01.02: Appunti di fisica: “La particella della malora Il bosone di Higgs” di Piero Ranalli (Sala Conferenze del Planetario, INGRESSO LIBERO).
Per info: tel. 0544-62534 – E-mail info@arar.it
www.racine.ra.it/planet/index.html – www.arar.it
Il venerdì alle ore 21:00, il sabato alle ore 17:30 e 21:00, la domenica alle ore 16:00 e 17:30. Per il programma di febbraio consultare il sito del Planetario.
Per informazioni e prenotazioni: tel. 049 773677
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Web: www.planetariopadova.it
DISEGNA LA STELLA DI BETLEMME:
Scade il 31 gennaio il consueto concorso graficopittorico per i giovanissimi.
Alla “Stella di Betlemme” è dedicato il concorso che l’Osservatorio Serafino Zani organizza ogni anno. I ragazzi delle scuole dell’obbligo sono invitati a rappresentare con un disegno una delle diverse ipotesi (congiunzione planetaria, cometa o addirittura esplosione di una stella) e a inviarlo, entro la fine di gennaio, al Centro Studi Serafino Zani, via Bosca 24, 25066 Lumezzane. Il disegno può essere di qualunque formato e realizzato con qualsiasi tecnica. Le opere più belle verranno ritratte il prossimo Natale in cartoline illustrate inviate in diverse copie agli autori e pubblicate nelle pagine del nostro
sito.
Per info: tel. 348 5648190.
E-mail: osservatorio@serafinozani.it
www.astrofilibresciani.it
La notte tra l’1 e il 2 febbraio, verso la mezzanotte, sarà possibile vedere Spica (alfa Virginis, mag. +1,0) , la stella principale della costellazione della Vergine, sorgere dall’orizzonte di est-sudest molto vicina (poco più di un grado) a un purtroppo abbastanza luminoso Quarto di Luna.
Una Costellazione sopra di Noi – Ogni primo venerdì del mese, Giorgio Bianciardi (vicepresidente UAI) vi condurrà in un viaggio attorno a una costellazione del periodo. Osservazioni in diretta con approfondimenti dal vivo.
E’ il più grande insieme di galassie mai individuato finora e mette in dubbio uno dei fondamenti della cosmologia moderna: il principio cosmologico.
Una visualizzazione a computer del gruppo di quasar U1.27, il più grande oggetto finora identificato nell'universo (Roger G. Clowes)
Andiamo con ordine: il gruppo – Huge-LQG (o U1.27, ovvero Huge Large Quasar Group) scoperto agli inizi del gennaio 2013 da un team di astronomi guidati da Dr. Roger G. Clowes dell’University of Central Lancashire utilizzando datti della Sloan Digital Sky Survey – è molto lontano ed è costituito da un insieme di 73 galassie primordiali che nel loro insieme si estendono per ben 4 miliardi di anni luce.
Un valore enorme se consideriamo che la nostra galassia è grande appena 100 mila anni luce.
Se da una parte la scoperta di un gruppo così esteso segna un nuovo record, dall’altra apre uno scontro con il cosiddetto principio cosmologico. Secondo questo principio, l’Universo deve essersi evoluto allo stesso modo in qualsiasi direzioni si osservi, a patto di considerare grandi porzioni di spazio a grandi distanze. Affinché il principio resti valido si dovranno trovare altri supergruppi come questo anche in altre direzioni di osservazione.
Huge-LQG è evidenziato dalla lunga catena di cerchietti neri mentre le croci rosse segnano le posizioni delle componenti quasar di un altro gruppo più piccolo. Per comprendere le dimensioni di questo cluster, si consideri che il campo coperto dalla mappa è di ben 29,4° x 24°. Nei due assi l'ascensione retta e la declinazione in gradi della carta (R. G. Clowes / UCLan).
Il problema è che per quanto estesi miliardi di anni luce questi ammassi sono anche molto lontani e quindi difficili da individuare. E così mentre una piccola parte di scienziati ritiene che il principio cosmologico vada rivisto, la maggior parte dei cosmologi preferisce aspettare, sicuri che con i futuri strumenti presto scopriremo anche gli altri supergruppi.
Il 2013, come ormai tutti gli appassionati sanno, si preannuncia l’anno delle comete. Siamo infatti in attesa di due (presunte) superstars, la C/2011 L4 PanSTARRS (annunciata per marzo) e la C/2012 S1 ISON (visibile nel suo massimo splendore a novembre). Entrambe potrebbero risultare indimenticabili ma, vista l’imprevedibilità di questi oggetti, è meglio aspettare prima di darlo per scontato.
L’ultima grande cometa che tutti ricordano è sicuramente la Hale-Bopp del 1997. Il suo ricordo ancora così vivo, la sua “ingombrante” presenza a ben quindici anni dal suo memorabile show, rischiano però di cancellare molte altre sue sorelle che da allora hanno solcato i nostri cieli. Alcune, per certi versi, indimenticabili quanto la “cometa del “secolo” (scorso).
Del periodo post Hale-Bopp sono stato buon testimone, seguendo rigorosamente in visuale più di un centinaio di comete. Trasformandomi quindi in una specie di dee jay celeste, provo a proporre la superclassifica dei dieci migliori “astri chiomati del nuovo millennio” visibili dal nostro emisfero, tenendo conto non solo della luminosità raggiunta ma anche delle condizioni in cui si sono potuti osservare.
Indice dei contenuti
10° posto 8P/Tuttle
A fine 2007 superò di poco la sesta magnitudine e si percepì a occhio nudo sotto cieli bui, seppure con molta difficoltà. A fine anno finì tra i …bracci di M 33 per un abbraccio a dir poco particolare.
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9° posto C/2002 V1 NEAT
Dopo aver sfiorato il Sole, resistendo eroicamente in barba alle previsioni di molti esperti, nel febbraio 2003, grazie al suo ottimo grado di condensazione, fu visibile appena dopo il tramonto a occhio nudo, seppure in condizioni critiche. Grazie a un outburst, per qualcuno arrivò addirittura al di sotto della prima magnitudine. Altre stime la valutarono comunque tra la seconda e la terza magnitudine.
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8° posto C/2004 F4 Bradfield
Nell’aprile del 2004 si mostrò all’alba tra le luci del crepuscolo, bassissima sull’orizzonte. Tra le stime di luminosità, qualcuno riportò la notevole magnitudine di 2,6. In altri casi si arrivò a stimarla non lontano dalla quarta magnitudine. Le foto evidenziarono invece una lunga e stretta coda.
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7° posto C/2006 M4 Swan
Verso fine ottobre 2006 un outburst trasformò per qualche giorno la M4 Swan in un oggetto luminoso, visibile senza strumenti, che anche in piccoli binocoli sfoggiò una impressionante coda. La cometa era in quel momento vicina al grande Ammasso di Ercole e ciò diede forma a un quadretto indimenticabile.
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La C/2007 N3 Lulin. Disegno eseguito al binocolo 20x90 il 31/1/2009. Si possono vedere la coda (lunga e sottile) e la probabile anticoda (quella allargata). Crediti: Claudio Pra
6° posto C/2007 N3 Lulin
La N3 Lulin diede il meglio di sé nel febbraio 2009, raggiungendo la quinta magnitudine. La cometa mostrò per un po’ di tempo un anticoda, rilevabile anche visualmente. Il 23 febbraio transitò nei pressi di Saturno, mostrandosi ad occhio nudo. Successivamente perse rapidamente luminosità.
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La C/2004 Q2 Machholz. Disegno eseguito al binocolo 11x70 il 4/1/2005. La coda di polveri (verso il basso) e la coda di gas viste della stessa luminosità e lunghe più di un grado. Crediti: Claudio Pra
5° posto C/2004 Q2 Machholz
Dicembre 2004, la Q2 Machholz si mostra a occhio nudo, raggiungendo a inizio 2005 la terza magnitudine. Bellissimo il passaggio in prossimità delle Pleiadi, trafitte dalla sua coda di polveri. Anche la coda di gas fu alla portata di una strumentazione modesta.
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La C/2002 V1 Neat. Disegno eseguito al binocolo 10x50 il 6/2/2003. Visibili il falso nucleo e l’alone brillante che lo circonda. Dalla piccola testa parte una coda ben visibile. Crediti: Claudio Pra
4° posto C/2001 Q4 Neat
Maggio 2004: facilmente visibile a occhio nudo ecco la ragguardevole Q4 Neat che al massimo della sua luminosità arrivò a splendere di terza magnitudine. Al momento della scoperta le previsioni sull’orbita sembrarono suggerire un passaggio ravvicinassimo al nostro pianeta, con uno scenario che sarebbe stato incredibile. Le correzioni seguenti smentirono questa ipotesi, ma il transito dell’oggetto fu comunque notevole da seguire. La cometa, anziché la Terra, il 15 maggio 2004 sfiorò M44, il Presepe. Notevolissima la coda, anzi le code, visto che mostrò in visuale sia quella di polveri che quella di gas.
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3° posto P/153 Ikeya-Zhang
Nella primavera del 2002 lo spettacolo fu garantito dalla splendida C/2001 C1 Ikeya-Zhang, associata in seguito a una cometa del passato di lunghissimo periodo. La denominazione cambiò quindi successivamente in P/153 Ikeya-Zhang. A marzo raggiunse una notevolissima terza magnitudine, mostrandosi facilmente a occhio nudo. Stupenda la sua lunga coda, appena accennata a occhio nudo ma rilevabile con un minimo ausilio ottico. L’oggetto rimase accessibile a piccoli strumenti per qualche mese ed è sicuramente da ricordare come uno dei più belli del nuovo millennio.
