Per chi si affaccia allo studio dell’astronomia, ci sono domande che riceviamo con piacere, perfino con entusiasmo, e altre che generalmente riceviamo con più circospezione: tra queste ultime, c’è una domanda che suona più o meno così: “come è nato l’universo?”. Una domanda abbastanza comune, forse perfino banale nella sua semplicità. E allora, perché questa piccola tensione ogni volta che la sentiamo?
Perché, ovviamente, questa non è una semplice domanda, ma un vero e proprio labirinto epistemologico. Non solo per la difficoltà intrinseca di definire cosa intendiamo esattamente con “universo”, ma anche perché possono esistere infiniti modi di interpretare questa domanda, da quello più strettamente scientifico: “quali sono le attuali conoscenze cosmologiche riguardo l’origine dell’universo così come lo osserviamo?”; a quello più ampio e filosofico: “perché esiste qualcosa invece che niente?”, per dirla con Leibniz. Questa ambiguità, semantica ed epistemologica, genera inevitabilmente un certa dose di confusione, specialmente perché i vari ambiti della conoscenza non sono sempre chiaramente demarcati all’interno del discorso. Le risposte possono quindi essere non solo molteplici, a seconda del modo in cui viene interpretata la domanda, ma poliedriche, mescolando insieme frammenti diversi in un caleidoscopio di riflessi e di rimandi che spesso risulta difficile da separare anche per il più accorto degli osservatori.

COPYRIGHT: Pubblico dominio
Quando ci domandiamo “come è nato l’universo?” non stiamo infatti ponendo semplicemente una domanda sulla natura della realtà, ma la stiamo interpretando attraverso i riflessi prismatici della nostra identità: culturale, sociale, religiosa, mentale, perfino linguistica. Di conseguenza, anche quando ci applichiamo con severità per rispon dere limitandoci al consenso della comunità scientifica sulle conoscenze attuali riguardo l’origine e l’evoluzione dell’universo, siamo pienamente consapevoli delle infinite possibilità di fraintendimenti. Per questo, è sempre apparso straordinariamente affascinante (e meravigliosamente ironico) che il modello cosmologico attualmente preferito per descrivere la nascita dell’universo sia stato pensato, primo fra tutti, da un uomo in egual misura di fede e di scienza… e che lo stesso uomo abbia successivamente voluto rimarcare in più occasioni l’irriducibile differenza tra indagine scientifica e sentimento religioso.
Nato nella città belga di Charleroi nel 1894, Georges Edouard Lemaître fu uno scienziato straordinariamente rigoroso ma al tempo stesso profondamente religioso, portando avanti contemporaneamente entrambi gli aspetti della sua personalità: ottenuto il dottorato in matematica a 25 anni, fu ordinato sacerdote (presbitero) della Chiesa Cattolica dopo soli tre anni. Folgorato dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein, si concentrò sugli aspetti matematici, pubblicando nel 1927 un articolo intitolato “Un Univers homogène de masse constante et de rayon croissant rendant compte de la vitesse radiale des nébuleuses extragalactiques” (“Un universo omogeneo di massa costante e di raggio crescente che tiene conto della velocità radiale delle nebulose extragalattiche”) nel quale non solo sollevava, in modo indipendente da quanto fatto da Aleksandr Fridman alcuni anni prima l’ipotesi dell’espansione dell’universo partendo dalle fondamenta matematiche della teoria della relatività generale, ma deduceva correttamente che lo spostamento verso il rosso della luce che giunge a noi dalle galassie più lontane, misurato da Hubble negli anni precedenti, fosse una dimostrazione sperimentale di questa espansione dell’universo.

Successivamente, nel 1931, in una comunicazione alla rivista Nature dal titolo “The Beginning of the World from the Point of View of Quantum Theory”, portando all’indietro nel tempo l’idea dell’espansione dell’universo, il sacerdote belga si spinse a fare queste riflessioni: “Se andiamo indietro nel corso del tempo, troveremo sempre meno quanti, finché non troveremo tutta l’energia dell’Universo impacchettata in pochi di questi, o addirittura in uno solo. […] Se il mondo è cominciato con un singolo quanto, i concetti stessi di spazio e tempo cesserebbero completamente di avere alcun senso al momento dell’inizio; […] Se questo suggerimento è corretto, l’inizio del mondo è avvenuto appena prima dell’inizio dello spazio e del tempo.” Questa idea, che verrà battezzata in seguito da Lemaitre come “ipotesi dell’atomo primordiale”, contiene in sé quella che è ancora oggi la visione dominante dell’origine dell’universo: il modello cosmologico del Big Bang che descrive l’espansione dell’universo a partire da una “singolarità primordiale” che conteneva al suo interno tutta l’energia che ritroviamo oggi nell’universo.
Non è difficile ravvedere, in questa visione dell’origine dell’universo a partire da un evento cosmogonico incommensurabilmente energetico, un riflesso del racconto della Genesi che descrive la creazione dell’universo da parte della Divinità. Sarebbe quindi fin troppo facile immaginare come la cultura, la tradizione, forse anche il sentimento religioso di Lemaître abbia avuto un ruolo fondamentale nell’intuizione che ha portato alla formulazione dell’ipotesi dell’atomo primordiale e quindi del modello cosmologico del Big Bang. E invece, negli anni successivi, fu Lemaître stesso a rimarcare in diverse occasioni come lui considerasse il suo percorso scientifico totalmente separato dal suo cammino religioso.
Nella sua opinione, la teoria del Big Bang non offriva né una conferma né una contraddizione rispetto alla sua fede nella Bibbia: anzi, ogni somiglianza doveva essere trattata con estrema cautela, proprio per non cadere in facili fraintendimenti. Questa cautela si manifesterà perfino nelle interlocuzioni con Papa Pio XII: in un discorso del 1951 all’Accademia Pontificia delle Scienze, infatti, il Pontefice aveva notato come le teorie cosmologiche che stavano accumulando sostegno in quel periodo avessero dei tratti in comune con il racconto biblico. “Pare davvero che la scienza odierna, risalendo d’un tratto milioni di secoli, sia riuscita a farsi testimone di quel primordiale «Fiat lux», allorché dal nulla proruppe con la materia un mare di luce e di radiazioni, mentre le particelle degli elementi chimici si scissero e si riunirono in milioni di galassie.”

COPYRIGHT: CC 4.0 foto di JoJan
Tuttavia, in discorsi successivi, quel particolare passaggio non è stato più pronunciato: e sebbene le circostanze siano aneddotiche, ci sono ragioni di pensare che sia stato proprio Lemaître, in alcuni incontri in preparazione per un suo intervento al Congresso Mondiale di Astronomia del 1952, a scoraggiare il Papa dall’inseguire facili visioni “concordiste” tra scienza e fede. Secondo il sacerdote belga, infatti, abbracciando una creazione “naturale” dell’universo, campo di studio e di indagine della scienza, si rischiava di confondere, e in definitiva indebolire, tutto l’impianto teologico di una creazione “sovrannaturale” del cosmo, patrimonio esclusivo della dottrina e della rivelazione. Non stupisce quindi che proprio un uomo in egual misura di fede e di scienza sia stato una delle voci più autorevoli sulla separazione tra indagine scientifica e sentimento religioso.
E così anche noi, qualunque siano le nostre convinzioni sulla realtà ultima dell’universo, ci sentiamo forse un po’ meno soli quando, come persone che si occupano di astronomia, sperimentiamo quella piccola tensione di fronte alla domanda “come è nato l’universo?”
L’articolo è pubblicato in Coelum 261