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C’è un’emozione particolare nel puntare il telescopio non verso una nebulosa o una galassia lontana, ma verso un altro strumento, un gioiello della tecnologia umana che a sua volta scruta l’Universo: il James Webb Space Telescope (JWST). L’idea di poterlo immortalare dalla Terra, a 1,5 milioni di chilometri di distanza, può sembrare quasi irrealizzabile. Eppure, con costanza, tecnica e un pizzico di fortuna, questa sfida può essere vinta anche da un astrofilo appassionato.
Principi Astronomici di Base
Il JWST orbita nel punto lagrangiano L2, una posizione stabile ma non fissa, a differenza dei satelliti geostazionari. Questo significa che la sua luce è estremamente debole, intorno alla magnitudine apparente 22: un livello che richiederebbe ore di esposizione e strumenti professionali di grande diametro. Ma qui sta la sfida: riprenderlo non come una sorgente fissa, ma coglierne i riflessi, i cosiddetti flare, quando i suoi pannelli solari e le superfici riflettenti, combinando perfettamente orientazione e posizione, inviano verso la Terra un lampo luminoso di pochi secondi.
Come gli storici flare dei satelliti Iridium, anche il JWST può occasionalmente regalare improvvisi balzi di luminosità, portandosi ben al di sopra della sua magnitudine media e divenendo accessibile a strumenti amatoriali. Fotografarlo significa avere pazienza, conoscere le tecniche giuste e, soprattutto, lasciarsi guidare dall’entusiasmo di inseguire un obiettivo che unisce scienza, passione e un pizzico di avventura.
Per comprendere la difficoltà della ripresa, bisogna ricordare alcuni concetti essenziali. La magnitudine apparente misura la luminosità degli oggetti celesti visti dalla Terra: più il numero è alto, più l’oggetto è debole. Un astro di magnitudine 22 è praticamente invisibile per strumenti amatoriali e richiede grandi telescopi e lunghe esposizioni.
Il problema, però, è che il JWST non è fermo. Si muove rispetto alle stelle di fondo e questo movimento impedisce di accumulare lunghe esposizioni senza vederlo “spostarsi” nel campo. Dopo 10–20 secondi, a seconda della focale, l’oggetto non si trova più nella stessa posizione e non può essere sommato come una galassia o una nebulosa. Di conseguenza, nella pratica amatoriale tradizionale, non si fotografa il Webb alla sua luminosità media, ma si spera di coglierne un flare: un riflesso speculare che può portare la sua luminosità anche 5 magnitudini sopra il normale, rendendolo improvvisamente visibile.
Un paragone utile sono i satelliti Iridium, che negli anni 2000 hanno stupito migliaia di appassionati con spettacolari bagliori: da una magnitudine tipica di 2–3 fino a picchi di –7 e oltre, visibili a occhio nudo e più brillanti di Venere. Un fenomeno raro ma documentato, che mostra quanto le riflessioni possano alterare la visibilità di un satellite.
Pianificare dell’Osservazione
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L’articolo è pubblicato in COELUM 277 VERSIONE CARTACEA