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La 17/P Holmes. Disegno eseguito al binocolo 20x90 il 27/12/2007. La Holmes è un enorme bolla allungata così come la sua luminosa parte centrale. Crediti: Claudio Pra
2° posto 17/P Holmes
Incredibile il caso della Holmes che, pur a grande distanza dal Sole, con un outburst epocale nell’ottobre del 2007, aumentò in poche ore dalla mag. 17 alla 2. Fu visibile dapprima come una stellina perfettamente puntiforme, che si trasformò in seguito in una bolla sempre più grande, estesa circa un grado in visuale. Più che una cometa sembrò una nebulosa planetaria. Restò visibile ad occhio nudo per ben quattro mesi. Qualcosa di assolutamente incredibile.
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La C/2006 P1 Mc Naught. Disegno eseguito al binocolo 20x90 il 7/1/2007. Nonostante l’intenso chiarore (Sole a -5°) la cometa mostra senza problemi la sua piccola testa brillantissima e una corta coda (visibile solo la parte più luminosa vicino alla testa). Crediti: Claudio Pra
1° posto C/2006 P1 Mc Naught
Tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 si accende in cielo questo autentico “mostro”, che avrebbe preso il posto della Hale-Bopp nei nostri ricordi, se solo la geometria dell’incontro avesse favorito maggiormente il nostro emisfero. Invece alle nostre latitudini fu vista tra le fauci del Sole. Nonostante ciò, raggiungendo la grandiosa magnitudine -6 fu facilmente osservabile per i pochi che la cercarono, sia pure in condizioni difficili.
La grandissima luminosità la rese visibile a occhio nudo durante il giorno, con tanto di coda appena accennata.
Il 13 gennaio, giorno del suo perielio, la vidi senza strumenti in pieno giorno, distante poco più di cinque gradi dal Sole, avendo l’accortezza di nascondere l’accecante astro diurno con una mano. Certo nell’emisfero australe hanno assistito a ben altro spettacolo, ma resta un fenomenale oggetto anche nei nostri ricordi.
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Le comete, nella stragrande maggioranza dei casi ”anonimi” deboli batuffoli che si assomigliano, eppure ognuno meritorio di attenzione. In altri casi “astri” che lasciano senza fiato. Per alcuni studiosi sono portatrici della vita sulla Terra nel corso di un bombardamento primordiale. Per molti superstiziosi, soprattutto del passato, sono portatrici di sventura. Per me, modesto osservatore, sono portatrici di emozioni.
L’ultima immagine prodotta da Hubble, il telescopio spaziale di NASA ed ESA, ritrae una piccola porzione di spazio in cui è possibile vedere un folto gruppo di stelle luminose e, in secondo piano, numerose galassie.
La zona catturata dall’obiettivo di Hubble si trova al confine tra le costellazioni del Triangolo Australe e di Norma (detta anche Regolo). Comprende buona parte delle galassie dell‘ammasso del Regolo (o Abell 3627) e parte di una densa area della Via Lattea. L’ammasso del Regolo è l’ammasso stellare di grande massa più vicino a noi, trovandosi a circa 220 milioni di anni luce di distanza. La grande massa concentrata in quella zona, e la conseguente attrazione gravitazionale, fa sì che la zona sia chiamata il Grande Attrattore, una struttura che domina la nostra regione di Universo attraendo le galassie circostanti per centinaia di milioni di anni luce.
Crediti: ESA/Hubble & NASA
Questa immagine è costituita da esposizioni in luce blu e infrarossa ottenute dalla Advanced Camera for Surveys (ACS) di Hubble.
Come si può notare, la più grande galassia fotografata da Hubble in questa nuova immagine è ESO 137-002, una galassia a spirale. Attorno alla galassia è possibile vedere grandi regioni di polvere stellare. Quello che, in realtà, non possibile vedere nell’immagine è la lunga coda di raggi X che si estende oltre la galassia, invisibile per uno strumento ottico come Hubble.
Il Grande Attrattore è difficile da osservare a lunghezze d’onda ottiche, anche perché il lungo piano della Via Lattea illumina (con le sue numerose stelle) e allo stesso tempo oscura (di polvere) molti oggetti limitrofi. Gli astronomi hanno molti trucchi per superare il problema, come le osservazioni a raggi infrarossi o radio, ma la regione dietro il centro della Via Lattea, dove la polvere è più spessa, rimane un mistero.
Durante il mese di febbraio saranno sei gli asteroidi a scendere sotto la decima magnitudine (che è un po’ la soglia di eccellenza osservativa per questo tipo di oggetti). In ordine di passaggio al meridiano avremo:Vesta, Ceres, Metis, Eunomia, Amphitrite e Irene. Nessuno di questi aggiungerà l’opposizione nel periodo, ma sarà comunque bene tenere d’occhio (14) Irene, che in marzo arriverà a una distanza dalla Terra mai raggiunta dal 1954… Ci sarà occasione per parlarne nel prossimo numero!
Tra i pianetini attualmente in opposizione ce ne sono invece due, (192) Nausikaa e (65) Cybele, mai trattati in questa rubrica. Intendiamoci, non è che questo mese faranno cose eccezionali, ma la mia intenzione – lo sapete – è quella di farvi conoscere in modo sistematico tutti i pianetini catalogati fino al numero (200), e qualcuno dei più “alti” quando se lo merita.
Leggi tutti i dettagli e i consigli per l’osservazione, nell’articolo tratto dalla Rubrica Asteroidi di Talib Kadori presente a pagina 68 di Coelum n.167.
TUTTE le immagini pervenuteci, rientranti nel tema del concorso, troveranno posto sul sito della rivista in un’apposita sezione di PHOTOCOELUM
Tutte potranno essere votate dai lettori utilizzando il “Mi Piace” di Facebook, o di Gplus fino ad arrivare a una sorta di verdetto popolare, che non cambierà in ogni caso il giudizio della giuria e l’attribuzione dei premi, ma che darà diritto al vincitore di ricevere un premio speciale messo a disposizione dalla Redazione:
La scadenza per la raccolta dei voti è fissata al 28 Febbraio 2013: affrettatevi a votare!
Circa sessanta partecipanti, un centinaio di foto da valutare. È stata questa la risposta dei lettori di Coelum all’invito a partecipare alla seconda edizione del Concorso Fotografico di Astronomia Creativa.
L’anno scorso, quando si trattava di includere nella inquadratura Giove con il suo sistema di satelliti la partecipazione fu decisamente più bassa; ma c’era da capirlo, non è ovviamente da tutti avere la pazienza e la capacità di riuscire a “far recitare” Giove in una scena che includa anche la presenza umana. Un po’ più facile il tema di quest’anno, che invitava a trattare ogni possibile fase lunare come occasione di gioco edivertimento, e che soprattutto si faceva forte dei bellissimi premi messi in palio dai nostri sponsor.
E proprio per la grande quantità di immagini arrivate in redazione non è stato davvero facile per la giuria scegliere quelle che sarebbero poi andate ad occupare i primi tre posti e che qui di seguito abbiamo il piacere di presentarvi.
Come sempre in questi casi, ci si potrebbe domandare: sono davvero queste le composizioni migliori, le più belle, le più originali o creative?
Per noi sì, ma ricadendo tutto ciò nel dominio delle valutazioni soggettive, ci piace anche l’idea di affidare la conferma o la smentita al responso statistico dei grandi numeri, confidando nel giudizio dei lettori.
Lasciandovi finalmente alle foto premiate, ognuna corredata dai dati tecnici e dai giudizi sintetici in base ai quali la giuria ha ritenuto di spiegarli, vi diamo appuntamento al 3° Concorso Fotografico di Astronomia Creativa che come gli altri verrà bandito poco prima dell’estate.
Rappresentazione artistica di un GRB (NASA/Dana Berry/Skyworks Digital)
Rappresentazione artistica di un GRB (NASA/Dana Berry/Skyworks Digital)
Cos’era il lampo di energia che ha investito la Terra verso la fine dell’ottavo secolo dopo Cristo, lasciando tracce evidenti dagli anelli di crescita degli alberi ai ghiacci dell’Antartide? Secondo Valeri Hambaryan e Ralph Neuhӓuser, astrofisici dell’Università di Jena, Germania, l’ipotesi più convincente è che si sia trattato di un gamma ray burst, un “lampo” di raggi gamma causato dalla fusione di due oggetti stellari molto compatti: buchi neri, stelle di neutroni o nane bianche.
La principale traccia di questo evento sono i livelli particolarmente alti, scoperti nel 2012 dal ricercatore giapponese Fusa Miyake, di Carbonio 14 e Berillio 10 negli anelli di crescita degli alberi risalenti all’anno 775. Questi particolari isotopi di carbonio e berillio si formano quando la radiazione ad alta energia proveniente dallo spazio si scontra con gli atomi di azoto nella nostra atmosfera. Questi isotopi, radioattivi, decadono nel tempo, per cui di regola la loro concentrazione negli anelli degli alberi cala gradualmente. Il brusco aumento visibile negli anelli degli alberi giapponesi indica che dallo spazio deve essere arrivato “qualcosa” a rifornire l’atmosfera di Carbonio 14 e Berillio 10. E i dati combaciano con quanto si osserva negli alberi americani ed Europei, anche se in quei casi per diverse ragioni è più difficile indicare una data così precisa: il periodo comunque è più o meno quello. Ultimo tassello: quell’aumento di isotopi radioattivi attorno all’ottavo secolo si ritrova anche nei ghiacci dell’Antartide. Qualunque cosa fosse, insomma, ha interessato l’intero pianeta.
