Nell'immagine l'ombra di Hayabusa 2 proiettata sulla superficie di Ryugu, nel punto in cui è stato effettuato il primo touch down. La macchia scura al centro è il segno della piccola esplosione che è servita alla sonda per raccogliere i campioni da riportare a Terra. Crediti: Jaxa, University of Tokyo, Kochi University, Rikkyo University, Nagoya University, Chiba Institute of Technology, Meiji University, University of Aizu, Aist
Nell’immagine l’ombra di Hayabusa 2 proiettata sulla superficie di Ryugu, nel punto in cui è stato effettuato il primo touch down. La macchia scura al centro è il segno della piccola esplosione che è servita alla sonda per raccogliere i campioni da riportare a Terra. Crediti: Jaxa, University of Tokyo, Kochi University, Rikkyo University, Nagoya University, Chiba Institute of Technology, Meiji University, University of Aizu, Aist
I primi risultati dell’analisi dei dati ottenuti dal “falco pellegrino” Hayabusa2 dell’agenzia spaziale giapponese Jaxa sull’asteroide Ryugu – anticipati martedì scorso in Texas durante la 50esima Lunar Planetary Science Conference – vengono pubblicati sul numero di Science di questa settimana. Un piccolo “speciale” di tre articoli, due dei quali firmati anche dai due ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica direttamente coinvolti nella missione, Ernesto Palomba e Davide Perna.
Tre articoli, guidati da altrettanti team di ricerca internazionali, che descrivono massa, dimensioni, forma, densità, spin e proprietà geologiche del corpo celeste. Caratteristiche volte a definire il contesto geologico necessario per comprendere al meglio le analisi dei campioni che la sonda sta ancora raccogliendo, destinati a giungere sulla Terra alla fine del 2020.
La prima cosa che colpisce, pensando all’asteroide tanto amato dal chitarrista dei Queen Brain May, è senza dubbio la forma: a spinning-top shape, una “trottola”, la definisce il primo dei tre studi pubblicati Science, guidato da SeiIchiro Watanabe della Nagoya University. Ma la forma non è l’unica caratteristica che ha colpito i ricercatori. Tra i risultati, dicevamo, c’è anche la sua densità: 1.19 grammi per centimetro cubo. Una densità bassa, che suggerisce per questa trottola spaziale un cuore molto poroso. Quanto alla la massa, si parla di 450 milioni di tonnellate, con un’incertezza di appena l’1.3 per cento. Ma non è finita, grazie alle analisi da remoto, gli autori hanno identificato un potenziale sito di atterraggio per una ulteriore raccolta di campioni, l’analisi dei quali – alla luce di quelli già ottenuti – può meglio chiarire come Ryugu abbia acquisito una forma così bizzarra.
Nel secondo articolo, il team di ricerca guidato da Seiji Sugita, dell’università di Tokyo, ha invece cercato di ricostruire l’albero genealogico dell’asteroide, le sue origini. Piccoli asteroidi come Ryugu – dicono i ricercatori – potrebbero essersi formati nel corso dell’evoluzione del Sistema solare a seguito della distruzione catastrofica di corpi assai più vecchi e al successivo riaccumulo dei cocci. La preponderanza di materia con scarsissime tracce di acqua porta poi i ricercatori a ipotizzare che il progenitore di Ryugu fosse anch’esso un corpo estremamente arido, ma non è l’unico scenario possibile.
«Sia la morfologia che l’uniformità delle caratteristiche spettrali dell’asteroide Ryugu», dice a questo proposito Davide Perna, dell’Inaf osservatorio astronomico di Roma, fra i coautori dell’articolo, co-investigator dello spettrometro infrarosso Nirs3 a bordo della sonda, «fanno pensare che questo corpo celeste si sia formato a seguito di un impatto primordiale subìto da un corpo celeste “genitore”, i cui frammenti si siano riaggregati per costituire l’asteroide come oggi lo osserviamo. L’energia termica sviluppatasi in questo impatto potrebbe aver causato una parziale disidratazione del materiale, giustificando così la debole intensità osservata per la banda di assorbimento dell’OH».
I risultati delle analisi spettroscopiche a infrarossi sulla composizione della superficie di Ryugu ottenuti dal terzo team – quello guidato da Kohei Kitazato dell’università di Aizu, sempre in Giappone, e che vede fra gli autori anche i due ricercatori dell’Inaf – offrono un quadro ancora più completo. Quest’ultimo studio, in particolare, ha messo in luce la presenza di minerali idrati nella superficie scura dell’asteroide. Una presenza che fa supporre ai ricercatori di trovarsi davanti a qualcosa di affine alle condriti carbonacee, visto che i dati spettrali sono simili a quelli di queste meteoriti.
«Dall’analisi dei dati dello strumento Nirs3 a bordo della sonda Hayabusa 2», spiega infattiErnesto Palomba dell’Inaf Iaps di Roma, fra i coautori dell’articolo, membro del team Hayabusa2,co-investigator della camera Onc e dello spettrometro infrarosso Nirs3, «si evince che Ryugu ha una superficie molto scura e possiede una struttura spettrale che è indicativa della presenza in superficie di materiale contenente ossidrile, lo ione dell’acqua costituito da un atomo di ossigeno e uno di idrogeno (OH). Questo materiale risulta presente sulla superficie dell’asteroide in modo omogeneo, ma in lieve abbondanza».
Un mosaico gobale della superficie di Bennu, ottenuto dalle immagini raccolte durante la survey preliminare dalla camera PolyCam a lungo raggio (OCAMS). Anche senza poterne apprezzare i dettagli delle ultime immagini a distanza ravvicinata, è già evidente come il compito di chi deve individuare una zona pulita e senza massi sia alquanto complesso. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona
Una ripresa in cui è visibile un getto di particelle e sassi dalla superficie di Bennu. E’ una somma di due immagini raccolte il 19 gennaio scorso, elaborate per evidenziare il dettaglio dello “sbuffo”. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona/Lockheed Martin
Abbiamo da poco rilanciato una news Media INAF sui tanti risultati pubblicati su Nature dai dati della missione Osiris-Rex, che già dalla NASA arriva un ulteriore sorpresa che il piccolo asteroide Bennu ci ha riservato.
Un’immagine del 7 marzo che mostra un bordo dell’emisfero sud ripreso da una distanza di 5 chilometri. Il sasso più grande di colore chiaro, più o meno al centro dell’immagine, è largo circa sette metri e mezzo. Salta all’occhio l’asperità del terreno, praticamente ricoperto da grossi massi. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona
In orbita attorno al NEO (Bennu è uno degli asteroidi classificati come vicini alla Terra, Near Earth Objects), la sonda Osiris-Rex, dopo avercene mostrato la natura aspra dal terreno fortemente accidentato e costellato di massi – ben oltre le previsioni del team di missione che ha quindi dovuto modificare i suoi piani iniziali per la raccolta di un campione da riportare a Terra – ci mostra ora una caratteristica di Bennu del tutto inaspettata: getti di particelle sparati dalla sua superficie!
Che ci sia a volte una commistione tra comete e asteroidi era già successo, ma nulla del genere ci si aspettava accadesse su Bennu.
«La scoperta dei pennacchi è una delle più grandi sorprese della mia carriera scientifica», ha dichiarato Dante Lauretta, PI della missione OSIRIS-REx presso l’Università dell’Arizona. «E il terreno così aspro va contro tutte le nostre previsioni. Bennu ci sta già sorprendendo, e il nostro entusiasmante viaggio è solo agli inizi».
Poco dopo la scoperta del pennacchio di particelle, il 6 gennaio mentre la sonda si trovava a poco più di un chilometro e mezzo dalla superficie, il team scientifico della missione ha aumentato la frequenza delle osservazioni, rilevando la presenza di ulteriori emissioni nell’arco dei due mesi successivi. Sebbene molte di queste particelle siano state chiaramente espulse da Bennu, ne sono state invece individuate altre che orbitavano attorno all’asteroide come mini satelliti, per poi ricadere sulla sua superficie.
Dopo una iniziale cautela, si è verificato che il tutto non rappresenta un pericolo per la sonda, e quindi si sta continuando a studiare le particelle e a ricercare nuovi sbuffi per comprendere come e perché si formino.
«I primi tre mesi di indagine ravvicinata su Bennu di OSIRIS-REx ci hanno ricordato cosa significa andare alla scoperta: sorprese, rapidità di pensiero e flessibilità», ha commentato Lori Glaze, direttore della Divisione di Scienze Planetarie presso la sede della NASA a Washington. «Studiamo asteroidi come Bennu per comprendere l’origine del Sistema Solare. I campioni raccolti da OSIRIS-REx ci aiuteranno a rispondere ad alcune delle più grandi domande su da dove veniamo».
Dalle osservazioni terrestri non ci si è nemmeno avvicinati a quella che è risultata essere la morfologia della superficie dell’asteroide. Ci si aspettava una superficie per lo più liscia con alcuni massi di grandi dimensioni, mentre si è rivelata ruvida e densa di massi. Le previsioni erano state fatte in base sia alle rilevazioni radar, che in base a studi e modelli di inerzia termica dell’asteroide (la sua capacità di condurre e immagazzinare calore). I modelli utilizzati finora per gli asteroidi di questo tipo si sono quindi dimostrati inadeguati, e andranno migliorati in base ai dati raccolti a distanza ravvicinata.
Un mosaico gobale della superficie di Bennu, ottenuto dalle immagini raccolte durante la survey preliminare dalla camera PolyCam a lungo raggio (OCAMS). Anche senza poterne apprezzare i dettagli delle ultime immagini a distanza ravvicinata, è già evidente quanto complesso sia il compito di chi deve individuare una zona pulita e senza massi per la… “toccata e fuga”. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona
Questo significa anche che i piani per la raccolta dei campioni – il Touch-and-Go (TAG), già rinominato Bullseye TAG (occhio di bue) – andranno modificati. A causa del terreno accidentato, così come è successo per la missione giapponese Hayabusa 2 su Ryugu, non sarà possibile individuare un terreno libero dalle asperità di almeno 25 metri di raggio, e si dovrà, sempre come per la cugina giapponese, ripiegare su aree più piccole, con maggiori rischi e necessità di operazioni più precise.
«Durante le operazioni di OSIRIS-REx nelle vicinanze di Bennu, il nostro team di volo ha dimostrato che possiamo raggiungere prestazioni di sistema che superano i requisiti di progettazione», ha dichiarato Rich Burns, project manager di OSIRIS-REx presso il Goddard Space Flight Center della NASA. «Bennu ci ha lanciato una sfida per affrontare il suo terreno accidentato, e siamo certi che OSIRIS-REx è all’altezza del compito». Accidentato e… sbuffante, aggiungiamo noi.
Per tutte le altre scoperte ottenute fin’ora, i cui studi sono stati pubblicati su Nature nei giorni scorsi, potete consultare l’articolo Media INAF: Tutto quello che volevate sapere su Bennu.
Indice dei contenuti
Sorprendente Sistema Solare KBO e pianeti nani alla riscossa!
Queste tre immagini acquisite dalla sonda Osiris-Rex della Nasa mostrano un’ampia inquadratura e due primi piani di una regione dell’emisfero settentrionale di Bennu. Le immagini sono state scattate il 25 febbraio mentre la navicella spaziale era in orbita intorno a Bennu, a circa 1,8 km dalla superficie dell’asteroide. Crediti: Nasa Goddard/University of Arizona
Questa serie di immagini (cliccare sull’immagine se non parte l’animazione) è stata realizzata dalla sonda Osiris-Rex e ci mostra l’asteroide Bennu in una rotazione completa da 80 km di distanza. La fotocamera PolyCam della sonda ha ottenuto i trentasei frame da 2.2 millisecondi per un periodo osservativo di 4 ore e 18 minuti. Crediti: Nasa Goddard Space Flight Center/University of Arizona
Il piccolo asteroide Bennu oggi è protagonista nel mondo scientifico. Sono infatti sette i diversi articoli – pubblicati oggi su Nature, Nature Astronomy, Nature Geoscience e Nature Communications – che vanno a comporre una sorta di numero speciale interamente dedicato ai risultati delle ricerche svolte sull’asteroide, per indagarne l’evoluzione e capire il ruolo dei corpi celesti primordiali nella nascita della vita sul nostro pianeta.
Le analisi sono frutto delle indagini svolte grazie agli strumenti scientifici a bordo della sonda della Nasa Osiris-Rex, in cui l’Istituto nazionale di astrofisica partecipa con i ricercatori Maurizio Pajola, Elisabetta Dottoe John Robert Brucato, cui abbiamo chiesto un commento sui principali risultati ottenuti fino ad oggi, di cui si parla nei diversi articoli. Lo studio di Bennu, della sua forma e della sua evoluzione, ci aiuterà a raggiungere una maggiore comprensione di quella che è stata l’evoluzione del Sistema solare. Gli asteroidi, come le comete, sono dei residui rimasti del suo processo di formazione, e quello che si cerca di capire è se un asteroide come Bennu possa aver introdotto sulla Terra materiale contenente acqua e ricco di carbonio, contribuendo quindi anche alla nascita della vita.
«Bennu è uno dei numerosi piccoli corpi che, ruotando intorno al Sole, intersecano l’orbita del nostro pianeta», ricorda Elisabetta Dotto, dell’Inaf di Roma, membro dello science team di Osiris-Rex. «Gli impatti che questi oggetti hanno avuto con la Terra hanno modificato il corso della vita e, ancora oggi, costituiscono un potenziale pericolo per il nostro pianeta. Dal 1999, anno della sua scoperta, a oggi Bennu è stato oggetto di una campagna internazionale di osservazione da telescopi a Terra. Sulla base delle informazioni acquisite sappiamo che si tratta di un oggetto scuro e primitivo, simile ai piccoli corpi che si ritiene abbiano creato le condizioni adatte per l’innesco della vita sulla sul nostro pianeta, rilasciando con i loro impatti acqua e materiale organico appena formato».
Queste tre immagini acquisite dalla sonda Osiris-Rex della Nasa mostrano un’ampia inquadratura e due primi piani di una regione dell’emisfero settentrionale di Bennu. Le immagini sono state scattate il 25 febbraio mentre la navicella spaziale era in orbita intorno a Bennu, a circa 1,8 km dalla superficie dell’asteroide. Crediti: Nasa Goddard/University of Arizona
Le prime osservazioni provenienti dagli strumenti di bordo di Osiris-Rex confermano la presenza di minerali idrati diffusi e abbondanti. Le osservazioni hanno anche identificato la presenza inaspettata di numerosi grandi massi. Diverse caratteristiche, come la mancanza di piccoli crateri e l’aspetto eterogeneo della superficie, suggeriscono che essa comprenda diverse regioni appartenenti a epoche diverse, alcune residue dal corpo progenitore e altre frutto di attività più recente. Gli autori stimano che Bennu abbia un’età tra i 100 milioni e un miliardo di anni, quindi più vecchio di quanto previsto, e abbia avuto origine nella Cintura degli asteroidi.
