Osservatorio per le Onde Gravitazionali sulla Luna
di Ferdinando Patat e Silvia Piranomonte
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ABSTRACT
La rivelazione delle onde gravitazionali ha inaugurato una nuova era dell’astrofisica, consentendo di studiare il cosmo attraverso le vibrazioni dello spazio-tempo. Tuttavia, la banda delle frequenze intermedie (0.01–1 Hz) rimane oggi inesplorata: le limitazioni dovute al rumore sismico e atmosferico dei rivelatori terrestri e i vincoli tecnologici di quelli spaziali hanno creato un vero e proprio “deserto osservativo”.
La Lunar Gravitational-Wave Antenna (LGWA) propone di colmare questo gap sfruttando la Luna come rivelatore naturale, misurando le sue deformazioni globali indotte dal passaggio di onde gravitazionali attraverso una rete di stazioni sismografiche ultra-sensibili installate in regioni permanentemente in ombra al polo sud lunare, estremamente silenziose e stabili dal punto di vista sismico e termico.
Questo approccio permetterà di investigare fenomeni finora invisibili, tra cui buchi neri di massa intermedia, binarie di nane bianche e sistemi che precedono esplosioni di supernova, oltre a fornire preziose informazioni sulla struttura interna del nostro satellite e sull’origine della Luna.
LGWA rappresenta quindi un progetto visionario e complementare a futuri interferometri terrestri e spaziali, aprendo la strada a un osservatorio gravitazionale planetario unico nel suo genere e alla piena realizzazione dell’astronomia multi-messaggera nel dominio delle frequenze intermedie.
Quando, nel settembre 2015, i rivelatori LIGO negli Stati Uniti e Virgo in Italia captarono un segnale di due buchi neri in collisione, si aprì una finestra completamente nuova sull’Universo. Per la prima volta, invece di osservare il cosmo attraverso la luce, ne ascoltavamo le vibrazioni dello spazio-tempo: le onde gravitazionali.
Predette un secolo prima da Einstein, queste minuscole increspature – con ampiezze pari a un millesimo del diametro di un protone – viaggiano alla velocità della luce trasportando informazioni dirette su eventi cataclismici altrimenti invisibili a qualsiasi telescopio.
Oltre a questa scoperta epocale ne arrivò presto un’altra. Nell’agosto del 2017, gli interferometri LIGO e Virgo rivelarono il segnale GW170817 associato per la prima volta alla fusione di due stelle di neutroni che, a differenza dei buchi neri, emettono anche la luce. Nel giro di pochi secondi, decine di telescopi in tutto il mondo si orientarono verso la stessa regione di cielo, catturando un lampo gamma seguito da emissioni ottiche, infrarosse e radio. Nacque così l’astronomia multi-messaggera, capace di osservare lo stesso evento cosmico attraverso “messaggeri” diversi – onde gravitazionali, fotoni di ogni energia, e potenzialmente neutrini – fornendo una visione più completa e coerente del fenomeno.
In meno di un decennio, LIGO e Virgo sono riusciti a catalogare centinaia di fusioni di buchi neri insieme a due eventi di collisioni tra stelle di neutroni, consolidando così la nuova disciplina dell’astronomia gravitazionale.

Il deserto delle Frequenze Intermedie
Ogni evento astrofisico che coinvolge masse in rapido movimento genera onde gravitazionali a frequenze caratteristiche.
Le fusioni di buchi neri stellari – con masse pari a qualche decina di volte quella del Sole – come anche quelle di stelle di neutroni, producono segnali compresi tra 10 e 1000 Hz. Questo intervallo rientra nella banda di frequenza operativa degli attuali rivelatori terrestri, come LIGO e Virgo e in futuro dell’Einstein Telescope (ET), l’interferometro sotterraneo di terza generazione in fase di progettazione in Europa, che promette una sensibilità fino a dieci volte superiore.
I buchi neri supermassicci, di milioni o miliardi di masse solari situati al centro delle galassie, generano invece onde a frequenze molto più basse, da 0.1 millihertz a 0.1 Hz, che il futuro interferometro spaziale LISA dell’Agenzia Spaziale Europea, potrà rivelare a partire dal 2035.