I ricercatori hanno prima considerato le ipotesi più ovvie: al primo posto, un brillamento solare. Ma questi fenomeni non sono in genere abbastanza potenti da produrre quella quantità di carbonio 14. Ci sarebbe voluto un flare 20 volte più potente di quelli che osserviamo normalmente: sulla carta è possibile, ma molto improbabile e il fenomeno avrebbe avuto effetti tangibili di cui sarebbe rimasta traccia nelle fonti storiche.
Allo stesso modo, i ricercatori hanno escluso anche l’ipotesi di una supernova. Per generare abbastanza energia, avrebbe dovuto essere molto vicina, a meno di 1000 anni luce dalla Terra. E avrebbe dovuto essere tanto luminosa da essere ben visibile persino di giorno. Ancora una volte, dovrebbe essercene traccia nelle cronache dell’epoca perché l’avrebbero vista tutti. E invece non c’è traccia, a parte una citazione nella Cronaca Anglosassone (un testo del IX secolo) riferita al 776 dc, che parla di un “crocifisso rosso nel cielo” improvvisamente visibile dopo il tramonto. Il problema è che non sono mai stati trovati resti di alcuna supernova di quell’età e così vicina, eppure se ci fossero dovrebbero essere molto facili da vedere per gli astronomi.
Resta, quindi, il gamma ray burst. Per la precisione uno di quelli corti, gli short gamma ray burst, della durata di meno di due secondi, che osserviamo relativamente spesso nelle altre galassie. Secondo la teoria prevalente, questi intensi lampi di raggi gamma si generano quando due ex stelle, già da tempo degenerate in stelle di neutroni o nane bianche, si fondono, causando una violenta esplosione che emette una parte della sua energia nella lunghezza d’onda dei raggi gamma. Secondo i calcoli di Hambaryan e Neuhӓuser, un evento di questo tipo posto a una distanza fra 3.000 e 12.000 anni luce potrebbe spiegare l’aumento di carbonio 14 e berillio 10 osservato negli alberi. E spiegherebbe perché nessuno dei nostri antenati abbia visto niente: anche se si pensa che un GRB così vicino sarebbe associato a una certa quantità di luce visibile, sarebbe stata troppo debole per essere notata a occhio nudo.
Possiamo rallegrarci che l’evento non sia stato più vicino, comunque. Se fosse avvenuto a meno di 3.000 anni luce da noi, avrebbe avuto conseguenze pesanti sulla biosfera, al punto che forse non saremmo qui a parlarne.
La ricerca è pubblicata su Monthly Notices of the Royal Academy of Sciences
Già è in assoluto il quadro più noto della storia, visto ogni anno da milioni di visitatori. Ora la sua notorietà si spinge oltre il nostro pianeta. La NASA ha infatti spedito, o meglio trasmesso, la Gioconda fino quasi sulla Luna.
I ricercatori hanno usato infatti il quadro di Leonardo per testare per la prima volta la trasmissione di informazioni via laser con un satellite in orbita attorno alla Luna, il Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO).
L’immagine della Monna Lisa è stata trasformata in una sequenza di pixel e ha viaggiato per circa 386mila chilometri dalla stazione Next Generation Satellite Laser Ranging della NASA, al Goddard Space Flight Center nel Meryland (USA), fino al Lunar Orbiter Laser Altimeter (LOLA), montato su LRO.
David Smith, lo scienziato a capo degli esperimenti con LOLA, ha detto che «è la prima volta che è possibile comunicare via laser a queste distanze. Questo tipo di tecnica, nel futuro, potrà essere utile per le comunicazioni radio con i satelliti».
Mentre la maggior parte dei satelliti che escono dall’orbita terrestre usano le onde radio per il tracking e la comunicazione, LRO è l’unico a usare anche il laser. Una volta ricevuto il segnale digitale, l’immagine è stata rinviata sulla Terra utilizzando la telemetria tradizionale radio, per accertare il successo dell’operazione
L’immagine è stata divisa in 200 pixel, ciascuno dei quali è stato poi convertito nella scala dei grigi e codificato con un numero da 0 a 4095. Ogni pixel è stato trasmesso con un impulso laser, “sparato” in uno tra 4096 slot di tempo disponibili nell’ambito della finestra temporale allocata. In questo modo l’immagine completa è stata trasmessa una velocità di trasferimento dati di circa 300 bit al secondo.
Le condizioni atmosferiche attorno alla Terra hanno causato qualche disturbo e l’immagine, al momento dell’arrivo, mostrava qualche imperfezione. I ricercatorihanno corretto le imperfezioni utilizzando lo stesso codice di correzione utilizzato in CD e DVD.
«Questo primo importante risultato – ha detto soddisfatto Richard Vondrak, vice scienziato del progetto dell’orbiter – pone delle solide basi per il progetto Lunar Laser Communications Demonstration (LLCD), centrale nelle prossime missioni lunari della NASA».
24.01: “Buchi neri con momento angolare; Fisica dei buchi neri”.
Per info: tel. 348 5648190.
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Rassegna stampa e cielo del mese – Ogni quarto giovedì del mese. Ciclo di serate dedicate all’approfondimento delle principali notizie di attualità astronomica e all’anteprima degli eventi del cielo del mese, con Stefano Capretti. 24.01: Rassegna stampa di Gennaio e cielo di Febbraio.
http://telescopioremoto.uai.it/
www.uai.it
Chi non ha mai sognato da bambino di poter viaggiare alla velocità della luce a bordo del Millennium Falcon con Han, Luke e Leila?
In realtà, come sappiamo, non è possibile raggiungere la velocità della luce (300.000 km/sec). Ma ammettiamo per un attimo che questa ipotesi si realizzasse: che cosa vedremmo dal “parabrezza” della nostra navicella? Sicuramente non quello che ci ha mostrato (come si vede nell’immagine qui accanto) George Lucas nei film della serie di Star Wars.
Alcuni studenti di fisica all’Università di Leicester hanno usato le leggi della relatività per descrivere un ipotetico viaggio nell’iperspazio, reso celebre da molti romanzi e film di fantascienza, e ciò che hanno concluso è lontano anni luce (è il caso di dirlo) dall’immaginazione dei più attenti sceneggiatori.
I quattro studenti, Riley Connors, Katie Dexter, Joshua Argyle e Cameron Scoular, hanno dimostrato che a quella velocità l’equipaggio della navicella spaziale non vedrebbe una scia infinita di stelle, ma semplicemente un disco di luce molto luminoso, come se le stelle si fondessero.
I risultati ottenuti dai quattro studenti di fisica si basano sulla teoria di Einstein della relatività speciale (relatività ristretta), una riformulazione successiva della meccanica classica a opera di Albert Einstein: è quella teoria, in contrapposizione a relatività generale, che si limita a considerare i sistemi di riferimento inerziali.
Lo studio è pubblicato sul Journal of Physics Special Topics, una rivista che l’Università di Leicester usa per pubblicare brevi articoli dei suoi studenti agli ultimi anni, anche su temi “non tradizionali”, per far prendere loro confidenza con i meccanismi della peer review e con la scrittura di articoli scientifici. I quattro hanno usato argomenti di fisica teorica per dimostrare che, dal punto di vista di una navicella che viaggiasse alal velocità della luce, non ci sarebbero tracce visibili di stelle a causa dell’effetto Doppler, quel particolare fenomeno fisico che spiega la variazione di frequenza delle onde emesse da una sorgente in moto rispetto a un osservatore. Per chiarire il concetto in modo banale basti pensare alla sirena di un’ambulanza, la cui frequenza aumenta con l’avvicinarsi all’ascoltatore, e diminuisce in caso di allontanamento.
Crediti: University of Leicester
L’effetto Doppler, in questo caso applicato alle onde elettromagnetiche, causerebbe il cosiddetto blue shift, lo spostamento verso il blu della luce: agli occhi di chi si trovasse nel Millenium Falcon, la lunghezza d’onda della luce emessa dalle stelle diminuirebbe, prima spostandosi verso il blu e poi uscendo dalla luce visibile per passare nello spettro dei raggi X, non visibili dall’occhio umano.
L’equipaggio percepirebbe un grande disco di luce bianca, creato nientemeno che dalla radiazione cosmica di fondo(Cosmic Microwave Background) che per lo stesso effetto Doppler finirebbe per essere percepita nello spettro del visibile. La radiazione cosmica di fondo è una radiazione elettromagnetica, a 2,7 gradi Kelvin, che permea l’universo in modo uniforme ed è ciò che resta del Big Bang.
L’ immagine mostra la roccia pianeggiante scelta per la prima perforazione del rover Curiosity. CREDIT: NASA/JPL-Caltech/MSSS
L’ immagine mostra la zona di roccia piatta, attraversata da fratture e venature, scelta per la prima perforazione del rover Curiosity; nei riquadri vengono evidenziate le caratteristiche formazioni della roccia: scalini, creste, venature, crepe e possibili infiltrazioni di sabbia. CREDIT: NASA/JPL-Caltech/MSSS
Atterrato su Marte circa cinque mesi fa il rover della Nasa Curiosity si prepara, con il benestare degli ingegneri del progetto, a perforare la prima roccia marziana. L’ammasso roccioso scelto è piatto con venature chiare e potrebbe dimostrare la presenza, passata, di acqua.
