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Dalle costellazioni al profondo cielo – Acquario

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Continua da pag 80 di Coelum Astronomia n° 258

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Tale concetto venne adottato anche nell’antico Egitto; qui era presente la figura di tale ımt-ḫnt, principe del sud avente in mano un vaso dacqua; la figura di un portatore/dispensatore dacqua era associata all’inondazione annuale del Nilo la quale, secondo credenze, si scatenava quando ımt-ḫnt versava acqua dal suo vaso nel grande fiume, all’inizio della primavera. La tradizione del portatore/dispensatore dacqua andò poi avanti nel tempo, diffondendosi verso occidente ed arrivando nell’antica Grecia; qui il portatore/dispensatore dacqua divenne Hydrokoos, figura alla quale venne poi associato il mito di Ganumedes, un fanciullo frigio che per la sua straordinaria bellezza fu rapito da un’aquila (nella quale, forse, prese forma lo stesso Zeus) e portato da questa sull’Olimpo per diventare un immortale coppiere degli dei. In Grecia, il periodo durante il quale il Sole attraversava quelle particolari stelle era definito “gamelion”, termine in qualche modo correlato al mito di Ganumedes, successivamente divenuto Ganymede. Durante il mese di agosto, Ganumedes si rendeva visibile tutta la notte, stando all’opposizione rispetto al Sole

COSTELLAZIONI SCOMPARSE IN AQUARIUS

Certo è che le stelle di Aquarius, in particolare quelle situate nell’area occidentale della figura, nei millenni a venire mancarono di…tranquillità. Facciamo un salto di 2 mila e passa anni per giungere al 1627. Ad Augusta, l’abate Julius Schiller pubblica l’atlante “Coelum Stellatum Christianum” con la ferma intenzione di sostituire le costellazioni tolemaiche e quelle venute dopo con figure estratte dalla tradizione biblica. Qui, la millenaria figura del portatore/dispensatore dacqua viene sostituita da Sancti Iudae Thadaei Apostoli ovvero S. Giuda Taddeo (che, pur appartenendo al gruppo dei 12 apostoli, non va confuso con l’omonimo traditore di Gesù). Anche se venne presto dimenticato, il tentativo di Schiller fu solo il primo di altri: una moltitudine di cartografi nei secoli andarono a riempire spazi a loro dire “vuoti” tra le costellazioni; storie travagliate, che durarono fino al 1930 quando l’International Astronomical Union decise di porre definitivamente ordine in questi guazzabugli celesti.

 

Qualche decennio dopo Schiller, precisamente nel 1688, l’astronomo tedesco Gottfried Kirch pubblicò dei “suggerimenti” sulla creazione di nuove costellazioni in quella che era la principale rivista scientifica dell’epoca, “Acta Eruditorum”. La prima di queste fu Pomum Imperiale, che egli compose con alcune deboli stelle strappate ad Antinoo, Aquila, Delphinus e Aquarius. Si trattava, come di moda all’epoca, di una più che sfacciata adulazione rivolta a Leopoldo I, imperatore del Sacro Romano Impero: Kirch posizionò il globo sulla mano destra di Antinoo, figura già allora divenuta obsoleta. La cosa più incredibile, però, fu la nomenclatura che Kirch attuò per questa nuova figura, dove esattamente alle sette (…un caso, tale numero?) stelle che delineavano la nuova costellazione – tutte tra la quarta e la sesta grandezza – vennero attribuite…le sette lettere costituenti il nome Leopuld! Sebbene inizialmente ignorata, Pomum Imperiale venne ripresa dall’astronomo tedesco Johann Bode che la dipinse nella sua “Uranographia” del 1801. A parte Bode, l’interesse di astronomi e cartografi celesti dell’epoca non venne destato portando, così, Pomum Imperiale ad essere dimenticata. A onor di cronaca, Kirch beneficiò della sua mossa: nel 1700, Federico III lo nominò astronomo alla neonata Società delle Scienze di Brandeburgo (ora Accademia delle Scienze e degli Studi Umanistici di Berlino-Brandeburgo) e primo direttore del suo Osservatorio di Berlino, ma morì prima dell’inaugurazione ufficiale della struttura.

 

Toccò al botanico inglese John Hill darsi da fare per inventare non una ma ben 15 nuove figure, che presentò alla comunità astronomica nel suo “Urania: a complete view of the heavens”, pubblicato nel 1754. Anche se l’intenzione dell’autore fu certo meritevole – a suo dire “inventate per dare qualcosa alla scienza” – nessuna di tali costellazioni venne accettata né dagli astronomi né dai cartografi del tempo. Ad ogni modo, una delle quindici costellazioni proposte da Hill fu Dentalium, mollusco marino affine ai gasteropodi che lo scienziato rappresentò utilizzando una quindicina di deboli stelle situate a nord-ovest di β Aquarii, nella parte occidentale della costellazione.

 

In un’epoca di “celeste servilismo”, atto ad ottenere favori dalle casate reali europee, il gesuita nonché astronomo all’Osservatorio di Mannheim Karl-Joseph Konig non fece eccezione: per omaggiare Karl Theodor, conte Palatino e duca di Baviera e la moglie contessa Palatina Elisabeth Auguste di Sulzbach, venne di sana pianta ideata la nuova costellazione Leo Palatinus, costituita da deboli stelle situate a cavallo dell’equatore celeste tra Aquarius, Equuleus, Delphinus e l’allora esistente Antinoo. Nel suo “Nova Constellatione Coelo Inlatus” (1785), la nuova figura celeste appariva formata da un leone accovacciato avente in testa la corona reale e, sopra questo, disegnate da deboli stelle tra Equuleus e Delphinus, le iniziali dei due personaggi reali in questione, “CT” ed “EA”. Quale devozione per un sovrano che, da quanto sembra, non finanziò alcunché per l’osservatorio reale di Mannheim e quale onore per i due reali avere le loro iniziali impresse, pur da deboli stelle, per l’eternità! Anche nei cieli si riflettono ingiustizie e miserie umane.