«Non appena abbiamo iniziato a osservare Bennu da vicino», dice Maurizio Pajola, dell’Inaf di Padova, «abbiamo visto che la sua superficie è caratterizzata da una miriade di massi di svariate dimensioni. Questo aspetto era atteso dalla comunità scientifica visto che Bennu, con i suoi 500 metri di diametro, è quello che viene definito un asteroide ‘rubble-pile’, cioè non monolitico, ma costituito da parte dei frammenti rocciosi che formavano l’asteroide genitore, dal quale si è formato in seguito ad un impatto distruttivo. Prima dell’arrivo a Bennu le osservazioni radar fatte da Terra tra il 1999 ed il 2012 avevano indicato che avremmo trovato un unico masso di dimensione non superiore ai 10 metri. In realtà, grazie ad immagini ad alta risoluzione prese dallo strumento PolyCam di Osiris-Rex, abbiamo misurato questo masso scoprendo che è lungo 56 metri. In aggiunta, abbiamo scoperto che ci sono altri 3 massi con dimensioni che superano i 40 metri ed una densità per chilometro quadrato di più di 200 massi grandi 10 metri. Questi massi enormi non possono essersi formati tutti a seguito degli impatti che hanno formato i crateri presenti su Bennu, perché per dare origine a materiale di risulta di tali dimensioni l’asteroide sarebbe stato totalmente disintegrato. Sono quindi gli antichi frammenti dell’asteroide padre da cui Bennu è nato».
«Le osservazioni condotte dagli strumenti a bordo della sonda Osiris-Rex», aggiunge John Robert Brucato, esobiologo dell’Inaf di Firenze, in riferimento alle analisi spettroscopiche fatte su Bennu, «stanno mostrando un’inaspettata eterogeneità del materiale che costituisce l’asteroide: si sono osservate regioni molto scure, dove solo il 3 per cento della radiazione solare viene riflessa, e altre molto brillanti associate a massi di dimensione di qualche metro. Bennu è l’unico asteroide osservato fino ad oggi in cui è stata rivelata sulla superficie la presenza di magnetite, materiale che si forma quando l’idrossido di ferro è ossidato dalla presenza di acqua, e, cosa ancor più sorprendente, l’enorme abbondanza di silicati idrati, ovvero minerali che hanno subito una profonda alterazione dovuta alla presenza di acqua liquida. Le osservazioni spettroscopiche ottenute dagli spettrometri Ovirs, che indaga nel visibile e nel vicino infrarosso, e Otes, che osserva invece nell’infrarosso termico, hanno mostrato l’affinità di Bennu con meteoriti condriti carbonacee di un tipo molto raro, ricche di carbonio e materiale organico. Un’affinità che, quindi, pone fortemente l’accento sul ruolo degli asteroidi primitivi come Bennu nell’origine della vita sulla Terra. Inoltre, sono già state identificate alcune aree sulla superficie di Bennu dove la sonda Osiris-Rex dovrà atterrare per raccogliere il materiale che verrà riportato a Terra nel 2023 e studiato nei laboratori di tutto il mondo».
A fine luglio 2020 Osiris-Rex si poserà sulla superficie di Bennu per prelevare dei campioni, e chissà quali e quante altre informazioni riuscirà a darci su questo piccolo grande oggetto celeste.
Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).
22.03, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti. L’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (Sovicille, Siena) sarà aperto al pubblico per una serata osservativa dedicata al cielo del periodo, con particolare attenzione alla Luna. Per il pubblico è obbligatoria la prenotazione tramite il sito www.astrofilisenesi.it o inviando un messaggio WhatsApp al 3472874176 (Patrizio) oppure un sms al 3482650891 (Giorgio). In caso di tempo incerto telefonare per conferma.
Il Planetario e Osservatorio Ca’ del Monte, scende a “valle”, per raccontare l’astronomia direttamente a Pavia negli spazi messi a disposizione da Labora – Coworking sociale.
Gli incontri sono ideati per creare un percorso di avvicinamento ai temi, a nostro avviso, più interessanti e spunto di interesse per il pubblico. Il corso vuole essere un momento di condivisione di aspetti, scoperte e affascinanti curiosità dal mondo dell’astronomia.
Gli incontri si concluderanno con la visita al Planetario e Osservatorio Astronomico Cà del Monte, in una serata interamente dedicata ai partecipanti del corso. Clicca qui per consultare il Programma corso
Il corso verrà attivato al raggiungimento del numero minimo di partecipanti. Per maggiori informazioni sulla partecipazione contattate la nostra Segreteria al numero: tel.: 327.2507821
oppure scriveteci a osservatorio@osservatoriocadelmonte.it www.osservatoriocadelmonte.it
L’immagine illustra una simulazione numerica relativa al moto del gas magnetizzato che ruota attorno al buco nero emettendo onde radio in banda millimetrica. Si nota anche come viene piegata e assorbita la luce dal buco nero. Crediti: M. Moscibrodzka, T. Bronzwaar & H. Falcke
L’immagine illustra una simulazione numerica relativa al moto del gas magnetizzato che ruota attorno al buco nero emettendo onde radio in banda millimetrica. Si nota anche come viene piegata e assorbita la luce dal buco nero. Crediti: M. Moscibrodzka, T. Bronzwaar & H. Falcke
Gli astronomi dell’Event Horizon Telescope Consortium (Ehtc) sono ottimisti. Dopo quasi due anni di elaborazione e analisi di circa quattro petabytes di dati raccolti dalle osservazioni di Sagittarius A* e M 87, realizzate con grande rigore scientifico, verifiche e controlli di qualità, si attende la pubblicazione dei primi risultati. Se questo tentativo avrà successo, le uniche, spettacolari immagini ottenute da un insieme di 8 radiotelescopi sparsi sul globo potrebbero fornire agli astronomi nuovi indizi per verificare le predizioni della relatività generale in condizioni estreme di gravità. Per saperne di più, Media Inaf ha raggiunto Ciriaco Goddi, segretario del consiglio scientifico del consorzio Eht, che ci svela in questa intervista esclusiva il “dietro le quinte” dell’esperimento più atteso dell’anno.
Come sono andate le osservazioni, soprattutto dal punto di vista meteorologico?
«Abbiamo condotto due campagne osservative, la prima nell’aprile 2017 e la seconda nello stesso mese del 2018. Posso affermare, con nostra grande soddisfazione, che le osservazioni del 2017 si sono rivelate un successo totale. Non abbiamo avuto problemi tecnici, se non minimi, e tutti i protocolli necessari per gestire la comunicazione in tempo reale dei radiotelescopi coinvolti nell’esperimento, che hanno osservato simultaneamente la stessa sorgente, hanno funzionato impeccabilmente. Ma il fattore di gran lunga più importante per il successo delle osservazioni sono state le condizioni meteorologiche favorevoli. Abbiamo avuto cieli sereni, è il caso di dire, con pochissima umidità in tutti i siti durante il periodo delle osservazioni e questo non era certamente scontato, perciò siamo stati davvero fortunati. Tuttavia durante le sei notti in cui abbiamo effettuato le osservazioni del 2018 le cose sono andate diversamente. Ricordo, ad esempio, tre notti di tempeste di neve su Mauna Kea nelle Hawaii, la chiusura causa vento per quasi due giorni del Sub-Millimeter Telescope (in Arizona), il nuovo ricevitore commissionato dal Large Millimeter Telescope (in Messico) non disponibile da subito per le osservazioni, lo strumento Atacama Pathfinder EXperiment disponibile in certe notti a causa di lavori tecnici… E tra gli altri un episodio singolare, accaduto in Messico, dove un commando ha assaltato la jeep degli astronomi causando la chiusura dell’osservatorio negli ultimi cinque giorni. Dunque, tutti i nostri sforzi si sono concentrati principalmente sui dati del 2017, che sono di qualità eccellente».
Ciriaco Goddi presso la control room di Alma.
Quante persone sono state coinvolte per realizzare le osservazioni?
«Ci sono almeno tre o quattro persone dell’Event Horizon Telescope Consortium che si recano in ogni sito a condurre le osservazioni. Questo vuol dire una trentina di persone, se consideriamo gli otto osservatori che hanno partecipato all’esperimento. Inoltre, poiché ogni sito costituisce un osservatorio indipendente, con personale tecnico e scientifico specializzato, di solito ci sono altri due o tre astronomi e un operatore tecnico che lavorano di base in ognuno degli osservatori. A queste si aggiunge un gruppo di circa cinque persone che costituiscono il “centro operativo”, che ha sede all’università di Harvard. Quindi in totale parliamo di circa 60 persone. Per quanto riguarda ALlma, solo due membri fanno parte del progetto Eht: un astronomo del Mit-Haystack Observatory, responsabile dello sviluppo e mantenimento del software, e io che sono responsabile della calibrazione e validazione dei dati acquisiti. Entrambi presidiamo alle osservazioni, trascorrendo fino a tre settimane nel deserto dell’Atacama, assieme a decine di altre persone, tra cui astronomi di supporto, operatori tecnici e ingegneri, perciò non ci sentiamo soli».
Le vostre attese hanno avuto un riscontro positivo?
«Direi di sì. Siamo ora nella fase finale di produzione ed elaborazione dei dati, per cui non mi posso sbilanciare molto in questo momento. Posso però dire che i risultati preliminari appariranno a breve su riviste specializzate e, chissà, anche la tanto attesa “foto del secolo” potrebbe essere pubblicata molto presto. Al momento vi posso solo assicurare che non mancheranno le sorprese e i risultati non deluderanno le attese».
Ciriaco Goddi e sullo sfondo il complesso sistema di antenne di Alma.
Che ruolo ha giocato il radiotelescopio Alma?
«L’Atacama Large Millimeter Array (Alma) è un elemento fondamentale per questo progetto scientifico. Situato nel deserto di Atacama – nelle Ande Cilene, il più alto e secco al mondo, a 5100 metri sul livello del mare – è il radiotelescopio più sensibile mai costruito in banda millimetrica, con ben 54 antenne di 12 metri di diametro (e altre 12 antenne più piccole di 7 metri di diametro). Durante le osservazioni con l’Eht, buona parte delle sue antenne di 12 metri di diametro (di solito una quarantina) vengono combinate creando virtualmente un unico elemento equivalente a un gigantesco radiotelescopio di circa 70 metri di diametro. Questa “trasformazione” (da interferometro a singolo elemento), di cui sono responsabile, richiede un lavoro certosino di calibrazione dei segnali delle singole antenne che permette di avere, alla fine di questo processo, un salto di qualità nelle prestazioni dell’Eht, sia in termini di risoluzione che di sensibilità. In altre parole, Alma agisce come uno strumento di riferimento nel momento in cui dobbiamo analizzare il segnale che proviene dalle altre antenne più piccole e meno sensibili, permettendo così di ridurre il rumore di fondo almeno di un ordine di grandezza. Inoltre, la sua posizione nell’emisfero australe consente di osservare sorgenti importanti, come appunto il nostro centro galattico, Sagittarius A* (Sgr A*), che pensiamo ospiti un buco nero supermassivo di circa 4 milioni di masse solari».
Come si osserva “simultaneamente” Sgr A* – o le altre sorgenti – con i radiotelescopi coinvolti nell’esperimento?
«Gli obiettivi dell’Eht sono sostanzialmente due: il buco nero supermassivo che risiede nel nucleo della nostra galassia (Sgr A*), a circa 26mila anni luce, e M87 il buco nero supermassivo di una galassia ellittica gigante situata a circa 50 milioni di anni luce. Anche se M87 è circa duemila volte più lontana, il buco nero è circa duemila volte più massivo, per cui le dimensioni angolari sottese da entrambi i buchi neri (circa 50 microsecondi d’arco) risultano simili. Per osservare oggetti che sottendono dimensioni angolari così piccole utilizziamo l’interferometria radio a lunghissima linea di base (Vlbi). Si tratta di una tecnica molto potente che permette di realizzare immagini di radiosorgenti ad altissima risoluzione. Il Vlbi sfrutta una rete globale di radiotelescopi, in genere da 12 a 30 metri di diametro, situati nei diversi continenti in modo da formare virtualmente un enorme telescopio delle dimensioni della Terra. Ovviamente, più antenne sono coinvolte e maggiore risulta la qualità dell’immagine finale. Ora, se da un lato non possiamo costruire migliaia di antenne, essendo molto costose, dall’altro la rotazione terrestre ci viene fortunatamente in aiuto, perché cambia la posizione dei singoli telescopi – e perciò delle linee di base – come “visti” dalla sorgente. Questo processo consente effettivamente di campionare meglio la struttura attraverso orientazioni diverse, anche con pochi ma ben localizzati radiotelescopi. In questo caso, la risoluzione dell’immagine aumenta con la distanza tra i radiotelescopi, che chiamiamo linea di base, un po’ simile a quella di una normale antenna il cui potere risolutivo aumenta con il diametro della parabola. I segnali radio che arrivano sulle singole antenne vengono prima registrati dai ricevitori per poi essere digitalizzati e copiati su dischi rigidi. I supporti vengono spediti a un centro di elaborazione dati (non via internet, perché stiamo parlando di petabytes, ma tramite aereo che risulta il mezzo più veloce). Per il nostro progetto abbiamo utilizzato due super-computer, detti correlatori: uno si trova all’Haystack Observatory del Mit, nel Massachusetts, e l’altro è situato presso il Max Planck Institut fur Radioastronomie, a Bonn. Il correlatore combina i segnali tra coppie di antenne creando post-facto l’interferenza delle onde radio rilevate dai singoli radiotelescopi. I segnali devono essere sincronizzati con altissima precisione, il che significa che dobbiamo utilizzare orologi atomici estremamente accurati per misurare i loro tempi di arrivo sulle singole antenne. Una volta che i segnali di tutte le coppie di antenne vengono combinati, possiamo ricostruire l’immagine della sorgente radio. Dunque, operando insieme, le antenne simuleranno un singolo, gigantesco, telescopio delle dimensioni della Terra che ci permetterà di “intravedere” l’orizzonte degli eventi – quel confine che circonda i buchi neri dove tutto ciò che passa non torna mai più indietro – e rivelare la cosiddetta “ombra” del buco nero, che nelle sorgenti in questione ci aspettiamo sottenda una dimensione di 50 microsecondi d’arco (un po’ come distinguere una pallina da tennis sulla Luna)».
A quali frequenze radio sono state condotte le osservazioni?
«L’Eht osserva a lunghezza d’onda radio intorno a 1.3 mm, che corrisponde ad una frequenza di circa 230 GHz. Prima di Eht, la tecnica Vlbi è stata applicata a frequenze radio relativamente basse (1-90 GHz). Nonostante le cose si complichino verso le più alte frequenze, tuttavia ci sono diverse ragioni per spingere il Vlbi oltre i 100 GHz. Primo: il potere risolutivo aumenta con la frequenza e per ottenere la risoluzione desiderata, cioè 50 microsecondi d’arco con un telescopio delle dimensioni corrispondenti al diametro della Terra, si deve andare necessariamente sopra i 100 GHz. Secondo: a frequenze al di sotto di 100-200 GHz, l’ombra del buco nero rimane ancora nascosta dietro al plasma, che circonda il buco nero stesso, oscurandone la vista. Alle alte frequenze a cui opera Eht, come ad esempio 230 GHz, il plasma diventa trasparente ed emette radiazione nelle immediate vicinanze dell’orizzonte degli eventi. Quindi, osservando ad alte frequenze è come se si aprisse una sorta di “velo” che ci lascia intravedere cosa si cela dietro».
