Home Articoli e Risorse On-Line Astronautica ed Esplorazione Spaziale L’ultima missione del Columbia segna una pietra miliare nell’astronautica

L’ultima missione del Columbia segna una pietra miliare nell’astronautica

Letto 12.736 volte
1
Tempo di lettura: 25 minuti

Vediamo come è composta la protezione termica delle ali dello shuttle. In particolare, quella del bordo d’attacco, che è la zona sottoposta alle più gravi sollecitazioni strutturali durante il rientro ed è quella all’origine dell’incidente. Durante la fase finale della missione la navetta deve rallentare dalla velocità orbitale di ventottomila chilometri all’ora a quella di circa Mach 1, quando il comandante ed il pilota assumono il totale controllo del veicolo e lo portano manualmente all’atterraggio sulla pista del KSC in Florida, a pochi chilometri di distanza dalla rampa di lancio da cui sono decollati.

La fase di rientro è in pratica un complicato calcolo di energia posseduta dal veicolo, che deve tener conto del bilancio termico che il veicolo dovrà affrontare per ridurre la sua velocità, della sua quota e farlo arrivare esattamente dove si vuole farlo atterrare. Quindi la traiettoria è studiata in modo tale che il riscaldamento del veicolo sia il minore possibile, affrontando solo con la parte inferiore della navetta, ricoperta dalle piastrelle più resistenti, l’onda d’urto del rientro. Questa zona può sopportare temperature che arrivano a milleseicento gradi. Solo alcune altre parti, vale a dire il naso, il bordo d’attacco del timone e delle ali, devono sopportare simili temperature, e per questo motivo sono ricoperte da piastrelle in carbonio, le famose RCC (Reinforced Carbon Carbon). Queste piastrelle, nere esternamente, sono costituite da fibre di carbonio immerse in resine epossidiche, con ulteriori composti a base di carbonio come rinforzanti. Le piastrelle così costituite sono leggerissime e molto delicate. Il Columbia aveva la caratteristica, visibile e riconoscibile, di portare queste piastrelle anche sulla parte anteriore superiore delle ali.

Il Columbia al decollo in una precedente missione. (NASA)
Il Columbia al decollo in una precedente missione. (NASA)

Essendo costituite in pratica da puro carbonio, evidentemente, le piastrelle, pure essendo un ottimo sistema di isolamento termico, non sono esattamente indicate per sopravvivere a lungo: il calore generato dal rientro e l’aggressività dell’ossigeno alle alte temperature causano un consumo delle piastrelle, che in pratica vaporizzano a strati, bruciando e generando volgare ossido di carbonio. In pratica, le piastrelle di questo tipo, pur ottimamente isolanti, si comportano anche in maniera simile agli scudi termici ablativi di vecchia concezione.

Ma ciò è facilmente evitabile. Queste piastrelle vengono ricoperte, solo nella zona del bordo d’attacco, di uno strato di materiale refrattario a base di silicio, di colore grigio, dello spessore tra i cinque e i dieci millimetri. Inoltre, due strati di un composto trasparente, un legante e un agente sigillante, formano la copertura esterna, di aspetto vetroso. Così il bordo d’attacco è perfettamente protetto. Ma comunque delicatissimo. La pressione di un dito è sufficiente a produrre un danno visibile.

piastrelle in carbonio rinforzate
Le piastrelle in carbonio rinforzate (RCC) sul bordo d’attacco dell’ala sinistra. Sono numerate da 1 a 17. Secondo i risultati dell’indagine l’incidente è stato originato dal danneggiamento dei pannelli tra 7 e 10. (CAIB – NASA)

L’impatto del frammento di isolante al decollo ha quasi sicuramente causato l’asportazione di parte del materiale superficiale dei pannelli del bordo d’attacco, in pratica una sorta di cratere, come era già stato osservato in parecchi voli precedenti, sebbene in misura molto più piccola. Durante il rientro i gas caldi causati dall’attrito sono lentamente penetrati attraverso il cratere, bruciando quello che rimaneva delle piastrelle sottostanti, e arrivando, dapprima, a surriscaldare e poi a fondere i cavi elettrici dei sensori che mano a mano sparivano dagli schermi dei controllori a terra. E, continuando l’opera distruttiva, arrivando a intaccare le strutture in alluminio dell’ala (l’alluminio brucia a soli settecento gradi). Che a un brutto momento ha ceduto, rompendosi e staccandosi dall’orbiter. Questo è, in estrema sintesi, il momento finale della missione.