Arriviamo nel 1822 ed ecco, ancora nella stessa zona di cielo – la quale, evidentemente, deve avere molto ispirato studiosi ed autori del passato, forse attratti dal fatto che questa non destò più di tanti interessi in Tolomeo e nel suo Almagesto – l’apparizione di una nuova figura: Norma Nilotica, creata da Alexander Jamieson nel suo “Celestial Atlas”. Guardando un’odierna e precisa mappa stellare, vien davvero da ridere chiedendosi quali stelle disposte in una sequenza che assolutamente non c’è (oltre alle stesse stelle!) avessero portato Jamieson ad immaginare un Nilometro, termine che si riferisce a qualunque tipo di strumento utilizzato per misurare l’altezza delle acque del grande fiume africano: da semplici aste di legno ad appositi edifici. Sull’importanza del Nilo nell’antico Egitto abbiamo già avuto modo di discutere in questa rubrica: l’abilità di riuscire a predire il volume delle preziose inondazioni annuali era prerogativa dei sacerdoti egizi, i quali monitoravano giornalmente il livello del fiume a partire da giugno, seguendo accuratamente e con largo anticipo le grandi piene che, puntualmente, si presentavano nel periodo compreso tra luglio e ottobre. Sebbene in Egitto restino ancora diversi di questi nilometri, il flusso del grande fiume, oggi regolato dalle dighe, non rende più d’uso necessario questi tradizionali strumenti di misura. A differenza delle precedenti costellazioni, Norma Nilotica fu ritratta anche in successivi atlanti celesti apparsi dopo la sua prima pubblicazione: l’ultima citazione risale al 1903 ad opera di Charles Augustus Young, che a tutti gli effetti la descrisse come priva di importanza.

Da allora, il portatore/dispensatore dacqua ha trovato finalmente pace…anche se negli ultimi tempi, bisogna dirlo, sembra fare bizzarrie, ben visibili agli occhi di tutti!

M72

As the first in the new weekly series of spectacular images from the NASA/ESA Hubble Space Telescope, the Hubble Picture of the Week, ESA/Hubble presents a stunning image of an unfamiliar star cluster. This rich collection of scattered stars, known as Messier 72, looks like a city seen from an airplane window at night, as small glints of light from suburban homes dot the outskirts of the bright city centre. Messier 72 is actually a globular cluster, an ancient spherical collection of old stars packed much closer together at its centre, like buildings in the heart of a city compared to less urban areas. As well as huge numbers of stars in the cluster itself the picture also captures the images of many much more distant galaxies seen between and around the cluster stars. French astronomer Pierre Méchain discovered this rich cluster in August of 1780, but we take Messier 72’s most common name from Méchain’s colleague Charles Messier, who recorded it as the 72nd entry in his famous catalogue of comet-like objects just two months later. This globular cluster lies in the constellation of Aquarius (the Water Bearer) about 50 000 light-years from Earth. This striking image was taken with the Wide Field Channel of the Advanced Camera for Surveys on the NASA/ESA Hubble Space Telescope. The image was created from pictures taken through yellow and near-infrared filters (F606W and F814W). The exposure times were about ten minutes per filter and the field of view is about 3.4 arcminutes across.

Nell’area immediatamente a sud di queste due stelle sono presenti i primi interessanti oggetti del profondo cielo che andremo a conoscere, due dei quali appartengono al noto catalogo di Messier, tanto amato dagli astrofili. M72 è uno dei due ammassi stellari di tipo globulare presenti in Aquarius, individuabile già con un binocolo del tipo 20×60 esattamente 3,5° a sud di Albulaan. Scoperto nella notte tra il 29 e 30 agosto 1780 dall’astronomo francese Pierre Méchain, grande amico di Charles Messier, Messier 72 è certamente uno degli oggetti meno noti tra quelli presenti nel famoso catalogo di oggetti del profondo cielo. Riprese di pochi secondi rendono già ben visibili alcune catene stellari presenti alla periferia di questo globulare. All’osservazione telescopica, M72 inizia a risolversi ai bordi utilizzando diametri da almeno 200 mm, forzando l’ingrandimento, aumentando in tal modo il contrasto col fondo cielo. Il numero di deboli stelle presenti nell’alone cresce all’aumentare del diametro del telescopio, tanto che con un 300 mm si contano, prestando attenzione, circa una cinquantina di componenti; non solo: assieme al poco condensato nucleo del gruppo, si riesce a percepire la presenza di alcune deboli catene di stelle con magnitudine superiore alla 13a grandezza. Ciò è permesso dalla bassa densità di M72: anzi, uno dei meno densi tra i globulari presenti nel catalogo di Messier, tanto che nella classificazione di Shapley e Sawyer (che prevede I per gli ammassi più densi e XII per quelli con stelle più sparse), M72 rientra nella classe IX, assieme a M4 ed M12. La sua grande distanza – valutata attraverso lo studio di stelle variabili del tipo RR Lyrae rilevate al suo interno – dal Sistema Solare, è di ben 55 mila anni-luce, valore che lo rende uno dei globulari più lontani tra quelli appartenenti alla Galassia! Il gruppo stellare si estende per poco meno di 7′ sulla volta celeste; il diametro apparente, messo in relazione con la sua distanza, fornisce il diametro reale che, per M72, è valutato in ben 110 anni-luce. Le stelle di questo globulare posseggono un basso contenuto di metalli (in proporzione, circa 1/26 di quello contenuto in un a stella di ultima generazione come il Sole), dal quale è stata desunta un’età compresa in un range tra 10 e 12,7 miliardi di anni: stelle vecchissime, quindi. Ci chiediamo, infine, quanti sono gli astri presenti in questa enorme sfera: ebbene, la massa di M72 equivale a ben 170 mila stelle di massa solare. Certamente, potendo stare su un ipotetico pianeta in orbita attorno ad una di queste vetuste stelle, la notte apparirebbe certo alquanto diversa da come la concepiamo sul nostro pianeta.