Quante ore sono state impiegate per realizzare le osservazioni?
«Come in tutti gli osservatori astronomici, anche per l’Eht il tempo viene assegnato da una commissione di esperti, il Time Allocation Committee (Tac), che dopo aver selezionato diverse proposte osservative valuta il merito scientifico dei singoli progetti. Nella pratica le proposte osservative di Eht sono approvate sostanzialmente dal Tac di Alma, poiché si tratta di gran lunga del radiotelescopio più richiesto del network. Finora, nell’ambito di Eht sono state utilizzate quasi tutte le ore concesse (circa 60 ore sia per il run del 2017 che del 2018) – fatto non scontato, in quanto possono sorgere problemi tecnici o condizioni meteo avverse non prevedibili. Per quanto riguarda il limite massimo di ore a disposizione, con l’Eht ogni singolo radiotelescopio normalmente osserva la sorgente per tutto il tempo possibile, cioè dal sorgere fino al tramonto: quindi avere più ore per sorgente, e per notte, servirebbe a poco. Una cosa molto utile sarebbe, invece, osservare la stessa sorgente a epoche diverse durante l’anno, in modo da evidenziare l’eventuale variabilità dell’emissione radio o l’apparire di nuove componenti. Ciò fornirebbe informazioni importanti sullo stato fisico del plasma che circonda il buco nero (pensate a un blob di gas che orbita intorno al buco nero prima di venire ingoiato). Al momento, però, non è possibile osservare in diversi periodi dell’anno, per un fatto puramente logistico: organizzare campagne osservative globali e coordinare insieme una decina di telescopi è una sfida non da poco. Per cui concentriamo le osservazioni in una finestra di circa dieci giorni all’anno. Ad ogni modo, da quello che impareremo dai dati raccolti finora decideremo se sarà necessario, o meno, cambiare la nostra strategia osservativa».
Ciriaco Goddi durante la fase di controllo dei segnali registrati dalle antenne di Alma.
Quanti dati avete raccolto e quanto tempo ci è voluto per analizzarli?
«Nel 2017 abbiamo raccolto qualcosa come quattro petabytes di dati, ossia 4000 terabytes! Nel 2018 abbiamo registrato una banda doppia, quindi il doppio dei dati (almeno in termini di bytes). L’ordine di grandezza è di un petabyte per telescopio, quindi il volume totale di dati ammonta a circa 10 petabytes. Abbiamo impiegato un anno e mezzo a ridurre, calibrare, validare e analizzare i dati acquisiti nel 2017 e, ovviamente, convertirli in immagini radio delle sorgenti. Devo ammettere che inizialmente eravamo troppo ottimisti, nel senso che avevamo preventivato di produrre i primi risultati entro un anno dalle osservazioni. In realtà, ci sono due ragioni fondamentali che giustificano questo “ritardo”. La prima è che abbiamo avuto bisogno di più tempo per creare tutto il software di analisi necessario, essendo la prima volta che vengono acquisiti dati di questo genere. La seconda ragione è più sottile, ma non meno importante: paradossalmente, capire in maniera estremamente dettagliata e accurata i dati dell’Eht è stato molto difficile proprio per la loro elevata qualità, che ci ha permesso di evidenziare caratteristiche ed errori sistematici che non si sono mai visti prima, essendo “sepolti” nel rumore. Per fortuna il gigante Alma ha giocato un ruolo fondamentale nel processo di elaborazione dei dati, che d’ora in poi – cioè per la seconda serie di dati che analizzeremo – dovrebbe rivelare meno sorprese e procedere più speditamente».
Quali controlli avete introdotto, e quali modalità avete seguito per l’elaborazione dei dati, al fine di evitare eventuali contaminazioni?
«Dato che il nostro obiettivo è quello di “vedere” la famosa ombra del buco nero, che sottende piccolissime dimensioni angolari, e rivelare minime strutture nell’immagine che siano riconducibili a eventuali deviazioni dalle predizioni della teoria di Einstein, abbiamo sempre verificato qualsiasi anomalia durante tutte le fasi di calibrazione e analisi dei dati e, soprattutto, abbiamo eseguito delle analisi indipendenti e una serie di controlli incrociati. Per essere più precisi, al fine di testare la validità dei dati sono stati utilizzati metodi di confronto incrociato seguendo tre passaggi fondamentali. Primo, la correlazione dei dati: i due super-computer (quello del Mit nel Massachusetts e quello del Max Planck Institut a Bonn) hanno correlato indipendentemente i segnali fra coppie di antenne, fornendo prestazioni identiche e rivelando lo stesso segnale. Secondo, la calibrazione dei dati: i dati provenienti dai due correlatori sono stati ulteriormente elaborati con tre software indipendenti, fornendo dei risultati compatibili entro gli errori. Terzo, nel processo di conversione da dati interferometrici a immagini radio abbiamo usato due metodologie distinte: una si basa su metodi tradizionali, che fanno uso di software classici, e un’altra è più innovativa, concepita nel caso specifico di un insieme di antenne che hanno partecipato al progetto Eht. Anche in questo caso le immagini che abbiamo ottenuto dalle analisi parallele sono compatibili entro gli errori. Devo dire che in quasi vent’anni che mi occupo di Vlbi non ho mai visto analizzare un insieme di dati radio con tanta scrupolosità e controlli incrociati. Qualche collega può contraddirmi, se vuole, ma mi sento di affermare che questo è l’insieme di dati radio più esaminato della storia del Vlbi».
Dato che nessuno hai mai visto un buco nero, come facciamo a capire che avremo finalmente “visto” qualcosa?
«Questa non è per niente una domanda scontata. Il nostro obiettivo principale, come astronomi osservativi, è fare delle misure e analizzare i dati nella maniera più accurata, oggettiva e riproducibile possibile. Dopodiché, i nostri risultati vengono esaminati dal gruppo di teorici che passano al setaccio tutti i modelli possibili (inclusi i modelli alternativi ai buchi neri). Da un confronto certosino di questi modelli con i dati, potremo finalmente dare la risposta tanto attesa se si tratta effettivamente di un buco nero, così come previsto dalla relatività generale, oppure no. Vi lascio, per ora, con la suspense. Infatti, uno degli obiettivi a lungo termine del nostro progetto è quello di testare l’ormai centenaria teoria di Einstein, che – nonostante descriva generalmente bene l’universo osservato fino ad oggi – potrebbe presentare alcune deviazioni proprio in prossimità di un buco nero a causa dell’estrema gravità. Quindi, la teoria di Einstein potrebbe non essere la teoria finale dell’universo, che forse dovremo ancora scoprire. Ecco perché c’è un grande interesse nell’osservare queste regioni estreme dello spazio. Insomma, questa famigerata “foto del secolo” rappresenterà un altro passo in avanti nel nostro modo di comprendere i grandi misteri dell’universo e un bellissimo esempio di collaborazione internazionale nell’ambito dello sviluppo tecnologico e del progresso scientifico».
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Interessante sarà l’osservazione di questa bella e congiunzione tra la Luna quasi piena (fase del 94%) e Regolo (mag. +1,35) la stella alfa della costellazione che ospita l’evento: il Leone.
Questa costellazione è una delle figure celesti che dominano il cielo in questo periodo e la sua stella principale apparirà come annegata nel chiarore lunare, considerando che tra i due protagonisti vi sarà una separazione di circa 1° 58’.
Questa congiunzione sarà interessante da osservare a occhio nudo o da riprendere nel contesto del paesaggio, del quale sarà possibile registrare i dettagli illuminati dalla Luna. A questo proposito segnaliamo due articoli sull’ultimo numero di Coelum astronomia (sempre in formato digitale e gratuito) con consigli utili per la ripresa della Luna Piena, e una vecchia rubrica sulla ripresa del paesaggio illuminato dalla Luna Piena.
Una mostra itinerante (sul sito il calendario delle date e le località in continuo aggiornamento) sulla vita e la carriera di Neil Armstrong commemorerà il 50° anniversario di Apollo 11 e tutto il programma lunare, include le foto della carriera di Neil Armstrong con scatti inediti o poco noti al grande pubblico. Potrete ammirare i modelli dei veicoli spaziali utilizzati da Neil Armstrong, le tute e le attrezzature utilizzate sulla superficie lunare, documenti originali, rari reperti dell’epoca, ricostruzioni a grandezza naturale. Video e suoni multimediali accompagneranno il visitatore nel più grande sogno dell’uomo: quello di raggiungere la Luna.
A cura di Luigi Pizzimenti (ADAA). La mostra è dedicata agli appassionati di missioni spaziali, piccoli sognatori, studenti, che potranno ammirare oggetti originali appartenuti alle missioni Apollo, scoprendo con i propri occhi come l’uomo – per raggiungere la Luna – abbia superato difficoltà considerate insormontabili. L’esposizione aprirà le porte al pubblico nel mese di marzo, per concludersi nel mese di ottobre 2019 e toccherà diverse città italiane.
Se desiderate ospitare la mostra scrivete a: info@neilarmstrongthefirst.it
Nascosto in uno degli angoli più bui della costellazione di Orione, questo pipistrello cosmico sta diffondendo le sue velate ali nello spazio interstellare a duemila anni luce di distanza. È illuminato dalle giovani stelle nascoste nel suo nucleo – nonostante siano avvolte da nuvole opache di polvere, i loro raggi luminosi illuminano ancora la nebulosa. Troppo debole per essere percepito ad occhio nudo, NGC 1788 rivela i suoi colori tenui al Very Large Telescope dell’ESO in questa immagine – la più dettagliata fino ad oggi. Crediti: ESO
Il Very Large Telescope (VLT) dell’ESO ha intravisto una nebulosa eterea nascosta negli angoli più bui della costellazione di Orione (Il cacciatore), nota cone la sigla NGC 1788 e soprannominato il pipistrello cosmico.
NGC 1788 fu descritta per la prima volta dall’astronomo tedesco-britannico William Herschel, che la incluse nel Catalogo generale di nebulose e ammassi che, ventiquattro anni dopo, sarebbe stato ampliato da John Louis Emil Dreyer, diventando quella che oggi è tra le collezioni più significative di oggetti del cielo profondo: il New General Catalogue (NGC).
Si tratta di una nebulosa a riflessione e, come dice il nome, non emette luce ma è illuminata da un grappolo di giovani stelle al suo interno, visibili solo vagamente attraverso le nuvole di polvere. Gli strumenti scientifici hanno fatto molta strada da quando NGC 1788 è stata descritta per la prima volta, e questa immagine dal VLT ne è il ritratto più dettagliato mai ripreso fin0ra.
Una bella immagine di questa piccola e debole nebulosa era già stata catturata daltelescopio MPG / ESO da 2,2 metriall’osservatorio La Silla dell’ESO, ma questa nuova ripresa la supera nettamente. Come congelati in volo, i minimi dettagli delle ali polverose di questo pipistrello cosmico sono stati ripresi per festeggiare il ventesimo anniversario di uno degli strumenti più versatili di ESO, FORS2(in inglese “FOcal Reducer and low dispersion Spectrograph 2”).
La delicata nebulosa NGC 1788 si trova in un angolo buio e spesso trascurato della costellazione di Orione. Sebbene questa nube spettrale sia piuttosto isolata dalle stelle luminose di Orione, i loro potenti venti hanno un forte impatto sulla nebulosa, forgiando la sua forma e trasformandola in una casa per una moltitudine di soli infantili. Questa immagine del Digitized Sky Survey 2 copre un campo visivo di 3 x 2,9 gradi e mostra che la Nebulosa Pipistrello fa parte di una nebulosità molto più grande. Crediti: ESO/Digitized Sky Survey 2. Acknowledgement: Davide de Martin
Anche se sembra isolata da altri oggetti cosmici, gli astronomi ritengono che sia stata modellata dai potenti venti stellari delle stelle massicce che si trovano al di là di essa. Questi flussi di plasma rovente vengono lanciati dall’atmosfera superiore di una stella a velocità incredibili, e in questo modo riescono a raggiungere eormi modellare le nuvole che nascondono le stelle nascenti del pipistrello cosmico.
FORS2 è uno strumento montato su Antu, uno dei telescopi unitari del VLT da 8,2 metri di diametro, presso l’Osservatorio di Paranal. La sua capacità di osservare grandi aree del cielo con dettagli eccezionali lo ha reso parte essenziale della flotta di strumenti scientifici più all’avanguardia di ESO. Fin dalla sua prima luce 20 anni fa, FORS2 è diventato noto come “il coltellino svizzero degli strumenti”. Questo appellativo deriva dal suo ampio set di funzioni: oltre a poter visualizzare con precisione ampie aree del cielo, FORS2 può anche misurare gli spettri di più oggetti nel cielo notturno e analizzare la polarizzazione della loro luce. I dati di FORS2 sono la base di oltre 100 studi scientifici pubblicati ogni anno, ma la versatilità di FORS2 va oltre gli usi puramente scientifici: la sua capacità di catturare immagini di alta qualità, come questa, lo rende uno strumento particolarmente utile per la divulgazione scientifica.
Questa immagine, infatti, è stata ripresa all’interno del programma Gemme Cosmiche dell’ESO, un’iniziativa di divulgazione che utilizza i telescopi dell’ESO per produrre immagini di oggetti interessanti, intriganti o visivamente attraenti per scopi educativi e di sensibilizzazione del pubblico. Il programma utilizza il tempo del telescopio che non può essere utilizzato per le osservazioni scientifiche e, con l’aiuto di FORS2, produce immagini mozzafiato di alcuni degli oggetti più sorprendenti nel cielo notturno, come questa intricata nebulosa a riflessione. Nel caso in cui i dati raccolti, poi, possano essere utili anche per futuri scopi scientifici, queste osservazioni vengono registrate e rese disponibili agli astronomi attraverso l’archivio scientifico dell’ESO.
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Sorprendente Sistema Solare KBO e pianeti nani alla riscossa!
Ai primi due corsi del 2019 della nostra Scuola di Astronomia, seguiranno, a cominciare dal 4 aprile, il Corso Avanzato di Astronomia ed il Corso di Archeoastronomia ed Astronomia culturale, presso la nostra sede all’EUR, di fronte alla metro Laurentina.
Tutti i lunedì fino all’11 marzo: Corso Base di Astronomia Generale
Un meraviglioso viaggio alla scoperta dell’Universo: è possibile seguire le singole lezioni (al costo di 15 euro) previa prenotazione. Il programma degli argomenti è sul sito. Tutti i giovedì fino al 14 marzo: Corso completo di Astrofotografia
Lezioni teoriche e pratiche per imparare e sperimentare tutte le competenze per fotografare il cielo. Stesse modalità di partecipazione dell’altro corso.
16.03: Osservazioni pubbliche con un telescopio da mezzo metro
L’ultimo panorama a 360° ripreso da Opportunity prima della tempesta. I colori sono stati enfatizzati per distinguere le diverse formazioni e i diveri materiali della superficie. Cliccare sull’immagine per ingrandire. Credits: NASA/JPL-Caltech/Cornell/ASU
Nell’arco di 29 giorni, durante la primavera 2018, Opportunity ha raccolto le immagini che danno vita a questo straordinario panorama ad alta risoluzione della Perseverance Valley, su Marte. Un panorama a 360 gradi dell’ultima dimora del rover della NASA, che non è più riuscito a risvegliarsi, o comunque a mettersi in contatto con il centro controllo della missione, dopo l’inizio dellatempesta globale che ha avvolto Marte durante l’estate scorsa.