Il rover Curiosity è al momento all’interno del cratere Gale di Marte per indagare se il pianeta ha mai offerto un ambiente favorevole per la vita microbica.
“La perforazione di una roccia per raccogliere un campione sarà l’attività più difficile di questa missione dopo l’atterraggio. Non è mai stato fatto su Marte”, ha dichiarato il manager del progetto Richard Cook del NASA Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California. Che avverte “il trapano interagirà energeticamente con il materiale marziano in modi che non controlliamo del tutto. Non ci sarà da stupiris se alcune fasi del processo non andranno esattamente come previsto.”
Curiosity prima raccoglierà i campioni in polvere dall’interno della roccia e li userà per pulire il trapano. Poi il rover dovrà forare e prendere più campioni di questa roccia, li esaminerà, per carpire informazioni sulla composizione chimica e minerale di questa.
La roccia scelta è in una zona dove la Mastcam di Curiosity e altre telecamere hanno rivelato diverse caratteristiche inaspettate, tra cui vene, noduli, doppie stratificazioni, un ciottolo brillante incorporato in pietra arenaria, e forse alcuni buchi nel terreno.
La roccia scelta per la perforazione si chiama “John Klein” in omaggio all’ex vice responsabile del progetto John W. Klein, morto nel 2011. La roccia si trova all’interno di una depressione poco profonda chiamata “Yellowknife Bay.” Il terreno di questa zona è diversa da quella del luogo di atterraggio, un corso d’acqua asciutto circa un terzo di miglio (circa 500 metri) a ovest. Il team del rover Curiosity ha deciso di cercare lì un target di foratura perché le osservazioni orbitali hanno mostrato terra fratturata che si raffredda più lentamente.
“Il segnale orbitale ci ha attirato qui, ma quello che abbiamo trovato quando siamo arrivati è stata una grande sorpresa”, ha detto John Grotzinger scienziato del progetto Mars Science Laboratory, del California Institute of Technology di Pasadena. “Questa zona ha avuto un diverso tipo di ambiente umido rispetto al alveo in cui siamo atterrati.”
Una prova viene dalla ChemCam del rover che ha trovato livelli elevati di calcio, zolfo e idrogeno.
“Queste vene sono probabilmente composte da solfato di calcio idrato, come bassinite o gesso”, ha detto un membro del team ChemCam Nicolas Mangold del Laboratoire de Planetologie et de Nantes Geodynamique in Francia. “Sulla Terra, la formazione di vene come queste richiede la presenza di acqua che circola nelle fratture.”
I ricercatori hanno utilizzato il Mars mano Lens Imager (Macli) del rover per esaminare le rocce sedimentarie della zona. Alcune sono in pietra arenaria e in altre vicinanze si trova la siltite. Queste differiscono in modo significativo dalle rocce di conglomerato di ghiaia nella zona di atterraggio.
“Tutte queste sono rocce sedimentarie e le diverse granulometrie ci racconteranno le condizioni di trasporto.” Ha detto Macli Yingst ricercatore Aileen del Planetary Science Institute di Tucson, in Arizona.
In alto. A sinistra, una mappa a campo medio fornisce la posizione (indicata dalla freccia all’interno del riquadro giallo) di Cygnus OB2-12, 2,2° a estnordest da gamma Cygni. A destra, l’ingrandimento del riquadro mostra in modo più accurato la locazione della stellina in un campo di 30 primi.
In alto. A sinistra, una mappa a campo medio fornisce la posizione (indicata dalla freccia all’interno del riquadro giallo) di Cygnus OB2-12, 2,2° a estnordest da gamma Cygni. A destra, l’ingrandimento del riquadro mostra in modo più accurato la locazione della stellina in un campo di 30 primi.
Avendo la fortuna di osservare la Via Lattea sotto un cielo scuro, anche il neofito o inesperto osservatore noterà come essa sia attraversata, divisa verrebbe più propriamente da dire, da lunghe aree scure dove la densità stellare sembra davvero minima; é ben noto che a produrre questo effetto selettivo, noto come estinzione della luce stellare, siano le vaste quantità di polveri interposte qua e la nel disco galattico, a volte disposte quasi come una vera muraglia che sembra impedire la visione di ciò che c’è oltre. L’effetto è ancor più evidente utilizzando un binocolo, tanto che a volte il passaggio tra le dense nubi galattiche e queste oscure fenditure polverose è netto; peraltro, numerose altre galassie come la nostra o ancor più esotiche come Centaurus A mostrano fenomeni di assorbimento della luce stellare anche più notevoli. E’ logico quindi pensare che molte delle stelle visibili ad occhio nudo tra quelle disposte lungo la Via Lattea potrebbero in realtà essere molto più luminose di come si presentano; a tutti gli effetti, esistono stelle, anche di eccezionale luminosità, la cui luce risente dell’estinzione al punto da sparire quasi del tutto alla vista. Ma come apparirebbero queste se il mezzo interstellare non avesse effetto? Considerando l’immenso numero di stelle presenti lungo la Via Lattea, sembrerebbe del tutto impossibile rintracciare tali campioni; la ricerca andrebbe ovviamente limitata a quelle che sono le stelle più luminose in assoluto, le supergiganti azzurre.
Ebbene, le più luminose tra queste si raggruppano nelle cosiddette associazioni OB, sigla che mette evidenza la loro appartenenza ai tipi spettrali più energetici; si tratta di veri e propri gruppi di giovani astri nati quasi contemporaneamente dalla stessa nube molecolare, stelle con masse 30 volte quella del Sole e temperature superficiali fino a 40.000°. Tali condizioni inducono loro un vita che generalmente non supera i 50 milioni di anni, al termine della quale deflagrano come supernovae; la loro breve vita potrebbe essere uno dei motivi per i quali le associazioni OB note nella Via Lattea sono non più di una settantina, davvero poche. Anche il numero delle componenti non è particolarmente elevato, variando mediamente tra le 10 e le 100 unità, sparse però su aree solitamente molto grandi, lunghe centinaia di anni-luce; è questo il motivo per cui l’estensione apparente di tali gruppi può rientrare in una singola costellazione o addirittura coprirne più d’una. Tra le associazioni OB più note, quella di Orione, centrata sulle tre stelle della cintura ed apprezzabile appieno con un binocolo, e Scorpione-Centauro, quest’ultima talmente estesa che molte delle stelle che delineano le costellazioni ne sono componenti effettive! Le associazioni OB furono per la prima volta catalogate a metà dello scorso secolo e da allora sono statti intrapresi approfonditi studi sulle singole componenti oltre che solo censirle.
Una delle più notevoli è Cyg OB2, situata nel mezzo dell’oscura fenditura del Cigno, l’area oscurata da polveri meglio visibile alle nostre latitudini, nettamente stagliata su una delle zone più luminose della Via Lattea. Al contrario di come si potrebbe pensare, lo spropositato numero di deboli stelle li presenti è tale impedirne l’immediato reperimento del gruppo stellare; tuttavia, l’ausilio di un buon binocolo assieme ad una buona dose di pazienza dovrebbe essere sufficiente a distinguere nei pressi di Sadr (γ Cyg), più precisamente ad 1/3 del percorso tra questa e la vicina Deneb (α Cyg), un gruppo di una quindicina di stelline sulla nona grandezza e dalla colorazione bianco-azzurrina, esteso non più di 2°; certo, non sfavillante in bellezza come altri ammassi stellari, ma sapendo quali mostri esso cela, nascosti dietro la muraglia di polveri del Cigno, varrà certamente la pena indagarlo, anche con l’aiuto di un modesto telescopio che ne permetterà di cogliere soprattutto le tonalità cromatiche delle componenti. Considerando la grande distanza, stimata in 4700 anni-luce, Cyg OB2 si estende per circa 195 anni-luce, ospitando al suo interno alcune delle stelle più calde e luminose conosciute della Galassia. Detiene il record di essere l’associazione OB col più grande numero di componenti presente in sistemi di questo tipo, tanto da annoverare circa 2600 componenti, 120 delle quali sono rare stelle di tipo O. Si tratta quindi dell’associazione OB più massiccia conosciuta: secondo stime recenti, Cyg OB2 include qualcosa come 30 mila masse solari, valore simile a quello delle più massicce regioni di formazione stellare sparse nella Galassia, massa distribuita non solo tra stelle gigantesche e luminosissime ma anche di piccola taglia, tutte non più vecchie di 3 milioni di anni! L’emissione energetica di queste e di altre associazioni OB vicine è talmente elevato da riscaldare i gas dell’enorme nube molecolare Cygnus-X, una delle più vaste regioni di formazione stellare presenti nella Galassia, le cui polveri sono proprio quelle ad affievolire molte delle stelle lungo quella visuale.