La sequenza dell’impatto del frammento di isolante. (CNN)
La sequenza dell’impatto del frammento di isolante. (CNN)

Sappiamo, per averlo letto approfonditamente, che molti ingegneri in seno alla NASA si scambiavano email su previsioni del comportamento della navetta in caso di danneggiamenti dello scudo termico in seguito a urti in fase di decollo con oggetti dalla densità comparabile a quella dell’isolante dell’ET. E sappiamo che molti, tecnici ed ingegneri, hanno espresso dubbi e preoccupazioni. L’amministratore della NASA Sean O’Keefe ha dichiarato, nei giorni immediatamente successivi a quello dell’incidente, che di quelle comunicazioni non ha saputo mai nulla, perché se fosse successo avrebbe immediatamente avviato le procedure per un prolungamento della missione in economia per studiare la faccenda (e per operare, magari, una sorta di “salvataggio”, di ciò parlerò nel prossimo articolo). Il proseguimento del suo discorso è che il contenuto di quelle famose e-mail tra ingegneri non era altro che un normale scambio di battute ingegneristiche tra scienziati e tecnici che sviluppavano il normale lavoro del progettista, chiedendosi a ogni piè sospinto cosa potrebbe succedere in caso di ogni microscopica anomalia. Insomma, il normale lavoro dell’ingegnere.

L’attuale amministratore della NASA, Sean O’ Keefe (CNN)
L’attuale amministratore della NASA, Sean O’ Keefe (CNN)

In parte ciò è vero, perché in NASA esiste una profonda e radicata gerarchia, anzi, a ben vedere, ne esistono diverse, tra i vari reparti destinati a diversi settori di attività. Queste gerarchie rappresentano compartimenti stagni, per così dire, che non è veramente possibile attraversare, per una sorta di regolamento non scritto. Una specie di piramide in cui non ci si può permettere di scalare un gradino. I piani alti, quelli della dirigenza in particolar modo, NON comunicavano tra di loro, in primo luogo per la preoccupazione di NON interrompere le missioni in corso e quelle in preparazione, dato che i contratti con le grandi industrie per i voli del programma della stazione internazionale, siglati da tempo, devono proseguire, bene o male. L’importante è soprattutto garantire una certa regolarità dei voli, cosa che gradualmente si è ottenuta, anche in tempi di continui tagli del bilancio, a scapito della manutenzione dei veicoli.

Quindi i dubbi dei tecnici allarmati non hanno potuto essere portati con la necessaria forza, quella dell’esperienza e della casistica ben catalogata, ai responsabili del programma spaziale. Che in effetti trovavano sempre facile sostenere come non necessari studi sui problemi delle navette quando rientravano sempre felicemente, anche se con alcuni parametri molto al di fuori di quelli scritti negli antichi manuali. Insomma, ci si affidava, piuttosto che alle prescrizioni del costruttore, al fatto che le missioni venivano portate a compimento nonostante tutto. Questo non è certo un bell’esempio di professionalità all’americana. I dirigenti si disinteressavano spesso dei problemi segnalati, oppure non ricevevano nemmeno i rapporti allarmati, perché tanto nei piani immediatamente inferiori si reputavano come privi di consistenza e di dati oggettivi. Certo, perché non c’erano i fondi per analizzare le anomalie, per testare i veicoli, per sviluppare correttivi e tecnologie migliorative. In pratica, lo sviluppo del veicolo, una cosa assolutamente necessaria ed importante, era reso difficoltoso e spesso impossibile solamente per il clima di insofferenza e disinteresse del management.

Un aspetto che il CAIB ha evidenziato è quello della mancanza, all’interno della NASA, di una figura di riferimento, di una figura guida, una persona di piena responsabilità. Questo compito non può certamente essere sostenuto dall’amministratore, persone come Dan Golden prima e da circa un anno Sean O’ Keefe non possedevano e non possiedono queste prerogative che invece erano, per fare un esempio con i tempi dell’Apollo, di James Webb. Cioè persone che avessero il polso dell’intero ente, ai più bassi livelli, in contatto con tecnici, maestranze, astronauti. Che vivessero con loro, insieme a loro. Certo, erano i tempi dell’entusiasmo puro, della corsa alla luna e dell’orgoglio nazionale, mentre oggi viviamo nell’era della estrema professionalità specializzata, della estrema regolamentazione e della burocrazia dilagante. Non c’è più lo spazio per la creatività, quella che , per fare un esempio eclatante, permise, con l’Apollo 13, di salvare un equipaggio su una navicella danneggiata da un’esplosione (e non dall’impatto di un pezzo di isolante), inventando al momento procedure non scritte sui manuali, inventando macchine da costruire con i materiali che si sapeva esistere sul modulo di comando per risolvere il problema dell’addensamento dell’anidride carbonica, per ricalcolare la traiettoria, per provare nei simulatori le manovre da spiegare subito dopo agli astronauti. Puro lavoro di cervello e responsabilità fuori dal comune.

Il Columbia si era trovato in una situazione estremamente simile, e c’era il tempo per studiare attentamente il problema, nella relativamente tranquilla orbita terrestre, con il veicolo perfettamente sicuro e manovrabile e dotato di scorte per un mese di sopravvivenza. Parleremo in un prossimo articolo dei sistemi di salvataggio dello shuttle, delle manovre di emergenza e di eventuali missioni di soccorso, aspetti che sono stati attentamente studiati durante l’inchiesta.

