è nella seconda parte della notte e prima dell’alba il 10 e 11 gennaio e, dopo il Novilunio, le sere del 14 e 15 gennaio.
Inizia un nuovo anno e con gennaio tornano a solcare i nostri cieli le belle scie luminose delle Quadrantidi. Ogni inizio anno è caratterizzato dal manifestarsi più o meno discreto di questo sciame meteorico, il cui nome deriva dalla obsoleta costellazione del Quadrante Murale (introdotta da Lalande nel 1795 e abolita nel 1922) che un tempo occupava la regione situata nella parte nordorientale del Boote, dove è situato il radiante.
Hai compiuto un’osservazione? Condividi le tue impressioni, mandaci i tuoi report osservativi o un breve commento sui fenomeni osservati: puoi scriverci a segreteria@coelum.com. E se hai scattato qualche fotografia agli eventi segnalati, carica le tue foto inPhotoCoelum!
Gennaio – Marzo 2021: Corsi di Astronomia dal vivo e su piattaforma telematica.
Si potranno eseguire comodamente da casa e, se si perde la diretta, le lezioni saranno online a disposizione dei corsisti. Iscrizioni e riduzioni sul sito.
Corso base di Astronomia Generale
Un meraviglioso viaggio alla scoperta dell’Universo e di tutti gli oggetti incredibili che lo popolano. Pulsar, quasar, buchi neri… Un corso completo dalle fasi della Luna al Big Bang
Corso Completo di Astrofotografia
Nove lezioni per conoscere tutto ciò che serve per realizzare spettacolari fotografie del cielo con qualsiasi strumento, dalla semplice reflex al telescopio, con le migliori tecniche di acquisizione ed elaborazione.
Eccoci giunti finalmente al momento della Grande Congiunzione tra Giove e Saturno: ne abbiamo parlato e l’abbiamo attesa per tutto l’anno! Anche se potreste pensare che, dopotutto, si tratti di una semplice congiunzione, in realtà, ciò che ci si presenterà davanti ai nostri occhi la sera del 21 dicembre, alle ore 17:30, è un fenomeno particolare.
Al di là del fatto che una congiunzione del genere si presenta solo una volta ogni vent’anni (ma congiunzioni così strette risultano in realtà più rare, come ci spiega Aldo Vitagliano nel suo articolo), osservandola e apprezzando l’eccezionale vicinanza tra i due brillanti pianeti, che ci sembreranno quasi toccarsi, dovremo forse ripercorrere con la mente quale grande importanza abbiano rivestito nella storia incontri astrali di questo genere. Ce ne ha parlato nel suo articolo Patrizia Nava. E così anche noi,proprio come Keplero secoli fa, punteremo il nostro sguardo curioso e forse un po’ emozionato in direzione sudovest, ammirando quel punto luminoso costituito dai due giganti gassosi stretti in un abbraccio appassionato, sullo sfondo ancora illuminato dalle colorate luci del tramonto.
Sarà una scena davvero speciale e suggestiva, e per gustarla saranno sufficienti i nostri occhi, senza l’ausilio di strumenti particolari. Sicuramente però anche al binocolo o addirittura al telescopio (tale è la vicinanza apparente tra i due pianeti) Giove e Saturno sapranno regalarci grandi soddisfazioni.
In caso di mal tempo, ma anche per vederla e comprenderla meglio, per seguire la grande congiunzione in diretta streaming, segnaliamo:
Dal Namib Naukluft, paradiso dell’astronomia, la Grande Congiunzione Giove-saturno dalle 18:30 accompagnati da Paolo Bassi e Luigi Bignami, con interviste a Aldo Vitagliano, Patrizia Nava, Roberto Ragazzoni, Luciano Iess e Cristian Fattinnanzi.
Direzione tecnica web: Gianluca Alò
Coordinamento della serata: Rodolfo Calanca, Paolo Bassi, Valeria Tienghi, Petter Johannesen.
Speciale evento online “LaNotte dei Congiunti” dalle ore 19:30 sul canale YouTube UAI e sulla pagina facebook UAI, evento dedicato alla scoperta e all’osservazione della spettacolare, strettissima congiunzione tra i giganti gassosi Giove e Saturno.