 

LA GALASSIA NANA DI AQUARIUS

Poco più di 30’ ad ovest di M72 è presente la stella di sesta grandezza HD198431; puntando il telescopio altri 30’ oltre questa stella e scendendo di 20’ a sud-ovest, giungiamo nella zona dove risiede una piccola galassia nana, PGC65367, meglio nota come “Aquarius dwarf” (“nana di Aquarius”). Questa è piccola e di forma allungata lungo l’asse est-ovest, estesa per soli 2,2’x1,1’. Si tratta di una galassia nana di forma all’apparenza irregolare, scoperta nel 1959 e nello stesso anno inserita nel “David Dunlop Observatory Catalogue of Low Surface Brightness Galaxies”. Aquarius dwarf è un membro del Gruppo Locale di galassie, sebbene estremamente isolato; in base alla sua posizione e velocità attuali, tale galassia è uno dei pochi membri noti del gruppo locale per i quali è possibile escludere un approccio ravvicinato passato alla nostra galassia o quella di di Andromeda. Giusto per rendersi conto di quanto minute siano le dimensioni di tale sistema, il suo diametro è stato stimato in soli 5.000 anni-luce! Rispetto ad altre galassie simili del Gruppo Locale, questa di Aquarius è una tra le più deboli in termini di luminosità superficiale. L’appartenenza al Gruppo Locale di galassie venne definita solo nel 1999, derivandone la distanza dalla Via Lattea attraverso il metodo cosiddetto “del ramo delle giganti rosse”; questa venne quantificata in 3,2 milioni di anni-luce, valore che rende Aquarius Dwarf davvero isolata nello spazio. Tra le galassie meno luminose del Gruppo Locale, essa contiene quantità significative di idrogeno neutro: elemento che supporta formazione stellare ancora in corso, sebbene il tasso sia estremamente basso. Le variabili RR Lyrae scoperte in questa galassia nana indicano che le stelle più vecchie hanno un’età prossima ai 10 miliardi di anni; è pur vero che la maggior parte delle sue stelle sono molto più giovani, con “solo” 6,8 miliardi di anni di età: tra le galassie del gruppo locale, solo Leo A ha un’età media più giovane, la qual cosa suggerisce che la formazione stellare ritardata potrebbe essere in qualche modo correlata all’isolamento di tale galassia.

I prossimi due oggetti del profondo cielo che ci apprestiamo a visitare sono due raggruppamenti di stelle che, incredibilmente, appaiono entrambi come una “Y” ribaltata a sinistra: davvero simili alla brocca di Aquarius! Si tratta di gruppi che non costituiscono reali ammassi di stelle nate assieme e ancora gravitazionalmente coese, ma vicine solo per effetto prospettico. Il primo dei due, noto come Pot15, lo troviamo 15’ a sud della stella di 8a grandezza HD199161, quest’ultima facilmente individuabile 30’ a sud-est di M72. Tale gruppo si estende per 2’ mentre la magnitudine delle delle è compresa tra l’undicesima e la dodicesima grandezza; una quarta componente, la più debole essendo di 14a grandezza, è situata a soli 15” dalla stella centrale. Per apprezzare il gruppo, si consiglia una lunga focale unita ad un ingrandimento elevato.

 

M73

Esattamente 1° ad est di M72 è presente il secondo di questi due gruppi stellari a forma di Y. E questa volta siamo in presenza addirittura di un oggetto…Messier! Ebbene si, anche il grande astronomo parigino – cosa nota ai suoi cultori ed amanti del profondo cielo – ebbe  qualche episodio di confusione nel classificare gli oggetti ma il caso di M73, questo il nome del gruppo di stelle, è esemplare! Mentre era intento alla ricerca di M72, sull’esistenza del quale venne informato dal collega Pierre Méchain, Messier si imbatté in quello che lui stesso ebbe a definire come un “ammasso formato da 3 o 4 piccole stelle che rassomiglia ad una nebulosa, al primo colpo d’occhio”. E questo di M73 non è neanche il primo caso in cui Messier definì semplici ammassi di stelle quali “nebulosi”. Ricordiamo brevemente che furono più di una dozzina quelli utilizzati durante la sua carriera da visualista, il suo preferito tra i quali fu un riflettore gregoriano da 7,5 pollici utilizzato a 104x. Più tardi, quando il rifrattore acromatico divenne disponibile, utilizzò diversi acromatici 120x da 4 pollici: furono proprio questi a permettere al grande astronomo parigino di scoprire un gran numero di comete e i famosi oggetti che inserì nel suo catalogo.

Se è vero che le ottiche dei telescopi utilizzati da Messier non avevano certamente la qualità propria dei moderni telescopi oggi in circolazione – ciò il grande astronomo riusciva a notare era sempre in funzione del diametro e conseguente potere risolutivo dei telescopi da lui utilizzati – resta certo strano come Messier abbia potuto scambiare M73 per qualcosa di “nebulare” quando tale oggetto, osservato con strumenti di piccolo diametro, appare chiaramente nella sua inconfondibile Y! Anche qui, tra le quattro stelle – tutte di nona grandezza – che delineano la Y ribaltata di M73 non c’è alcun legame fisico; a provare come il gioco sia puramente prospettico, sia il differente colore che il moto nello spazio delle quattro stelle in questione. Concludiamo la descrizione di questi due gruppi, incredibilmente simili tra loro per dimensioni, numero, disposizione e luminosità delle loro componenti, dando spazio alla passione per la fantascienza: non sembra, forse, come le stelle di questi due ammassi siano i fari di astronavi dalla forma ad Y, impegnate in viaggio nel buio degli anni-luce? L’astronave di M73 sembra inseguire quella di Pot15.

