Un'immagine di Herschel, sullo sfondo la regione di Vela C. L'immagine di fondo è stata realizzata grazie agli strumenti PACS e SPIRE, dati raccolti alle lunghezza d'onda del rosso, del verde e del blu. Il nord è sulla destra e l'est verso l'alto. ESA/PACS & SPIRE Consortia, T. Hill, F. Motte, Laboratoire AIM Paris-Saclay, CEA/IRFU – CNRS/INSU – Uni. Paris Diderot, HOBYS Key Programme Consortium
Un'immagine del telescopio spaziale, sullo sfondo la regione di Vela C. L'immagine di fondo è stata realizzata grazie agli strumenti di Herschel: PACS e SPIRE. Dati raccolti alle lunghezza d'onda del rosso, del verde e del blu; il nord è sulla destra e l'est in alto. Crediti: ESA/PACS & SPIRE Consortia, T. Hill, F. Motte, Laboratoire AIM Paris-Saclay, CEA/IRFU – CNRS/INSU – Uni. Paris Diderot, HOBYS Key Programme Consortium
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L’osservatorio spaziale Herschel dell’ESA ha esaurito, come previsto, la scorta di elio liquido raffreddante, portando a conclusione oltre tre anni di osservazioni pionieristiche dell’universo freddo.
Una storia illustrata sulla formazione stellare. In questa immagine mozzafiato, ripresa da Herschel nell'infrarosso, vediamo reti intricate di polvere e densi filamenti di gas in IC5146, nella nostra Via Lattea. Crediti: ESA/Herschel/SPIRE/PACS/D.
“Herschel ha superato tutte le aspettative, fornendo un incredibile forziere pieno di dati che terranno gli astronomi occupati per molti anni a venire” ha detto il Prof. Alvaro Giménez, Direttore ESA di Scienza ed Esplorazione Robotica.
“Ci ha offerto una nuova visione dell’Universo finora celata, indicandoci processi prima sconosciuti di nascita delle stelle e di formazione delle galassie, e ci ha permesso di seguire le tracce d’acqua attraverso l’Universo: dalle nubi molecolari alle stelle appena nate, dai loro dischi di formazione planetaria alle cinture di comete”, spiega Göran Pilbratt, scienziato del progetto Herschel dell’ESA.
L’evento non è inaspettato: la missione è cominciata con oltre 2300 litri di elio liquido che è evaporato lentamente da quando fu effettuato il rifornimento finale il giorno prima del lancio di Herschel, avvenuto il 14 maggio 2009. L’elio liquido era essenziale per raffreddare gli stumenti dell’osservatorio spaziale ed avvicinarsi allo zero assoluto, dando modo ad Herschel di effettuare fino a ieri osservazioni scientifiche altamente sensibili dell’universo freddo.
La conferma che l’elio si è definitivamente esaurito è arrivata il 29 aprile, nel pomeriggio, all’inizio della sessione giornaliera di comunicazione della navicella con la stazione a terra nell’Australia occidentale, con un evidente aumento delle temperature rivelato in tutti gli strumenti di Herschel.
14 maggio 2009: il lancio a bordo dell'Ariane 5. Crediti: ESA/CNES/ARIANESPACE - Photo Optique Video CSG, P. Baudon, 2009
Ha effettuato oltre 35.000 osservazioni scientifiche, accumulando più di 25.000 ore di dati scientifici da oltre 600 programmi di osservazione. Ulteriori 2.000 ore di osservazioni di calibrazione hanno inoltre contribuito ad arricchire il set di dati, custodito presso il Centro Europeo di Astronomia Spaziale dell’ESA, vicino a Madrid, in Spagna.
L’archivio diverrà l’eredita della missione. Senza dubbio contribuirà ad un numero di scoperte maggiore di quante ne sono state effettuate durante il periodo di vita della missione.
NGC 6240, un sistema formato da due galassie a spirale in collisione a circa 330 milioni di anni luce da noi. I dati di Chandra (in raggi X, che danno la colorazione porpora all'immagine) sono stati combinati con le immagini nell'ottico raccolte da Hubble.
NGC 6240, un sistema formato da due galassie a spirale in collisione a circa 330 milioni di anni luce da noi.
Il telescopio spaziale in raggi X Chandra, della NASA, ha permesso a un gruppo di ricercatori (tra cui molti italiani) di comporre uno straordinario ritratto di un’enorme nube di gas caldo che avvolge due grandi galassie in collisione. Questo grande serbatoio di gas contiene materiale pari a circa 10 miliardi di masse solari, si estende per circa 300.000 anni luce, ed emette radiazioni ad una temperatura di oltre 7 milioni di gradi Kelvin.
Questa gigantesca nube di gas, che gli scienziati chiamano “halo”, alone, si trova nel sistema NGC 6240, già ben noto alle cronache astronomiche. Si sa da tempo che in quel punto si stanno fondendo due grandi galassie a spirale di dimensioni simili alla nostra Via Lattea. Ognuna delle due galassie contiene un buco nero supermassiccio al suo centro. I due buchi neri potrebbero finire per fondersi per formare un buco nero più grande.
Nell’immagine composita di NGC 6240, le rilevazioni in raggi X di Chandra, che rivelano la nube di gas caldo, sono di colore porpora. Questi dati sono stati combinati con i dati ottici del telescopio spaziale Hubble, che mostrano le lunghe “code” delle galassie si fondono, che si estendono nella parte inferiore destra e in quella inferiore dell’immagine.
Oltre al disfacimento della forma a spirale, un’altra conseguenza della collisione tra le due galassie è che il gas contenuto in esse è stato violentemente rimescolato, causando un “boom” di nascita di nuove stelle che dura da almeno 200 milioni di anni. Durante questa esplosione di nascita stellare, alcune delle stelle più massicce hanno avuto un’evoluzione accelerata, esplodendo in tempi relativamente brevi come supernove. Secondo i ricercatori, queste esplosioni hanno disperso grandi quantità di elementi come ossigeno, neon, magnesio, silicio nel gas caldo delle galassie, e questo gas arricchito si è lentamente espanso mescolandosi con il gas più freddo che già esisteva. Durante il baby boom prolungato, si sono verificate anche esplosioni più brevi di formazione stellare. Per esempio, la più recente esplosione di formazione stellare è durata per circa cinque milioni di anni, e si è verificata circa 20 milioni di anni fa. Ma gli autori non pensano che il gas caldo sia stato prodotto tutto in questa raffica più breve.
