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Il Deserto di Dreven

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Inutile negarlo: eravamo convinti che l’idea di farvi interpretare l’augusto ruolo di un potente Ambasciatore Galattico vi sarebbe piaciuta molto, ma a giudicare dalle risposte ricevute dobbiamo proprio ricrederci. Così siamo ancora qui, a domandarci se il magro esito del quiz del mese scorso dipenda da un’innata antipatia nei confronti della diplomazia o da un’assoluta idiosincrasia nei riguardi del calcolo delle probabilità. In ogni caso, ci sembra di capire che la vostra visione del resto dell’universo sia maggiormente solleticata dall’epica visione di un’avventurosa esplorazione piuttosto che da una burocratica nnessione politica. Anche se il nostro spirito eternamente adolescenziale è pienamente d’accordo con voi, la nostra noiosa razionalità tende a ricordarvi che di solito gli ambasciatori lasciano questa valle di lacrime in veneranda età e dopo vita agiata e densa di soddisfazioni, mentre per gli avventurosi esploratori il motivo della dipartita è quasi sempre catalogato sotto la voce “incidente sul lavoro”, e le due date incise sulle lapidi sono quasi sempre vicine in modo preoccupante.
E’ anche vero che esistono intere discipline dedicate al tentativo di ridurre questi “incidenti sul lavoro”, e quasi tutte queste novelle scienze pongono particolare attenzione al concetto di “pianificazione”; non di meno, in alcuni casi la pianificazione sembra essere decisamente complessa. Un problema classico in questo campo è quello dell’attraversamento del deserto. La matematica necessaria alla sua risoluzione è assolutamente elementare: quel che serve in casi come questi è soprattutto una sana mentalità organizzativa.
Supponiamo allora di essere atterrati su Dreven, pianeta da poco colonizzato dove risiede un’amichevole razza di indigeni con la quale siamo riusciti ad entrare in comunicazione. L’atterraggio è avvenuto ai bordi di un deserto di dimensioni considerevoli: gli autoctoni (che non hanno generato una civiltà tecnologica, ma che sono tutt’altro che sprovveduti: sono creature prevalentemente contemplative) ci hanno infatti detto che è largo 0,8 “drevenet”. Il drevenet è una loro misura di lunghezza, e il significato letterale della parola potrebbe tradursi con “planetario”. I nostri indigeni contemplativi l’hanno scelta in modo tale che la superficie del pianeta, espressa in “planetari quadrati”, sia esattamente uguale al volume dello stesso espresso in “planetari cubici”. Beh, drevenet o planetari che dir si voglia, non ci abbiamo davvero messo molto a capire che 0,8 drevenet di deserto non sono affatto uno scherzo, anche perché l’autonomia dei nostri VOLPE (Veicoli d’Ordinanza della Legione Pianeti Extrasolari: dei grossi camion, in pratica) è di mezzo drevenet esatto.
I VOLPE non possono trasportare carburante oltre a quello che trova spazio nell’apposito serbatoio. E’ però possibile “estrarne” una parte e lasciarla, accuratamente protetta, lungo la strada del deserto, creando così dei depositi intermedi. L’obiettivo è quello di raggiungere la nostra seconda base dall’altra parte del deserto (anche arrivando a serbatoio completamente asciutto), per consegnare posta e rifornimenti. Come organizzate la sequenza dei depositi per attraversare il deserto nel minor tempo possibile? E quanti drevenet percorrerete, in totale? (Per favore, mandateci la soluzione espressa in chilometri, se potete: anche se Dreven ha le stesse identiche dimensioni di Marte, noi facciamo sempre fatica a cambiare unità di misura…)
Mentre stavamo pianificando la traversata del deserto, il vecchio sergente si è messo a ricordare del problema analogo affrontato su Verten, un pianeta totalmente coperto dalle acque. In quel caso la missione era di natura scientifica, e occorreva fare l’intero giro intero del pianeta (sorvolandone per intero l’equatore) per becere misurazioni astronomiche. Naturalmente, quella missione era equipaggiata non con dei VOLPE, ma con dei VESPA (Velivoli per l’Esplorazione Stanziale dei Pianeti Acquatici)
Ne avevano a disposizione un buon numero ma, come sempre, c’erano delle limitazioni logistiche mica da poco. I VESPA sono infatti in grado di decollare e di atterrare solo da una piattaforma apposita (e ne avevano sistemata una sola su quel pianeta, proprio sull’equatore) e, anche se sono in grado di effettuare il rifornimento in volo, la capacità del loro serbatoio è tale da permettere di effettuare solo metà del giro del pianeta: senza rifornimenti, arrivati agli antipodi della piattaforma si sarebbero ritrovati a secco.
Il sergente rideva come un matto, nel raccontare la storia, perché i VESPA costano quanto un motore gravitazionale, e ciononostante ci fu chi propose un metodo che prevedeva di far schiantare in mare alcuni VESPA pur di far completare il giro del pianeta ad uno di essi. Ci volle un po’, per convincere il comandante della missione che non era necessario sacrificare alcun velivolo. Avete un’idea di come ci siano riusciti?