Fra questi due mondi – tra un decimo di hertz e qualche hertz – ad oggi si estende un vero e proprio deserto osservativo. Questa è la regione dei decihertz, dove si celano eventi chiave come i buchi neri di massa intermedia che collegano quelli stellari a quelli supermassicci, le fusioni di stelle di neutroni e nane bianche, i precursori delle esplosioni di supernova e altri fenomeni fondamentali per comprendere l’evoluzione dell’universo.
Per osservare questi fenomeni serve un rivelatore in grado di captare frequenze più basse di quelle accessibili sulla Terra, ma non così basse come quelle che LISA rivelerà dallo spazio.
In altre parole, serve una piattaforma che faccia da ponte osservativo tra gli interferometri spaziali e quelli terrestri, che sia stabile e silenziosa. Come vedremo, tra i corpi del Sistema Solare, la Luna sembra essere uno dei candidati più adatti a offrire le condizioni necessarie. Ed è qui che entra in scena la Lunar Gravitational-wave Antenna (LGWA), un progetto audace e visionario proposto da un consorzio internazionale guidato da ricercatori del Gran Sasso Science Institute (GSSI), dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). Ne avevamo già anticipato alcune notizie in Coelum n°254.
L’idea è tanto semplice quanto rivoluzionaria: utilizzare la Luna stessa come un gigantesco rivelatore di onde gravitazionali, sfruttando le sue uniche caratteristiche geofisiche per riempire quel gap osservativo che nessun altro strumento può colmare.
Un’alternativa ai Metodi Interferometrici
La caccia alle onde gravitazionali è iniziata molto prima che l’era LIGO/Virgo consacrasse l’interferometria laser, grazie a una brillante idea del fisico Joseph Weber. Il principio su cui si fonda quest’idea è molto semplice. Quando un corpo elastico viene colpito o sollecitato da un segnale periodico, inizia a vibrare. Se la frequenza del segnale assume dei valori specifici, che dipendono dalle proprietà fisiche del corpo stesso, questo entra in risonanza e le oscillazioni si amplificano enormemente. Weber pensò di sfruttare proprio questo effetto, intuendo che il passaggio di un’onda gravitazionale, comprimendo e stirando lo spazio, avrebbe potuto far entrare in risonanza delle pesanti barre metalliche. Weber ebbe quest’idea dopo aver ascoltato Richard Feynmann alla storica conferenza di Chapel Hill nel 1957, durante la quale il noto fisico americano aveva esposto il seguente argomento: se le onde gravitazionali avevano realtà fisica, fatto sul quale all’epoca non tutti erano d’accordo, allora dovevano necessariamente trasportare energia e questa poteva essere dissipata, rendendo quindi possibile la loro rivelazione diretta. Un ragionamento dalla limpidezza sconcertante, che portava lo studio le onde gravitazionali dal campo puramente teorico, cui erano rimaste confinate per quarant’anni, a quello sperimentale.

Perseguendo tenacemente questa idea, negli anni che seguirono Weber e i suoi collaboratori realizzarono diversi detector di questo tipo, costituiti da cilindri di alluminio lunghi circa due metri e del peso di svariate tonnellate, sospesi in modo da isolarli dal rumore esterno e connessi a sensori piezoelettrici atti a rivelarne le vibrazioni. Facendo un parallelo musicale, si può immaginare il tutto come un sistema di microfoni che registrino il suono emesso da una campana tubolare quando il musicista la percuote col mazzuolo. Solo che nel caso delle barre di Weber l’ampiezza dell’oscillazione prevista attorno alla loro frequenza di risonanza (fra 1 e 2 kHz, quindi nel dominio delle frequenze udibili) era dell’ordine di 10⁻16 m: una frazione di metro pari a un decimilionesimo di miliardesimo — molto meno del diametro di un nucleo atomico. Le misure erano ostacolate dalle limitazioni tecnologiche e dall’elevato livello del rumore generato dall’agitazione termica all’interno del metallo, rumore che possiamo paragonare al fruscio in una registrazione. Per mitigare i disturbi ambientali, Weber usò coppie di rivelatori posti a mille chilometri di distanza e connessi da una rete telefonica veloce. Sulla base dei dati raccolti, alla fine degli anni ’60 annunciò di aver osservato eventi compatibili con le onde gravitazionali. Tuttavia, esperimenti indipendenti, fra i quali quelli condotti qui in Italia da Edoardo Amaldi, Guido Pizzella e i loro collaboratori, non confermarono i risultati di Weber, tanto che la comunità scientifica concluse che quei segnali dovevano essere spuri. Ciò nonostante, oltre ad aver dato un impulso fondamentale alla ricerca sperimentale sulle onde gravitazionali, l’idea seminale di Weber ebbe un importante ed immediato risvolto.