L’intera zona compresa tra M73 e il confine con Capricornus, più a sud, è intrisa da un gran numero di galassie di piccole dimensioni e dalla forma  interessante ma riservate a telescopi di grosso diametro e lunghezza focale atta a percepire dettagli di oggetti non più larghi di 1’. Una galassia degna di nota da segnalare è reperibile poco più di 1° ad est di M73; si tratta di NGC7010, una massiccia galassia ellittica lontana ben 365 milioni di anni-luce dalla Via Lattea. Venne scoperta da John Herschel il 6 agosto del 1823. Oggetto di tredicesima grandezza, diviene ben osservabile utilizzando telescopi da almeno 300 mm di diametro, dove assume la forma di un piccolo ovale. Nelle fotografie a lunga posa eseguite da grandi telescopi professionali, la galassia rileva un alone che raggiunge quasi 2’ di lunghezza. La cosa interessante di NGC7010 è il fatto di essere avvolta da ampi ma deboli gusci composti da stelle; forse, prodotti dall’accrescimento dovuto ad un passato fenomeno di fusione con un altra galassia.

 

NGC7009

Ma è esattamente 1° a nord di quest’ultima galassia e poco meno di 2° a nord-est di M73 che ci si imbatte in un oggetto dalle caratteristiche straordinarie. Si tratta, questa volta, di una nebulosa planetaria: NGC7009, meglio nota come “nebulosa Saturno”, uno degli oggetti più noti, entro tale categoria, di tutta la volta celeste, bersaglio di osservazioni a causa della notevole luminosità apparente nonché per l’accesa tonalità giallo-verdastra, ben discernibile anche in piccoli telescopi.

NGC 7009 has a bright central star at the centre of a dark cavity bounded by a football-shaped rim of dense, blue and red gas. The cavity and its rim are trapped inside smoothly-distributed greenish material in the shape of a barrel and comprised of the star’s former outer layers. At larger distances, and lying along the long axis of the nebula, a pair of red ‘ansae’, or ‘handles’ appears. Each ansa is joined to the tips of the cavity by a long greenish jet of material. The handles are clouds of low-density gas. NGC 7009 is 1, 400 light-years away in the constellation Aquarius. The Hubble telescope observation was taken April 28, 1996 by the Wide Field and Planetary Camera 2.

Per ironia della sorte, ne Méchain ne Messier si accorsero di questo luminoso oggetto: pur vicino sia ad M73 che ad M72, questa nebulosa sfuggì ai loro telescopi. La cosa non deve certo sorprendere dal momento in cui tale oggetto, pur luminoso, è altresì poco esteso, appare come una stella di ottava grandezza, tanto da renderla ben visibile già con un binocolo del tipo 7×50: forse tale sarà apparso ai telescopi dei due francesi, chissà. Ad ogni modo, NGC7009 non sfuggi a William Herschel, che la scoprì il 7 settembre 1782 attraverso lo stesso telescopio con il quale, dal giardino della sua casa, solo un anno prima scoprì il disco acquamarina di Urano. Proprio per la straordinaria rassomiglianza all’aspetto del nuovo pianeta, nel disco e nel colore, lo stesso Herschel definì la nuova nebulosa tale nebulosa (che fu, a tutti gli effetti, una delle sue prime scoperte astronomiche) come “planetaria”; in tale contesto, il nomignolo “nebulosa Saturno” contribuì al fatto che la comunità astronomica accettasse di buon grado il termine “planetaria” a questa particolare categoria di nebulose, tanto da non essere mai stato sostituito. Herschel vide nulla di puù di un luminoso disco.

Fu, successivamente, Lord Rosse a coniare il curioso termine per tale oggetto dopo averlo osservato con attenzione attraverso il suo noto “Leviatano di Parsonstown”, come venne chiamato l’enorme riflettore da ben 1,83 metri di diametro costruito nel 1845, rimasto il più grande telescopio al mondo fino al 1917; ciò che colpì profondamente Rosse fu la presenza di due propaggini laterali al disco rendevano tale nebulosa davvero molto simile al noto pianeta “signore degli anelli” del Sistema Solare. Rosse intuì, inoltre, la natura di queste strane strutture, definendole “sorta di anse indicanti la probabile presenza di un anello circostante visto di profilo”; a tal proposito, è incredibile il disegno che lo stesso terzo conte di Rosse fece di questo oggetto, con dettagli incredibili riportati. Bellissima la descrizione dell’ammiraglio W.H.Smyth, uno dei più valenti osservatori di tutti i tempi, il quale riteneva (come anche W. Herschel fece) tale oggetto essere un sistema planetario in formazione: “…se fosse qui da noi, le sue dimensioni raggiungerebbero l’orbita di Urano. Un corpo di tali dimensioni conterrebbe più di 68.000 milioni di globi grandi come il nostro Sole”.