La missione del rover, dopo numerosi tentativi e attese, è stata ufficialmente dichiarata conclusa il 12 febbraio scorso, e della sua lunga carriera e di tutti i suoi record (è al momento, con i suoi 15 anni di “carriera”, il più longevo rover che ha esplorato la superficie marziana), ne abbiamo parlato su Coelum astronomia di questo mese, nell’approfondimento Grazie Opportunity, missione conclusa (come sempre a lettura gratuita).
Situata sul versante interno del bordo occidentale del cratere Endurance, la Perseverance Valley è un sistema di depressioni poco profonde che si estendono verso oriente, per la lunghezza di due campi da calcio, dalla rima del cratere Endeavour verso la sua platea.
Una versione navigabile a piena risoluzione, potete vederla andando sul sito della missione alla pagina: Opportunity Legacy Pan.
«Questo ultimo panorama incarna ciò che ha reso il nostro rover Opportunity una così straordinaria missione di esplorazione e scoperta», ha dichiarato il project manager Opportunity John Callas del Jet Propulsion Laboratory. «A destra del centro si può vedere il bordo del cratere Endeavour che si eleva in lontananza, subito alla sua sinistra, le tracce del rover iniziano la loro discesa fin oltre l’orizzonte, serpeggiando tra le caratteristiche geologiche che i nosrti ricercatori volevano vedere più da vicino. E agli estremi, a destra e a sinistra, c’è la fine della Perseverance Valley e la platea del cratere Endeavour, incontaminata e inesplorata, in attesa della visita di futuri esploratori».
Una versione 3D da guardare (cliccare per ingrandire) con i classici occhialini rosso/blu. Credits: NASA/JPL-Caltech/Cornell/ASU Last data NASA\’s Opportunity rover sent back from Mars Taken on June 10, 2018 (the 5,111th Martian day, or sol, of the mission) this “noisy,” incomplete image was the last data NASA\’s Opportunity rover sent back from Mars. Credits: NASA/JPL-Caltech/Cornell/ASU
Il panorama è composto da 354 immagini singole, riprese dalla camera panoramica del rover (la Pancam) dal 13 maggio al 10 giugno 2018 (dal sol 5.084 al sol 5.111, ovvero giorni marziani contati dal suo arrivo). È la somma di immagini riprese in tre diversi filtri, nelle lunghezze d’onda da 753 nanometri (infrarosso vicino), 535 nanometri (verde) e 432 nanometri (violetto verso il blu), combinate ed elaborate in falsi colori per evidenziare le differenze tra i vari materiali presenti sulla superficie ripresa.
Qui invece la versione elaborata per vedere la scena in colori il più possibile “veri”, così come potremmo vederli con i nostri occhi su Marte. Credits: NASA/JPL-Caltech/Cornell/ASU
Alcuni fotogrammi (in basso a sinistra nell’immagine) sono rimasti in bianco e nero, poiché il rover non ha avuto il tempo di riprendere quelle porzioni di immagine anche nei filtri verde e violetto, prima che la tempesta gli oscurasse la vista.
Nell’immagine intravediamo anche una porzione dei pannelli solari di Oppy – spesso visibili in questi panorami, in particolare quando comprendono immagini del terreno vicino al rover – e la cima dell’antenna a basso guadagno, con il quale il rover comunicava direttamente con le antenne del Deep Space Network, qui sulla Terra.
L’affioramento roccioso, invece, che vediamo sulla destra al centro, chiamato “Ysleta del Sur”, si trova a soli 7 metri dalla camera ed è l’ultima formazione studiata dal rover tra il 3 e il 29 marzo 2018 (tra i sol 5015 e 5038). Il team missione stava chiudendo le analisi su quella formazione quando è iniziata la tempesta.
Appena a sinistra del centro dell’immagine vediamo delle rocce (chiamate “Tomé,” “Nazas” and “Allende”) analizzate dal rover tra la fine di aprile e inizio maggio 2018. Queste “rocce butterate”, pitted rock, sono uniche, come texture e composizione, e diverse da tutte quelle incontrate durante la missione. La piccola collina del bordo del cratere Endeavour, che si vede in lontananza, dista invece circa 64 metri.
Al centro di queste piccole immagini a bassa risoluzione, il puntino sbiadito di un debole Sole. Sono immagini test utilizzate per misurare l’opacità dell’atmosfera all’inizio della tempesta. Credits: NASA/JPL-Caltech/Cornell/ASU
Qui a destra potete vedere anche le ultimissime immagini ottenute durante la sua missione, nell’ultimo giorno in cui si è riusciti a comunicare con lui, sono immagini a bassa risoluzione e in bianco e nero, utilizzate per determinare l’opacità del cielo a inizio tempesta. Più in basso, anche l’ultimo pezzo di dati trasmesso dal rover (un’immagine incompleta, fatta quasi solo di “rumore”, di un cielo ormai oscurato).
Il 10 giugno 2018 (sol 5111) arriva l’ultimo pacchetto di dati da Opportunity, un’immagine incompleta del cielo oscurato dalla tempesta. Credits: NASA/JPL-Caltech/Cornell/ASU
Ma quest’ultima immagine scura e incompleta non è tutto quello che resta della lunga missione del rover.
Le scoperte scientifiche di Oppy hanno contribuito, come nessun’altro fin’ora, alla nostra comprensione della geologia e dell’ambiente marziano, gettando le basi per le future missioni robotiche, e umane, sul Pianeta rosso.
Una importante e corposa eredità che, nonostante si sia dovuto arrendersi alla conclusione della missione a causa della tempesta di sabbia, ne ha decretato il successo, senza se e senza ma.
Questo schema mostra come le molecole d'acqua siano attaccate qua e là ad alcuni grani nella parte superiore della superficie lunare. Le molecole sono strettamente legate ai grani fino a quando le temperature superficiali raggiungono il loro picco, attorno al mezzogiorno locale. È a quel punto che le molecole vengono liberate, e possono così “migrare” verso una zona vicina che sia abbastanza fredda da mantenere la molecola stabile, come potrebbe essere la zona d’ombra proiettata da un grano vicino. Crediti: Amanda Hendrix, Psi
Ecco come Lamp e gli altri strumenti a bordo di Lro vedono la Luna. In questa immagine, il polo sud. Crediti: Nasa/Lro
Un recente studio pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters mostra che le molecole d’acqua, distribuite sullo strato più superficiale della Luna e solitamente aggregate a grani di polvere, intorno al mezzogiorno lunare (quando sulla superficie la temperatura raggiunge il suo massimo) migrano verso zone circostanti più fresche in modo da conservare la loro stabilità chimica.
Nello studio di cui è autrice insieme ad altri ricercatori, la scienziata Amanda Hendrix del Planetary Science Institute spiega che la distribuzione di acqua sulla superficie lunare dipende non solo dal tipo di materiale a cui le molecole d’acqua si aggregano ma anche dalla temperatura (quindi dall’ora locale).
A dimostrarlo sono i dati forniti dallo strumento Lamp (Lyman Alpha Mapping Project), uno spettrografo ultravioletto capace di osservare anche le zone della Luna permanentemente in ombra a bordo del Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro) della Nasa. Lamp e gli altri sei strumenti a bordo di Lro sono progettati per caratterizzare la superficie lunare, esaminare le eventuali risorse disponibili e identificare possibili siti di atterraggio per le successive missioni di esplorazione umana. Una riserva di acqua sulla Luna renderebbe infatti il ritorno dell’Uomo sulla Luna una possibilità ancora più vicina perché i costi della missione risulterebbero più contenuti.
I dati forniti da Lamp sono relativi alle “impronte” lasciate dall’acqua sullo strato superficiale della regolite lunare (sì, proprio quel terriccio granuloso su cui Buzz Aldrin ha lasciato la sua impronta nel 1969 durante la missione Apollo 11 e la cui immagine è passata alla storia). Le misure da cui è stato tratto lo studio di Hendrix sono effettuate di solito per rilevare la presenza di acqua, e per la prima volta è stato notato un assorbimento nella regione dell’ultravioletto durante il giorno lunare.
Che ci sia acqua sulla Luna è una certezza sin da febbraio dell’anno scorso, quando le immagini realizzate dallo strumento Moon Mineralogy Mapper della Nasa hanno confermato definitivamente la presenza di ghiaccio d’acqua sulla superficie lunare. Ma cosa si intende quando si parla di acqua sulla Luna? Di fatto, si tratta di gruppi ossidrilici (OH), ovvero componenti dell’acqua (H2O) legati ad altre molecole o composti. L’ipotesi più accreditata che spiega la presenza di acqua sulla Luna è quella del bombardamento di ioni del vento solare a cui la Luna è (quasi) costantemente esposta. Ioni che, spazzando la superficie lunare, la arricchiscono di ingredienti che porterebbero alla formazione dell’acqua.
Questo schema mostra come le molecole d’acqua siano attaccate qua e là ad alcuni grani nella parte superiore della superficie lunare. Le molecole sono strettamente legate ai grani fino a quando le temperature superficiali raggiungono il loro picco, attorno al mezzogiorno locale. È a quel punto che le molecole vengono liberate, e possono così “migrare” verso una zona vicina che sia abbastanza fredda da mantenere la molecola stabile, come potrebbe essere la zona d’ombra proiettata da un grano vicino. Crediti: Amanda Hendrix, Psi
Un’altra informazione estremamente interessante lo strumento Lamp la fornisce proprio riguardo al vento solare, identificato come scorta di protoni (ioni idrogeno, H+) necessari alla formazione di ossidrili (OH) sulla Luna. Pare infatti che, anche quando il nostro satellite attraversa specifiche zone della sua orbita intorno alla Terra, il cui campo magnetico agisce da scudo protettivo impedendo al vento solare di raggiungere la superficie lunare, la produzione di molecole d’acqua non diminuisca.
Questo potrebbe voler dire che l’acqua lunare non si forma necessariamente – o soltanto – grazie al vento solare ma ci sono altre fonti di approvvigionamento. Per avere questa risposta dobbiamo aspettare il prossimo capitolo di questa avvincente storia.
Per saperne di più:
Leggi su Geophysical Research Letters l’articolo “Diurnally-Migrating Lunar Water: Evidence from Ultraviolet Data” di Amanda R. Hendrix, Dana M. Hurley, William M. Farrell, Benjamin T. Greenhagen, Paul O. Hayne, Kurt D. Retherford, Faith Vilas, Joshua T. S. Cahill, Michael J. Poston e Yang Liu
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Sorprendente Sistema Solare KBO e pianeti nani alla riscossa!
Incontro classico quello del 13 marzo, che vedrà la Luna (fase del 43%) soggiornare entro il teatro stellare del Toro, a poca distanza dall’ammasso delle Iadi in cui domina fiammeggiante la stella Aldebaran (mag. +0,85).
All’orario indicato gli astri saranno molto alti sull’orizzonte di ovestsudovest, circa 48°.
Non si tratterà di una congiunzione molto stretta, con la Luna che si troverà a circa 4° 40’ a nord-nordest della stella.
Per arricchire l’osservazione, o se proprio il cielo fosse nuvoloso, ad Aldebaran e le Iadi sono dedicate più puntate della rubrica di Stefano Schirinzi dedicate al ricco campo della costellazione del Toro. Mito, scienza e curiosità fino alla scoperta delle profondità del cosmo:
Giovedì scorso ci ha lasciati, a soli 56 anni, Alessandro Dimai, dell’Associazione Astronomica Cortina.
Direttore dell’Osservatorio Astronomico del Col Drusciè e del Planetario “Nicolò Cusano” a Cortina, si è sempre distinto per la sua dedizione alla didattica e alla divulgazione dell’astronomia.
Inizia la sua passione di astrofilo all’inizio degli anni ‘80 e, con l’arrivo della cometa di Halley (della quale ha scritto per noi un ricordo che potete leggere nel numero 214), nel 1985, entra a far parte dell’Associazione Astronomica Cortina.
Nel 1995, assieme agli astrofili di Conegliano, pubblica il volume “Profondo Cielo” (Biroma Editore), mentre nel 1997, assieme a Piergiorgio Cusinato, presidente dell’Associazione Astronomica Cortina, realizza il libro “Hale Bopp la Cometa del Secolo” (La Cooperativa editore). L’ultimo volume, “Magiche notti d’Ampezzo” sempre realizzato con l’Associazione astronomica, esce nel 2002, con una raccolta di immagini astronomiche riprese nel contesto delle Dolomiti d’Ampezzo, le sue montagne.
Comete, ma anche asteoroidi e supernovae. Dimai ha sempre, in parallelo con la divulgazione dell’astronomia, contribuito anche alla ricerca astronomica amatoriale. Nel 1999 scopre la sua prima supernova in M61, e fonda e dirige il programma di ricerca amatoriale di supernovae CROSS e, nel 2000, scopre anche un asteroide successivamente battezzato 50240 Cortina.
Il compianto Vittorio Goretti, gli ha intitolato un asteroide: 25276 Dimai, scoperto dall’astrofilo bolognese nel 1998.
Salutiamo anche noi Alessandro, un amico al quale dedicheremo un ricordo nel prossimo numero di aprile, e nel frattempo la nostra Redazione, con i collaboratori tutti, si unisce al dolore dei famigliari e dei membri dell’Associazione Astronomica Cortina, porgendo le più sentite condoglianze.
La sera dell’11 marzo, sarà nuovamente il nostro satellite naturale ad essere protagonista di una congiunzione. Questa volta il compagno della Luna (fase del 23%) sarà il Pianeta Rosso (mag. +1,3): gli astri si incontreranno, tra le stelle dell’Ariete, in una larga congiunzione (separazione di circa 6°) con Marte che si troverà a ovest della Luna.
All’orario indicato i due soggetti si troveranno alti circa 20° sull’orizzonte di ovest-sudovest e saranno diretti verso il tramonto che sopraggiungerà alle ore 23 circa.
Le fasi della Luna in marzo, calcolate per le ore 00:00 in TMEC. La visione è diritta (Nord in alto, Est dell’osservatore a sinistra). Nella tavola sono riportate anche le massime librazioni topocentriche del mese, con il circoletto azzurro che indica la regione del bordo più favorita dalla librazione.
Con il Novilunio del 6 marzo è ripartito un nuovo ciclo lunare. Il 14 marzo la Luna sarà in Primo Quarto, mentre per il Plenilunio dovremo attendere il giorno 21.
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➜ Continua e approfondisci in laLuna di Marzosu Coelum Astronomia 231
A marzo osserviamo
13 e 17 marzo Il Settore settentrionale (parte C)
La prima e la seconda proposta di questo mese rientrano nella proposta principale e sono interamente dedicate al Settore Settentrionale del nostro satellite suddivise rispettivamente nelle serate del 13 e 17 marzo, quando riprenderemo il nostro viaggio che dall’estremo bordo orientale della Luna ci porterà fino in prossimità dell’opposto bordo lunare, visitando le principali formazioni geologiche non ancora toccate nei nostri viaggi selenici.