Primo autore dellostudio (pubblicato su The Astrophysical Journal) è Emanuele Nardini, al momento alla Keele University in Gran Bretagna ma laureatosi a Firenze. Tra gli autori anche Guido Risaliti dell’Osservatorio Astronomico di Arcetri dell’INAF, che spiega a Media Inaf: “la sorgente attorno a cui abbiamo trovato questo alone non è un oggetto qualsiasi. E’ un sistema di due galassie interagenti in cui si distinguono ancora molto bene i due nuclei, in entrambi i quali c’è un AGN attivo. E’ stato il primo caso in cui, nel 2003, si è osservato questo doppio AGN. Ora abbiamo visto anche questo enorme alone X, e viene naturale associarlo alla collisione in corso. La cosa che ci interessa di più è che quello che vediamo in questo oggetto dovrebbe essere il processo di formazione tipico delle galassie ellittiche. A lungo andare, la morfologia caotica che vediamo in questo momento dovrebbe rilassarsi e nascere una galassia ellittica. E siccome si stima che il tempo di raffreddamento dell’alone sia di miliardi di anni, esso dovrebbe esserci ancora quando la trasformazione nella galassia ellittica sarà completata.
Di certo, la collisione offre l’opportunità di assistere a una versione di un evento che era comune nell’Universo primordiale, quando le galassie erano molto più vicini e uniti più spesso relativamente vicino.
La cartina di questo mese è centrata sul confine tra Chioma di Berenice, Vergine e Leone, nella regione in cui si addensano le galassie dell'ammasso della Vergine-Coma. La più massiccia di queste è appunto M87, una ellittica gigante la cui posizione è indicata dal rettangolo giallo, lungo circa 2,2°.
La cartina di questo mese è centrata sul confine tra Chioma di Berenice, Vergine e Leone, nella regione in cui si addensano le galassie dell'ammasso della Vergine-Coma. La più massiccia di queste è appunto M87, una ellittica gigante la cui posizione è indicata dal rettangolo giallo, lungo circa 2,2°.
Ci sono oggetti deep-sky che pur senza avere molto da dire suscitano comunque rispetto negli osservatori, anche per il solo fatto di essere percepiti come una parte del grande romanzo cosmico; altri inducono invece a una stupefatta ammirazione, anche quando (come nel caso dell’oggetto di cui stiamo per parlare) l’osservatore si trova al cospetto di una galassia amorfa e praticamente “senza volto”, ovvero senza molti particolari su cui passare le notti. È il caso di M87, l’enorme ellittica che domina il grande ammasso della Vergine; impenetrabile nella sua maestosità, eppure unica nel suo genere per il fatto di nascondere qualcosa che solo in pochi riescono a vedere.
Per approfondire leggi tutti i dettagli e i consigli per l’osservazione, i cenni storici, le immagini e le mappe dettagliate, nell’articolo tratto dalla Rubrica Nel Cielo di Salvatore Albano presente a pagina 54 diCoelum n. 170.
03.05: “La spettrometria: i colori delle stelle”. Al telescopio: Saturno, l’ammasso stellare M13 e le galassie nella Vergine.
Per info: 346.8699254 astrofilicentesi@gmail.com
www.astrofilicentesi.it
Una Costellazione sopra di Noi – Ogni primo venerdì del mese, a cura di Giorgio Bianciardi (vicepresidente UAI).
Osservazioni in diretta con approfondimenti dal vivo. 03.05: La Costellazione della Vergine
SN J2013bj (A.R. 14 14 19.63, Dec. -07 03 06.9), scoperta il 4 aprile 2013 nella galassia pgc 50171 (offset 21E 12S), magnitudine 18.0, tipo II (Atel 4975). SN scoperta da Simone Leonini, L.M. Tinjaca Ramirez, G. Guerrini and P. Rosi con il telescopioRitchey Chretien da 53 cm di diametro dell'osservatorio di Montarrenti (Siena).
Il Tripletto del Leone, composto da M66, NGC3628 e M65: una stupenda galassia a spirale barrata in cui è esplosa la supernova SN2013am. Cortesia: Maurizio Cecchini
Quando una supernova esplode in una delle galassia incluse nel catalogo Messier – che raccoglie oggetti relativamente vicini – è una fortuna perché possiamo essere certi di poter quasi sempre ammirare un oggetto che raggiungerà una notevole luminosità.
Fonte www.rochesterastronomy.org
Non tutte le galassie presenti nel catalogo di Messier (40, distanti dai 2500 ai 68 milioni di anni luce, di luminosità compresa tra la mag. +4,5 e +11,5) hanno però ospitato una supernova, per lo meno in tempi moderni, da quando cioè è iniziata l’osservazione sistematica di queste esplosioni. Dall’inizio dello scorso secolo, ad esempio, non sono mai state scoperte SN in M33 – la Grande Galassia del Triangolo – o in M64 nella Chioma di Berenice; mentre sono molte le galassie che hanno ospitato numerose supernovae: 25 le galassie Messier (su 40) in cui sono state finora scoperte 54 SN.
Le più prolifiche sono state M61 nella Vergine e M83 nell’Idra con il record di ben sei supernovae ciascuna, seguite in questa classifica celeste da M100 nella Chioma di Berenice con cinque eventi.
Eventi di tipo I possono infatti lasciare un ricordo indelebile in chi segue con passione questo tipo di ricerca. Anche eventi di tipo II, che si collocano un paio di magnitudini più in basso, sono comunque di notevole interesse. Basti pensare alla supernova dell’anno passato la SN2012aw esplosa nella galassia M95 (distante 33 milioni di anni luce) di tipo IIP che raggiunse la magnitudine +13. Non sempre però questa regola è rispettata in pieno.
Lo scorso marzo, il giapponese Sugano ha messo a segno un bel successo, se non altro dal punto di vista estetico. La galassia ospite della SN da lui scoperta è infatti non solo uno degli oggetti più belli del catalogo Messier ma anche una componente del Tripletto del Leone. Cortesia Maurizio Cecchini.
Dallo scorso 21 marzo il numero di queste galassie ospiti è salito a 26: l’astrofilo giapponese Matsuo Sugano ha infatti scoperto la SN 2013am in M65 (NGC 3623) uno dei membri del Tripletto del Leone. Al momento della scoperta la supernova (di tipo II identificata pochi giorni dopo l’esplosione) mostrava una magnitudine pari a +15,6 che nelle settimane successive è salita a +16.