A tal proposito, osservando Cyg OB2 con attenzione sarà facile notare, non lontana dal centro geometrico di quello che a tutti gli effetti appare come un ammasso aperto molto sparso, una stella di undicesima grandezza dalla colorazione decisamente rossastra; essa indicata col numero 12 dall’astronomo Daniel H. Schulte in un catalogo del 1956 dettato dai risultati di osservazioni fotometriche e spettroscopiche effettuato su Cyg OB2, compiute con il famoso telescopio riflettore da 208 cm dell’Osservatorio McDonald. Al contrario di come essa appare, lo spettro di Cyg OB2 12, classificato come B3-B5Iae, corrisponde a quello di una supergigante azzurra dalla temperatura superficiale di 18.500° K e i cui valori di massa e raggio sono stimati rispettivamente in 110 e 246 volte quelli del Sole! Già i valori appena elencati sono da capogiro, ma è senz’altro quello relativo potere intrinseco ad essere letteralmente inimmaginabile, poiché alle –12,2 magnitudini assolute ad essa attribuite (quella del Sole è +4,75) corrisponde una luminosità assoluta pari a 6 milioni di volte quella solare! E’ proprio su questa stella che l’estinzione interstellare sferra il suo colpo migliore, tanto da indebolirne luminosità di ben 10,3 magnitudini, quantità finora ineguagliata; sono proprio le polveri interstellari ad assorbirne l’intensa luce azzurra riemettendola in seguito a lunghezze d’onda maggiori tanto da farle acquisire la tonalità rossastra con la quale si presenta all’osservazione telescopica. Non esistessero le polveri interstellari, Cyg OB2 12 splenderebbe nel bel mezzo della Via Lattea di magnitudine apparente 1,5, rendendosi appena più luminosa della vicina Deneb ed arricchendo la già splendida costellazione del Cigno di un’altra luminosa stella, dal color topazio!
Ebbene, abbiamo finalmente delineato quella che è in assoluto una delle stelle più luminose della Galassia, inferiore solo a R136a1, una stella del Dorado che detiene il record come la più massiccia conosciuta, la nota Pistol Star ed η Car durante il suo massimo del 1843! Non è certo facile idealizzare come un’anonima e debole stellina tra le sterminate abbia risposto alla nostra domanda iniziale. La natura di questa stella è comunque controversa, tanto da esibire anche irregolari variazioni spettroscopiche, spaziando tra B3 a B8 anche nel giro di un solo anno; il satellite IRAS, operante nell’infrarosso, mise in evidenza la presenza di materiale polveroso attorno ad essa, perso forse in un passato evento di tipo eruttivo. Tale fenomeno è tipico delle cosiddette variabili luminose blu (LBV), classe di variabili straordinariamente rare tanto che solo una ventina sono gli esemplari noti; queste presentano cambiamenti nella luminosità generalmente lunghi, interrotti da occasionali aumenti relazionati a sostanziali perdite di massa, come esibito da η Car e P Cyg: Cyg OB2 12 non ha mai mostrato variazioni luminose, ma la relazione tra la sua posizione nel diagramma HR, l’elevatissima luminosità intrinseca e le variazioni spettrali osservate ne fanno un ottimo candidato LBV. Ma c’è di più.
E’ ben noto, e lo abbiamo visto anche qui, che in astronomia l’aspetto di un determinato oggetto possa essere a volte ingannevole, anche in funzione di parametri come l’età e la distanza; a tal proposito, già negli anni ’60 dello scorso secolo fu proposta l’idea che l’associazione Cyg OB2 potesse essere in realtà un giovanissimo ammasso globulare, simile a quelli blu presenti in gran numero nella Grande nube di Magellano. La cosa certamente stupisce, d’altronde siamo portati a associare a questi oggetti sia rosse stelle vetuste che le enormi distanze che da loro ci separano, proiettandoli al di fuori del piano galattico; dimentichiamo invece che anch’essi erano popolati da giovani stelle azzurre in tempi remoti e che molti incrociano il piano galattico in un disegno non dissimile dalla classica rappresentazione di elettroni in moto attorno ad un atomo, proprio come Cyg OB2. D’altronde il suo numero di stelle è davvero al di fuori degli schemi per una comune associazione OB…
Sia come sia, lasciandosi trasportare ancora una volta dal pensiero, è bello immaginare come, in una futura notte, gli amanti del cielo alzeranno lo sguardo al cielo per ammirare due fari cosmici apparentemente vicini tra loro ma fortunatamente distanti da noi, maturati in diverso modo ma accomunati dalla stessa catastrofica, spettacolare fine che rischiarerà la notte con la loro bianca luce, il loro ultimo canto del Cigno.
La galassia a spirale controrotante NGC 5719 ottenuta con la camera a grande campo del Large Binocular Telescope. È visibile una parte del ponte di materia che collega NGC 5719 con la galassia compagna NGC 5713 e che alimenta la formazione delle stelle in rotazione retrograda. Crediti: A. Pizzella/Large Binocular Cameras Team
La galassia a spirale controrotante NGC 5719 ottenuta con la camera a grande campo del Large Binocular Telescope. È visibile una parte del ponte di materia che collega NGC 5719 con la galassia compagna NGC 5713 e che alimenta la formazione delle stelle in rotazione retrograda. Crediti: A. Pizzella/Large Binocular Cameras Team
Quando pensiamo ad una galassia a spirale ci immaginiamo una maestosa ed ordinata danza delle stelle che si muovono ordinatamente attorno al suo centro. L’esperienza accumulata dagli astronomi dipinge però un quadro non sempre così idilliaco. È stato infatti scoperto da tempo che alcune galassie a spirale contengono due distinti gruppi di stelle in rotazione con verso opposto l’uno rispetto all’altro. A prima vista queste galassie, dette “controrotanti”, sono del tutto simili alle altre e solo lo studio dettagliato della rotazione delle loro stelle e del loro gas permette di svelarne lo strano comportamento. Nei casi finora noti la frazione di stelle in moto retrogrado rispetto al resto della galassia varia dal 20 al 50 per cento. Un vero e proprio enigma per gli scienziati, ma ora il lavoro di un team di ricercatori italiani e dell’INAF in pubblicazione sulla rivista Astronomy&Astrophysics fornisce nuove informazioni per fornire una spiegazione convincente a questo comportamento.
“Trovarsi in una galassia controrotante sarebbe come stare nel bel mezzo di una strada a una sola corsia in cui metà delle automobili viaggia in una direzione e metà nell’altra,” spiega Lodovico Coccato dell’European Southern Observatory che ha recentemente condotto uno studio sulla struttura delle galassie controrotanti grazie ai dati raccolti con il Very Large Telescope in Cile. “Per fortuna, al contrario di quanto accadrebbe in un’autostrada priva di corsie distinte per senso di marcia, le distanze tra le stelle di una galassia sono così grandi da rendere praticamente impossibili gli scontri frontali,” continua Coccato che con i suoi collaboratori dell’Università e dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova è finalmente riuscito a raccogliere le prove utili per capire come si formano le galassie controrotanti. Si pensa infatti che si tratti di sistemi in cui inizialmente le stelle ruotavano tutte nello stesso verso. Se nel corso del tempo la galassia cattura dall’esterno una certa quantità di gas, che ruota in senso inverso rispetto alle stelle preesistenti, allora le stelle che si formeranno da questo gas si muoveranno anch’esse in direzione opposta alle stelle preesistenti dando vita ad una galassia controrotante.
Per provare definitivamente la validità di questo scenario di formazione era necessario verificare che le stelle controrotanti ruotassero nella stessa direzione del gas e fossero più giovani del resto delle stelle della galassia. Questo è proprio quanto scoperto con il Visible Multi Object Spectrograph montato sul Very Large Telescope, che ha mappato i moti delle stelle in rotazione inversa e ne ha misurato l’età in tre diverse galassie controrotanti: NGC 3593, NGC 4550 e NGC 5719. In tutti e tre i casi le stelle controrotanti sono di almeno un miliardo di anni più giovani delle stelle del resto della galassia. Inoltre, le proprietà chimiche delle stelle controrotanti sono diverse da quelle delle altre stelle, segno che le due popolazioni stellari sono nate da nubi di gas con caratteristiche differenti. “Nel caso di NGC 5719 la cattura di materiale dall’ambiente esterno sta continuando ancora oggi,” spiega Enrico Maria Corsini, ricercatore dell’Università di Padova e associato INAF. “Questa galassia a spirale è infatti collegata alla galassia compagna NGC 5713 da un ponte di idrogeno neutro, che si estende per circa 100 milioni di anni luce e alimenta la formazione delle stelle controrotanti nel disco di NGC 5719.” Contrariamente a NGC 5719, le altre due galassie studiate, NGC 3593 e NGC 4550, sono relativamente isolate e non presentano segni evidenti di interazione né con altre galassie né con materiale intergalattico. Questo significa che il processo di cattura del gas in rotazione inversa e la successiva formazione delle stelle controrotanti si conclusero molto tempo fa.
La presenza di gas, stelle o entrambi in controrotazione è stata rilevata in decine di galassie di tutti i tipi. Oltre ai casi appena considerati ci sono anche i nuclei stellari controrotanti, che si sono formati al centro di alcune galassie ellittiche a seguito della cattura di una galassia satellite, o quelle galassie lenticolari in cui il gas è di origine esterna e ruota in direzione opposta alla componente stellare. Sono tutti esempi dell’importanza del ruolo giocato dai processi di interazione nel plasmare la struttura delle galassie come oggi le osserviamo.
Per saperne di più:
L’articoloSpectroscopic evidence of distinct stellar populations in the counter-rotating stellar disks of NGC 3593 and NGC 4550 di L. Coccato, L. Morelli, A. Pizzella, E. M. Corsini, L. Buson e E. Dalla Bontà in pubblicazione sulla rivista Astronomy&Astrophysics
Si chiama Mingus, in onore del musicista jazz Charles Mingus, ed è una tra le supernovae più lontane mai scoperte finora.
Le supernovae sono stelle che al termine della loro evoluzione esplodono in modo violento. Mingus è tra le più lontane mai individuate, ad oltre dieci miliardi di anni luce di distanza. Averla scoperta è come aver visto una lucciola lontana 5.000 chilometri.