In questa immagine ripresa dal telescopio spaziale Hubble, vediamo la possibile orbita (ellisse tratteggiata) dell'esopianeta HD 106906 b. Questo mondo remoto si trova a un'enorme distanza dalle sue stelle ospiti, la cui luce brillante è mascherata per consentire di vedere il pianeta (ma le vediamo indicare al centro della maschera). Il pianeta risiede al di fuori del disco di detriti circumstellare del suo sistema, che è simile alla nostra fascia di Kuiper di piccoli corpi ghiacciati oltre Nettuno. Il disco stesso è asimmetrico e distorto, forse a causa del rimorchiatore gravitazionale del pianeta ribelle. Altri punti di luce nell'immagine sono stelle sullo sfondo.
In questa immagine ripresa dal telescopio spaziale Hubble, vediamo la possibile orbita (ellisse tratteggiata) dell’esopianeta HD 106906 b. Questo mondo remoto si trova a un’enorme distanza dalle sue stelle ospiti, la cui luce brillante è mascherata per consentire di vedere il pianeta (ma le vediamo indicate al centro della maschera). Il pianeta risiede al di fuori del disco di detriti circumstellare del suo sistema, simile alla nostra fascia di Kuiper di piccoli corpi ghiacciati oltre Nettuno. Il disco stesso è asimmetrico e distorto, forse a causa del rimorchiatore gravitazionale del pianeta ribelle. Altri punti di luce nell’immagine sono stelle sullo sfondo. Crediti: NASA, ESA, M. Nguyen (University of California, Berkeley), R. De Rosa (European Southern Observatory), and P. Kalas (University of California, Berkeley and SETI Institute)
Gli astronomi stanno ancora cercando il Planet Nine, il Pianeta Nove, un ipotetico pianeta nel Sistema Solare esterno, proposto nel 2012 per spiegare le perturbazioni nelle orbite dei pianeti nani che abitano poco dopo Nettuno. Fin’ora, tra smentite e nuove prove della sua esistenza, ancora non è stato trovato, ma nel frattempo è stato trovato quello che sembra essere il Planet nine di un altro sistema stellare.
L’esopianeta in questione, di massa 11 volte quella di Giove e chiamato HD106906 b, occupa infatti un’orbita improbabile attorno a una stella doppia a 336 anni luce di distanza da noi, e oltre ad essere la prima volta che si riesce a misurare il movimento di un pianeta gigante in un’orbita molto lontana dal suo sole (dai suoi soli, in questo caso), potrebbe anche darci un indizio su dove cercare il nostro PIaneta Nove. Lo studio è stato condotto da Meiji Nguyen dell’Università della California, Berkeley.
Quando è stato scoperto, grazie alle osservazioni dei telescopi Magellano presso l’Osservatorio Las Campanas nel deserto di Atacama in Cile, ha stupito la grande distanza in cui si trovava dalle sue stelle. L’esopianeta infatti, risiede estremamente lontano dalla sua coppia di stelle giovani e luminose, si trova a 110 miliardi di chilometri… più di 730 volte la distanza della Terra dal Sole! Questa ampia separazione ha reso enormemente difficile determinare l’orbita di 15.000 anni – il pianeta si sta muovendo molto lentamente lungo la sua orbita, data la debole attrazione gravitazionale delle sue stelle madri molto distanti. Servivano quindi osservazioni molto accurate del movimento del pianeta data la sua lentezza.
Il team del telescopio spaziale Hubble, l’unico a poter effettuare misurazioni così precise, è riuscito a farlo con osservazioni durate “solo” 14 anni, e si è anche accorto che il pianeta ha un’orbita estrema molto inclinata (attorno ai 21°), allungata ed esterna a un disco di detriti polveroso che circonda i suoi due soli.
«Per evidenziare quanto questo sia strano, possiamo semplicemente guardare il nostro Sistema Solare e vedere come tutti i pianeti giacciono all’incirca sullo stesso piano», ha spiegato Nguyen. «Sarebbe bizzarro se, diciamo, Giove fosse inclinato di 30 gradi rispetto al piano in cui orbita ogni altro pianeta. Questo solleva ogni sorta di domande su come HD 106906 b sia finito così lontano su un’orbita così inclinata».
Lo stesso disco di detriti è davvero straordinario, forse proprio a causa dell’influenza gravitazionale di questo pianeta vagabondo. «L’idea è che ogni volta che il pianeta si avvicina di più alla stella binaria, si agita il materiale nel disco», spiega De Rosa. «Quindi ogni volta che il pianeta passa, tronca il disco e lo spinge su un lato. Questo scenario è stato testato con simulazioni di questo sistema con il pianeta su un’orbita simile, prima che sapessimo quale fosse l’orbita del pianeta era».