M65 è una stupenda galassia a spirale barrata con una rilevante formazione lenticolare centrale e sottili braccia a spirali, oltre ad un’evidente banda di polveri; ha un diametro di circa 100.000 anni luce, paragonabile a quindi quello della nostra Via Lattea, da cui dista circa 35 milioni di anni luce: perciò, se la luce della SN 2013am non fosse stata assorbita dalle polveri presenti lungo la linea di vista, questa supernova avrebbe potuto raggiungere una luminosità decisamente superiore di un paio di magnitudini.
Questa supernova inoltre avrebbe potuto vestire anche i colori italiani. Nella solita notte della scoperta, poco meno di sei ore dopo il giapponese, il toscano di Montalcino Maurizio Cecchini riprendeva la galassia con la supernova, ma poiché il Cecchini si interessa principalmente di deep sky (con ottimi risultati) ma non fa ricerca di supernovae, non aveva controllato immediatamente l’immagine lasciando passare un paio di giorni. Peccato perché un’immediata segnalazione della presenza della supernova gli avrebbe fruttato l’assegnazione della “indipendet discovery” e siamo sicuri che avrebbe brindato al successo con un buon bicchiere di Brunello. Rimane comunque per lui la soddisfazione di avere ottenuto la seconda immagine in assoluto di questa importante supernova.
Ad onor di cronaca, una scoperta indipendente c’è stata davvero ed anche di alto valore.
Nella stessa notte in cui Sugano e Cecchini riprendevano M65 il programma professionale denominato “Intermediate Palomar Transient Factory” che vede impegnate numerose università americane, svedesi, israeliane e taiwanesi riprendeva la galassia con il telescopio Oschin Schmidt di 1,20 metri al Palomar Observatory ed il software automatico di ricerca segnalava la presenza della supernova oramai scoperta ufficialmente dal giapponese. Dimostrazione questa che con la costanza e la rapidità gli astrofili anche se muniti di piccole strumentazioni possono battere sul tempo i professionisti.
SN J2013bj, scoperta il 4 aprile 2013 nella galassia pgc 50171, scoperta da Simone Leonini, L.M. Tinjaca Ramirez, G. Guerrini and P. Rosi con il telescopioRitchey Chretien da 53 cm di diametro dell'osservatorio di Montarrenti (Siena).
Nella notte del 4 aprile S.Leonini, L.M. Tinjaca Ramirez, G. Guerrini e P. Rosi dell’Osservatorio di Montarrenti (SI) uno degli otto osservatori che compongono il programma di ricerca amatoriale ISSP, scoprono con un Ritchey-Chretién da 53 cm una supernova nella piccola galassia a spirale PGC 50171 distante circa 400 milioni di anni luce da noi, nella costellazione della Vergine, pochi gradi a ovest di Spica.
Essendo la supernova di luminosità intorno alla mag. +18, appena visibile in una singola immagine della sessione osservativa, gli amici di Siena chiedono aiuto all’astrofilo australiano J. Brimacombe che ottiene una ulteriore immagine di conferma. Perciò nella notte del 6 aprile decidono di riprendere un’immagine di conferma in remoto con un telescopio di 43 cm posto a Mayhill nel New Messico.
Il 12 aprile, con il telescopio di 2,3 metri del Siding Spring Observatory in Australia, è stato ripreso lo spettro classificando la supernova di tipo II scoperta ben 5-6 settimane dopo il massimo di luminosità.
Fonte IAU (www.cbat.eps.harvard.edu/lists/RecentSupernovae.html)
Alcuni impatti tra gli anelli di Saturno osservati nel 2009 e 2012 dalla sonda Cassini-Huygens. Crediti: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute/Cornell
Un fenomeno abituale, che avviene in tutto il sistema solare. Tuttavia, fino ad oggi i ricercatori erano riusciti ad osservarlo in diretta solo sulla Terra, sulla Luna e su Giove. Nessun altro impatto di meteoroide (come si chiamano i piccoli frammenti rocciosi o metallici che vanno in giro per il sistema solare) era stato osservato dal vivo. Come dire, con la pistola ancora fumante. Grazie ai dati catturati dalla sonda Cassini negli ultimi anni, arrivano le prime immagini che immortalano dal vivo il fenomeno tra gli anelli di Saturno. Ecco le meravigliose fotografie realizzate dalla sonda NASA-ESA-ASI, su cui si basa un articolo pubblicato lo scorso 25 Aprile sulla rivista Science.
Alcuni impatti tra gli anelli di Saturno osservati nel 2009 e 2012 dalla sonda Cassini-Huygens. Crediti: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute/Cornell
Nelle immagini del montaggio, raccolte a diverse riprese, sono chiaramente visibili le nuvole di polvere sollevate dagli impatti tra i piccoli meteroidi e le minuscole particelle che compongono gli anelli (le frecce evidenziano il fenomeno, qui la versione originale). Da sinistra in alto, in verso orario: 2 diverse immagini scattate nel 2009, a un giorno e due giorni di distanza da un impatto avvenuto nell’anello A. A seguire, sempre del 2009, le immagini scattate a qualche ora di distanza da due impatti nell’anello C e nell’anello B. L’ultima immagine infine, è stata realizzata nel 2012 e ritrae un evento avvenuto poche ore prima nell’anello C (vedi a questa pagina la disposizione degli anelli di Saturno).
La preziosità di queste immagini è anche dovuta alla difficoltà di riuscire a vedere gli effetti dell’impatto di un meteroide, un oggetto che in prossimità di Saturno si stima abbia dimensioni che vanno da qualche centimetro a pochi metri.
Il fenomeno è stato sapientemente messo in evidenza grazie alla scelta di realizzare le immagini in particolari condizioni di illuminazione degli anelli. Le prime 4 immagini sono infatti state scattate nel 2009, all’equinozio di Saturno quando la luce del Sole colpiva gli anelli quasi perfettamente di taglio. Un fenomeno che si ripete per il pianeta Saturno solo ogni 14,5 anni terrestri (metà anno del pianeta). L’ultima immagine, invece, è stata realizzata nel 2012 sfruttanto una particolare geometria di illuminazione, con un grande angolo tra la direzione Sole-Saturno e quella Saturno-Cassini. Un po’ come quanto si guarda un piano in controluce e la polvere su di esso diventa visibile.
I dettagli di queste e di altre osservazioni, avvenute tra il 2005 e il 2012 per un totale di 9 meteororidi osservati, sono stati raccolti in un recente articolo comparso sulla rivista Science, con prima firma Matt Tiscareno, della Cornell University e Participating Scientist di Cassini. L’importanza dello studio è evidente ed è sottolineata da Linda Spilker, Project Scientist di Cassini, che parla di una tecnica che ha trasformato gli anelli di Saturno in un efficace ed enorme “rivelatore di meteoroidi”, grande 100 volte la superficie della Terra, che ha permesso di stimare il tasso di impatti in un periodo relativamente breve.