In realtà la supernova non è stata vista ma trovata analizzando alcune immagini dell’Universo lontano ottenute nel 2004 dal telescopio spaziale Hubble. All’epoca non si aveva la certezza della sua vera natura. Si è così dovuto attendere il 2009, quando una nuova camera è stata montata a bordo di Hubble. A quel punto il telescopio spaziale è tornato a osservare in quella direzione, fornendo immagini più dettagliate rispetto alle precedenti. Immagini che hanno confermato che laggiù era esplosa una stella.
Mingus è un tipo di supernova che permette di calcolarne la distanza con buona precisione. Più supernovae così scopriremo, più riusciremo a calcolare quanto variano con il tempo le distanze nell’Universo.
Al momento sembra che lo spazio si stia espandendo sempre più velocemente, come fosse gonfiato da una misteriosa energia oscura che però nessuno riesce a individuare. Ma che l’Universo stia accelerando la sua espansione è una conclusione che si basa sulle misure delle distanze degli oggetti celesti più lontani. E’ quindi necessario che queste misure siano le più accurate possibili e supernovae come la Mingus sono e saranno ciò che serve per raggiungere la massima precisione possibile.
Indice dei contenuti
Queste le notizie su URANIA di questa settimana:
Mingus la remota
Uno sguardo ad Apophis
Dove nascono i Giganti
URANIA è il notiziario settimanale realizzato da Luca Nobili ed Elena Lazzaretto.
Con Urania è davvero facile tenersi aggiornati sulle ultime news dell’astronautica e dell’astrofisica! Visita il sito: www.cieloblu.it
18.01: “I rilevatori di particelle” a cura di Marco Gorza sugli ultimi sviluppi nel campo della rilevazione delle particelle che sono alla base della materia.
Per info: tel. 328/0976491
info@astrofililariani.org
www.astrofililariani.org
Un montaggio delle immagini della Webcam di Mars Express scattate nel 2012. Copyright: ESA- VMC Mars Web cam – Elaborazione: Emily Lakdawalla, Planetary Society.
Una camera ordinaria in un posto straordinario: così la descrive l’ESA. In un mondo mediatico fatto di telecamere nascoste che spiano e ritrasmettono online una quotidianità spesso inutile, quasi sempre scontata, ce n’è una, di webcam, che merita tutta l’attenzione possibile. E’ lontana da noi centinaia di milioni di chilometri, ha una storia travagliata, e si chiama Visual Monitoring Camera, VMC o Mars Webcam per gli amici. E’ a bordo della sonda Mars Express, in orbita intorno a Marte dal 2003. Come una vera webcam, VMC spia il pianeta rosso, e da qualche tempo pubblica senza filtro e in tempo reale le immagini scattate, in un account Flickr aperto al pubblico.
Un montaggio delle immagini della Webcam di Mars Express scattate nel 2012. Copyright: ESA- VMC Mars Web cam – Elaborazione: Emily Lakdawalla, Planetary Society.
Le singole immagini che compongono il mosaico di oggi sono state realizzate da maggio a dicembre 2012, a intervalli di tempo non costanti, e processate per creare questo magnifico poster da Emily Lakdawalla, della Planetary Society.
Tutte le foto sono state scattate da una altitudine di circa 10 000 Km dal pianeta ma con un punto di vista che cambia nei mesi, in funzione dell’orbita della sonda Mars Express. Nella loro sequenza, si possono leggere i cambiamenti climatici che avvengono sul pianeta Marte al passare dei mesi. Nelle prime immagini, realizzate a Maggio, è inquadrata l’estate e il ghiaccio si è ritirato intorno al polo nord del pianeta. In quel momento, l’orbita della sonda viene modificata per supportare l’arrivo di Curiosity, inquadrando la zona dell’atterraggio. A fine settembre, la traiettoria seguita dalla sonda fa perdere di vista il polo nord e l’attenzione si focalizza, nelle immagini realizzate tra maggio e giungo, sulle impressionanti strutture di nubi che si iniziano ad avvistare.
Malgrado la bassa risoluzione, tipica di una webcam, alcune di queste immagini meritano decisamente di essere ingrandite e osservate in dettaglio. Ma per questa operazione non è necessario far parte del team dell’ESA, scaricare software particolare o aspettare i tempi storici di un embargo. Basta digitare l’indirizzo del Blog, diventare fan dell’account Flickr o follower del loro account twitter. Perché da qualche settimana, VMC è l’unica camera attualmente esistente che condivide in tempo reale raw data con il pubblico.
La storia di VMC, che ha permesso alla camera di conquistare questo brillante primato, è particolare, fatta di impegno, di imprevisti, di fallimenti e di enormi successi. Un destino che testimonia la vita travagliata e avventurosa di una missione spaziale. All’inizio, VMC è nata come il più piccolo tra gli strumenti scientifici a bordo di Mars Express, tra cui brillano gli italiani Marsis e PFS. Anzi a dire il vero, VMC non è mai stata un vero e proprio strumento scientifico. Era stata pensata come una camera low cost, montata a bordo della sonda con l’obiettivo di scattare delle immagini del distacco della sonda Beagle 2 nel 2003. Ignara del triste destino che attendeva Beagle 2, VMC compie lo scopo per cui è stata costruita fotografando la separazione del lander. Dopo quel momento di gloria, la camera viene spenta e non se ne sente più parlare per diversi anni.
Nel 2007, il Flight Control Team della missione, di base all’ESOC (European Space Operations Centre) a Darmstadt, in Germania, ha una idea brillante e inizia una campagna di test per verificare se è possibile riaccendere quella piccola camera per realizzare delle immagini globali di Marte. E’ una vera scommessa, il team non ha idea se dopo tre anni di inattività la camera possa essere riaccesa. Inoltre il Flight Control Team è un team composto da ingegneri e tecnici e di solito non si occupa degli obiettivi scientifici della missione. Il team deve imparare un altro lavoro e, nei pochi momenti liberi, inventare un nuovo modo di utilizzare una piccola, semplice camera, nata per fare altro.
Ma VMC si riaccende, eccome. E nei rari momenti in cui non hanno la priorità gli strumenti scientifici di Mars Express, gli ingegneri imparano ad utilizzare la camera e, di errore in errore, riescono a realizzare i primi ritratti del pianeta. Tra vari problemi tecnici che focalizzano l’attenzione del team su altri aspetti della missione e lunghi periodi di spegnimento della webcam, la VMC diventa completamente operativa da maggio 2012. Da quel momento, e nel rispetto degli altri task scientifici, l’uso di VMC è inserito nelle campagne osservative di Mars Express e la webcam adempie al compito, unico nel suo genere, di realizzare foto globali di Marte da una prospettiva unica. E da qualche tempo, inviarle direttamente sul web in tempo reale e in formato raw.
Ma le sorprese non sono finite, e grazie all’inventiva del Flight Control team i fans del pianeta rosso non si dovranno accontentare di godere di queste meraviglie in tempo reale, ma potranno partecipare in prima persona all’avventura marziana. Identificare crateri, vulcani e altre strutture geologiche, studiare il post processing delle immagini, proporre usi didattici e perché no, artistici delle immagini stesse: queste sono le scommesse lanciate dal team della missione e la sfida è lanciata a tutti gli aspiranti esploratori spaziali, invitati a iniziare il proprio viaggio verso Marte da una semplice (e molto terrestre) pagina web.
18.01, ore 21: “L’effetto dei fenomeni astronomici sul presente e il futuro dell’umanità” di Elio Antonello.
Per info: Tel. 0341 367 584
www.deepspace.it
Ivan Coccarelli durante la realizzazione del suo Parco del Tempo, le Torri Cosmiche, accanto alla Meridiana Aurora
Molti anni fa leggendo un testo di astronomia rimasi estremamente affascinato dai racconti sui culti sothiaci dell’Antico Egitto legati all’alba eliaca della stella Sirio; essi svelavano agli occhi di un bambino l’antico legame esistente tra cielo e terra, tra l’uomo e il cosmo…
Inoltre, le mie prime esperienze di astronomia pratica, realizzate con un piccolo rifrattore, avvenivano di frequente in campagna dai nonni e le emozioni all’oculare spesso si fondevano con gli odori agresti del fieno o, in autunno, del mosto. Ciò, molto probabilmente, instillò in me l’interesse nei riguardi delle relazioni intercorse nei tempi tra il mondo agricolo e le “cose” celesti.
Negli anni, ispirato da quelle lontane esperienze, ho proposto, nell’ambito di varie progettazioni, tematiche poste all’interfaccia delle dimensioni cielo e terra.
L’ultima delle fatiche è stato il progetto delle “Torri Cosmiche”. L’idea progettuale nasce nel 2009, in occasione dell’IYA2009 indetto dall’UNESCO, e l’opera è stata finanziata dalla Regione Lazio.
“Le Torri Cosmiche” come tipologia di opera rientrano nei parchi pubblici a carattere tematico.
Tale opera in particolare vuole essere parte di un sistema progettuale più ampio e complesso definito PET : “Parchi Europei del Tempo”. I PET a loro volta vogliono essere una rete europea di parchi in cui il tema principale risulti il “tempo” nei suoi svariati aspetti, dal suo significato etimologico al concetto di storia, memoria collettiva, ecc. Il primo parco PET è stato realizzato nel 2001, finanziato dalla Comunità Europea e nato dal recupero di una ex cava di materiale lapideo (Parco Astronomico Sothis).