L’ipotesi che spiega, al momento, come un pianeta possa arrivare a un’orbita così distante e stranamente inclinata, è che si sia formato molto più vicino alle sue stelle, circa tre volte la distanza della Terra dal Sole. Il muoversi all’interno di un disco gassoso e polveroso attorno al sistema ha causato il decadimento della sua orbita, costringendolo a migrare verso l’interno, verso i suoi ospiti stellari. Le forze gravitazionali delle stelle gemelle, che vorticano una attorno all’altra, lo hanno quindi spinto via in un’orbita eccentrica che lo ha quasi gettato fuori dal sistema, nel vuoto dello spazio interstellare.
A questo punto una stella deve essere passata molto vicino al sistema, stabilizzando l’orbita del pianeta e impedendogli di lasciare il suo sistema di origine. E, in effetti, i ricercatori hanno identificato una serie di stelle candidate che soddisferebbero i requisiti, utilizzando misurazioni precise della distanza e del movimento stellare dal satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea.
Questo scenario serve anche a spiegare come la bizzarra orbita di HD106906 b possa essere simile in qualche modo a quelle di un ipotetico Planet Nine che si troverebbe ai confini esterni del nostro Sistema Solare, oltre la Fascia di Kuiper.
Un’impressione artistica del Pianeta Nove, che eclissa il nucleo della Via Lattea, con il Sole visto sullo sfondo. Il circoletto giallo attorno al Sole indica l’orbita di Nettuno, a dimostrazione di quanto lontano dovrebbe essere tale pianeta gigante, se esistesse. Credit: ESO/Tom Ruen/nagualdesign
Potrebbe essersi formato nel Sistema Solare interno per poi essere stato espulso dalle interazioni con Giove, che lo avrebbe lanciato ben oltre Plutone. Il passaggio di alcune stelle potrebbe aver quindi stabilizzato l’orbita del pianeta espulso allontanando il percorso dell’orbita da Giove e dagli altri pianeti del Sistema Solare interno.
«È come se avessimo a disposizione una macchina del tempo per il nostro Sistema Solare, che tonra indietro nel tempo fino a 4,6 miliardi di anni fa, per vedere cosa può essere successo quando il nostro giovane Sistema Solare era dinamicamente attivo e tutto veniva spostato e riorganizzato», spiega Paul Kalas del Università della California, Berkeley, e componente del team che ha condotto lo studio.
Ad oggi, gli astronomi hanno solo prove circostanziali dell’esistenza del Pianeta Nove. Un’ipotesi alternativa è che non si tratti di un solo pianeta perturbatore gigante, ma che si tratti invece di uno squilibrio dovuto all’influenza gravitazionale combinata di più oggetti molto più piccoli.
«Nonostante la mancata individuazione del Pianeta Nove fino ad oggi, l’orbita del pianeta può essere dedotta in base al suo effetto sui vari oggetti nel Sistema Solare esterno», spiega Robert De Rosa dell’ESO di Santiago, in Cile, che ha guidato lo studio. «Questo suggerisce che se un pianeta fosse davvero responsabile di ciò che osserviamo nelle orbite di oggetti transnettuniani, dovrebbe avere un’orbita eccentrica inclinata rispetto al piano del Sistema Solare. Questa previsione dell’orbita del Pianeta Nove è simile a ciò che stiamo vedendo con HD 106906 b».
Gli scienziati che utilizzeranno il prossimo telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA, intendono ottenere dati aggiuntivi su HD106906 b per comprendere meglio questo peculiare sistema a due soli con un pianeta gigante in un’orbita eccentrica, di dato e di fatto, ai suoi lontani confini. Tra le altre cose, l’intenzione è quella di comprendere bene dove e come si è formato e se il pianeta ha detriti attorno.
«Ci sono ancora molte domande aperte attorno a questo sistema» ha aggiunto De Rosa. «Ad esempio, non sappiamo in modo definitivo dove o come si è formato il pianeta. Sebbene abbiamo effettuato la prima misurazione del movimento orbitale, ci sono ancora grandi incertezze sui vari parametri orbitali. È probabile che sia gli osservatori che i teorici studieranno HD 106906 negli anni a venire, svelando i molti misteri di questo straordinario sistema planetario».