Le ricadute scientifiche sono sorprendenti. Dice ancora Spilker: “I risultati di questo studio suggeriscono che il numero di impatti di piccole particelle deve essere confrontabile in prossimità della Terra e di Saturno, due luoghi molto diversi del sistema solare.” Un dato che sarà fondamentale per comprendere meglio i meccanismi di formazione degli anelli di Saturno, che alcuni scienziati, a causa della loro brillantezza, ritengono molto più giovani del pianeta stesso.
La simulazione nell'immagine mette in evidenza il disordinato e caotico alone di una galassia in piena attività di formazione stellare. Crediti: ESA, NASA, L. Calçada
Nell'illustrazione viene messo in evidenza il disordinato e caotico alone di una galassia in piena attività di formazione stellare. Gli effetti dovuti a questa enorme attività si estendono, a quanto pare, ben oltre quel che si pensava. Crediti: ESA, NASA, L. Calçada
L’accensione di una nuova stella è sempre accompagnata da un certo sconquasso nel suo ambiente circostante. Venti stellari e una intensa radiazione ultravioletta ‘spazzano’ letteralmente via i resti della culla di gas e polveri in cui si è formato l’astro. Capita però che, in certe galassie particolarmente attive, di nuove stelle se ne formino quasi contemporaneamente a milioni. È allora chiaro che questi venti, sommandosi, possono acquistare energie enormi, propagandosi in tutta la galassia ospite e interagendo con essa. E addirittura spingendo i suoi effetti anche oltre, arrivando a ionizzare il gas fino a 650.000 anni luce dal suo centro, ovvero più di venti volte più lontano della dimensione visibile della galassia stessa.
Sono questi in sintesi i risultati di un nuovo studio realizzato da un team internazionale di ricercatori in corso di pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal. È questa la prima prova osservativa degli effetti prodotti dalla forsennata accensione di nuove stelle – un processo che gli addetti ai lavori chiamano starburst – sul gas circostante la galassia che le ospita. Una interazione che può essere decisiva per regolare i processi evolutivi della galassia e sul tasso con cui continuerà a produrre nuovi astri.
“La materia che si estende oltre le galassie è davvero difficile da studiare, poiché è estremamente tenue” dice Vivienne Wild, dell’Università di St. Andrews, che ha partecipato al lavoro. “Tuttavia è estremamente importante, in quanto può rivelarci come le galassie si accrescono, trasformano massa ed energia e infine si estinguono. Stiamo davvero esplorando una nuova frontiera nell’evoluzione delle galassie!”
Il team ha analizzato con il Cosmic Origin Spectrograph (COS) a bordo del telescopio spaziale Hubble la luce proveniente da 20 galassie vicine, alcune delle quali note per la loro intensa attività di starburst. E proprio queste galassie sono state quelle dove più marcato è il fenomeno della ionizzazione nel gas che compone il loro alone, interpretato dai ricercatori come il risultato dell’impatto degli intensi venti stellari prodotti da giovani stelle.
Scontri così violenti, estesi e prolungati possono avere conseguenze notevoli nell’evoluzione delle galassie ospiti, che si accrescono fagocitando il gas presente nello spazio attorno ad esse e trasformandolo infine in nuove stelle. Poiché i venti stellari ionizzano quelle che sono le ‘riserve’ di gas attorno alle galassie, si riduce drasticamente la disponibilità del principale costituente delle nuove stelle, con la conseguenza di un crollo della natalità stellare.
“Gli starburst sono fenomeni fondamentali che non solo regolano l’evoluzione di una singola galassia, ma influenzano il ciclo della materia e dell’energia nell’intero universo” sottolinea Timothy Heckman, della Johns Hopkins University. “I gusci delle galassie sono l’interfaccia tra queste strutture e il resto dell’universo e stiamo iniziando ad esplorare in dettaglio quello che succede al loro interno”.
Nella tabella vengono forniti i dati di sorgere, transito e relativa altezza sull’orizzonte, e del tramonto dell'oggetto; quindi luminosità, distanza dalla Terra, elongazione rispetto al Sole, coordinate equatoriali calcolate per le ore 00:00 TMEC e costellazione. Gli istanti sono in TMEC (TU+2) e calcolati per una località situata a 12° di longitudine Est, 42° di latitudine Nord.
Il percorso apparente di Hebe in maggio. Il grande asteroide compirà con moto retrogrado un tratto di circa 6,5° sul confine tra Ofiuco e Serpente, arrivando all'opposizione geometrica il 23 maggio, giorno in cui raggiungerà la massima luminosità apparente del periodo (mag. +9,6). Le stelle cui fare riferimento per rintracciarlo abbastanza facilmente sono lambda Ophiuchi (mag. +3,9) e sigma Serpentis (mag. +4,8).
Mi dicono che lì da voi il tempo è stato talmente brutto da rovinare quasi completamente il passaggio della Pan-STARRS; figuriamoci quindi se qualcuno nei rari sprazzi di sereno si sarà dato pena di cercare anche i miei asteroidi… Comunque sia, come si dice qui da noi, “le stelle di ieri non ci sono mai state”; così, cerchiamo di pensare con ottimismo a quanto ci sarà da vedere in maggio, un mese in cui ci saranno ben sei asteroidi in opposizione più brillanti della mag. +11.
Nella tabella vengono forniti i dati di sorgere, transito e relativa altezza sull’orizzonte, e del tramonto dell'oggetto; quindi luminosità, distanza dalla Terra, elongazione rispetto al Sole, coordinate equatoriali calcolate per le ore 00:00 TMEC e costellazione. Gli istanti sono in TMEC (TU+2) e calcolati per una località situata a 12° di longitudine Est, 42° di latitudine Nord.
Leggi tutti i dettagli e i consigli per l’osservazione, nell’articolo tratto dalla Rubrica Asteroidi di Talib Kadori presente a pagina 68 di Coelum n.170.
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La sequenza dell’impatto della cometa Shoemaker-Levy
La sequenza dell’impatto della cometa Shoemaker-Levy
Che quell’acqua presente nella stratosfera di Giove fosse dovuta all’impatto della Cometa Shoemaker-Levy sul pianeta gassoso avvenuto nel 1994, lo aveva già ipotizzato uno studio condotto nel 1994 da Cristiano Cosmovici e Stelio Montebugnoli. Ora la conferma di quell’ipotesi giunge dal satellite dell’ESA, Herschel.