Il CAIB, con il documento pubblicato il ventisei agosto non ha cercato colpevoli da punire, ha invece tracciato una diversa direzione per nuovamente intraprendere la strada dell’esplorazione dello spazio, fidando del fatto che le risorse umane sono presenti in NASA ma che è necessario porsi adesso nuove domande. I veicoli di cui disponiamo oggi, le altre tre navette, sono macchine estremamente complicate che richiedono amorose cure per funzionare e che, alla luce dei due gravi incidenti che hanno segnato la storia dello space shuttle, anche una serie di modifiche tecniche per aumentarne la sicurezza, che comunque non potrà mai raggiungere elevati standards. E’ certo che le raccomandazioni del CAIB sono rivolte non già a ricostruire gli attuali shuttle, quanto piuttosto a cercare di mantenerli in ordine per il solo tempo necessario per la costruzione di un nuovo e completamente diverso sistema di trasporto per lo spazio, cosa di cui la nazione americana ha assolutamente bisogno. Certo, ci vorranno nuove motivazioni, nuovi e più consistenti mezzi e, anche, un nuovo entusiasmo. E bisogna tener presente che non ci si può fermare, perché c’è in orbita la ISS, la stazione spaziale internazionale, che necessita di cure costanti e di rifornimenti regolari. E con le tre navette superstiti, di fatto, non c’è più margine per un altro incidente.

Da questo momento in poi l’esplorazione dello spazio (che di fatto negli ultimi venti anni, cioè dalla fine dell’epoca delle storiche missioni lunari, è diventata la semplice andata e ritorno dalla tranquilla orbita terrestre) andrà condotta con maggiore serietà e senza più quell’aria di “routine” che aveva nuovamente preso piede dopo la ripresa dei voli in seguito all’incidente del Challenger. Ancora oggi, a più di quarant’anni di distanza dal primo volo umano, andare nello spazio rappresenta ogni volta un piccolo miracolo, una vera impresa.

Le conclusioni del rapporto indicano chiaramente che lo spazio è una risorsa assolutamente irrinunciabile per l’uomo, e sottolineano che bisogna garantire agli astronauti degli standard di confort e sicurezza che garantiscano la sua vita. E questa deve tornare ad essere la prima preoccupazione del programma spaziale. Ogni missione andrà vista, preparata e condotta come se fosse la prima, queste sono le testuali parole del prezioso documento.

ricordi
Ricordi

Come sempre succede, le giornate tristi dell’astronautica (che sono inevitabili e a dire la verità sono anche state veramente poche anche se ogni volta, purtroppo, spettacolari) servono a ricompattare l’opinione pubblica, almeno negli USA. In questo momento sondaggi molto mirati dicono che la NASA è guardata con affetto e con partecipazione, in misura forse maggiore rispetto al tremendo periodo successivo all’incidente del Challenger. E’ veramente il momento giusto per cominciare a rivedere i programmi previsti per i prossimi anni.

Serve soprattutto un nuovo veicolo di trasporto che abbia capacità di carico magari minori della navetta attuale ma che garantisca agli astronauti maggiori livelli di sicurezza. E bisogna cominciare SUBITO, perché un nuovo veicolo richiede tempi di progetto e di sviluppo che contano tra i sette e i dieci anni. Le attuali navette sono state progettate negli anni ’70 e di fatto rappresentano l’evoluzione delle tecnologie Apollo. Sono state definite vecchie e sorpassate, ma ciò non è assolutamente vero. Pensiamo solo alla navetta Endeavour, quella costruita per sostituire il Challenger, che di fatto ha una vita operativa di dieci anni più breve del di quella del Columbia. Questi veicoli sono eccezionali per complessità e per quantità di sistemi imbarcati, ma ancora oggi gli astronauti bramano per salirvi a bordo e portarli in orbita.

Chi arriva al comando dello space shuttle corona il sogno di una vita: è la passione che fa vedere agli astronauti le cose in misura totalmente diversa da quanto possiamo percepire noi comuni mortali dall’esterno. Ebbene, questa passione di alcuni uomini verso queste macchine dimostrano quanto vi sia di buono e di positivo nell’astronautica USA, nonostante l’incidente di cui stiamo oggi parlando.

E fidando sulla passione e sulla indubbia competenza che moltissime persone a tutti i livelli in NASA possiedono, c’è da scommettere che molte cose cambieranno. Il punto di ripartenza sarà contraddistinto dal documento emesso dal CAIB, vero fondamento per la nuova astronautica USA. E nasceranno delle novità che potrebbero avere il sapore della riscoperta.

Cristiano Casonati
criscaso@libero.it


1 commento