Tra le tante avventure dell’esplorazione spaziale, c’è un episodio di quasi sessant’anni fa, avvenuto si direbbe per caso, ma che ha avuto conseguenze profonde.
Siamo alla vigilia di Natale del 1968: è in orbita intorno alla Luna la missione Apollo 8, partita tre giorni prima da Cape Canaveral. Il suo equipaggio, composto da Frank Borman, James Lovell e William Anders, è stato il primo della storia a lasciare l’orbita bassa terrestre e a osservare la faccia nascosta del nostro satellite, ma non è ancora destinato a mettere piede sulla Luna come quelli che seguiranno pochi mesi dopo. Il compito di Borman e compagni è studiare la superficie del nostro satellite, fotografando possibili siti di allunaggio per le future missioni, in particolare uno nel Mare della Tranquillità che è stato ipotizzato per la missione Apollo 11.

Ma durante la quarta orbita intorno alla Luna si presentò un’occasione inattesa destinata a cambiare per sempre la nostra percezione della Terra. Per caso Frank Borman guardò fuori dall’oblò nel momento in cui la Terra spuntava sopra l’orizzonte lunare. Il nostro pianeta era l’unico oggetto colorato visibile agli astronauti, in forte contrasto con il grigio della Luna e il nero dello spazio profondo, suscitò in lui un’ondata di nostalgia e commozione. Borman scattò subito una foto in bianco e nero, poi Anders e Lovell afferrarono un rullino a colori e scattarono in tutta fretta altre fotografie, prima che la Terra scomparisse definitivamente alla vista.
Dopo il ritorno a Terra della missione i tecnici della NASA guidarono per quattro ore da Houston a Corpus Christi, dove a quell’epoca si trova l’unico fotografo di tutto il Texas del Sud in grado di sviluppare foto a colori. Il fotografo Raul Rodriguez prese in consegna un rullino che aveva viaggiato per più di 800 000 chilometri tra andata e ritorno e sviluppò le foto in formato 8 per 10 pollici (circa 20 per 25 centimetri).
Una di quelle foto passerà alla storia come “la fotografia ambientale più influente mai scattata”: mostra la Terra, parzialmente in ombra, che sale dietro l’orizzonte lunare, e ricorda il sorgere del Sole sul nostro pianeta: per questo è chiamata Earthrise («Sorgere della Terra»).

La Terra vista da 400 000 chilometri di distanza sorprese gli astronauti soprattutto per i suoi colori. Prima delle missioni spaziali infatti si immaginava che il colore della Terra, come nei mappamondi, fosse una mescolanza di verde foglia, giallo sabbia, marrone terra, blu mare e bianco neve. Ma quando si osserva la Terra dal vivo il blu prevale su tutti gli altri colori, per un fenomeno provocato dall’atmosfera terrestre e chiamato “diffusione di Rayleigh”, lo stesso per cui il cielo ci appare azzurro.
Vent’anni dopo la missione Bill Anders spiegherà così l’impatto della fotografia: «Sulla Terra ci eravamo addestrati per tutto il tempo in modo da sapere come studiare la Luna, come andare sulla Luna. […] Eppure, quando alzai gli occhi e vidi la Terra spuntare da quell’orizzonte lunare spoglio e desolato – una Terra che era l’unico colore visibile, una Terra che sembrava fragilissima, una Terra dall’aria delicata – subito mi sentii quasi sopraffatto dal pensiero che eravamo arrivati fin lì per vedere la Luna, e invece la cosa più notevole che stavamo vedendo era il nostro pianeta, casa nostra, la Terra».

Con queste parole Anders descrisse la stessa emozione provata da tutti gli astronauti che hanno avuto la possibilità di osservare la Terra dallo spazio e che lo scrittore Frank White ha definito “effetto della veduta d’insieme” (in inglese “overview effect”).
Visto da fuori il nostro pianeta appare meraviglioso e vulnerabile nell’Universo sconfinato, protetto dal mortale spazio esterno soltanto da un’atmosfera sottile come una fragile pellicola: “una piccola oasi nel mezzo del nulla”, come la chiama l’astronauta Ron Garan. Perdono ogni significato i confini tra le nazioni e le differenze di etnia o di religione che quaggiù causano tante guerre, così come la pretesa di essere il centro stesso dell’Universo.
Dopo aver visto la Terra in questo modo è impossibile ritornare a dare lo stesso peso di prima alle nostre divisioni e contrapposizioni interne, che appaiono insignificanti. Praticamente tutti coloro che sono stati nello spazio hanno testimoniato che vedere la Terra dall’esterno ha cementato il loro senso di appartenenza all’umanità e modificato per sempre il punto di vista con cui osservare.
La consapevolezza di quanto sia straordinaria e delicata la vita sul nostro pianeta non è quantificabile come una scoperta scientifica o un ritorno economico, ma è una delle conseguenze più importanti delle missioni spaziali. La fotografia Earthrise ha contribuito a far nascere il movimento ambientalista contemporaneo e non a caso molti astronauti sono attivi nel sensibilizzare l’opinione pubblica sul cambiamento climatico e sulle altre minacce che incombono sul nostro futuro.
Anche oggi, l’esplorazione spaziale non mira soltanto a studiare altri corpi celesti o a predisporre improbabili colonizzazioni. Il suo scopo più importante è, attraverso la planetologia comparata, aiutarci a comprendere la storia del nostro pianeta per prendercene cura nel modo migliore.

Andrea Ferrero è autore di “Rimasti a Terra”
Il Mulino Editore
Ci sono nomi e momenti dell’avventura spaziale indelebili nella memoria collettiva: la prima orbita intorno alla Terra di Jurij Gagarin, i primi passi sulla Luna di Neil Armstrong. Ma ce ne sono molti di più che non ricordiamo, senza i quali la corsa allo spazio sarebbe stata diversa. Come Konstantin Ciolkovskij, che dimostrò che lasciare la Terra non era una fantasia, o Jerrie Cobb, che infranse i record dell’aviazione per poi scontrarsi con i pregiudizi di genere. E ancora, ingegneri e sognatori troppo audaci per la loro epoca. Un tributo a chi ha dimostrato che si possono raggiungere le stelle anche rimanendo coi piedi sulla Terra.
L’articolo è pubblicato in COELUM 277 VERSIONE CARTACEA