La bella e quasi ingenua descrizione di Smith è ben lontana dalla realtà. Se la nebulosa si estende per 41”x35” sulla volta celeste, più difficile è stato calcolarne le reali dimensioni: la distanza di NGC7009, infatti, non è nota con precisione e numerosi sono stati i tentativi per risolvere il dilemma. Ad ogni modo, oggi il valore largamente accettato è di 3.900 anni-luce, il che fornisce un diametro approssimativo di ½ anno-luce per l’oggetto nel suo insieme. NGC7009 è una delle pochissime nebulose planetarie a mostrare distintamente la nana bianca centrale che, attraverso la sua elevatissima temperatura, eccita l’intero ammasso di gas in espansione portandolo, così, a rendersi visibile per fluorescenza; a quella enorme distanza, questa stella centrale emette ancora così tanta luce da splendere di magnitudine 11,5, rendendosi così visibile anche in telescopi da almeno 150 mm forzando l’ingrandimento. Più che bianca, questa piccola stella degenere appare azzurra a causa della sua elevata temperatura, stimata in 55.000 K, mentre la luminosità intrinseca è stata valutata in circa 20 volte quella del Sole: non male per un corpo dalle dimensioni simili a quelle del nostro pianeta! La sua intensa radiazione ultravioletta ionizza doppiamente l’ossigeno ivi presente portando la nebulosa ad risplendere di una caratteristica tinta verde fluorescente, ben apprezzabile all’osservazione telescopica.

The spectacular planetary nebula NGC 7009, or the Saturn Nebula, emerges from the darkness like a series of oddly-shaped bubbles, lit up in glorious pinks and blues. This colourful image was captured by the powerful MUSE instrument on ESO’s Very Large Telescope (VLT), as part of a study which mapped the dust inside a planetary nebula for the first time.

La stella che ha dato vita alla nebulosa Saturno fu, probabilmente, un astro dalla massa il doppio di quella del Sole; il fatto che la nebulosa sia costituita da una serie di anelli non allineati tra loro porta a supporre che il nucleo della fu-stella morente fosse stato – e lo sia ancora adesso – soggetto ad una precessione del suo di rotazione: oscillazione stimata in circa 30 mila anni. Un eventuale compagno che avrebbe potuto indurre questa precessione sarebbe oggi situato ad almeno 4,5 raggi dalla nana bianca centrale ma nulla è stato ad oggi rilevato.

Ma come si è formato il gran numero di sottosistemi morfologici e cinematici che rende l’aspetto di questa planetaria estremamente complesso? Il suo stesso aspetto varia secondo la lunghezza d’onda attraverso la quale la nebulosa viene osservata: alla lunghezza di 8 µm nel medio-infrarosso, ad esempio, essa raggiunge la sua massima ampiezza mentre la forma e l’intensità delle maniglie esterne appaiono variare parecchio quando osservate a lunghezze d’onda più piccole. Le immagini riprese dal telescopio spaziale Hubble hanno portato ad identificare, all’interno di un grande alone che circonda l’intera nebulosa, una serie di strutture minori (osservate, fortunatamente, anche in altre nebulose planetarie) quali gusci multipli, getti, maniglie, filamenti e nodi. In particolare, è stato notato come le due “maniglie” esterne si espandano in modo non radiale rispetto alla stella centrale, tanto da essere orientate lungo assi differenti; nell’immagine di Hubble, i getti verdi si estendono lungo l’asse maggiore della nebulosa, terminando con dei nodi di colore rossastro.

L’osservazione di questi particolari ha permesso di elaborare modelli atti a spiegare le dinamiche che hanno portato ad una struttura così complessa; alla pari di altre nebulose planetarie (es., la nota NGC6826 in Draco) la stella centrale di NGC7009 risiede al centro di una sorta di cavità, area meno densa di gas, delimitata da due densi gusci di gas di colore blu e rosso. La cavità e il suo bordo sembrano essere come “intrappolati” all’interno di un’area composta da materiale verdastro uniformemente distribuito, risultato di strati precedentemente espulsi della stella morente. A distanze maggiori, lungo l’asse maggiore della nebulosa si trovano le cosiddette “maniglie” – quelle che costituiscono le propaggini esterne degli anelli di Saturno in tale visione della nebulosa – che appaiono di colore rosso, ciascuna delle quali è unita agli estremi della cavità da un lungo getto di materiale, anche questo verdastro. La “nebulosa Saturno” è il 55° oggetto tra i 109 presenti nel cosiddetto “catalogo Caldwell”, compilato da Patrick Caldwell-Moore quale estensione del catalogo Messier.

 

LA VASTA LBN117 ED ALTRI PICCOLI OGGETTI

Pochi sanno che gran parte dell’intera area occidentale di Aquarius è occupata da LBN117, una vasta ma debole nebulosa che è il 117° oggetto tra i 1.053 elencati nel Lynds Catalogue of Bright Nebulae, pubblicato nel 1965 dall’astronomo americano Beverly Lynds, rilevate sulle lastre della Palomar Sky Survey riprese con il riflettore Samuel Oschin Telescope da 1,20 m di diametro. LBN117, composta da gas e polveri, talmente vasta da estendersi per quasi 20°; purtroppo, la luminosità superficiale di questo sistema è talmente bassa da renderne impossibile la visione al telescopio anche delle aree più dense e luminose (…luminose, si fa per dire). E’ altresì difficile da fotografare LBN117, necessitando di numerose ore di integrazione di riprese effettuate in luce H-alpha. Tale nebulosa, composta da un gran numero di filamenti, rientra tra le cosiddette Integrated Flux Nebulae (IFN), debolissime nubi di idrogeno che si rendono luminose a causa della luminosità globale della Galassia e non per emissione dovuta all’eccitazione del gas apportato dalla presenza di caldissime stelle: molte di queste strutture sono sono state scoperte solo negli ultimi 15 anni grazie ad uno studio sistematico partito con l’introduzione di filtri H-Alpha applicati a sensori sempre più efficienti.