Ma torniamo alle “Torri Cosmiche”, il nome del parco trae origine dagli elementi architettonici principali : tre torri in acciaio corten.
Essesono dei calendari astronomici, veri e propri gnomoni/menhir che, tramite fenditure che li attraversano, permettono ai raggi solari di colpire in certi giorni dell’anno (solstizi ed equinozi) delle lastre in marmo poste ai piedi delle torri stesse e sulle quali sono incise alcune costellazioni e simboli zodiacali. Le figure incise sulle lastre marmoree rappresentano la costellazione passante al meridiano celeste del luogo intorno alla mezzanotte vera di quel giorno in cui al mezzodì il raggio di luce solare aveva illuminato la specifica lastra.
Un particolare della lastra marmorea che viene illuminata dal sole il giorno del solstizio invernale
Le costellazioni scelte, che vogliono essere (a nostro parere) quelle che rappresentano il cielo notturno nei periodi d’ingresso alle quattro stagioni, ricordano le immagini dell’Atlante astronomico di Hevelius e rispetto alla posizione reale sulla sfera celeste risultano in posizione speculare.
Ciò, non solo per sublimare il fatto che, quando a mezzodì la costellazione rappresentata sulla lastra viene illuminata, essa si localizza realmente sulla sfera celeste in posizione diametralmente opposta a quella del Sole, ma anche per aver immaginato di guardare le costellazioni come riflesse in uno specchio d’acqua.
Particolare della lastra marmorea dell'equinozio.
Il riferimento all’elemento “acqua” non risulta casuale ma come vedremo coerente con le prospettive progettuali complessive.
Le Torri inoltre raccoglieranno la luce della nostra stella (Il Sole) e, quando al tramonto il cielo svela i segreti del cosmo, emetteranno segnali elettromagnetici verso l’equatore celeste.
Il flusso energetico solare attraversando le Torri si trasformerà in segnali vitali verso il cosmo.
L’accensione e lo spegnimento del sistema di trasmissione sarà gestita utilizzando un codice ASCII ricavato dal testo del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (Galileo Galilei, 1632). Tali segnali in codice binario rappresenteranno un tentativo simbolico di inviare un messaggio verso altri mondi utilizzando il linguaggio della matematica: l’opera di Galileo trasformata in sequenza binaria!
Infine le torri emetteranno delle vibrazioni acustiche secondo modalità dettate da un sistema semi-randomico che esegue una catena di Markov producendo una sorta di “sinfonia” (non ripetitiva) della durata di 100 anni! …in attesa del 500° anniversario del telescopio galileiano (IYA2109).
Oltre alle Torri in acciaio in questo Parco del Tempo si svilupperà un percorso didattico-scientifico integrabile e sviluppabile nel tempo, anche in possibile connessione con altri siti europei, avente come tema “La misura del tempo nella storia dell’uomo”.
Inoltre la presenza nel settore di elementi rispetto ai quali il progetto PET risulta molto sensibile, ha indotto a tracciare e sviluppare nel contesto delle Torri Cosmiche interventi di recupero finalizzati alla “Valorizzazione degli ambienti ipogei, delle risorse idriche sotterranee e dei punti di emergenza (fonti) e della facies culturale connessa (Mundus Cereris)”.
In questo settore della Valle Latina in particolare, durante gli scavi TAV nei pressi di una fonte scavata nel tufo, sono venuti alla luce i resti di un santuario dedicato alla dea Demetra nel quale si svolgevano ritualità stagionali a partire dal IV sec. a.C. ed in particolare il rito del “porcellino” come testimoniato dalla stratigrafia dei pozzi votivi rinvenuti.
La presenza in questi ultimi di ossa di animali (tipicamente maialini) e resti di semi carbonizzati testimoniano un culto centrato su rituali propiziatori delle attività agricole durante i quali le parti solide venivano affidate alla terra e offerte al mondo ctonio, mentre il fumo degli arrosti sacri e delle piante aromatiche s’innalzava invece verso il cielo ed era offerto agli dei celesti. Menhir posti in questi luoghi poi rappresentavano un ancestrale ponte eretto tra il cielo verso cui maestosamente si protendevano e la terra in cui erano infissi, archetipi di lorenziani “attrattori caotici” e d’imperscrutabili fantasie sintropiche, erano gli elementi architettonici perfetti all’ombra dei quali riunirsi e celebrare questi riti stagionali di ricongiunzione degli uomini col mondo divino degli inferi e dei cieli.
Tale vocazione di questo territorio a ritualità stagionali, che si svolgevano tipicamente nei pressi delle fonti e di ambienti tufacei (il tufo vulcanico è contemporaneamente relativamente facile da lavorare e scavare ma abbastanza solido ed autoportante), ha portato in particolare in fase progettuale a sviluppare la valorizzazione di una fonte d’acqua che si localizza topograficamente ad Est delle Torri Cosmiche.
La scelta del sito, oltre alle sue peculiarità e valenze idrologiche intrinseche, è motivata dal valore simbolico che assume nel contesto di questo parco del tempo: all’equinozio i raggi del Sole nascente, prima di attraversare la porta equinoziale che verrà realizzata nelle vicinanze delle Torri, si bagneranno simbolicamente nelle acque della fonte. Luce, acqua, terra; elementi dal cui abbraccio nasce la vita.
Il sito della fonte è strutturato inoltre come se fosse una porta aperta nell’ambiente ipogeo; tale “porta” sembra essere rivolta verso l’esterno nella direzione in cui il Sole sorge al Solstizio d’estate (nord-est): in quel periodo dell’anno i raggi del Sole penetrano nel varco aperto sul mondo sotterraneo per illuminare il Mundus Cereris .
Il mito di Sothis svela l’antico connubio tra le attività rurali e le stelle: per migliaia di anni i ritmi dei fenomeni celesti scandirono le attività di uomini perfettamente integrati nell’ecosistema naturale. Essi sapevano ascoltare i lievi ed impalpabili messaggi del cosmo e trarne profitto anticipando i mutamenti naturali; cioè impararono, a differenza dell’uomo moderno, a “progettare” per prevenire ed ottimizzare le interazioni con la natura, o meglio a “sintonizzarsi” con i fenomeni naturali
Ulteriori interventi proposti in questo ambito progettuale riguarderanno la “Valorizzazione del mondo agricolo e della facies culturale connessa (Museo dell’agricoltura e Faro della memoria – Antiche ritualità dionisiache – Rapporti tra astronomia e civiltà agricola : il mondo di Sothis e Demetra)”.
Si propone in particolare la realizzazione di un’area museale (Museo della civiltà agricola) all’interno di un futuro complesso polifunzionale; quest’ultimo si qualificherà come “faro” sul territorio: il “Faro della Memoria” (Complesso polifunzionale e Centro per la promozione di attività e prodotti locali) come luogo in cui le dimensioni Spazio, Tempo e Memoria s’intrecciano in modo virtuoso.
Così come la quercia, che ha bisogno di affondare sempre più le radici nella terra per poter elevare i propri rami al cielo, il nostro territorio deve immergere le sue radici nel fiume sotterraneo della memoria per poter disegnare nuove linee sull’orizzonte degli eventi.
Nei PET si propone, quindi, un viaggio nelle proprie tradizioni, ripercorrendo i sentieri di antiche ritualità alla ricerca del Deus Loci. In questo viaggio nella memoria dei luoghi si apriranno e si dispiegheranno orizzonti antichi, ora velati dal tempo, capaci di interagire in modo attivo con il nostro orizzonte storico.
Inevitabile è in questo viaggio l’incontro con la madre di tutte le discipline scientifiche: l’Astronomia.
Il cielo e le sue stelle furono riferimenti fondamentali per le primitive civiltà stanziali ed agricole, particolarmente per scandire il tempo delle loro attività.
Il Quadrante astronomico Sothis
Riti stagionali, culti, divinità traevano origine dall’interazione di problematiche pratiche (semina, raccolto agricolo, ecc.) con l’osservazione dei cicli naturali (giorno, notte, equinozio, solstizio, lunazione, ecc.) e delle forze naturali alle quali gli umani sembravano assoggettati in modo indecifrabile. In quel mondo lontano molte ritualità si svolgevano “all’ombra dei menhir” e nelle vicinanze di corsi d’acqua e fonti ; quest’ultime assumevano un notevole valore simbolico essendo all’interfaccia tra il mondo superficiale e quello ipogeo.
Con il tempo le fonti hanno perso questo profondo “rispetto” che gli uomini del passato avevano per questi luoghi e questo viaggio nella memoria ha proprio lo scopo di ristabilirlo e di tentare di farlo per tutti gli elementi del territorio.
Le tre Torri Cosmiche rappresenteranno quindi il “futuro” tracciato dall’uomo dal ritorno da quel viaggio nel passato accompagnati dalla Musa Urania e la tensione di tutto il territorio verso un domani più sintonizzato con i ritmi naturali e le dinamiche complesse del cosmo, assiomi indispensabili per un serio “sviluppo sostenibile”.
Apophis visto da Herschel nelle tre bande di 70, 100 e 160 micron. Crediti: ESA/Herschel/PACS/MACH-11/MPE/B.Altieri (ESAC) and C. Kiss (Konkoly Observatory)
Apophis visto da Herschel nelle tre bande di 70, 100 e 160 micron. Crediti: ESA/Herschel/PACS/MACH-11/MPE/B.Altieri (ESAC) and C. Kiss (Konkoly Observatory)
Così come aveva già fatto nel novembre 2011 per l’asteroide 2005 YU55, lo scorso fine settimana il telescopio spaziale Herschel dell’ESA ha fotografato l’asteroide 99942 Apophis, che proprio in questi giorni si è avvicinato alla Terra fino a una distanza minima di 14,5 milioni di km. I dati ottenuti dall’osservazione hanno permesso di stabilire che Apophis è un po’ più grande di quanto in precedenza stimato, e un po’ meno riflettente.
