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L’astronomia e l’ottica di Leonardo da Vinci

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Nell’ambito delle sue ricerche astronomiche anche la Luna occupa un posto rilevante, tanto da fargli vagheggiare un grande trattato sul nostro satellite. La lettura delle note sulla Luna (Manoscritto Br. M. , f. 94r) evidenzia la modernità del approccio multidisciplinare: “Volendo io trattare della essenza della Luna è necessario in prima…” spiegare la teoria degli specchi piani e gli effetti della riflessione della luce, senza la quale rimarrebbero avvolti nel mistero i fenomeni lunari, come, ad esempio, la luce cinerea.
Il trattato lunare è, all’apparenza, uno dei soliti grandiosi, ma inconcludenti, progetti di Leonardo: questa volta però sostenuto da elementi di teoria ottica di indubbio interesse.
Infatti, in un’altra parte del stesso manoscritto (Manoscritto Br. M., f. 28r) Leonardo si interroga: “o la Luna à lume da se, o no: s’ell’à lume da se, perché non risplende sanza l’aiuto del Sole? E s’ella non à lume da se, necessità la fa specchio sperico [sferico]”.

Poi combatte le opinioni dei seguaci del filosofo greco Posidonio, secondo i quali essa risplende di luce propria: “la Luna non è luminosa per se, ma bene è atta a ricevere la natura della luce a similitudine dello specchio e dell’acqua, o altro corpo lucido” (manoscritto A., f. 64r). Ora, non avendo lume proprio, riceve da altri la luce (cioè dal Sole, Codice Leicester, f. 30r).
Ne consegue che anche la luce cinerea è dovuta ad un fenomeno di riflessione multipla della luce solare la quale, dopo aver colpito il nostro pianeta, in piccola parte raggiunge la Luna e da questa viene a sua volta riflessa (Codice Leicester, f. 2r).
In altri passi del Codice Atlantico (f. 83r) Leonardo discute la diversa natura dei raggi solari da quelli lunari ma, allo stesso tempo, ritiene che se questi ultimi fossero raccolti da uno specchio concavo, brucerebbero esattamente come quelli solari: “se il razzo refresso [raggio riflesso] dal simulacro del Sole ne l’acqua è raccolto collo specchio concavo, esso, poi che sia refresso da tale specchio, brucerà; il simile farà quel del plenilunio”. L’idea di Leonardo di rilevare il “calore” lunare non cadde nel vuoto. Un secolo dopo, Santoro Santorio (1561-1636) focalizzò con uno specchio sferico la luce lunare su di un termometro galileiano e, nel 1685, lo stesso feceGeminiano Montanari (1633-1687) che usò uno specchio ustorio e un termometro di “moto assai delicato”.
Le esperienze di Santorio e di Montanari, che si muovevano nella scia di Leonardo, erano sì importanti, ma i dispositivi che essi realizzarono erano troppo primitivi per misurare una grandezza così piccola. Il primo ad aver successo fu il fisico Macedonio Melloni che nel 1846 utilizzò un sensibile termomoltiplicatore di sua invenzione.
Per Leonardo la Luna è una massa solida, opaca e “greve” che, circondata dai suoi elementi (aria, acqua e fuoco), si sostiene nello spazio per le stesse ragioni per le quali vi si mantiene la Terra. Essa è a tutti gli effetti una piccola Terra (come scrive nel Manoscritto F., f. 64v) con un brevissimo ciclo stagionale: “ale: “à ogni mese un verno e una state, e à maggiori freddi e maggiori caldi, e suoi equinozi son più freddi de’ nostri” (Codice Atlantico, f. 303v b).
Un aspetto della Luna che stimola la sua curiosità è la natura delle macchie scure (quelli che per noi oggi sono i “mari” e gli “oceani”). In diversi Codici non accetta l’opinione di coloro che credono che tali macchie siano dovute a vapori che si innalzano dalla superficie lunare, perché, semplicemente, esse dovrebbero continuamente mutare d’aspetto e posizione (Manoscritto F., f. 84r). In un’altra annotazione, però, si smentisce e sembra disposto ad ammettere che la diversità degli aspetti delle macchie possa anche dipendere dai corpi nuvolosi che si elevano dal mare: “se terrai osservate le particelle delle macchie della Luna, tu troverai in quelle spesse volte gran varietà, e di questo ho fatto prova io medesimo disegnandole” (Manoscritto Br. M., f.19r).
Leonardo pensa che sulla Luna vi sia acqua e che i suoi mari siano agitati da onde e che: “è necessario ch’l corpo della Luna abbia terra, acqua e foco” (Codice Atlantico, f. 112v a). La Luna non è quindi una sfera tersa e ben pulita, bensì scabra e aspra e le disuguaglianze della sua superficie sono prodotte dall’incresparsi ed agitarsi delle onde dei mari che, almeno in parte, la ricoprono.
Uno dei suoi disegni lunari, contenuto nel Codice Atlantico (f. 674v), è stato datato da G. Reaves (della University of Southern California) tramite l’effetto della librazione sulle macchie lunari (la librazione è quella lieve oscillazione apparente della Luna attorno al proprio asse).
Nel disegno, Reaves riscontrò che la posizione dei mari suggeriva una librazione in latitudine di 7° e di -2° in longitudine. Per trovare la data corrispondente a questi due valori fu necessario calcolare la librazione lunare tra il 1507 e il 1515. La conclusione dell’analisi di Reaves indica che esso fu eseguito tra il 14 novembre e il 12 dicembre 1513.

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