Indice dei contenuti
21 dicembre 2020
La Grande Congiunzione Giove-Saturno
Lo studio ha esplorato la possibilità che l’evoluzione dell’epidemia COVID-19 veda coinvolti, tra i molteplici meccanismi di trasmissione, non solo l’interazione tra le persone, ma anche alcuni fattori ambientali: per questo, è stata valutata la diffusione spaziale dell’epidemia in Italia durante il periodo della sua prima ondata (febbraio-maggio 2020), caratterizzata da un maggior impatto nelle regioni settentrionali, ed è stata evidenziata una correlazione statisticamente molto significativa fra il numero di decessi e di pazienti affetti da COVID-19 in ciascuna regione italiana e l’intensità della radiazione ultravioletta (UV) solare, valutata alla superficie terrestre, in tutte le regioni, mediante rilevazioni sia satellitari che al suolo.
Data: 21 Dicembre 2020
Orario: 21.30 (UTC+1)
A cura di: Associazione AstronomiAmo Ospiti:
• Giancarlo Isaia – Professore di Geriatria all’Università di Torino e Presidente dell’Accademia di Medicina
• Henri Diéroz – Ricercatore dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Valle d’Aosta
Corsi online
Si potranno seguire comodamente da casa e, se si perde la diretta le lezioni saranno online a disposizione dei corsisti. Iscrizioni e riduzioni sul sito.
– Astronomia Pratica
– Astronomia Generale
– Fotografia Astronomica
– Astrofisica e Cosmologia
– Astronomia Fondamentale
– Archeoastronomia
– Consulenza per corsisti e appassionati
Per partecipare all’evento compilare il modulo al link presente nella pagina di ogni singolo evento.
Consulta il sito web www.ataonweb.it/wp/eventi per maggiori informazioni. Venerdì 4 dicembre alle ore 21:00 è in programma l’evento virtuale “Stelle in famiglia”. L’evento divulgativo rientra nell’ambito dell’iniziativa “AstroIncontri@Home”, che ha la finalità di offrire a tutti i soci e simpatizzanti dell’ATA un’opportunità di svago e di crescita culturale e di dare continuità all’opera di diffusione della cultura astronomica durante l’emergenza da Covid-19.
Altri Appuntamenti ATA
Gli incontri si terranno presso il Parco Astronomico “Livio Gratton”, Via Lazio, 14 – Rocca di Papa: 11.12, ore 20:15 e 21:30: L’Universo turbolento 18.12, ore 20:15 e 21:30: Serata speciale: la Stella di Natale
Il tardo pomeriggio del 17 dicembre, alle ore 18:30, potremo assistere a una bella congiunzione tra la Luna e i pianeti Giove e Saturno. Potreste pensare che ci troviamo di fronte all’ennesimo incontro tra la Luna e la coppia di pianeti, come si è verificata anche durante i mesi appena trascorsi e da un certo punto di vista è sicuramente così. Questa volta però possiamo contare su qualcosa di differente e di grande impatto: la vicinanza dei due giganti gassosi che, a differenza dei mesi scorsi, si è fatta ora davvero accentuata. Sappiamo infatti che Giove e Saturno hanno passato mesi a rincorrersi per culminare nella Grande Congiunzione del 21 dicembre.
Esaminando questa che ci troveremo davanti, potremo notare la Luna, in forma di falcetto (fase dell’11%) posizionarsi a circa 6° e mezzo dalla coppia di pianeti, alla loro sinistra (in un sistema altazimutale). Giove e Saturno saranno brillanti (mag. –1,2 e +0,6 rispettivamente) e facilmente riconoscibili: ci sembreranno due gemme lucenti nel cielo della sera, separate di appena 20’ circa.
Complessivamente si tratta di un quadretto celeste davvero bello che potremo sicuramente apprezzare a occhio nudo e immortalare in uno scatto fotografico a largo campo. Come nel caso precedente il consiglio è quello di non ridurre troppo la focale: con obiettivi fortemente grandangolari la nostra fotografia abbraccerà sicuramente un’ampia fetta di paesaggio ma renderà meno evidenti gli astri protagonisti della congiunzione.
Qui a destra due delle rubriche di astrofotografia di Giorgia Hofer (Uno scatto al mese nei numeri di novembre e dicembre di Coelum Astronomia) con alcuni spunti utili per la ripresa dell’evento.