Nelle due serate indicate potrà risultare interessante e molto utile seguire l’avanzamento della linea del terminatore attraverso il suolo lunare, con luci e ombre sempre differenti, al variare dell’angolo di illuminazione solare, e con la possibilità di effettuare dettagliate osservazioni delle principali strutture geologiche.
Per chi avesse perso l’opportunità nei mesi precedenti, il 14, 15 e 16 marzo ci sarà la possibilità di recuperare (o approfondire) strutture come i crateri W. Bond, Timaeus, Archythas, Barrow, Goldschmidt, Epigenes, Anaxagoras, Birmingham e i loro dintorni, già descritte precedentemente nella guida osservativa pubblicata su Coelum Astronomia 222: la Regione polare Nord – Parte A
19 e 20 marzo. Massima librazione sud
La terza proposta di questo mese riguarda il punto di massima Librazione che, dal tramonto del giorno 19 all’alba del 20 marzo, verrà a trovarsi proprio in corrispondenza della regione Polare Sud del nostro satellite, spostandosi in questo arco temporale lungo l’estremo bordo lunare nell’area interessata dal prolungamento verso sud dei crateri Moretus e Curtius.
Tenete presente che dalle 3:00 il punto di Librazione invertirà la sua direzione tornando verso est. L’occasione è veramente imperdibile e con la concreta possibilità di effettuare osservazioni visuali, o con acquisizione di immagini, di strutture altrimenti affette da un notevole schiacciamento prospettico, tipico di queste latitudini, oltre al ridotto angolo di illuminazione solare. Sperando in favorevoli condizioni osservative saremo proprio a due passi dal Polo Sud della Luna!
➜ Continua e approfondisci in laLuna di Marzosu Coelum Astronomia 231
Se la fotografia non basta, Gian Paolo Graziatoci racconta come dipingere dei rigorosi paesaggi lunari, nei più piccoli dettagli… per poi lasciarsi andare alla fantasia e all’imaginazione! ➜ La Luna mi va a pennello.
E tutte le precedenti rubriche di Francesco Badalotti, con tantissimi spunti per approfondire la conoscenza del nostro satellite naturale. Per ogni formazione basta attendere il momento giusto!
Come si è formata la nostra galassia, la Via Lattea? Come crescono i buchi neri? Qual’è l’origine del nostro sistema solare? Esistono altri mondi capaci di ospitare forme di vita? Questi sono solo alcuni degli interrogativi a cui le nostre attuali missioni scientifiche intendono rispondere. Ma secondo te, quali sono i quesiti più importanti che le nostre future missioni dovrebbero affrontare? Ora, hai la possibilità di dircelo.
Günther Hasinger, Direttore delle Attività di Scienza dell’ESA, invita il pubblico a condividere le proprie opinioni sui quesiti da porre a Voyage 2050, il programma scientifico spaziale dell’ESA per il periodo 2035–2050. Questa consultazione pubblica si è aperta il 4 marzo e proseguirà fino alla fine di giugno.
È la prima volta che l’ESA invita il pubblico a prendere parte a questo processo.
«Le nostre missioni sono finanziate dagli Stati membri, cioè dai cittadini», spiega il Direttore Hasinger. «Desideriamo alimentare un senso di appartenenza e coinvolgimento nel programma scientifico spaziale con il nostro pubblico, quindi abbiamo deciso di ascoltare le opinioni di tutti e di scegliere la prossima serie di missioni in modo aperto e trasparente».
L’indagine non richiede conoscenze specifiche su argomenti di scienza spaziale ed è stata formulata in modo tale che i partecipanti siano guidati attraverso una sequenza di domande.
Più o meno ogni dieci anni, l’ESA si consulta con la comunità scientifica europea per pianificare il futuro del proprio programma scientifico. Il piano attuale, che si chiama Cosmic Vision 2015-2025 e che copre una serie di missioni che saranno lanciate e messe in atto tra adesso e l’inizio del 2030, è il frutto di una consultazione con gli scienziati europei iniziata nel 2005. Le missioni di Cosmic Vision affronteranno complessi quesiti sulla natura e l’origine del nostro sistema solare, e sull’universo nel suo complesso.
La cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko ripresa dalla NavCam a bordo della sonda Rosetta, il 27 marzo del 2016. La sonda si trovava a 329 chilometri dal centro della cometa, e la risoluzione dell\’immagine è di 28 metri per pixel. ESA/Rosetta/NavCam – CC BY-SA IGO 3.0
Per realizzare missioni scientifiche spaziali rivoluzionarie, dal concepimento allo sviluppo e lancio fino alla produzione di risultati scientifici, possono essere necessari anche fino a vent’anni. La missione pionieristicaRosetta, lanciata nel 2004 per un incontro ravvicinato con la cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko e per l’atterraggio di un lander sulla sua superficie nel 2014, ha avuto origine dal programma Horizon 2000, un piano ancora antecedente iniziato negli anni Ottanta.
Anche se può sembrare che si stia parlando di un futuro lontano, è già tempo di iniziare la pianificazione oltre l’orizzonte attuale, per i decenni fino al 2050.
Questa prospettiva futuristica è essenziale per l’Europa, poiché alimenta la necessaria fiducia e definisce gli obiettivi comuni che permetteranno il lavoro di mutuo sostegno e collaborazione tra scienziati, ingegneri, industria ed enti finanziatori per molti decenni. La pianificazione strategica a lungo termine assicura anche lo sviluppo continuo di tecnologie innovative e allo stesso tempo fa avanzare le competenze europee nella ricerca in un’ampia gamma di settori scientifici.
«Questa consultazione rappresenta un’opportunità entusiasmante per la scienza spaziale europea», dichiara il Direttore Hasinger.
«Vedremo che cosa saremo in grado di realizzare in futuro, e ciò significa incoraggiare in particolar modo i giovani a condividere le proprie opinioni. Dopo tutto, sono loro che lavoreranno a queste missioni e che ne trarranno beneficio».
Tutte le persone di età superiore ai 16 anni, di tutto il mondo, sono invitate a partecipare. Non ci sono restrizioni di nazionalità.
A titolo di ringraziamento per aver preso parte alla consultazione, i partecipanti possono scegliere di partecipare a un’estrazione mensile di un voucher regalo per tutta la durata della consultazione pubblica.
9-10 marzo 110 e… lode!
La Grande Maratona Messier: il più classico ed atteso appuntamento per gli astrofili amanti del deep sky: una maratona a caccia dei 110 oggetti del catalogo Messier, una sfida osservativa a cui partecipano astrofili di tutto il mondo. www.uai.it/divulgazione www.messier.seds.org
I 110 oggetti Messier, in un poster costruito con le immagini riprese da Rolando Ligustri. Non sarà così che li vedrete al telescopio, ma la soddisfazione di riuscire a individuarli tutti in una sola notte, vedendoli come Messier li ha visti quando ha compilato il suo catalogo, ripaga della differenza tra quello che vediamo nelle astrofotografie di oggi e quello che i nostri occhi riescono a osservare. Con la maratona ha in comune solo gli oggetti, ma trovate i racconti della costruzione di un poster messier su: www.coelum.com/coelum/archivio/articoli/il-primo-poster-italiano-di-tutto-il-catalogo-messier di Rolando Ligustri e www.coelum.com/coelum/archivio/articoli/il-mio-poster-messier di Andrea Pistocchini.
La primavera porta con sé notti più miti ma ancora lunghe, e un cielo che offre, attorno ai giorni di Luna Nuova, i suoi tesori più lontani.
Come ogni anno, marzo è infatti il periodo ottimale per tentare la Maratona Messier, ossia la sfida che prevede di osservare (quasi) tutti gli oggetti del celebre Catalogo Messier in una sola notte, ovviamente dotati di una buona strumentazione. Chi attende il finesettimana per raggiungere cieli bui e tersi da cui effettuare l’osservazione avrà due opportunità per tentare la Maratona: la prima, la migliore, sarà il weekend del 9-10 marzo e la seconda, il 30-31 marzo.
Oltre ai dettagli per il 2019, su Coelum astronomia di marzo, per tutto il necessario, vedi anche:
Hai organizzato la tua maratona o partecipato a quella organizzata da qualche gruppo astrofili?Condividi le tue impressioni, mandaci il racconto della tua esperienza: puoi scriverci a segreteria@coelum.com.
E se hai dedicato del tempo anche a riprendere qualcuno degli oggetti Messier osservati, aspettiamo le tue immagini inPhotoCoelum!
Luca Parmitano, astronauta italiano dell’ESA già in servizio sulla Stazione Spaziale Internazionale nel 2013, si prepara alla prossima missione, questa volta da comandante della ISS, che partirà il 6 luglio dal cosmodromo di Baykonur. La missione che vedrà il ritorno dell’astronauta catanese nello spazio si chiama Beyond, nome scelto da lui stesso come proseguimento logico delle due missioni precedenti: Proxima e Horizon.
Metaforicamente il futuro comandante interpreta Proxima come una missione di servizio in prossimità della Terra, dove orbita appunto la ISS; Horizon è una missione che prepara l’uomo ad andare sempre più lontano, vicino all’orizzonte; con Beyond ci si vuole spingere oltre.
Il logo animato della missione (qui a destra, cliccando per far partire il video) mostra dapprima Marte su cui poi viene sovrapposta l’immagine della Luna; successivamente appare un casco di un astronauta in trasparenza che scruta il cielo e nella visiera si riflette la Terra, con l’Europa in primo piano, e la ISS che sfreccia come per voler andare via dall’orbita.
L’addestramento degli astronauti dura anni; vengono preparati, oltre alla missione che devono svolgere e alla missione (precedente) di cui sono equipaggio di riserva, anche a tutti gli imprevisti che possono succedere durante il viaggio verso la ISS, durante il ritorno e nella permanenza nella stazione spaziale.
Il 27 febbraio Parmitano è partito dal centro di addestramento per astronauti di Star City in Russia, dopo aver salutato i familiari, ed è arrivato in Kazakistan a Baykonur con altri cinque colleghi: i due astronauti della sua missione, la Expedition 60, Skvorcov e Morgan, e tre della missione che lo precederà, la Expedition 59Ovčinin, Hague e Kock . Si trovano tutti in una zona protetta per evitare il contagio da malattie infettive prima della partenza, isolati dal resto del mondo e in contatto solo con i tecnici del cosmodromo; perfino durante le conferenze stampa i giornalisti e gli astronauti sono separati da una parete di vetro.
Gli astronauti hanno avuto modo di provare le tute spaziali definitive, e di familiarizzare con la navetta Soyuz MS-12, quella di Ovčinin, Hague e Kock, di sedersi all’interno per capire dove è alloggiato il carico e le attrezzature di cui potrebbero aver bisogno.
A rare treat: while serving as backups for Exp.59, we got to see our spacecraft, Soyuz MS13 (n°746), being built and prepped for our flight. Couldn’t resist touching it for good luck! pic.twitter.com/gyr7WqNsnk
I tre astronauti Parmitano, Skvorcov e Morgan hanno avuto anche modo di vedere e toccare l’esterno della loro navetta, la Soyuz MS-13, non ancora completa. Questi ultimi devono comunque provare le procedure della missione MS-12 in quanto membri dell’equipaggio di riserva.
La preparazione nei prossimi mesi sarà intensa, ma agli astronauti e cosmonauti non mancheranno alcune occasioni per “staccare” anche grazie a tradizionali “riti” portafortuna che si ripetono per tutte le missioni, come guardare il film culto anni ’70 Sole bianco del deserto, piantare un albero nel viale degli eroi, e altri un po’ strani… come urinare sulla ruota dell’autobus il giorno della partenza.
La nostra redazione vi terrà aggiornati sullo svolgimento dei preparativi della missione Beyond sulle pagine di AstronautiNEWS e su Forumastronautico.it.
Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).
08.03 e 22.03, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti. L’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (Sovicille, Siena) sarà aperto al pubblico per una serata osservativa dedicata al cielo del periodo, con particolare attenzione alle galassie primaverili. Per il pubblico è obbligatoria la prenotazione tramite il sito www.astrofilisenesi.it o inviando un messaggio WhatsApp al 3472874176 (Patrizio) oppure un sms al 3482650891 (Giorgio). In caso di tempo incerto telefonare per conferma.
In questa sequenza di due immagini si può notare lo spostamento - valutato in circa due centimetri - che la parte appoggiata al suolo dell'esperimento HP3 di InSight ha subito quando mentre la talpa iniziava a penetrare nella regolite. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
In questa sequenza di due immagini si può notare lo spostamento – valutato in circa due centimetri – che la parte appoggiata al suolo dell’esperimento HP3 di InSight ha subito quando mentre la talpa iniziava a penetrare nella regolite. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Lo scorso 28 febbraio, l’esperimento HP3 della missione Nasa InSight, costruito del centro aerospaziale tedesco Dlr (Deutsches Zentrum für Luft-und Raumfahrt), ha iniziato a penetrare il suolo marziano con un’azione di percussione totalmente automatica.
In un periodo di quattro ore, grazie a quattromila colpi del suo sistema a martello, la cosiddetta “talpa” – un sottile cilindro appuntito di 40 centimetri di lunghezza – è riuscita ad arrivare a una profondità che gli scienziati del team di HP3 stimano tra i 28 e i 32 centimetri. Una misura che il responsabile dello strumento, Tilman Spohn della Dlr, definisce nel blog della missione, coerente con l’evoluzione della temperatura del motore della talpa dopo il tramonto, calata molto meno rapidamente rispetto a quella atmosferica, da cui si deduce che la talpa è almeno parzialmente sepolta.
Benché sia stato scelto un sito d’atterraggio per la missione InSight il più libero possibile da pietre, nessuno sa cosa incontrerà la sonda nel suo percorso sotterraneo, fino ai 5 metri di profondità programmati. E subito sotto la superficie sono arrivati i primi ostacoli.
«Iniziando a scavare, la talpa sembra avere incontrato una pietra, si è quindi inclinata di circa 15 gradi e l’ha spinta via, o comunque è riuscita a passare», spiega Spohn. «La talpa ha quindi cercato di farsi strada contro un’altra pietra ad una profondità maggiore, finché non sono scadute le quattro ore di tempo previsto per il funzionamento della prima sequenza».
Ecco come funziona la “talpa”. Crediti: Dlr
È previsto che la sonda vada in pausa per circa tre giorni marziani (sol) dopo ogni sequenza di scavo, impiegando almeno due giorni per raffreddarsi dall’attività dimartellamento, che provoca attrito e genera calore.
Nonostante i primi ostacoli incontrati, i membri del team mantengono l’ottimismo, contando di raggiungere i 70 centimetri di profondità già nella seconda sequenza di scavo, che dovrebbe essere iniziata domenica scorsa. Test compiuti a terra hanno infatti dimostrato che il penetrometro è in grado di spingere a lato le pietre più piccole, ma che questa operazione richiede un certo tempo.
Guarda il servizio video di MediaInaf Tv:
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Sorprendente Sistema Solare KBO e pianeti nani alla riscossa!
«L’alba di una nuova era», accompagnata da queste parole e la ripresa, sicuramente emblematica , effettuata dall’astroanuta Anne McClain: la siloutte della Crew Dragon sullo sfondo del Sole nascente dall’orizzonte della Terra, vista dalla Stazione Spaziale Internazionale. Crediti: NASA/Anne McClain
Un nuovo e importante passo nella collaborazione tra Agenzie spaziali e privati per il volo umano nello spazio, e questa storica tappa se la aggiudica nuovamente la Space X. Per la prima volta, infatti, un veicolo spaziale e un razzo, per il trasporto di equipaggio umano, costruiti e pilotati da un’azienda privata americana, sono stati lanciati verso la Stazione Spaziale Internazionale.