Infatti, dalla barra risonante alla gravimetria il passo concettuale è breve: invece di misurare le vibrazioni di un corpo che entri in risonanza, si possono rilevare minuscole variazioni del campo di gravità locale indotte dalle deformazioni globali subite dal corpo al passaggio di un’onda gravitazionale. Proprio con questo spirito — e con Weber tra i promotori — durante la missione Apollo 17 fu portato sulla Luna il Lunar Surface Gravimeter (LSG), uno strumento di precisione che avrebbe dovuto, nelle intenzioni di chi lo aveva ideato e progettato, misurare sia le deformazioni mareali della crosta lunare sia eventuali oscillazioni indotte dalle onde gravitazionali. L’LSG però mancò il suo obiettivo: un errore di taratura legato all’adattamento dell’apparato alla gravità lunare, la ridotta capacità di regolazione fine e alcuni problemi termici ne compromisero il funzionamento. In realtà, come si è capito in seguito, né le barre di Weber né l’LSG possedevano la sensibilità necessaria alla rivelazione diretta delle onde gravitazionali. Il concetto di entrambi gli esperimenti era troppo avanti rispetto alla tecnologia disponibile all’epoca, ma lasciava in eredità un’idea visionaria: che un corpo celeste potesse essere usato come un enorme rivelatore.
Genesi di un’Idea
Alla fine degli anni duemila, negli Stati Uniti si sta analizzando la fattibilità di un telescopio sotterraneo per le onde gravitazionali, concettualmente simile a quello dell’Einstein Telescope di cui si sta discutendo in Europa. Jan Harms è un post-doc alla University of Minnesota, ed è alla ricerca di un sito adatto al nuovo progetto. Sta studiando gli effetti del rumore ambientale a un chilometro e mezzo di profondità, in fondo ai cunicoli di una vecchia miniera d’oro nel South Dakota. Esegue dei test e raccoglie dati, finché si convince che la tecnica dell’interferometria laser, quella utilizzata da LIGO e Virgo, alle basse frequenze si sarebbe presto scontrata con dei limiti invalicabili, anche quando fosse stata impiegata a grandi profondità nel sottosuolo terrestre. Nonostante i vantaggi offerti da un rivelatore sotterraneo, non sarebbe mai stato possibile eliminare le fluttuazioni del campo di gravità causate dall’atmosfera e dalle onde sismiche.

Harms giunge così alla conclusione che, per studiare le onde gravitazionali a frequenze inferiori a pochi Hertz, sarebbe stato necessario sviluppare altri concetti, nuove idee. Negli anni successivi prosegue la ricerca in quella direzione, con un gruppo di ricercatori che lavora allo studio di un ricevitore terrestre per la banda dei decihertz. A seguito di un incontro tenutosi alle Hawai’i nel 2012, quando Jan è ricercatore presso il Caltech, lui e i suoi collaboratori pubblicano un articolo in cui giungono ad una scoraggiante conclusione: non c’è alcuna strada tecnologicamente praticabile per ridurre il rumore di fondo terrestre in modo da rendere possibile l’osservazione di onde gravitazionali fra i 0.01 Hz e qualche Hz. La via sembra chiusa.