Meglio sarà ricorrere a focali medie, per inquadrare i soggetti mantenendoli ben intelligibili avendo cura di introdurre nella ripresa elementi del paesaggio naturale o architettonico circostante. A tal proposito potrebbe risultare più semplice attendere che Luna e pianeti siano più bassi: basterà attendere meno di un’ora per avere i soggetti decisamente più bassi sull’orizzonte e quindi disponibili a creare interessanti giochi prospettici con gli elementi che ci circondano. Sperimentiamo ora! Sarà un’esperienza utile in vista della grande congiunzione.
Data: 17 Dicembre 2020
Orario: 21:30 (UTC + 1)
A cura di: Ivam Delvecchio – Associazione AstronomiAmo Ospite: Enrico Di Teodoro – Postdoc all’Università John Hopkins di Baltimora (USA), già postdoc presso L’Università Nazionale dell’Australia (Camberra, AU) nel gruppo del Prof. M. McClure- Griffiths. Ha conseguito il PhD in Astronomia presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Bologna nel 2015, con la tesi “Kinematics and dynamics of galaxies from line observations”, sotto la supervisione del Prof. Filippo Fraternali. Nel suo lavoro, utilizza alcuni tra i più potenti telescopi radio e infrarossi (principalmente APEX, GBT, Parkes, ASKAP, GMRT, ATCA) unitamente a modelli numerici per esplorare le proprietà cinematiche e dinamiche di galassie locali. Anche esperto poliedrico delle varie proprietà multi-frequenza che caratterizzano il mezzo interstellare diffuso all’interno delle galassie.
21 dicembre 2020, diretta web dalle 18:30 alle 19:45 (Ora italiana)
sulla pagina Facebook Italy Namibia Astronomy
Direzione tecnica web: Gianluca Alò
Conduce la serata: Luigi Bignami
18.30 (ora italiana): Inizio serata: introduzione di Luigi Bignami
(Giove-Saturno a 26° sull’orizzonte, luci del tramonto, i pianeti visibili nel campo del telescopio dalla HAKOS
FARM).
18.35: Collegamento web con HAKOS FARM in Namibia. Presentazione dell’Osservatorio da parte di Paolo Bassi e Luigi Bignami intervista:
• Aldo Vitagliano, esperto di calcolo delle orbite e delle Effemeridi, autore del software SOLEX, ex docente all’Università di Napoli, descrive le congiunzioni più strette del passato e del futuro;
• Patrizia Nava, storica, racconta la grande congiunzione di Keplero del 1603 e del 1623;
• Roberto Ragazzoni, direttore Osservatorio INAF di Padova, “Missioni future sui pianeti esterni”; • Luciano Iess, dipartimento Ingegneria Aerospaziale all’Università La Sapienza di Roma, “Missioni Cassini e Juno, i risultati”; • Cristian Fattinnanzi, astrofotografo, “Come si fotografano i pianeti in alta risoluzione con strumentazione amatoriale”.
19.27: Spazio alle domande via chat 19.37: Saluto e conclusioni dalla Hakos Farm: intervengono Paolo Bassi e chiusura di Luigi Bignami
Coordinamento della serata: Rodolfo Calanca, Paolo Bassi, Valeria Tienghi, Petter Johannesen. Si ringraziano, per il fondamentale contributo, gli amici della Hakos Farm.
21 dicembre 2020
La Grande Congiunzione Giove-Saturno
Dopo una spasmodica attesa e una lunga serie di test preliminari, poco fa si è concluso letteralmente con il botto il “salto” di prova del prototipo SN8 di Starship, il nuovo sistema di lancio di SpaceX. Frutto del gran lavoro degli ingegneri dell’azienda di Musk, la Starship è decollata alle 23:45 italiane dal centro sperimentale di Boca Chica, Texas. Il prototipo ha volato per circa sei minuti e quaranta secondi.
Anche se il “salto” si è concluso con un atterraggio durissimo che ne ha causato la distruzione, SN8 ha raggiunto senza dubbio molti degli obiettivi probabilmente attesi dai suoi costruttori (sebbene mai chiaramente annunciati in anticipo), tra i quali la raccolta di dati preziosi durante tutte le varie fasi del suo volo.
Prima di continuare con il nostro racconto, vale la pena gustarsi il video della diretta streaming di SpaceX, fino all’ultimo fatidico istante.