In particolare, il diametro è ora indicato con buona precisione attorno ai 325 metri, una misura di poco superiore ai 270 metri precedentemente stimati. “Il 20% di incremento in diametro si traduce in un aumento del 75% delle nostre stime del volume e della massa dell’asteroide”, precisa Thomas Müller del Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics in Germania, lo scienziato che sta conducendo le analisi dei nuovi dati.
L’asteroide Apophis, come si sa, è un sorvegliato speciale: nel 2029 passerà ad appena 36.000 km dalla superficie terrestre, una distanza paragonabile a quella dei satelliti geostazionari, tanto da poter diventare visibile ad occhio nudo. Tornerà nei paraggi della Terra nel 2036, ma quanto vicino è ancora presto per dirlo con assoluta certezza. Conoscere con la massima precisione i parametri fisici dell’asteroide è quindi cruciale per prevederne la traiettoria futura in maniera accurata.
Modello della temperatura di Apophis - Crediti: ESA/Herschel/MACH-11/T.Müller MPE (Germany)
Analizzando il calore emesso da Apophis, le osservazioni di Herschel hanno anche permesso una nuova stima dell’albedo dell’asteroide, ovvero della sua capacità di riflettere la luce ricevuta. Il nuovo valore è 0,23 (quello stimato precedentemente era 0,33) e indica che il 23% della luce solare che colpisce il corpo celeste viene riflessa, mentre il resto viene assorbito e contribuisce a riscaldare l’asteroide. Anche questo dato contribuirà a prevedere il comportamento futuro dell’asteroide. Il ciclo di leggerissimi riscaldamenti e raffreddamenti del piccolo corpo spaziale, dovuti alla sua rotazione e alla diversa distanza dal sole, induce infatti nel lungo periodo dei piccoli cambiamenti nell’orbita dell’asteroide, un fenomeno noto come effetto Yarkovsky.
A questo proposito vale la pena di ricordare che, proprio basandosi su questo effetto e sulle caratteristiche di Apophis, lo scorso anno uno studente del Massachusetts Institute of Technology aveva avuto un’idea per eventualmente deviare la traiettoria dell’asteroide: dipingerlo di bianco. Questa originale strategia è risultata vincitrice del 2012 Move an Asteroid Technical Paper, una competizione annuale sponsorizzata dallo Space Generation Advisory Council delle Nazioni Unite. Niente imbianchini spaziali: le 5 tonnellate di “vernice” necessarie sarebbero lanciate verso l’asteroide sotto forma di paintball.
Un’altra bella congiunzione tra Luna e Giove la notte tra il 21 e il 22 gennaio. Il massimo avvicinamento si avrà verso le 2:30 del mattino, quando la Luna sarà sotto il pianeta (in un riferimento altazimutale) di circa 2° e i due oggetti saranno prossimi all’orizzonte ovest. Meraviglioso il campo di stelle circostante (le Iadi, le Pleiadi…), anche se un po’ offuscato dall’eccesso di luminosità del nostro satellite.
Alcune immagini dell'inverno marziano scattate da MRO. Crediti: NASA/JPL-Caltech
Una candida coperta di neve trapuntata di pini scuri, una distesa di dune rosate increspate dalla brina mattutina, la superficie ghiacciata di un lago dove sono visibili i primi segni di scongelamento. Potrebbero sembrare immagini scattate dall’alto di meravigliosi paesaggi invernali raccolti in vari punti del nostro sorprendente pianeta. Ma la verità è che le immagini che state guardando non vengono dal nostro pianeta. Protagonisti dei ritratti di oggi sono Marte e i cambiamenti sulla sua superficie causati dal passare delle stagioni, ripresi dall’alto dalla camera ad alta risoluzione della missione Mars Reconnaissance Orbiter.
Alcune immagini dell'inverno marziano scattate da MRO. Crediti: NASA/JPL-Caltech
Proprio come sulla Terra, la causa primaria di questi paesaggi più o meno invernali è il cambiamento di temperatura dovuto all’avvicendarsi delle stagioni. All’arrivo dell’inverno, l’abbassamento della temperatura causa la precipitazione dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera marziana, provocando vere e proprie nevicate di ghiaccio secco e altri fenomeni associabili agli inverni terrestri. Questi fenomeni sono stati recentemente osservati e descritti daun interessante articolopubblicato nel Journal of Geophysical Research. Tuttavia, la spiegazione scientifica del fenomeno non rende meno stupefacenti i paesaggi raccolti in questo album e inviati recentemente dalla MRO,la missione NASA lanciata nel 2005 e tuttora in orbita intorno a Marte.
Grazie alle indicazioni del team del JPL, possiamo descrivere il contenuto delle immagini, partendo dall’angolo in alto a sinistra e procedendo in senso orario.
Nella prima immagine, l’anidride carbonica presente nell’atmosfera marziana si è condensata in ghiaccio per l’arrivo dell’inverno e si è depositata sulla superficie, formando una distesa innevata simile ad una pista da sci non battuta. Il ghiaccio secco sublimerà di nuovo in primavera.
La seconda fotografia è realizzata al polo sud, dove le temperature sono tali da far sopravvivere del ghiaccio in forma solida per tutto l’anno marziano. Le strutture circolari dell’immagine possono essere interpretate come dei particolari iceberg marziani, delle pozze dal fondo piatto i cui bordi appaiono brillanti a causa dello scongelamento del ghiaccio.
Nella terza immagine, realizzata al polo nord, è invece visibile l’arrivo della primavera. Quelli che potrebbero sembrare pini scuri sulla neve non sono altro che tracce lasciate dall’anidride carbonica che, sciogliendosi, evapora e lascia intravedere il terreno scuro al di sotto.
L’arrivo della primavera è protagonista anche della quarta immagine, dove la crosta di ghiaccio che ricopre le dune durante l’inverno inizia a fessurarsi. La sabbia viene soffiata sopra al ghiaccio formando dei depositi o lasciando tracce scure in corrispondenza delle fessure.
Infine nell’ultima immagine sono inquadrate le dune ondulate della terra Aonia nell’emisfero sud all’arrivo dell’inverno, quando il ghiaccio inizia appena a ricoprire il lato delle dune rivolto verso il polo sud.
Per gli appassionati, altri spettacoli invernali sono presentati in questo imperdibile album del JPL. Uno dei souvenir più interessanti che sia mai stato riportato da una vacanza invernale nell’intero sistema solare.
SKYLAUNCH – Ogni secondo giovedì del mese.
Partiremo a bordo dei razzi che hanno dato il via alle principali missioni di esplorazione del Sistema Solare ripercorrendone il lancio, fino alle scoperte, con Stefano Capretti.
10.01: “L’avvio dell’era spaziale: la Terra vista da fuori”.
http://telescopioremoto.uai.it/
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Un meteorite così, da Marte, non era mai arrivato. NWA 7034 (le lettere stanno per North West Africa, visto che è stato raccolto in Marocco) è infatti diverso da ognuno dei 110 campioni di meteoriti provenienti dal pianeta rosso finora raccolti sul nostro pianeta. In compenso, assomiglia molto a quelli analizzati dai rover che hanno raggiunto Marte negli ultimi anni.
I ricercatori che lo hanno analizzato, guidati da Carl Agee dell’Università del New Mexico, scrivono su Science di questa settimana che NWA 7034 proviene probabilmente dalla crosta marziana (lo strato più esterno del pianeta, a contatto con l’atmosfera) a differenza degli altri campioni finora raccolti sulla Terra.
NWA 7034 ha un contenuto d’acqua che è di un ordine di grandezza superiore a quello di tutti gli altri meteoriti marziani (noti come SNC, dalle località di Shergotty, Nakhla, e Chassign dove sono stati rinvenuti i rappresentanti più significativi): circa 6000 parti di acqua per milione, acqua che potrebbe venire da una sorgente vulcanica o da una falda superficiale. In ogni caso, doveva esserci acqua in superficie su Marte fino al momento in cui questo meteorite ha interagito con l’atmosfera, circa 2,1 miliardi di anni fa (quello che si chiama “primo periodo amazzoniano” nella storia geologica marziana). Inoltre, come spiega Andrew Steele della Carnegie Institution (uno degli autori), “la sua composizione è diversa da quella di tutti i meteoriti SNC. È fatto di frammenti di basalto cementati, un tipo di roccia che si forma dal rapido raffreddamento della lava in presenza di attività vulcanica. Questa composizione è molto comune nei campioni lunari, ma non in quelli marziani. La sua composizione chimica insolita suggerisce che provenga dalla crosta. L’analisi del carbonio suggerisce anche che il meteorite abbia subito processi secondari sulla superficie marziana, il che spiegherebbe la presenza di macromolecole di carbonio organico”.
Di certo, notano gli autori, NWA 7034 è il primo meteorite ad avere una composizione coerente con le misurazioni fatte sulla superficie marziana da rover come Spirit, o dallo spettrometro della missione Odissey; cosa che non si può proprio dire ti tutti i meteoriti SNC, che devono provenire o da altre zone del pianeta o da altri strati.
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