La navicella spaziale è la SpaceX Crew Dragon, per il momento ancora senza equipaggio umano, ma il suo ruolo sarà principalmente quello: permettere agli astronauti, americani ma non solo, di raggiungere la stazione spaziale in modo indipendente dalle Soyuz russe, dopo l’abbandono del programma Space Shuttle nel 2011.
Lift-off! Il Falcon 9 è partito dalla sua rampa di lancio a Cape Canaveral. Tenterà poi il rientro, per il suo riutilizzo, sulla piattaforma “
La Crew Dragon è partita è partita alle 02:49 EST (8:49 ora italiana), del 2 marzo, ancorata al razzo Falcon 9 dal Complesso di lancio 39A del Kennedy Space Center della NASA (Florida).
«Il successo del lancio di oggi segna un nuovo capitolo dell’eccellenza americana, facendoci avvicinare ancora una volta al volo di astronauti americani su razzi americani dal suolo americano», ha affermato, senza nascondere l’orgoglio nazionale, l’amministratore della NASA Jim Bridenstine. «Mi congratulo con orgoglio con i team SpaceX e NASA per questa importante pietra miliare nella storia dello spazio della nostra nazione. Questo primo lancio di un sistema spaziale progettato per l’uomo, costruito e gestito da una società commerciale attraverso una partnership pubblico-privato, è un passo rivoluzionario nel nostro percorso per portare gli umani sulla Luna, su Marte e oltre».
La novità assoluta è infatti la compartecipazione pubblico-privato, in un campo così delicato in cui l’agenzia spaziale americana, in passato, ha purtroppo fallito. Non si può infatti nascondere che il programma Space Shuttle fosse forse troppo ambizioso, e sicuramente troppo costoso per la NASA. L’aiuto del privato, anche se non sono poche le perplessità, sta diventando sempre più essenziale per il progresso anche in campo spaziale, anche quando in gioco ci sono le vite degli astronauti. Senza nascondere poi che, per una nazione come quella americana, continuare a dipendere da un’agenzia storicamente rivale come quella russa per far arrivare i suoi astronauti nella ISS era un sassolino (nemmeno troppo piccolo) nelle scarpe da togliersi al più presto.
La scia lasciata dal lancio della missione Crew Demo-1, immagine di rito nei lanci Space X. Crediti: Space X.
Anche Elon Musk, CEO e lead designer di SpaceX, ha ovviamente esperesso la sua soddisfazione: «Prima una nota di apprezzamento per il team di SpaceX. Ci sono voluti 17 anni per arrivare a questo punto, dal 2002 ad oggi, e una quantità incredibile di duro lavoro e sacrificio da parte di molte persone che ci hanno portato fino a qui… Devo anche esprimere grande apprezzamento per la NASA» ha dichiarato. «SpaceX non sarebbe qui senza la NASA, senza l’incredibile lavoro svolto prima che SpaceX esistesse e senza il supporto avuto dopo la fondazione». La partnership pubblico-privato ha il vantaggio di combinare le competenze e gli approcci innovativi di una compagnia commerciale alla decennale esperienza della NASA nella progettazione e nello sviluppo del volo spaziale con equipaggio umano.
Il lancio, come abbiamo detto, era il primo test di prova, c’è ancora molta strada da affrontare prima di poter utilizzare la Crew Dragon con astronauti a bordo, ma non c’è dubbio che il modo migliore per perfezionare il tutto e renderlo sempre più affidabile sia quello di lavorare sul campo. In particolare tutte le attività di aggancio, sgancio e recupero della capsula richiedono numerose fasi mai effettuate prima, e che non era possibile testare appieno a terra.
SpaceX ha controllato il lancio del razzo Falcon 9 dal Launch Control Center Kenning Room 4, l’ex sala di controllo dello Space Shuttle, affittata dalla compagnia come principale centro di controllo. Mentre le operazioni della navicella Crew Dragon erano seguita dal centro di controllo missione della Space X stessa, a Hawthorne, in California. I team della NASA invece hanno seguito le operazioni dal lato della Stazione Spaziale, durante tutto il volo e l’attracco, dal Centro di controllo missione presso il Johnson Space Center dell’agenzia a Houston.
— Intl. Space Station (@Space_Station) 3 marzo 2019
La Crew Dragon è attraccata con successo alle 6:05 am (12:05 ora italiana) di domenica 3 marzo. Si è avvicinata alla Stazione spaziale in modo autonomo, e ha effettuato l’attracco come da manuale.
Non è la prima volta che le capsule Dragon (per il trasposto di materiale e rifornimenti per la ISS) si agganciano alla Stazione spaziale ma, nel loro caso, l’ultima fase viene eseguita dal personale a bordo della stazione, che letteralmente agguanta la capsula una volta arrivata a poche decine di metri. In questo caso invece, come per le Soyuz, la manovra è completamente eseguita in modo autonomo: la navicella si è fermata, ha invertito la rotta e si è leggermente allontanata prima dell’ultima fase di attracco, si è quindi riavvicinata alla Stazione con la calotta che copre il sistema di attracco aperta, e si è allineata al boccaporto della ISS a cui si è agganciata.
Solo una volta conclusa la fase di attracco sono intervenuti gli astronauti a bordo della stazione, i tre componenti della Expedition 58 – Anne McLain (NASA), Oleg Kononenko (Roscosmos) e David Saint-Jacques (Canadian Space Agency) – che hanno aperto il portello tra l’avamposto orbitale e la navicella.
La crew dragon finalmente attraccata alla Stazione spaziale internazionale. NASA TV.
Come da procedura hanno eseguito, sotto la guida del centro di controllo a Houston, una serie di passaggi per assicurarsi che non vi fossero fuoriuscite di gas tossici e tutti i controlli pre-apertura, e alle 14:08 italiane il portello è stato aperto.
Qui a destra il twit che annuncia il successo della manovra, vediamo l’interno della capsula dove verranno ospitati gli astronauti e il portello aprirsi.
La capsula, oltre a circa 180 chili di materiale di rifornimento per la ISS, contiene anche Little Earth (un pupazzetto a forma di mondo con braccia e gambe utilizzato come indicatore per il raggiungimento della gravità zero) e, più importante, Ripley: un manichino antropomorfo con la tuta spaziale disegnata sempre dalla SpaceX. Ripley, non poteva mancare per gli amanti della fantascienza il riferimento alla serie di film Alien, contiene tutta una serie di sensori – a livello di testa, collo e spina dorsale – per raccogliere dati sulle sollecitazioni che subiranno gli astronauti che viaggeranno nei quattro posti disponibili a bordo. La navicella può infatti trasportare fino quattro astronauti (contro i tre delle Soyuz), con ulteriori 100 chili di materiale, un fattore che permetterà di aumentare l’equipaggio stabile a bordo della stazione, che al momento è di massimo 6 persone, che raggiungono la stazione a gruppi di tre, intervallati tra una Expedition e l’altra.
Senza nemmeno attendere i tempi previsti, il canadese David Saint-Jacques è stato il primo a infilarsi dentro la botola, eseguendo ulteriori test su pressione a atmosfera.
— Intl. Space Station (@Space_Station) 3 marzo 2019
Ed ecco qui a sinistra, Anne Mc Lein che ci presenta Little Earth e Ripley, durante la cerimonia di benvenuto.
La capsula resterà 5 giorni attraccata alla ISS, consentendo ulteriori controlli e lo sbarco del materiale trasportato.
Il 7 marzo è prevista una breve diretta per la chiusura del portello, che avverrà attorno alle 18:25 ora italiana (la diretta su NASA TV inizierà circa dieci minuti prima), dopo la quale cominceranno le operazioni di undocking, ovvero di distacco dalla stazione.
Sempre su NASA TV potremo seguire dalle 8 del mattino, dell’8 marzo, tutte le operazioni che porteranno al rientro della navicella a terra circa 6 ore dopo il distacco. Questi gli orari previsti:
8:31: Undocking
13:53: Deorbit Burn, la manovra di uscita dall’orbita e rientro in atmosfera.
14:45: Splashdown, l’arrivo della capsula nell’Oceano Pacifico.
Tutti i dati raccolti con questo primo test Demo-1, serviranno per il lancio Demo-2, con a bordo gli astronauti NASA Bob Behnken e Doug Hurley, selezionati per il ritorno americano dei viaggi con equipaggio umano verso la Stazione spaziale.
Servirà prima una validazione da parte della NASA, in seguito all’analisi dei dati raccolti e delle modifiche eventuali che verranno apportate, ma il lancio è al momento già previsto per il prossimo luglio 2019. Non stupirebbe una qualche coincidenza con il 50esimo anniversario della discesa dell’uomo sulla Luna…
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Sorprendente Sistema Solare KBO e pianeti nani alla riscossa!
Cinque incontri, da dicembre a marzo per parlare di… Ordine e disordine, contraddizione spesso solo apparente dove il disordine è un ordine che non riusciamo a capire, oppure l’energia che metterà in moto un ordine al momento solo potenziale. La scienza studia disordini cercando di coglierne i principi che permetteranno di comprenderne l’ordine e dunque il disordine rappresenta la sfida alla nostra conoscenza che stimola la ricerca.
I prossimi appuntamenti: 08.03: Dal nulla è nato l’universo – Sabino Matarrese (Università di Padova)
Il programma e tutti i dettagli sul nostro sito: http://circologalilei.somsmogliano.it
Ai primi due corsi del 2019 della nostra Scuola di Astronomia, seguiranno, a cominciare dal 4 aprile, il Corso Avanzato di Astronomia ed il Corso di Archeoastronomia ed Astronomia culturale, presso la nostra sede all’EUR, di fronte alla metro Laurentina.
Tutti i lunedì fino all’11 marzo: Corso Base di Astronomia Generale
Un meraviglioso viaggio alla scoperta dell’Universo: è possibile seguire le singole lezioni (al costo di 15 euro) previa prenotazione. Il programma degli argomenti è sul sito. Tutti i giovedì fino al 14 marzo: Corso completo di Astrofotografia
Lezioni teoriche e pratiche per imparare e sperimentare tutte le competenze per fotografare il cielo. Stesse modalità di partecipazione dell’altro corso.
16.03: Osservazioni pubbliche con un telescopio da mezzo metro
Nelle notti del 2 e del 3 marzo potremo seguire l’evoluzione del balletto tra la Luna (fase del 17%) e i pianeti Venere e Saturno.
Iniziamo la mattina del 2 marzo, alle ore 5:30 circa, quando potremo ammirare un allineamento (anche se non perfetto) tra i tre astri, con la Luna a occupare la posizione centrale. Orientandoci verso sudest, sarà immediato notare questa affascinante congiunzione con Venere ( 7,25° a sudest della Luna), molto brillante (mag. –4, 1), più in basso e verso est e Saturno (5° 25’ a nordovest della Luna), decisamente più debole (mag. +0,6), posizionato più in alto e verso sud. All’orario indicato, il trio si troverà a circa 8° di altezza sull’orizzonte.
A far da contorno a questo incontro ci sono le stelle del Sagittario, la cui caratteristica figura a “teiera” spicca più verso sud.
Si prosegue la mattina del giorno seguente, il 3 marzo, con una sottile falce di Luna (fase del 10%) che alle 5:20 sorge a 5° a sudest di Venere (mag. –4, 1).
In entrambi i casi sarà possibile calare questi incontri astrali nel contesto del paesaggio: consigliamo sempre di includere elementi naturali o architettonici per rendere le proprie riprese originali e uniche. Per spunti e consigli in più le rubriche di Giorgia Hofer:
2-3 marzo Convegno Astronomia inclusiva
A Roma (presso il Centro Regionale Sant’Alessio), il primo incontro del Gruppo UAI-Divulgazione inclusiva, follow-up del progetto “Stelle per tutti” sulla divulgazione dell’astronomia e della scienza in favore delle persone svantaggiate www.uai.it/stellepertutti
9-10 marzo 110 e… lode!
La Grande Maratona Messier: il più classico ed atteso appuntamento per gli astrofili amanti del deep sky: una maratona a caccia dei 110 oggetti del catalogo Messier, una sfida osservativa a cui partecipano astrofili di tutto il mondo. www.uai.it/divulgazione www.messier.seds.org
Ad annunciare la nuova stagione è come sempre il Leone che, con il suo caratteristico profilo segnato dalla stella Regolo, dominerà già il cielo a sud, circondato da costellazioni molto meno appariscenti come il Leone Minore, il Sestante e la Coma. Niente a che vedere con l’impressionante lucentezza delle costellazioni invernali, ma c’è da tener conto del fatto che in primavera la porzione di cielo che si offre ai nostri occhi è quello che sta al di fuori del piano della Via Lattea, dove le stelle sono molto più rare.
Potremo però dedicarci all’osservazione dei molti oggetti extragalattici percepibili soltanto al telescopio o al binocolo. Più a est, le costellazioni della Vergine, del Boote e di Ercole, in successione, saranno già in viaggio verso il meridiano, annunciando con quest’ultima addirittura un sapore di estate. Continua l’esplorazione del cielo con:
In marzo, il Sole si muoverà nell’Acquario fino al giorno 12, per entrare poi nella grande costellazione dei Pesci, dove vi resterà per il resto del mese. Le ore di buio diminuiranno ancora, tanto che a inizio mese la durata della notte astronomica sarà di poco più di 9,5 ore e alla fine soltanto di 7,85. Il Sole sta infatti “risalendo” velocemente l’eclittica, e il giorno 20 (data dell’equinozio di primavera) si troverà al punto gamma dove la sua declinazione – e anche l’ascensione retta – saranno esattamente pari a zero. La durata della notte sarà teoricamente uguale a quella del giorno (a complicare le cose contribuiscono in realtà molti altri fattori, come ad esempio la rifrazione atmosferica: alle nostre latitudini la parità si raggiunge infatti il giorno 17, il cosiddetto “equilux”). Inizierà con ciò la primavera astronomica.
Ricordiamo poi nella notte fra sabato 30 e domenica 31 marzo si tornerà all’ora legale estiva (TU+2). In quella data, a partire dalle ore 02:00 locali, bisognerà portare gli orologi avanti di un’ora.
COSA OFFRE IL CIELO
Per quanto riguarda i pianeti, Venere anche se via via più basso, è ancora la stella del mattino, assieme a Giove e Saturno che stanno sempre più migliorando la loro visibilità in cielo e anticipando il loro sorgere.
In prima serata continua ad imperare Marte, mentre Mercurio sparirà molto velocemente dal cielo della sera, avviato verso la congiunzione eliaca.
Ma la primavera porta con sé notti più miti e ancora buie, e un cielo che offre i suoi tesori più lontani. Come ogni anno, marzo è infatti il periodo ottimale per tentare la Maratona Messier, ossia la sfida che prevede di osservare (quasi) tutti gli oggetti del celebre Catalogo Messier in una sola notte, ovviamente dotati di una buona strumentazione. Chi attende il finesettimana per raggiungere cieli bui e tersi da cui effettuare l’osservazione avrà due opportunità per tentare la Maratona: la prima, la migliore, sarà il weekend del 9-10 marzo e la seconda, il 30-31 marzo.