La sonda, lanciata nel 2009, ha utilizzato le sue accurate misure nell’infrarosso per mappare la distribuzione verticale e orizzontale della ”firma chimica dell’acqua” nell’atmosfera di Giove, fornendo i dati che hanno permesso agli astrofisici del Laboratoire d’Astrophysique de Bordeaux, di giungere alla definitiva conclusione che il 95% di quell’acqua è arrivata con la caduta della cometa nel 1994.
“Le osservazioni di Herschel a 18 anni di distanza sono una prima conferma della validità delle nostre pioneristiche osservazioni” ci dicono Cristiano Cosmovici, dell’INAF – IAPS e Stelio Montebugnoli, dell’INAF-IRA. “La scoperta – continuano – fu resa possibile grazie alla realizzazione a Medicina di uno spettrometro digitale che si basava sul calcolo diretto della FFT (Fast Fourier Transfom) dei dati ottenuti digitalizzando direttamente il segnale a radiofrequenza. Un approccio molto particolare per quei tempi, viste le grandi velocità di calcolo che erano richieste dal pre-processing on line, che permise una alta risoluzione temporale.
Le osservazioni vennero eseguite nel Luglio 1994 a 22 GHz, riga MASER dell’acqua, e hanno mostrato che l’esplosione dei 21 frammenti cometari nell’alta atmosfera liberava le molecole di acqua cometaria che venivano poi eccitate in modo da presentare una intensa emissione MASER”. Era questa la prima evidenza di emissione MASER, ben conosciuta nel mezzo interstellare, ma mai osservata nel sistema solare. Le osservazioni si protrassero per 3 mesi evidenziando il fatto che l’acqua si era distribuita nella zona di impatto andando man mano a diminuire di intensità.
Questa scoperta è stata poi usata come mezzo di diagnostica per la ricerca di acqua in esopianeti dato che a grandi distanze nella galassia solo una riga di intensità MASER sarebbe stata rilevabile con i radiotelescopi.
Altri articoli su impatti di comete e asteroidi su Giove:
Il percorso apparente della C/2012 F6 (Lemmon) dal 1 maggio al 15 giugno. La cometa sarà osservabile verso est un’ora prima la levata del Sole, quando si avrà il giusto compromesso tra la sua altezza sull’orizzonte e la condizione luminosa del cielo.
Il percorso apparente della C/2012 F6 (Lemmon) dal 1 maggio al 15 giugno. La cometa sarà osservabile verso est un’ora prima la levata del Sole, quando si avrà il giusto compromesso tra la sua altezza sull’orizzonte e la condizione luminosa del cielo.
Nel mese di maggio, mentre la Pan-STARRS starà più o meno concludendo la sua controversa apparizione, la C/2012 F6 (Lemmon) si appresterà finalmente ad esibirsi anche nel nostro emisfero, sia pure già notevolmente affievolita rispetto ai trascorsi australi. La Lemmon è arrivata al perielio il 24 marzo, avvicinando il Sole fino a una distanza di 0,73 Unità Astronomiche e tagliando nel frattempo l’equatore celeste,
dopo di che ha continuato la sua risalita verso nord mantenendosi intorno alla quinta magnitudine. In maggio sarà finalmente possibile avvistarla anche da qui, nelle ore precedenti l’alba.
La tabella riporta il sorgere, la culminazione, l’altezza sull’orizzonte astronomico dell’osservatore raggiunta dalla cometa all’istante del transito in meridiano, e il tramonto. Sono quindi indicate: la magnitudine visuale (la magnitudine totale indicata è quella teorica calcolata in base a dei parametri fisici e geometrici; l’effettiva magnitudine visuale delle comete può risultare a volte decisamente diversa da quella tabulata), la distanza dalla Terra (in Unità astronomiche), l’elongazione dal Sole – occidentale “W” (la cometa è visibile alla mattina prima del sorgere del Sole), od orientale, “E” (la cometa è visibile alla sera dopo il tramonto del Sole) – l’Ascensione Retta, la Declinazione e la costellazione in cui si trova. Gli istanti sono topocentrici e calcolati per le 00:00 TMEC per una località situata a 12° di longitudine Est e 42° di latitudine Nord.
Leggi tutti i dettagli e i consigli per l’osservazione, con tutte le immagini, nell’articolo tratto dalla Rubrica Comete di Rolando Ligustri presente a pagina 66 di Coelum n.170.
Encelado, la sesta tra le lune più grandi di Saturno, ripreso dalla sonda Cassini-Huygens il 31 gennaio 2011 da un’altezza di 81.000 chilometri. Crediti: NASA/JPL-Caltech/SSI/G. Ugarković
Encelado, la sesta tra le lune più grandi di Saturno, ripreso dalla sonda Cassini-Huygens il 31 gennaio 2011 da un’altezza di 81.000 chilometri. Crediti: NASA/JPL-Caltech/SSI/G. Ugarković
È un fitto intrico di crinali e depressioni ghiacciate quello che ci appare la superficie di Encelado, la più enigmatica tra le lune di Saturno. Questo panorama mozzafiato, ripreso dalla sonda Cassini il 31 gennaio del 2011, è il risultato della tremenda forza di attrazione gravitazionale esercitata da Saturno che deforma il guscio esterno della luna, modellandolo in ripidi promontori che si stagliano al di sopra di profonde fratture.
La netta cicatrice scura che si vede sulla superficie di Encelado nella zona meridionale raggiunge in vari punti profondità anche di un chilometro e nel suo percorso taglia altre strutture morfologiche. Un indizio della sua relativa giovinezza. In contrasto, la regione butterata di crateri a nord viene interpretata come una superficie molto più antica che sinora sembrerebbe sfuggita al processo di rimodellamento visibile nelle zone circostanti.
Ma l’immagine di Encelado ci mostra quella che è la sua caratteristica più spettacolare: lungo parte del bordo meridionale, pennacchi di particelle ghiacciate mescolate a vapor d’acqua, sali e materiali organici vengono letteralmente sparati nello spazio a velocità superiori a 2000 chilometri all’ora. La composizione chimica di questi pennacchi suggerisce che sotto la crosta ghiacciata di Encelado potrebbe celarsi un oceano liquido in grado addirittura di ospitare forme elementari di vita.
26.04: “Primavera: un firmamento di galassie” a cura di Franco Molteni.
Dopo le conferenze serali si potranno osservare gli oggetti del cielo con i telescopi del Gruppo.