Da vari tweet pubblicati da Elon Musk negli scorsi giorni possiamo affermare che gli obiettivi di massima per il volo di SN8 erano:
• decollare con successo dalla rampa di Boca Chica spinto da 3 motori Raptor
• arrivare alla quota di 12,5 chilometri
• effettuare la manovra “backflip“, cioè perdere in modo controllato l’assetto verticale, spegnere i Raptor e disporsi in assetto planato con controllo aerodinamico di alette e sistema di razzetti ausiliari
• recuperare l’assetto verticale
• riaccendere il/i motori Raptor e compensare fino ad annullare il movimento orizzontale indotto dal volo planato
• ritornare verso la zona di atterraggio
• atterrare sulla piazzola predisposta
Starship SN8 in volo planato – Credits: SpaceX
Di questi punti solo l’ultimo è stato mancato, probabilmente (visto anche il colore verdastro della fiamma) per un problema di alimentazione dei propellenti. Musk ha confermato tale ipotesi, rivelando via Twitter un problema di bassa pressione nel serbatoio del propellente (quello nel “naso” del prototipo).
Credits: SpaceX
Con riprese da altre angolazioni, che quasi sicuramente saranno diffuse nelle prossime ore anche dalle troupe di fan e youtuber presenti sul posto, sarà con ogni probabilità possibile analizzare meglio come sia stato gestito il momento apicale del volo, quando cioè è sembrato che lo spegnimento di due dei tre Raptor fosse stato programmato per gestire una fase librata, probabilmente utile a preparare al meglio la manovra di backflip.
Fuel header tank pressure was low during landing burn, causing touchdown velocity to be high & RUD, but we got all the data we needed! Congrats SpaceX team hell yeah!!
SN8 è atterrato troppo duramente ed è esploso, ma il punto è che lo ha fatto esattamente sulla piazzola di atterraggio. Questo testimonia la già avanzata capacità di SpaceX di controllare il volo di un razzo completamente nuovo, che ha sì ereditato l’esperienza maturata con il software di controllo dal veterano Falcon 9, ma che ha una fase di volo orizzontale del tutto inedita e innovativa.
Non è chiaro, inoltre, se i tre Raptor abbiano funzionato come previsto nelle fasi finali della discesa, che è avvenuta con un solo Raptor in funzione ed è terminata con un RUD (Rapid unscheduled disassembly, “smontaggio” rapido non programmato 🙂 ).
Il momento dell’esplosione di SN8 sulla piazzola di atterraggio. – Credits: SpaceX
In ogni caso, a dispetto della pirotecnica conclusione, quello raggiunto oggi da SpaceX rimane un primo, storico successo. Pochi si sarebbero aspettati che già al primo volo di un prototipo si sarebbero raggiunti tanti traguardi. Va chiarito subito infatti che quello cui abbiamo potuto assistere è una tecnica di atterraggio mai sperimentata prima da un razzo vettore, che peraltro ha visto in funzione una serie di sottosistemi fino ad oggi provati solo singolarmente o in forma statica.
I resti di Starship SN8 sulla piazzola di Boca Chica – Credits: SpaceX
SN8 è ormai distrutto, ma a Boca Chica i lavori sui prototipi continuano ininterrotti, e sono già arrivati alle fasi di produzione di SN15. Il prototipo SN9 appare ormai praticamente pronto, e siamo certi che nel giro di qualche settimana potremo assistere ad un nuovo tentativo di “salto”, che speriamo sia coronato da pieno successo.
Come abbiamo spiegato in precedenza, il motivo stesso per il quale SpaceX sta assemblando tutti questi prototipi è proprio perché si aspettano di romperne tanti, in un processo iterativo dove migliorie e raffinamenti tecnici saranno apportati sulle Starship via via che la sperimentazione prosegue.
La sonda Voyager continua a fare scoperte anche mentre viaggia nello spazio interstellare. In un nuovo studio, i fisici dell'Università dell'Iowa riportano i risultati delle osservazioni da parte delle sonde Voyager di elettroni dei raggi cosmici associati a eruzioni solari, a più di 23 miliardi di chilometri di distanza dalla Terra. Crediti: Nasa/Jpl
La sonda Voyager continua a fare scoperte anche mentre viaggia nello spazio interstellare. In un nuovo studio, i fisici dell’Università dell’Iowa riportano i risultati delle osservazioni da parte delle sonde Voyager di elettroni dei raggi cosmici associati a eruzioni solari, a più di 23 miliardi di chilometri di distanza dalla Terra. Crediti: Nasa/Jpl
A più di 40 anni dal lancio, le due sonde Voyager continuano a fare importanti scoperte. In un nuovo studio, pubblicato su Astronomical Journal, un team di fisici guidati dall’Università dello Iowa riporta il primo rilevamento di raffiche di elettroni di raggi cosmici accelerati da onde d’urto originate da grandi eruzioni solari. Il rilevamento, effettuato dagli strumenti a bordo delle due sonde, si è verificato mentre le Voyager stanno continuando il loro viaggio attraverso il mezzo interstellare. Ricordiamo che la sonda Voyager 1 ha varcato l’eliopausa – il confine tra il plasma solare caldo e il plasma interstellare, relativamente freddo – il 25 agosto del 2012, mentre la Voyager 2 ha lasciato l’eliosfera il 5 novembre 2018.