Nel corso del 2013, Harms prosegue i suoi studi sul rumore ambientale insieme a Michael Coughlin, uno studente della Harvard University. Per comprendere a fondo i limiti fondamentali imposti dal rumore ambientale, i due scaricano su un cluster del California Institute of Technology tutti i dati sismici allora pubblicamente disponibili. Ed è proprio durante l’analisi di quei dati che Harms s’imbatte in un articolo di Freeman Dyson — una lettura destinata a cambiare il corso delle sue ricerche e a gettare le basi della Lunar Gravitational Wave Antenna. In quella pubblicazione, uscita più di quarant’anni prima, Dyson presentava un modello di come un corpo come la Terra risponda alle sollecitazioni meccaniche indotte dal passaggio di onde gravitazionali. In linea di principio il risultato è promettente, ma l’ampiezza prevista per il segnale è così piccola che il rumore sismico e atmosferico lo sovrastano: anche questa via pare chiusa. Harms non si dà per vinto e lavora ad un metodo che gli permetta di ridurre questo disturbo. I dettagli sono complessi, ma il concetto è questo: è possibile diminuire il rumore se si dispone di misure indipendenti e simultanee, ed il risultato migliore si ottiene quando le stazioni sismografiche sono una agli antipodi dell’altra. Harms e Coughlin si mettono al lavoro e, correlando coppie di stazioni e anni di dati ottenuti da ogni stazione, calcolano i nuovi limiti di sensibilità. Il risultato è straordinario: l’utilizzo della correlazione fra coppie di segnali indipendenti permette una riduzione del rumore di cento milioni di volte. Harms e Coughlin pubblicano i loro risultati su Physical Review, in una serie di tre articoli. Nell’ultimo di questi utilizzano i dati raccolti dalle missioni Apollo. Nonostante la scarsità e la qualità delle informazioni a disposizione, i due ricercatori raggiungono un risultato fondamentale per gli sviluppi di questa storia: la Luna è il sito ideale per la realizzazione del concetto di misura ideato da Freeman Dyson nel 1969.
Gli studi si fermano per qualche anno e anche se l’idea rimane in sospeso, è troppo brillante per cadere nell’oblio. In occasione della Call for Ideas dell’ESA del 2020, dedicata all’esplorazione lunare con un grande lander europeo, un gruppo di ricercatori italiani si incontra per discutere un possibile progetto da presentare all’agenzia spaziale. Del gruppo fa parte anche Marica Branchesi, che si ricorda dei precedenti studi di Harms sui dati sismici lunari e propone di rimettere mano a quell’idea. La proposta viene accolta con entusiasmo e nel giro di poche settimane il concetto di LGWA prende forma.
Il progetto prevede l’installazione di almeno quattro stazioni sismiche, capaci di rilevare le oscillazioni della Luna nella banda che va da 1 millihertz a 10 hertz, nella regione del Mare delle Tempeste.
Le stazioni, disposte a formare un array di circa un chilometro di diametro, sarebbero state posizionate con precisione da una flotta di droni autonomi.
Poco tempo dopo si costituisce formalmente la collaborazione LGWA, che tiene il suo primo incontro ufficiale nell’autunno dello stesso anno. Nel 2021 viene pubblicato su The Astrophysical Journal il primo articolo dedicato al progetto, in cui vengono presentati il concetto generale e i primi studi sui casi scientifici della missione. Da quel momento la collaborazione cresce rapidamente, approfondendo sia gli aspetti scientifici che quelli tecnologici e avviando i primi contatti con potenziali partner industriali. Le attività di questa fase esplorativa culminano nell’autunno del 2024 con la pubblicazione del white paper, che presenta il progetto in forma dettagliata ed è frutto di una collaborazione internazionale che comprende oltre settanta ricercatori.
L’articolo è disponibile a questo link https://arxiv.org/html/2404.09181v1 .
Dalla Terra alla Luna
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L’articolo è pubblicato in COELUM 277 VERSIONE CARTACEA