Per info: Tel. 0341.367584
www.deepspace.it
L’Associazione Tuscolana di Astronomia “Livio Gratton” invita tutti i cittadini a partecipare agli eventi della manifestazione Storie di Terra e Cielo, che si terranno dal 27 aprile al 12 maggio 2013 in una delle località – i dintorni del Lago di Nemi, lo Speculum Dianae – più caratteristiche dei Castelli Romani. In un territorio che presenta un’altissima concentrazione di Istituti Scientifici e di Ricerca, e nello stesso tempo è uno dei patrimoni archeologici e storici più importanti del Lazio, con le radici albane della millenaria storia della Città Eterna, l’ATA vuole presentare un percorso ideale tra Cielo e Terra, tra Astronomia e Archeologia,
tra Scienza e Storia Antica.
La manifestazione prevede diverse attività che copriranno i Comuni di Genzano di Roma, Ariccia e Nemi. In particolare le Conferenze-Spettacolo
e i Caffè Scientifici al Planetario si svolgeranno presso il Museo delle Navi Romane, sito nel Comune di Nemi ma prossimo e molto ben raggiungibile anche da Genzano di Roma. Gli Star party pubblici si svolgeranno nelle piazze principali dei Comuni di Genzano di Roma, Ariccia e Nemi.
Il programma completo è disponibile online su:
www.ataonweb.it
22.04: Serata di Osservazione della Luna.
Per informazioni: D. Antonacci 347.4131736
domenico.antonacci@astrofilicascinesi.it
Simone Pertici 329.6116984
simone.pertici@domenicoantonacci.it
www.astrofilicascinesi.it
Il primo piano di una selezione delle galassie tra le più feconde di formazione stellare nell’Universo primordiale. (Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO), J. Hodge et al., A. Weiss et al., NASA Spitzer Science Center)
Il primo piano di una selezione delle galassie tra le più feconde di formazione stellare nell’Universo primordiale. (Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO), J. Hodge et al., A. Weiss et al., NASA Spitzer Science Center)
Un’equipe di astronomi ha usato il nuovo telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) per individuare l’ubicazione di più di 100 galassie tra le più feconde di formazione stellare nell’Universo primordiale. La fase più feconda di nascita di stelle nell’Universo primordiale ha avuto luogo in galassie lontane che contenevano molta polvere cosmica.
Queste galassie sono fondamentali per comprendere la formazione delle galassie e la loro evoluzione nel corso della storia dell’Universo, ma la polvere le oscura e rende difficile la loro identificazione con i telescopi ottici. Per trovarle, gli astronomi devono usare telescopi che osservano la luce a lunghezze d’onda maggiori, intorno al millimetro, come ALMA: è così potente che, in sole poche ore, ha catturato tante osservazioni di queste galassie quante ne erano state ottenute da telescopi simili in tutto il mondo nell’arco di più di un decennio.
“Gli astronomi hanno atteso dati come questi per più di un decennio. ALMA è così potente che ha rivoluzionato il modo di osservare queste galassie, anche se il telescopio non era ancora completo quando sono state effettuate le osservazioni”, ha detto Jacqueline Hodge (Max-Planck-Institut für Astronomie, Germania), prima autrice dell’articolo che descrive le osservazioni di ALMA.
La miglior mappa finora realizzata per queste lontane galassie polverose è stata ottenuta con il telescopio APEX (Atacama Pathfinder Experiment), gestito dall’ESO, che ha osservato un pezzetto di cielo della dimensione della Luna piena e trovato 126 galassie di questo tipo. Ma nelle immagini di APEX ogni zona di formazione stellare appare come una macchia indistinta, così grande da coprire più di una galassia nelle immagini più nitide fatte ad altre lunghezze d’onda. Senza sapere esattamente quale delle galassie sta producendo stelle, gli astronomi avevano alcune difficoltà ad interpretare la formazione di stelle nell’Universo primordiale.
Identificare la galassia giusta richiede osservazioni più risolte e per fare osservazioni più risolte serve un telescopio più grande. APEX ha una sola antenna parabolica da 12 metri di diametro, mentre i telescopi come ALMA usano molte antenne simili a quella di APEX sparpagliate su grandi distanze. I segnali di tutte le antenne vengono combinati e l’effetto è quello di un unico telescopio gigante grande come l’intera schiera di antenne.
Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO), APEX (MPIfR/ESO/OSO), J. Hodge et al., A. Weiss et al., NASA Spitzer Science Center
L’equipe ha usato ALMA per osservare le galassie della mappa di APEX durante la prima fase di osservazioni scientifiche di ALMA, con il telescopio ancora in costruzione. Usando meno di un quarto del totale di 66 antenne, distribuite su distanze fine a 125 metri, ALMA ha impiegato appena due minuti per ogni galassia per identificarle all’interno di una regione molto piccola, più di 200 volte minore delle grandi macchie di APEX e con una sensibilità tre volte maggiore. ALMA è tanto più sensibile degli altri telescopi del suo genere che in sole poche ore ha raddoppiato il numero totale di osservazioni di questo tipo.
Non solo l’equipe ha identificato senza ambiguità quale galassia conteneva regioni attive di formazione stellare ma in circa la metà dei casi ha scoperto che più galassie con formazione di stelle erano confuse in una sola macchia nelle osservazioni precedenti. La vista acuta di ALMA ha permesso di distinguere le singole galassie.
“Pensavamo che le più brillanti tra queste galassie formassero stelle mille volte più vigorosamente della nostra galassia, la Via Lattea, il che le poneva a rischio di frantumarsi. Le immagini di ALMA rivelano la presenza di galassie multiple, più piccole, che formano stelle a tassi in qualche modo più ragionevoli”, ha detto Alexander Karim (Durham University, Regno Unito), uno dei membri dell’equipe e primo autore di un secondo articolo sullo stesso argomentoo.
I risultati costituiscono il primo catalago statisticamente affidabile di formazione stellare in galassie polverose nell’Universo primordiale e forniscono un fondamento indispensabile per ulteriori indagini sulle proprietà di queste galassie a diverse lunghezze d’onda senza rischio di erronea interpretazione a causa della confusione tra le galassie.
Nonostante la vista acuta di ALMA e la sua sensibilità senza pari, telescopi come APEX continuano ad avere un ruolo importante. “APEX pu coprire una vasta area di cielo più in fretta di ALMA e perci è ideale per scoprire queste galassie. Quando sappiamo dove guardare possiamo usare ALMA per identificarle esattamente”, ha concluso Ian Smail (Durham University, Regno Unito), coautore del nuovo articolo.