E ancora falci lunari, anche questo mese concentrate nella prima decade del mese, e l’osservazione delle formazioni lunari, e spazio anche per gli amanti di asteroidiepianeti nani. In particolare questo mese la copertina è dedicata a Cerere, l’unico pianeta nano del Sistema solare interno, che è anche in un buon momento per essere osservato al telescopio.
Trovate come sempre tutte le informazioni sul nostro:
Hai compiuto un’osservazione? Condividi le tue impressioni, mandaci i tuoi report osservativi o un breve commento sui fenomeni osservati: puoi scriverci a segreteria@coelum.com.
E se hai scattato qualche fotografia agli eventi segnalati, carica le tue foto inPhotoCoelum!
Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).
02.03: Il cielo di marzo. Come ogni primo sabato del mese, l’appuntamento per il pubblico è presso Porta Laterina a Siena da dove raggiungeremo a piedi la specola”Palmiero Capannoli” per osservare il cielo del periodo. Al centro dell’attenzione le numerose galassie di Leone, Vergine, Chioma di Berenice e tanti altri oggetti. Per il pubblico è obbligatoria la prenotazione da effettuare on line sul sito www.astrofilisenesi.it oppure tramite Davide Scutumella 3388861549. In caso di tempo incerto telefonare per conferma.
08.03 e 22.03, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti. Come ogni secondo e quarto venerdì del mese, l’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (Sovicille, Siena) sarà aperto al pubblico per una serata osservativa dedicata al cielo del periodo, con particolare attenzione alle galassie primaverili (giorno 8) e alla Luna (giorno 22). Per il pubblico è obbligatoria la prenotazione tramite il sito www.astrofilisenesi.it o inviando un messaggio WhatsApp al 3472874176 (Patrizio) oppure un sms al 3482650891 (Giorgio). In caso di tempo incerto telefonare per conferma.
Un'immagine presa dalla Stazione Spaziale Internazionale mostra una striscia arancione di bagliore aereo che si libra nell'atmosfera terrestre. Il nuovo esperimento Atmospheric Waves della NASA osserverà questo bagliore aereo da un posatoio sulla stazione spaziale per aiutare gli scienziati a capire e, in definitiva, migliorare le previsioni dei cambiamenti meteorologici spaziali nell'atmosfera superiore. Crediti: NASA
Sembra un dipinto e invece è proprio un’immagine, anche se elaborata, ripresa dalla Stazione spaziale internazionale, che mostra una striscia arancione di luminescenza atmosferica, chiamato airglow, che si libra nell’atmosfera terrestre. Il nuovo esperimento AWE della NASA osserverà questa luminescenza dalla stazione spaziale per aiutare gli scienziati a capire e, in definitiva, migliorare le previsioni dei cambiamenti meteorologici spaziali dell’atmosfera superiore. Crediti: NASA
È senz’altro uno dei temi caldi del momento, visto che con l’avvicinarsi delle missioni che porteranno l’uomo al di fuori del guscio protettivo terrestre, diventa essenziale anche per l’incolumità dei nostri astronauti sapere che.. tempo fa lì nello spazio. E la NASA ha selezionato una nuova missione per lo studio, e quindi per affinare i modelli che possano poi fare previsioni, proprio del meteo spaziale, lo spaceweather.
Ne abbiamo parlato proprio nell’ultimo numero di Coelum astronomia, il 231 di febbraio 2019, con un lungo articolo a cura di astronomi dell’Osservatorio INAF di Torino, in cui troverete approfonditi sia la storia di questa scienza, che i meccanismi coinvolti nelle tempeste solari e i programmi di ricerca, anche italiani, in corso e in preparazione, ma vediamo velocemente di cosa si tratta.
Leggi l’approfondimento, sempre in digitale gratuito, dedicato al meteo spaziale su Coelum astronomia di febbraio 2019.
L’impatto che il meteo spaziale può avere sulle nostre missioni “manned”, cioè con a bordo equipaggio umano, può infatti interferire in molti modi, e diventare estremamente pericoloso. Può avere impatti sulla tecnologia e sulla fisiologia umana, può intereferire con le reti elettriche che alimentano le nostre astronavi, o interrompere le comunicazioni. Qui a Terra l’impatto è notevolmente ridotto, perché siamo protetti da atmosfera e campo magnetico terrestre, ma senza andare necessariamente tanto lontano, c’è una flotta di satelliti per le comunicazioni in orbita nella parte alta dell’atmosera che possono a essere rischio pericolo in situazioni di meteo particolarmente avverso.
Questo nuovo esperimento NASA, all’interno del più ampio progetto Explorers, raccoglierà per la prima volta dati globali proprio su questo importante aspetto, studiando i meccanismi che influiscono sull’atmosfera superiore terrestre e che possono influire su comunicazioni radio e GPS.
La missione Atmospheric Waves Experiment (AWE) avrà un costo di 42 milioni di dollari e sarà lanciata nell’agosto del 2022. Sarà attraccata alla Stazione Spaziale Internazionale, e si concentrerà su quelle che sono chiamate airglow, bande di luce colorata nell’atmosfera terrestre, per comprendere quali generi di forze agiscono in questa zona dell’atmosfera.
Altra immagine, sempre dalla Stazione spaziale, che mostra in modo ancora più intenso il color arancio della luminescenza che sembra avvolgere la nostra atmosfera. Crediti: NASA
Si è sempre pensato infatti che a causare questa luminescenza, presente in modo costante, nella parte alta della nsotra atmosfera, fossero il costante flusso di luce solare ultravioletta e di particelle di vento solare, che interagiscono con le molecole di azoto e ossigeno. Recentemente invece ci si è accorti che le variazioni solari non sono sufficienti a spiegare le variazioni negli effetti osservati. L’ipotesi più plausibile è che quindi debbano in qualche modo intervenire anche i cambiamenti dovuti al clima terrestre. Per aiutare a svelare questa connessione, AWE indagherà su come le onde nell’atmosfera inferiore, causate da variazioni nella densità dei vari pacchetti d’aria, colpiscano l’atmosfera superiore.
AWE fa parte di un programma molto più ampio, composto da “piccole” missioni, in campo astrofisico e solare, ideate per colmare le lacune lasciate dalle missioni più grosse: dal lancio nel 1958 del primo satellite della NASA Explorer 1, che ha scoperto le cinture di radiazione terrestri, il Programma Explorers ha supportato oltre 90 missioni, tra cui due, le missioni Uhuru e Cosmic Background Explorer (COBE), hanno valso il premio Nobel per i loro ricercatori.
«Il programma Explorers cerca idee innovative per missioni di piccole dimensioni e con costi limitati che possono aiutare a svelare i misteri dell’universo e comprendere il nostro posto al suo interno», ha affermato Paul Hertz, direttore della divisione Astrofisica della NASA. «Questa missione soddisfa assolutamente lo standard con una missione creativa ed economica per risolvere i misteri sull’atmosfera superiore della Terra».
Scelta sia per il suo potenziale valore scientifico, che per la fattibilità del progetto, la missione è guidata da Michael Taylor, presso la Utah State University di Logan ed è gestita dall’Explorers Program Office presso il Goddard Space Flight Center della NASA.
Oltre ad AWE, la NASA ha anche selezionato il Sun Radio Interferometer Space Experiment (SunRISE), una serie di sei CubeSat che funzionano come un grande radiointerferometro solare. Scopo della missione indagato su come le gigantesche tempeste spaziali provenienti dal Sole, riescano a rilasciare e accellerare particelle solari nello spazio interplanetario.
La missione ancora non è pronta per la prossima fase di sviluppo, quindi non sappiamo quando avrà il suo inizio, ma si tratta comunque di un uso particolarmente interessante della nuova tecnologia CubeSat, che sempre più verrà utilizzata in questo genere di missioni a basso costo. SunRISE è guidato da Justin Kasper all’Università del Michigan ad Ann Arbor e gestito dal Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, in California.
Per ulteriori informazioni sul programma Explorers, visitare:
Getto che buca il materiale lanciato nello spazio dallo scontro delle due stelle di neutroni. Il getto è lanciato dal buco nero, circondato da un disco di materia calda, che si è formato dopo lo scontro. Crediti: O. S. Salafia e G. Ghirlanda
Getto che buca il materiale lanciato nello spazio dallo scontro delle due stelle di neutroni. Il getto è lanciato dal buco nero, circondato da un disco di materia calda, che si è formato dopo lo scontro. Crediti: O. S. Salafia e G. Ghirlanda
Un risultato tutt’altro che scontato. Ci sono voluti trentatré radio telescopi distribuiti in cinque continenti, dall’Australia agli Stati Uniti passando per Asia, Europa e Sud-Africa, e trentasei astronomi di undici nazioni per misurare le dimensioni di Gw 170817, la prima sorgente di onde gravitazionali rivelate dagli interferometri Ligo e Virgo, osservata anche nella sua componente elettromagnetica da decine di telescopi, a più di un anno dalla sua scoperta. I risultati dello studio di un teaminternazionale coordinato da Giancarlo Ghirlanda, primo ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica, e che ha visto la partecipazione di colleghi dell’Inaf, ricercatori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, Università di Milano-Bicocca, Gran Sasso Science Institute e Agenzia spaziale italiana, sono stati pubblicati oggi sulla rivista Science.
Lo studio mostra come dallo scontro di due stelle di neutroni abbia avuto origine un getto di energia e materia lanciato nello spazio interstellare a una velocità prossima a quella della luce. Le due stelle di neutroni, nell’atto di fondersi, hanno rilasciato nello spazio circostante materiale ricco di neutroni, che ha formato metalli pesanti. Il getto ha dovuto farsi strada attraverso questo materiale. Se non fosse riuscito a emergere avrebbe depositato al suo interno la propria energia, provocando un’esplosione quasi sferica. È ben presto apparso chiaro che studiare il cambiamento della luminosità della sorgente nel tempo non sarebbe bastato per capire se il getto ce l’avesse fatta o meno a bucare la coltre di materiale circostante. Per scoprirlo, i ricercatori hanno deciso di misurare quanto fosse grande la sorgente.
«Dopo diversi mesi un’esplosione sferica, a una distanza come quella di Gw 170817, sarebbe apparsa come una bolla luminosa delle dimensioni apparenti di circa un milionesimo di grado – come una moneta da un euro vista da mille chilometri di distanza – mentre un getto sarebbe apparso significativamente più piccolo, non più grande della metà», spiega Ghirlanda, che è primo autore dell’articolo che illustra i risultati della ricerca.
I 33 radiotelescopi che il 12 marzo 2018 hanno osservato la sorgente Gw 170817 mediante la tecnica dell’interferometria, che consente di ottenere un’immagine ad altissima risoluzione. Crediti: Paul Boven, Jive, su immagine satellitare Nasa Visible Earth
Dimensioni così piccole sono misurabili solamente con la tecnica chiamata Very Long Baseline Interferometry (Vlbi), che combina le osservazioni dei più grandi radiotelescopi sulla Terra: maggiore è la distanza fra le antenne utilizzate e più piccoli sono i dettagli delle sorgenti celesti che è possibile distinguere. L’osservazione ha visto impegnati 33 radiotelescopi, che tra il 12 e il 13 marzo del 2018, sfruttando la rotazione della Terra, hanno iniziato a osservare la galassia in cui è avvenuta la fusione delle due stelle di neutroni, partendo dagli strumenti operativi in Australia per terminare con quelli puntati dalle Hawaii. A questa osservazione hanno preso parte moltissime antenne europee che fanno parte dell’European Vlbi Network (Evn), fra cui le due antenne italiane dell’Inaf situate a Medicina (vicino Bologna) e Noto (in Sicilia), entrambe del diametro di 32 metri. I dati sono stati raccolti e analizzati nel centro Jive (Olanda).
È il risultato di una collaborazione internazionale che «ha saputo combinare le tecniche osservative radio più avanzate con le conoscenze teoriche sui getti relativistici e sulle onde gravitazionali, in cui l’Italia riveste un ruolo d’avanguardia», osserva Monica Colpi, professore ordinario dell’Università di Milano-Bicocca.
«Nella prossima primavera i rivelatori di onde gravitazionali Virgo e Ligo rientreranno in funzione, ‘ascoltando’ un volume di universo più grande. Ci aspettiamo molti nuovi segnali, e questo tipo di osservazioni saranno fondamentali per capire come si origina l’immensa energia emessa in questi eventi», ricorda Marica Branchesi, ricercatrice del Gran Sasso Science Institute e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, fra gli autori del lavoro.
«È un po’ come giocare a ‘Indovina chi?’: per capire se si tratta o no di un getto», spiega Om Sharan Salafia, ricercatore dell’Inaf e secondo autore del lavoro pubblicato su Science, «bisogna essere in grado di prevedere come appare la sorgente 200 giorni dopo la rivelazione delle onde gravitazionali, cioè nel momento in cui le antenne Vlbi l’hanno osservata. Dal confronto delle immagini teoriche con quelle vere si nota che solo un getto appare sufficientemente ‘compatto’ da essere compatibile con la dimensione osservata».
«La prima e al momento unica rivelazione di onda gravitazionale a cui è stata associata una controparte elettromagnetica, Gw 170817, ha dimostrato l’importanza fondamentale della sinergia tra rivelatori di onde gravitazionali e strumenti per l’astronomia da terra e dallo spazio», sottolinea Valerio D’Elia, co-autore dell’articolo e archive scientist presso lo Space Science Data Centre dell’Asi. «Le missioni spaziali future come Hermes (progetto Asi) e Theseus (missione candidata per Esa – M5)», continua Barbara Negri, responsabile dell’Unità per l’esplorazione e l’osservazione dell’universo dell’Asi, «rivestiranno un ruolo molto importante nell’era dell’astronomia multi-messaggera».
Dopo oltre un anno di incertezze, l’arcano è quindi finalmente svelato: questo studio fornisce la prova che la sorgente di onde gravitazionali scoperta nell’agosto del 2017 ha lanciato un getto relativistico che ha bucato il materiale espulso nell’atto della fusione delle due stelle di neutroni. Un’informazione che aggiunge un ulteriore tassello alla nostra comprensione di tali fenomeni: grazie a osservazioni di questo tipo, nei prossimi anni potremo avere un’idea più completa e precisa delle varie fasi della vita di buchi neri e stelle di neutroni, a partire dalla loro formazione.
Il team missione ringrazia l'entusiasmo e il supporto che gli è arrivato da tutto il mondo!
Missione compiuta! Credit: ISAS/JAXAL\’ultima immagine rilasciata ripresa durante l\’avvicinamento per la raccolta del campione.
La sonda Hayabusa2 ha concluso con successo tutte le fasi del suo primo “mordi e fuggi” su Ryugu. Una delicatissima operazione che l’ha portata a sfiorare la superficie dell’asteroide, sparare un piccolo proiettile e, raccogliendo la polvere alzata dall’impatto, allontanarsene nell’arco di pochi secondi.
Uno streaming in diretta dalla sala controllo ha seguito tutte le ultime fasi della discesa, con un team di missione decisamente teso per portare a termine quella che è considerata una rivincita dopo la prima missione Hayabusa, in cui non tutto è andato come previsto.