Nel numero di coelum astronomia 217, per l’anniversario dei 40 anni dal lancio delle missioni Voyager uno speciale dedicato a queste due straordinarie sonde. In formato digitale e gratuito, clicca sull’immagine e leggi!
Le raffiche di elettroni di alta energia (circa 5–100 MeV) appena rilevate sono come un’avanguardia, accelerata lungo le linee di forza del campo magnetico nel mezzo interstellare: hanno viaggiato quasi alla velocità della luce, circa 670 volte più veloci delle onde d’urto che inizialmente li hanno spinti via. Alle raffiche di elettroni sono seguite oscillazioni delle onde di plasma, causate da elettroni a energia più bassa che sono giunti fino agli strumenti delle due Voyager giorni dopo. In alcuni casi, fino a un mese dopo, è stata rilevata anche l’onda d’urto stessa.
Le onde d’urto in questione sono state rilasciate da espulsioni di massa coronale: esplosioni di plasma ed energia che si muovono dalla superficie del Sole verso l’esterno, a circa un milione e mezzo di chilometri all’ora. Anche a quelle velocità, ci vuole più di un anno perché raggiungano le due sonde Voyager, che stanno viaggiando rispettivamente a circa 23 miliardi di chilometri (Voyager 1) e 19 miliardi di chilometri (Voyager 2) dalla Terra.
I fisici ritengono che gli elettroni energetici rilevati dalle sonde nel mezzo interstellare siano riflessi da un forte campo magnetico al bordo dell’onda d’urto e successivamente accelerati dal movimento dell’onda d’urto stessa. Gli elettroni riflessi si muovono quindi a spirale lungo le linee del campo magnetico interstellare, guadagnando velocità all’aumentare della distanza tra loro e lo shock.
Il tempo intercorso tra la rilevazione dei raggi cosmici riflessi dall’onda d’urto e l’inizio delle oscillazioni del plasma ha permesso, per la prima volta, di stimare l’energia dei fasci di elettroni responsabili delle oscillazioni del plasma (circa 20–100 eV). Le osservazioni delle due sonde sono state combinate in un modello autoconsistente – chiamato foreshock model – che descrive l’interazione delle onde d’urto di origine solare con il plasma interstellare.
In un articolo del 2014, pubblicato su ApJ Letters, i fisici J. Randy Jokipii e József Kóta avevano descritto teoricamente come gli ioni riflessi dalle onde d’urto potrebbero essere accelerati lungo le linee del campo magnetico interstellare. Questo studio esamina le raffiche di elettroni rilevati dalla sonda Voyager, che si pensa siano accelerati da un processo simile a quello descritto dai due fisici. «L’idea che le onde d’urto accelerino le particelle non è nuova», dice Gurnett. «Ha tutto a che fare con il modo in cui funziona, il meccanismo. E il fatto che l’abbiamo rilevato in un nuovo regno, il mezzo interstellare, che è molto diverso dal vento solare dove sono stati osservati processi simili. Nessuno l’aveva mai visto con un’onda d’urto interstellare, in un mezzo completamente nuovo».
La scoperta potrebbe aiutare i fisici a comprendere meglio le dinamiche alla base delle onde d’urto e della radiazione cosmica che provengono dai brillamenti stellari (la cui luminosità può cambiare velocemente, a causa dell’attività violenta sulla superficie delle stelle) e dalle stelle che esplodono. È importante considerare la fisica di tali fenomeni nel momento in cui si intendono inviare astronauti per escursioni lunari o marziane prolungate, durante le quali potrebbero essere esposti a concentrazioni di raggi cosmici di gran lunga superiori a quelle che sperimentiamo abitualmente sulla Terra.
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