In queste mappe d’Europa, la relazione, su cinque aree della luna, fra la quantità d’energia depositata dal bombardamento di particelle cariche e il contenuto chimico dei depositi di ghiaccio presenti in superficie. Crediti: NASA / JPL-Caltech / Univ. di Ariz. / JHUAPL / Univ. di Colo
In queste mappe d’Europa, la relazione, su cinque aree della luna, fra la quantità d’energia depositata dal bombardamento di particelle cariche e il contenuto chimico dei depositi di ghiaccio presenti in superficie. Crediti: NASA / JPL-Caltech / Univ. di Ariz. / JHUAPL / Univ. di Colo
È una luna vivace, il satellite gioviano Europa. Al di sotto della sua superficie ghiacciata pare ormai certo che scorra un profondo oceano d’acqua salata, oceano che suscita enorme interesse in quanto potenziale habitat per forme di vita. Al di sopra, invece, è sferzata da un costante flusso di particelle energetiche, con le quali condivide l’orbita attorno a Giove. Ed è proprio la curiosa dinamica di questo flusso a rendere alcune zone della superficie di Europa più adatte di altre per tentare di capire cosa si nasconda nel sottosuolo. Finestre privilegiate, insomma, sul suo oceano sotterraneo. Dunque obiettivo privilegiato d’un’eventuale missione verso il satellite (verso cui si dirigeranno sia la missione Juice dell’ESA che una futura missione della NASA). Ma dove si trovano, queste finestre? E perché proprio lì?
Per rispondere, occorre considerare che Europa viaggia col vento in poppa. Questo perché se l’orbita della luna e del flusso di particelle è la stessa, la velocità è ben diversa: a Europa occorrono circa 3.6 giorni per compiere una rivoluzione attorno a Giove, mentre al campo magnetico che guida il flusso di particelle bastano 10 ore. Ciò significa che le particelle colpiscono Europa alle spalle: se Europa fosse un’automobile, spiega la NASA con un’efficace similitudine, e il flusso di particelle uno sciame d’insetti, quest’ultimi non si spiaccicherebbero sul parabrezza, bensì sul lunotto posteriore.
Ora, poiché Europa, esattamente come la Luna con la Terra, volge verso Giove sempre la stessa faccia, il parabrezza e il lunotto della similitudine corrispondono in effetti a due aree ben distinte della sua superficie: quelle che gli scienziati hanno battezzato come “emisfero anteriore” (leading) ed “emisfero posteriore” (trailing). Ed è su quest’ultimo, come dicevamo, che il flusso di particelle imperversa. Si tratta di particelle cariche piuttosto eterogenee: oltre agli elettroni, ci sono ioni di zolfo e ossigeno provenienti dalle eruzioni vulcaniche in corso su Io, altra luna di Giove che si trova nei paraggi.
Tutte, comunque, particelle provenienti dall’esterno di Europa. Al contrario di quanto accade sull’emisfero anteriore, virtualmente isolato dal bombardamento del flusso di particelle, e dunque molto più indicato per raccogliere indizi di quanto proviene dall’interno della luna, e in particolare dal suo oceano sotterraneo. Ipotesi ora confermata da uno studio, pubblicato su Planetary and Space Science, guidato da Brad Dalton, del JPL. Analizzando i dati spettrometrici nel vicino infrarosso raccolti una decina d’anni fa, su cinque aree della superficie di Europa, dalla sonda Galileo della NASA, i ricercatori hanno avuto la conferma d’una distribuzione non uniforme fra zone con acqua relativamente incontaminata e zone nelle quali prevalgono invece le sostanze chimiche generate dal bombardamento del flusso di particelle.
«La stretta correlazione dei flussi di ioni ed elettroni con le concentrazioni di acido solforico idrato indica che la chimica della superficie di Europa è influenzata da queste particelle cariche», spiega Dalton. «Se dunque volessimo indagare la composizione e l’abitabilità del oceano interno, i migliori siti su cui concentrarci sarebbero quelle regioni dell’emisfero anteriore che abbiamo visto ricevere il minor numero di elettroni, e che presentano le concentrazioni di acido solforico più basse».
19.04: “A caccia di Et: esistono civiltà extraterrestri?” di Paolo Attivissimo.
Dopo le conferenze serali si potranno osservare gli oggetti del cielo con i telescopi del Gruppo.
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19.04: “I corpi minori del Sistema solare” e “Presentazione del corso di astrofotografia”.
Per info: Tel. 348.5648190
osservatorio@serafinozani.it
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18.04: Visita all’osservatorio di Merate
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La nube d ghiaccio sul polo sud di Titano vista da Cassini (NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute/GSFC)
La nube d ghiaccio sul polo sud di Titano vista da Cassini (NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute/GSFC)
Il cambio di stagione in corso su Titano sta innescando cambiamenti radicali nell’atmosfera di quella che è la più grande luna di Saturno. Un’altra prova evidente arriva da una nube di ghiaccio che sta prendendo forma nei pressi del polo sud del pianetino.
Di che tipo di ghiaccio si tratti non lo sappiamo, ma una nube di questo tipo era da tempo visibile sopra al polo nord, da cui ora sta svanendo, come mostrato dal Composed Infrared Spectrometer (CIRS) sulla sonda Cassini. Per comparire invece a Sud. La nube di ghiaccio meridionale, visibile nel lontano infrarosso, è la prova che un pattern importante di circolazione atmosferica su Titano ha invertito la sua direzione. Quando Cassini ha osservato per la prima volta quella circolazione, l’aria calda dall’emisfero sud si spostava in alto nell’atmosfera, e veniva trasportata verso il più freddo polo nord. Lì, l’aria si raffreddava cadendo verso gli strati più bassi e formando nuvole di ghiaccio.
Gli scienziati si aspettavano da tempo un’inversione di circolazione, quando il polo nord avesse iniziato a riscaldarsi e il polo sud invece a raffreddarsi. Il passaggio ufficiale da inverno a primavera al polo nord di Titano si è verificato nel mese di agosto 2009, e i primi segnali evidenti si sono visti nei dati acquisiti nei primi mesi del 2012. Nonostante ciò, la nube di ghiaccio sul polo sud non era ancora apparsa. Lo strumento CIRS non l’ ha rilevata fino al luglio 2012.
“Questo ritardo ha senso, perché prima il nuovo pattern di circolazione doveva portare grandi carichi di gas al polo sud. Poi l’aria doveva sprofondare. E il polo doveva restare abbastanza tempo in ombra per permettere ai vapori di condensare in ghiaccio “, ha detto Carrie Anderson, membro del team CIRS al NASA Goddard Space Center.