La stella sulla quale ora faremo sosta è ν Aquarii, che splende di magnitudine 4,52. Lontana 159 anni-luce dal Sistema Solare, è una gigante gialla di tipo G8 III (4.900 K); con una massa il doppio di quella solare, ha un raggio otto volte maggiore ed un potere radiativo 37 volte maggiore. Salendo a nord di questa, ci si imbatte in un’area dove la densità stellare è minima e la presenza di stelle visibili ancora ad occhio nudo è vicina allo 0.

Nella zona, esattamente 5° sopra NGC7009, è presente la piccola galassia PGC65943. Pur di dimensioni minute, larga solo 1,2’x1,1’, si tratta di un piccolo gioiello, una spirale barrata lontana ben 360 milioni di anni-luce che appare esattamente di fronte, con le braccia moderatamente aperte. L’oggetto da il meglio di se nelle riprese a lunga focale dive si rivela davvero spettacolare. Tale galassia segna il vertice meridionale di un triangolo isoscele con due stelle di quinta e sesta grandezza disposte agli altri due angoli: rispettivamente, 12 Aquarii su quello orientale e 10 Aquarii su quello occidentale.

Esattamente ½ grado sopra quest’ultima, già un un telescopio da 150 mm permetterà di rilevare AI 2100.5-0535, un piccolo ammasso stellare composto da una ventina di stelle con magnitudine compresa tra l’8a e l’’11a grandezza, disposte attorno a 12 Aquarii lungo l’asse nord-sud. La visione di questo gruppo è davvero affascinante con un telescopio da 200 mm; a 200 ingrandimenti, l’ammasso si dispone occupando tutto il campo dell’oculare, con 12 Aquarii che quasi disturba la visione complessiva.

Un altro gruppo di stelle è situato 3° a nord-est di quest’ultimo, poco sopra la stella di sesta grandezza 15 Aquarii. Catalogato come Kro22. Alla visione telescopica, l’apparenza è quello di un piccolo carretto, avente al timone la stella più luminosa, HD202818, di settima grandezza. Sono circa una ventina le componenti, quasi tutte di decima grandezza; si distinguono, chiaramente, alcuni piccoli sottogruppi composti da 3-4 stelle.

Il piccolo gruppo di galassie HGC89 giace esattamente ½ grado ad est di questo; è composto da 3 spirali allineate, attorno alle quali si dispongono galassie di dimensioni molto più contenute, rilevabili solo attraverso telescopi di grosso diametro; come in altri piccoli gruppi di galassie, le componenti sono separate da distanze di gran lunga maggiore delle dimensioni delle galassie stesse.

 

SADALSUUD

Eccoci finalmente giunti alla stella più luminosa di Aquarius, Sadalsuud (β Aquarii) la quale, splendendo di magnitudine 2,87, si pone al 158° posto in ordine di luminosità tra le stelle più luminose dell’intera volta celeste. Nell’opera “al-Durrat al-muḍiyya fī al-ʻamāl al-shamsiyya”, (“Le perle di brillantezza nelle attività solari“), calendario di eventi astronomici e catalogo delle stelle redatto dall’astronomo egiziano Muhammad al-Akhsasi al-Muwaqqit attorno al 1650, tale stella venne denominata col termine “Nair Saad al Saaoud”, letteralmente “la più luminosa tra le fortunate”, dal quale successivamente derivò il più breve “Al-Sad al-su‘ud” ovvero “la fortunata delle fortunate”: è ad quest’ultimo termine che deriva il nome proprio Sadalsuud. Nella tradizione islamica, questa ed altre stelle della zona (inclusa la vicina α Aquarii) erano in qualche modo ritenute portatrici di fortuna o speranza: anche se il contesto è ancora oggi molto oscuro, c’è forse  un legame con l’antica relazione della costellazione con l’acqua: elemento ricercato per essere vitale nelle zone desertiche dove si sviluppò la cultura araba.

Sadalsuud, distante 612 anni-luce dal Sistema Solare, è una delle rare supergiganti gialle note nella Via Lattea; di tipo G0 Ib, la sua temperatura superficiale è di circa 5.600K, non lontana da quella del Sole. Nonostante sia parecchio giovane, con un’età stimata in soli 110 milioni di anni, la sua massa 5 volte maggiore di quella solare ha portato la stella ad espandersi fino a raggiungere un diametro 48 volte quello della nostra stella: una superficie così grande, porta inesorabilmente l’astro ad irradiare 2.200 volte il Sole.

A nord-ovest di Sadalsuud è presente quella che potremmo definire quale sua “gemella”: Sadalmelik (α Aquarii), la quale è di poco più debole per il fatto di essere 146 anni-luce più lontana. Queste due, assieme ad un’altra stella della zona, Enif (ε Pegasi), hanno circa la stessa età e mostrano un moto nello spazio molto simile in termini di velocità e direzione; i tre astri sembrano muoversi più o meno perpendicolarmente rispetto al piano della Galassia, uno strano movimento che suggerisce un probabile allontanamento dal loro luogo di nascita. E’ infatti plausibile come le tre siano nate assieme come calde stelle di tipo B, forse all’interno di qualche associazione poco coesa che è andata velocemente a sciogliersi. Ad ogni modo, i loro rispettivi moti non le hanno poi allontanate più di tanto; viste da un ipotetico pianeta in orbita attorno a Sadalsuud, le altre due stelle, Sadalmelik ed Enif, apparirebbero entrambe come stelle di magnitudine 0, alla pari di quanto accade da noi per Artcturus (α Bootis), Vega (α Lyrae) e Capella (α Aurigae).