La sonda ha inviato dati di telemetria fino a circa le 23:30 italiane, quando ormai a soli 50 metri dal terreno ha dovuto “concentrarsi” nella fase più critica: riorientarsi in modo perpendicolare al punto di raccolta, avvicinarsi fino a toccare la superficie con la sua “proboscide”, sparare il proiettile e raccogliere la polvere alzata dall’impatto, riprendendo istantaneamente quota.
Nel grafico tutte le fasi della raccolta del campione. L’avvicinamento alla superficie, seguendo il target marker (TM) caduto non proprio vicino la punto di raccolta, il reorientamento e avvicinamento al punto di raccolta, e la veloce risalita subito dopo lo sparo e la raccolta del materiale. Credit: ISAS/JAXA
Non potendo affidarsi ai dati della telemetria, tutta la sala ha seguito quasi in apnea le misurazioni doppler, che hanno confermato il corretto comportamento della sonda. Poco prima della mezzanotte, è arrivata infatti la prima conferma dal poject manager della missione: alle 23:48 ora italiana (le 7:48 del 22 febbraio per il giappone) la sonda stava riprendendo quota.
Alle 00:07, la telemetria è stata ripristinata, come previsto, e i dati hanno ricominciato a fluire. Alle 00:42 tutti i controlli sono stati portati a termine: il proiettile è stato sparato, la sequenza dei comandi completata regolarmente e la sonda è risultata in stato nominale. Tutto questo ha permesso di dare la conferma definitiva.
Il team può cominciare a rilassarsi…
Missione compiuta!
Non siamo alla NASA, non ci sono stati applausi scroscianti, ma i sorrisi, le strette di mano e i timidi applausi sparsi, fino all’ultimo breve ma liberatorio, hanno comunque trasmesso la meritata soddisfazione del team ad ogni conferma. Quattro anni per arrivare a questo successo, e ora si può ricominciare a respirare… e a prepararsi ai prossimi tentativi.
Anche dalla NASA, dalla missione “gemella” OSIRIS-Rex che raccoglierà un campione dall’asteoroide Bennu, sono arrivate le congratulazioni per lo storico risultato.
Cosa e quanto Hayabusa 2 è riuscita a raccogliere lo sapremo solo quando la sonda rientrerà a terra, alla fine del 2020.
La sonda infatti non trasporta strumentazione per l’analisi del materiale raccolto nei suoi touchdown, che viene invece conservato in appositi contenitori sigillati. La sua missione è quella di imparare ad approcciare piccoli mondi con bassissima gravità come gli asteroidi e raccoglierne dei campioni da portare incontaminati a terra, dove verranno analizzati.
In questa composizione, vediamo al centro Nettuno mentre ai lati la ripresa delle sue lune, effettuata da Hubble nel 2009, con la Hubble's Wide Field Camera 3, in luce visibile. Credit: NASA, ESA, and M. Showalter (SETI Institute).
Un’impressione artistica che mostra la piccola luna Hippocamp di fronte a Nettuno. Anche se le immagini di Hubble hanno contribuito alla scoperta della luna e delle sue origini, i suoi 34 chilometri di diametro non ci permettono di vederne alcuna caratteristica superficiale. Credit: ESA/Hubble, NASA, L. Calçada
Ormai siamo abituati quotidianamente ad avere notizie dai principali pianeti del Sistema Solare, vuoi perché abbiamo inviato numerose sonde che raccolgono dati senza sosta come su Marte, o per le spettacolari immagini che ci invia da Giove la sonda Juno, o ancora per le numerose missioni dedicate ad asterodi e pianeti nani (in corso e… concluse da poco, come la missione Dawn su Cerere). Ma i nostri occhi robotici dallo spazio non dimenticano nessuno, ed ecco che arrivano, dopo la bellissima immagine delle scorse settimane, nuove notizie dal sistema di Nettuno, e in particolare sull’ultima luna scoperta: Hippocamp.
Grazie ai dati dell’infaticabile Telescopio spaziale Hubble, incrociati con quanto raccolto dalla sonda Voyager 2 quasi vent’anni fa, una squadra di astronomi, guidata da Mark Showalter del SETI Institute, ha rivelato nuovi dettagli sull’origine di questa piccola e lontana luna.
Scoperta solo nel 2013, S/2004 N 1e, ora ufficialmente nominata Hippocamp, è la più piccola luna di Nettuno e si trova nei pressi della sua (con i suoi 400 km di diametro) più grande luna interna, Proteus.
La prima immagine di Ippocampo (nel riquadro rosso), individuata in una ripresa del 2004. Crediti: Mark R. Showalter, SETI Institute
«La prima cosa che abbiamo capito è che non ti aspetteresti di trovare una luna così piccola proprio accanto alla più grande luna interna di Nettuno», spiega Showalter.
Le orbite delle due lune sono incredibilmente vicine, a soli 12.000 km di distanza. Normalmente, se due satelliti di dimensioni così diverse si trovano a coesistere in orbite così vicine possono accadere due cose, o il corpo più piccolo viene attratto dal più grande e ci si schianta sopra, oppure il più grande scalza via dall’orbita il più piccolo allontanandolo. In questo caso, invece, sembra che coesistano perché forse erano, un tempo, un corpo unico. Miliardi di anni fa, infatti una collisione con una cometa avrebbe colpito Proteus, con un impatto così potente da staccarne un pezzo.
Tutte le lune di Nettuno. Le orbite delle lune e le dimensioni del pianeta non sono in scala. Credit: NASA, ESA, and A. Feild (STScI)
Le immagini della sonda Voyager 2 del 1989 mostrano infatti un grande cratere di impatto sulla grande luna, abbastanza grande da immaginare che il pezzo mancante possa essere Hippocamp!
«Nel 1989, pensavamo che il cratere fosse la fine della storia», ha detto Showalter. «Con Hubble, ora sappiamo che un piccolo pezzo di Proteus è rimasto indietro e lo vediamo oggi sottoforma di Hippocamp».
Hippocamp è solo uno dei più recenti risultati della turbolenta storia del sistema di lune di Nettuno. Proteus stesso si è formato miliardi di anni fa, dopo un evento catastrofico che ha coinvolto tutti i satelliti del lontano pianeta. A quel tempo, la gravità di Nettuno ha infatti catturato un enorme corpo dalla fascia di Kuiper, che è poi diventato la sua più grande luna Tritone. Un’oggetto così imponente, arrivato d’improvviso nell’orbita del pianeta, non ha potuto che distruggere gli equilibri e attrarre e frantumare tutti gli altri satelliti presenti in quel momento.
Solo in seguito, dai quei detriti, si è formata una seconda generazione di lune, che sono quelle che vediamo oggi, tra le quali Proteus.
Successivamente, un bombardamento cometario ha dato forma a Hippocamp, che diventa quindi una luna di terza generazione.
«Basandoci sulle popolazioni stimate di comete, ora sappiamo che altre lune nel Sistema Solare esterno devono essere state colpite da comete, distrutte e quindi riformatesi più volte», ha osservato Jack Lissauer del NASA Ames Research Center, California, USA, un coautore della nuova ricerca. «Questa coppia di satelliti fornisce un’immagine drammatica di come le lune, a volte, vengano disgregate dalle comete».
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Tra SOLE, TERRA e… LUNA dal Meteo Spaziale all’esplorazione della Luna, passando per… Ultima Thule!
L'ammasso di galassie Abell 1314 si trova nella costellazione dell’Orsa Maggiore a una distanza di circa 460 milioni di anni luce dalla Terra. L’oggetto ospita emissioni radio su larga scala che sono state causate dalla sua fusione con un altro cluster. Le emissioni radio non termiche rilevate con il telescopio Lofar sono mostrate in rosso e rosa, e l'emissione termica dei raggi X rilevata con il telescopio Chandra è mostrata in grigio, sovrapposta a un'immagine ottica. Crediti: Amanda Wilber/LOFAR Surveys Team
L’ammasso di galassie Abell 1314 si trova nella costellazione dell’Orsa Maggiore a una distanza di circa 460 milioni di anni luce dalla Terra. L’oggetto ospita emissioni radio su larga scala che sono state causate dalla sua fusione con un altro cluster. Le emissioni radio non termiche rilevate con il telescopio Lofar sono mostrate in rosso e rosa, e l’emissione termica dei raggi X rilevata con il telescopio Chandra è mostrata in grigio, sovrapposta a un’immagine ottica. Crediti: Amanda Wilber/LOFAR Surveys Team
Un gruppo internazionale di oltre 200 ricercatori provenienti da 18 paesi, tra cui alcuni dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Università di Bologna, ha pubblicato la prima tornata di articoli riguardanti la fase iniziale di un’importante surveyrealizzata con il potente telescopio europeo Low Frequency Array (Lofar), la più estesa rete per osservazioni radioastronomiche in bassa frequenza al mondo attualmente operativa. I ricercatori hanno rilevato centinaia di migliaia di galassie finora avvolte nel mistero, gettando nuova luce su molte aree di ricerca tra cui fisica dei buchi neri e lo studio dell’evoluzione degli ammassi di galassie. I primi 25 articoli che descrivono questi risultati (uno degli articoli è a prima firma italiana) sono stati pubblicati oggi in un numero specialedella rivista scientifica Astronomy & Astrophysics.
La radioastronomia permette di studiare aspetti dei fenomeni celesti che non sono accessibili in altre bande. Durante questa prima fase di rilevazioni, le antenne Lofar (25mila, raggruppate in 51 stazioni distribuite al momento in 7 stati europei) hanno osservato un quarto dell’emisfero settentrionale a basse frequenze. Con questi articoli, circa il 10 per cento dei dati viene reso pubblico. Lofar ha tracciato 300 mila sorgenti, quasi tutte galassie nel lontano Universo: i loro segnali radio hanno viaggiato miliardi di anni luce prima di raggiungere la Terra.
Questa immagine mostra come il radiotelescopio Lofar apre una nuova era per lo studio dell’Universo. In grigio è mostrata una porzione di cielo in luce visibile. Le tonalità arancioni mostrano la radiazione radio che viene emessa nella stessa parte del cielo. L’immagine radio sembra completamente diversa e cambia le nostre ipotesi su come le galassie nascono e si sviluppano. Crediti: Rafael Mostert/Lofar Team/Sloan Digital Sky Survey DR13
Questa immagine mostra come il radiotelescopio Lofar apre una nuova era per lo studio dell’Universo. In grigio è mostrata una porzione di cielo in luce visibile. Le tonalità arancioni mostrano la radiazione radio che viene emessa nella stessa parte del cielo. L’immagine radio sembra completamente diversa e cambia le nostre ipotesi su come le galassie nascono e si sviluppano. Crediti: Rafael Mostert/Lofar Team/Sloan Digital Sky Survey DR13
Lofar ha una sensibilità notevole e questo permette di rispondere a molte domande sulla formazione ed evoluzione dei buchi neri: per esempio è possibile vedere che getti di materiale sono presenti in tutte le galassie più massicce, il che significa che i loro buchi neri non smettono mai di “mangiare”. Ma con le antenne progettate e sviluppate da Astron, l’Istituto olandese per la radioastronomia, è possibile studiare nel dettaglio anche gli ammassi di galassie, cioè raggruppamenti di centinaia di migliaia di galassie circondate da un gas a temperature di centinaia di milioni di gradi: quando due ammassi interagiscono fra loro, producono emissioni radio che viaggiano per milioni di anni luce. Le antenne di Lofar sono progettate per essere sensibili proprio a queste emissioni.
«Quello che stiamo iniziando a vedere con Lofar», spiega Annalisa Bonafede, professoressa associata dell’Università di Bologna e ricercatrice dell’Inaf – Ira di Bologna, «è che, in alcuni casi, anche gli ammassi di galassie che non mostrano evidenza di forti interazioni possono mostrare questa emissione, ma a un livello molto basso che comunque in precedenza non era rilevabile. Questa scoperta ci dice che anche gli eventi di interazione minore fra ammassi possono innescare meccanismi di accelerazione di particelle su enormi scale».
La creazione di mappe radio a bassa frequenza richiede sia un notevole tempo di utilizzo dei telescopi che di calcolo ed è necessario l’impiego di grandi team per l’analisi dei dati. Le antenne di Lofar producono un’immensa quantità di dati – basti pensare che gli esperti hanno elaborato l’equivalente di dieci milioni di Dvd di dati.
Mappa con la distribuzione delle stazioni osservative che compongono Lofar. Crediti: Astron
«Questa serie di articoli vede un coinvolgimento significativo di ricercatori e associati Inaf a dimostrazione della vitalità della comunità radioastronomica Italiana. Oggi l’Inaf guida un consorzio nazionale che è membro della collaborazione Lofar e pertanto nell’immediato futuro ci aspettiamo un contributo molto importante all’esplorazione dei dati Lofar da parte della nostra comunità», aggiunge Gianfranco Brunetti, primo ricercatore all’Inaf – Ira di Bologna che da alcuni anni guida le ricerche Lofar nell’ambito degli ammassi di galassie, nonché coordinatore del consorzio Lofar italiano. «Inoltre va detto che oggi stiamo sviluppando degli strumenti per l’analisi dei dati Lofar che sono molto più potenti di quelli utilizzati in questi primi articoli e che ci permetteranno di ottenere immagini ancora più profonde e dettagliate».
I 25 articoli pubblicati nel numero speciale di Astronomy & Astrophysics sono stati condotti solo con il primo 2 per cento del rilevamento del cielo. Il team mira a ottenere immagini ad alta risoluzione dell’intero cielo del nord, rivelando così 15 milioni di sorgenti radio in totale.
Guarda il servizio video sul canale YouTube MediaInaf TV:
Consulta il numero speciale di Astronomy & Astrophysics “Lofar Surveys”. I ricercatori italiani che hanno partecipato, a vario titolo, a 21 dei 25 articoli sono: per l’Inaf (Ira di Bologna, Iasf Milano, Osservatorio di Cagliari) A. Botteon, M. Brienza, G. Brunetti, E. Carretti, R. Cassano, V. Cuciti, F. Gastaldello, R. Paladino, I. Prandoni, V. Vacca; per l’Università di Bologna A. Bonafede, F. Vazza e D. Dallacasa. Ricordiamo che l’Inaf guida un consorzio nazionale di cui fa parte anche il dipartimento di fisica dell’Università di Torino e ha pianificato di investire in Lofar circa 2,5 milioni di euro, da aprile 2018 e per i prossimi 4 anni, e parteciperà con il suo personale allo sviluppo della nuova generazione di dispositivi elettronici allo stato dell’arte che equipaggeranno il radiotelescopio diffuso europeo.
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Tra SOLE, TERRA e… LUNA dal Meteo Spaziale all’esplorazione della Luna, passando per… Ultima Thule!
Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).
22.02, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti. Come ogni secondo e quarto venerdì del mese, dalle ore 21.30 l’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (Sovicille, Siena) sarà aperto al pubblico per una serata osservativa dedicata al cielo del periodo. Per il pubblico è obbligatoria la prenotazione tramite il sito www.astrofilisenesi.it o inviando un messaggio WhatsApp al 3472874176 (Patrizio) oppure un sms al 3482650891 (Giorgio). In caso di tempo incerto telefonare per conferma.
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