Finora, la composizione del ghiaccio resta un mistero, anche se gli scienziati hanno escluso composti chimici semplici, come metano, etano e cianuro di idrogeno, che sono tipicamente presenti su Titano. Una possibilità è che sia una miscela di composti organici.
Le quattro fasi più significative dell’Eclisse Parziale di Luna che avverrà la sera del 25 aprile. Nel riquadro 1 si vede la sezione del cono d’ombra della Terra (composta da ombra e penombra) ancora parzialmente nascosta dall’orizzonte. Sono da poco passate le 20:00 e la Luna inizia ad addentrarsi nella regione della penombra. La sua altezza, però, è di nemmeno 1°, per cui l’osservazione di questa fase ci sarà praticamente preclusa. Nel riquadro 2, che mostra il contatto del bordo lunare con la zona d’ombra, poco prima delle 22:00, si vede la Luna già totalmente coperta dalla penombra. Il riquadro 3, invece, coglie il momento, poco dopo le 22:00, in cui l’eclisse d’ombra è al suo massimo (sufficiente a coprire una piccolissima regione del polo nord – evidenziata dal rettangolo bianco – non più estesa di 1/50 del diametro lunare). L’altezza sull’orizzonte sarà di +19° e sarà interessante scoprire se con un telescopio si riuscirà a osservare questo minimo oscuramento. L’Eclisse si concluderà poi (riquadro 4), con la Luna che dopo le 23:00 abbandonerà la penombra.
16.04: “Neil Armstrong: un uomo sulla Luna” di Claudio Balella.
Per info: tel. 0544-62534 – E-mail info@arar.it
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Immagine catturata dal SDO della NASA l’11 aprile. Crediti: NASA/SDO
Immagine catturata dal SDO della NASA l’11 aprile. Crediti: NASA/SDO
Il Solar Dynamics Observatory della NASA ha osservato un flare solare di medio livello alle ore 9 (ora italiana) di ieri mattina, terminato intorno alle ore 14. Secondo quanto riportato dalla NASA, l’intensità dell’evento solare si è attestata a una magnitudo di 6,5, ossia tra moderata e forte. Gli esperti credono che entro 48 ore potrebbe portare una moderata tempesta magnetica a raggiungere la Terra.
I flare solari sono delle forti esplosioni di radiazioni e di materia solare. Nella maggior parte dei casi, questi eventi non hanno alcuna conseguenza sul nostro pianeta, se non, a volte e nei casi più gravi, nelle comunicazioni satellitari. Il flare è partito da una macchia solare identificata come 1719, e ha generato un momentaneo blackout delle comunicazioni radio.
Il Solar Heliospheric Observatory (SOHO) di ESA/NASA ha catturato questa serie di immagini dell’espulsione di massa coronale (CME). Sulla sinistra si può vedere Marte. Crediti: ESA&NASA/SOHO/GSFC
Un’espulsione di massa coronale (CME) è avvenuta in seguito del flare e di conseguenza è possibile che tra circa 48 ore sulla Terra possa verificarsi una moderata tempesta magnetica di origine solare. Questo flare è stato il più forte registrato in tutto il 2013 fin’ora, e segna il progressivo aumento dell’attività solare che, secondo le previsioni, dovrebbe toccare entro la fine dell’anno l’apice del suo ciclo di attività di 11 anni.
Gli strumenti della NASA hanno anche registrato una debole tempesta di particelle solari (SEP) dirigersi verso la Terra. Questo tipo di eventi si verificano quando protoni e particelle cariche si distaccano dal Sole, di solito durante i flare. Ogni radiazione dannosa di questo tipo è bloccata dall’atmosfera, e quindi le particelle non raggiungono l’uomo.
Un’altra immagine di SOHO. Crediti: ESA&NASA/SOHO/GSFC
14.04, ore 15:30: …un pomeriggio al Planetario “Da grande voglio fare l’astronauta”. Attività adatta a bambini a partire da 8 anni.
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Un’ immagine della superfice Marziana. CREDIT: ESA
Un’ immagine della superfice Marziana. CREDIT: ESA
L’atmosfera di un pianeta, la sua composizione, ha radici profonde nei meandri del sottosuolo di un pianeta. Infatti il magma che si forma nel sottosuolo intrappola il carbonio nel cuore del nostro pianeta (come altri elementi chimici), per poi rilasciarlo quale gas quando la pressione diminuisce con il salire verso la crosta terrestre. Nel caso del pianeta Terra si trasforma in anidride carbonica favorendo quel fondamentale (finché non passa una certa soglia) effetto serra che permette al calore del Sole di rimanere intrappolato nella nostra atmosfera, rendendola decisamente più vivibile di tutti gli altri pianeti conosciuti.
Ma come questo processo sia avvenuto su altri pianeti, nel caso specifico Marte, è ancora da comprendere pienamente. Su questo interrogativo si sono cimentati gli autori di uno studio apparso sui Proceedings of theNational Academy of Sciences (PNAS). Secondo i ricercatori della Brown University e della Northwestern University e della Carnegie Institution di Washington, nel passato di Marte il carbonio sarebbe rimasto intrappolato nel magma come ferro pentacarbonile e rilasciato infine in superficie come anidride carbonica o metano, entrambi gas, in particolare il metano, dal forte potenziale serra.
C’è però una differenza chiave nel processo avvenuto sulla Terra e quello che appare essere avvenuto su Marte e cioè l’alta o bassa percentuale di fugacità dell’ossigeno, cioè la quantità di ossigeno messo reso disponibile a reazione con altri elementi. Sulla Terrà la fugacità dell’ossigeno è molto altra, cosa che non è per altri corpi celesti. Come questo dato possa influenzare il trasferimento del carbonio è uno dei quesiti che si è posto lo studio.
Per dare una risposta i ricercatori hanno sciolto pietra vulcanica a pressioni, temperature e fugacità d’ossigeno differenti notando, grazie ad un potente spettrometro, che a bassa fugacità d’ossigeno più carbonio viene intrappolato nel magma in forma di ferro pentacarbonile, trasformandosi poi in metano e anidride carbonica.
In sostanza, ai primordi del pianeta rosso l’attività vulcanica che lo caratterizzava ha fatto si che dal sottosuolo il carbonio fosse trasferito in superficie sotto forma prevalente di metano a causa della bassa fugacità dell’ossigeno. In questo modo anche la sua atmosfera rarefatta poteva essere abbastanza calda da consentire all’acqua del primordiale pianeta rosso di rimanere allo stato liquido.
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