Sadalsuud, come detto, è un supergigante gialla; nel diagramma HR; essa si trova nella cosiddetta “lacuna di Hertzsprung”, area situata tra i tipi spettrali A5 e G0 e tra le magnitudini assolute +1 e -3 la quale è notevolmente povera di stelle (da cui il nome). Nel corso della propria evoluzione, quando una stella incrocia la lacuna di Hertzsprung essa ha già completato la fusione dell’idrogeno nel nucleo ma non ha ancora iniziato la fusione dell’idrogeno nel guscio che circonda il nucleo. Tale “lacuna”, in realtà, potrebbe essere tutt’altro che apparentemente vuota; in termini evolutivi, si ipotizza che le stelle attraversino velocemente – qualche migliaio di anni – questa zona del diagramma HR: pochissimo rispetto alle decine di milioni di anni di vita di una stella. Sarebbe proprio questo il motivo dell’apparente vuoto di stelle in tale zona del diagramma HR poiché, in sostanza, le stelle vi stazionerebbero per poco tempo.

Ebbene, Sadalsuud e Sadalmelik sono “colte” in tale lacuna proprio perché stanno attraversando quella breve fase evolutiva che le ha portate li; nate probabilmente come calde e massicce stelle di tipo O o B, forse in qualche associazione stellare, la loro grande massa le ha portate presto ad espandersi e, di conseguenza, a raffreddarsi. Attualmente, nei rispettivi nuclei la produzione di energia avviene attraverso la fusione di elio in carbonio: fase velocissima per stelle della loro massa: fattore che le rende, per l’appunto, rare. Come tutte le stelle di grande massa uscite dalla sequenza principale, supergiganti gialle come Sadalsuud e Sadalmelik dovrebbero manifestare pulsazioni nella loro struttura, osservabili come variabilità luminose del tipo “cefeide”. Ma, stranamente, le due stelle più luminose di Aquarius non sono cefeidi; non è noto il motivo di questo che rimane un mistero. Sadalsuud, pur avendo già probabilmente innescato la fusione del carbonio, non sarà in grado di fondere completamente le riserve di tale elemento prima che il suo nucleo degeneri; infatti, mentre massa e temperatura del suo nucleo sono sufficienti a fondere il carbonio, non lo saranno per il neon: il nucleo di questa supergigante gialla andrà quindi collassare, portando alla formazione di una nana bianca del tipo ossigeno-neon-magnesio che andrà a spegnersi lentamente, dopo miliardi di anni: un’età superiore a quella attuale dell’Universo stesso.

Un evento inconsueto accadde nel 2005, quando il Chandra X-ray Observatory (NASA), telescopio spaziale atto a rilevare e studiare sorgenti raggi X, colse emissioni sviluppate a livello coronale su entrambe queste stelle gemelle, Sadalsuud e Sadalmelik. Le quali, come detto, sono stelle certo tutt’altro che comuni. Tali fenomeni sono caratteristici delle stelle nane, quelle con massa solare, nelle quali stretta è la correlazione tra emissione X e velocità di rotazione di questi astri; tuttavia, l’emissione di vento stellare portano tali stelle, col tempo, a perdere momento angolare, ruotando così sempre meno velocemente e, di conseguenza, a sopprimere l’azione della dinamo e del campo magnetico: poiché i gas ionizzati delle corone stellari subiscono notevolmente l’influsso dei campi magnetici, sia di quello globale che di quello associato alle macchie presenti alla superficie, ecco la riduzione dell’emissione di raggi X nella corona. Ma per quelle stelle che hanno temperatura simile a quella del Sole ma giacciono ben al di fuori della sequenza principale, le cose sono molto più complicate.

Stelle di grande massa presenti tra la fine del tipo spettrale F e l’inizio di quello G sono il prodotto di stelle nate con temperature a cavallo tra i tipi B e A e massa 2-4 volte quella solare; le regioni convettive interne di questi astri, così come la loro stessa rotazione, differiscono molto dalle nane di massa solare. Le giganti situate nella lacuna di Hertzpsrung, come Sadalsuud, si rendono più attive alla fine della loro vita; le loro pur estese corone, infatti, non mostrano emissioni X prodotte da relazione tra rotazione attività. La carenza di raggi X è, probabilmente, diretta conseguenza della diminuzione delle temperature nelle corone delle immense supergiganti G le quali, come detto, si raffreddino al diminuire dell’attività all’aumentare della loro stessa età. Nelle supergiganti di tipo G, evolute da stelle di tipo B nate con masse 5-9 volte quella del Sole, la situazione coronale è ancora più instabile; Sadalsuud e Sadalmelik sono state le prime supergiganti di tipo G nella cui corona è stata rilevata l’emissione di raggi X sopra descritta. Eventi sporadici? La cosa non è ancora nota.

Ad occhio nudo, Sadalsuud appare come una stella solitaria; ma osservata al telescopio, rivela invece la vicina presenza di due deboli compagne: Sadalsuud B, di magnitudine 11,0 è separata da 35” d’arco mentre Sadalsuud C da 57” secondi d’arco. Anche se la visione all’oculare è piacevole, le due stelle in questione sono solo prospettiche: la seconda pubblicazione dei astrometrici di GAIA mostra, infatti, come le due compagne siano lontane il doppio della distanza dalla stella principale del terzetto oltre che esibire differenti moti propri da essa.

 

M2 leggi su Coelum Astronomia 255 

Dopo aver fatto luce sui segreti della stella più luminosa di Aquarius, concludiamo questo approfondimento andando a far visita all’oggetto del profondo cielo più luminoso di tale costellazione. Reperirlo è facilissimo: puntando già un comune binocolo esattamente 5° a nord di Saldalsuud, si potrà notare una stella di sesta grandezza chiaramente sfocata, dalla forma di un piccolo batuffolo di luce. Non è una stella ma M2, uno degli ammassi stellari di tipo globulare più belli di tutta la volta celeste. Di magnitudine apparente 6,5, tale oggetto si estende fino ad 8’, evidenziando una regione centrale luminosa e compressa di circa 5′: un valore pari a ben 2/3 del suo diametro.

Il primo ad aver scorto questo oggetto, pur con le limitazioni degli strumenti dell’epoca, fu Gian Domenico Maraldi, astronomo di origini liguri che si era trasferito in Francia. L’11 settembre 1746, mentre era intento a seguire la cometa scoperta da Jean-Philippe de Cheseaux in quello stesso anno, si imbatté in uno strano oggetto che lo colpì molto proprio per il fatto che, oltre a non essere una cometa a causa della sua immobilità, questo singolare oggetto dall’aspetto nebuloso non era nemmeno risolto in stelle, al contrario di quanto invece accadeva per qualche nebulosa già all’epoca nota. Esattamente 14 anni dopo, l’11 settembre 1760, Charles Messier osservò questo oggetto, disegnandone la posizione su una carta che lo stesso redasse per l’osservazione di un’altra cometa (quali coincidenze!), quella apparsa nel 1759. Anche Messier, come Maraldi prima di lui, descrisse M2 come una “nebulosa senza stelle, tonda e con il centro brillante”. Successivamente, lo incluse alla seconda posizione in quello che sarebbe divenuto il più famoso catalogo di oggetti non stellari ancora oggi in uso. Fu il grande William Herschel il primo a risolvere completamente l’oggetto in una moltitudine di stelle tanto che M2 venen da lui paragonato ad “un pugno di sabbia finissima”.

Essendo ben lontano dalle isofote galattiche della Via Lattea, M2 appare in un campo relativamente povero di stelle di fondo di una certa luminosità; l’impatto visivo con tale oggetto è, però, davvero spettacolare. Come noto, all’aumentare del diametro del telescopio utilizzato si rendono visibili più dettagli; e, su questo, M2 è uno straordinario esempio. Mentre un 150 mm rende ben evidente la condensazione centrale, con una risoluzione in stelle ai bordi appena accennata, un 200 mm permette di risolvere non solo un gran numero di stelle ma distinguere, anche, aree di differente brillanza. Osservato con un 300 mm ad elevato ingrandimento, M2 è davvero uno spettacolo mozzafiato: qui, la risoluzione in stelle si spinge fino alla luminosa area centrale mentre l’alone inizia ad assumere una forma non più sferica, rendendosi ovalizzato lungo l’asse nord-sud. Una sorta di “linea oscura” si rende ben visibile nel margine nord-orientale dell’ammasso mentre telescopi di diametro ancora maggiore (es. 400 mm) permettono di notare molte altre di queste aree più scure. Le stelle più luminose di M2 sono giganti rosse e gialle di magnitudine 13 mentre le numerose stelle che ri trovano ramificate nel suo vasto alone, che si estende fino a 16’ nelle imamgini più “profonde”, sono per lo più di sedicesima grandezza.

Una delle cose più incredibili M2 la fornisce quando osservato più volte nel corso di almeno due settimane: l’occhio non farà, infatti, difficoltà a notare la presenza, che si trova a nord del bordo orientale dell’ammasso, di una stella che, oscillando tra le magnitudini 12,5 e 14,0 in circa 70 giorni, cambia non poco l’aspetto dell’ammasso stesso. Tale variabile venne scoperta nel 1897 dall’astrofilo francese A. Chèvremont, la sua magnitudine varia da un minimo di 14,0 a un massimo di 12,5 in un periodo di 11 giorni che, comunque, non è sempre regolare; la “variabile di Chèvremont, come venne in seguito chiamata, appartiene alla classe delle cosiddette RV Tauri: giganti pulsanti dal comportamento caotico e irregolare, che esibiscono l’interessante caratteristica di scambiare, in modo graduale o improvviso, il periodo principale con quello secondario. Se tale stella rende ben visibile al telescopio il suo caotico comportamento, non si può dire che M2 sia un classico ammasso globulare ricco di variabili: sono in tutto una cinquantina quelle note, la maggior parte delle quali sono RR Lyrae mentre poche le cefeidi.

Ad ogni modo, tali stelle hanno portato a determinarne la distanza dal Sistema Solare con una certa correttezza, che risulta essere pari a 37.500 anni luce. M2 si estende nello spazio in una sfera dal diametro di 175 anni-luce, all’interno della quale sono contenute circa 150.000 stelle: questi valori lo rendono uno degli ammassi globulari più ricchi e compatti tra quelli appartenenti alla Via Lattea, come indica anche la sua classificazione di densità, con valore II nella scala compresa tra I per i più densi e XII per i più radi. M2 ha anche una notevole forma elissoidica, particolare che, come già accennato, si può scorgere anche ad un’attenta osservazione telescopica. I recenti dati ottenuti dal satellite per astrometria GAIA (ESA) hanno portato alla scoperta di un esteso flusso di stelle, lungo circa 45° e largo ben 300 anni-luce, che sembra essere associato ad M2; non è escluso che tale struttura abbia subito la perturbazione gravitazionale delle Grande Nube di Magellano. Circa l’orbita galattica di M2, dai dati ottenuti dal satellite astrometrico Hipparcos (ESA), M2 si muoverebbe su un’orbita molto eccentrica, che porterebbe il gruppo di stelle da una distanza minima dal nucleo galattico di 23.500 anni-luce fino all’enorme distanza di 171.000 anni-luce, nonché fino a 165.000 anni-luce sopra e sotto il piano della Via Lattea.

Le parti mancanti dell’ArtiColo sono pubblicate su Coelum Astronomia n°258 di ottobre/novembre. Prenota la tua copia QUI