A cura di Giovanni Macchia
La vocazione del filosofo è di essere portatore del Tutto. Mentre gli altri si limitano a una specialità, a una parte, egli s’incarica della totalità. Dovrebbe conoscere […] le nozioni e le applicazioni degli altri uomini e specialmente degli esseri elitari, nella politica, nella religione, nelle tecniche e nelle arti; pensare a tutto, pensare il Tutto, ammesso che sia possibile… Poi, enucleare da questa ipotesi imperfetta una regola di vita, una saggezza… Naturalmente è un ideale irrealizzabile, soprattutto ai tempi nostri… Ma la filosofia viene definita da questa impossibilità.
Jean Guitton
Indice dei contenuti
Abstract
La filosofia dovrebbe incaricarsi – perlomeno secondo il filosofo francese Jean Guitton – di pensare il tutto, di studiare la totalità. In ambito scientifico, la disciplina che ha lo stesso compito – certo con le dovute e innumerevoli differenze concernenti sia, genericamente, il concetto di “totalità”, sia gli approcci alle rispettive ricerche – è la cosmologia. Questa comunanza d’interessi, solo parziale ma significativa, ci spinge a ipotizzare che la filosofia, per realizzarsi pienamente, avrebbe bisogno della cosmologia, o almeno delle sue conoscenze più fondamentali riguardanti il cosmo fisico in cui siamo tutti noi immersi; al contempo, anche la cosmologia avrebbe bisogno della filosofia per approfondire il suo sguardo sull’universo. In questo articolo introdurrò brevemente solo questa seconda tesi, accennando poi al pensiero di uno dei suoi massimi interpreti: il filosofo e storico della scienza francese Jacques Merleau-Ponty.
Cenni a un approccio filosofico alla cosmologia
La cosmologia è la scienza che forse, più di ogni altra, ha bisogno della filosofia. Si pensi alla sua stessa tipica definizione: la cosmologia studia la struttura su larga scala dell’universo, dove con quest’ultimo termine s’intende tutto ciò che – in senso fisico – esiste, è esistito e per certi versi esisterà, pertanto l’universo è considerato come un sistema totale e unico, e con una sua storia. Si dice anche che la cosmologia studia l’universo come un tutto, o nel suo insieme, vale a dire essa non s’interessa direttamente dei corpi celesti (pianeti, stelle, galassie, e persino ammassi di galassie e superammassi) presenti nel cosmo, che del resto vivono a “piccole” scale rispetto alla “totalità”. Di questi corpi se ne occupa l’astronomia, osservandoli e descrivendone le proprietà, i raggruppamenti, i moti apparenti e reali, ecc., mentre l’astrofisica cerca di interpretare questi corpi e i fenomeni che li riguardano in termini di leggi fisiche note, che essa applica a modelli più o meno semplificati dei sistemi osservati. Invece, scopo principale dell’analisi della cosmologia è di ottenere una descrizione fisica coerente dell’universo nella sua interezza, dunque tentando di includere anche la sua parte inosservabile, tramite modelli che fanno uso di branche della fisica nota, modelli – si badi – di necessità estremamente semplificati, data l’enorme complessità del reale. Dunque la ricerca cosmologica spazia dalle leggi naturali, che permeano i corpi celesti in relazione al cosmo, alla sua struttura geometrica e topologica, dalle sue dimensioni spaziali e temporali alla sua formazione, evoluzione ed eventuale fine, inclusi ovviamente i fenomeni accaduti nel suo lontano passato che hanno dato luogo alla sua attuale conformazione.
È evidente la difficoltà di cogliere propriamente il significato dell’universo come un tutto, sia a livello spaziale (e topologico), sia temporale, sia nei suoi aspetti osservabili, sia nelle interconnessioni fra le sue parti. Del resto l’universo come un tutto non è certo dato dalla totalità degli oggetti, dei sottosistemi, dei processi ed eventi appartenenti all’universo osservabile. Quest’ultimo è soltanto una porzione di un sistema ovviamente più inclusivo che non è però “quantificabile” estendendo, fino a un limite a tutt’oggi del tutto imprecisato, il dominio dell’universo osservabile. Si ha bisogno, insomma, di un “salto” teorico; in altre parole, per rappresentare la composizione e la struttura dell’universo come un tutto bisogna costruirsi un sistema concettuale – il più comprensivo e globale possibile, che incarni la singola totalità integrata degli oggetti e dei processi fisici – che assuma la forma, come già detto, di un modello cosmologico. Un tale modello specifica, quindi, come l’universo come un tutto debba essere concepito, e come, a partire da questo, si possano poi comprendere anche i fenomeni nelle regioni relativamente più ristrette dell’universo osservabile.
Non è solo per mezzo, allora, dell’osservazione astronomica e dei dati che essa mette a disposizione che si può cogliere quel significato del concetto di “universo” al quale la cosmologia anela, ma è grazie all’adozione di un certo modello cosmologico, e quindi, in ultima istanza, alla nostra decisione di adottarne uno piuttosto che un altro. E il fatto importante, come sottolinea il filosofo Milton Munitz, è che “questa decisione si basa in fondo su una visione filosofica del ruolo epistemologico svolto da tali modelli cosmologici” (1990, p. 154)2. Ovviamente, la validità di un modello cosmologico è valutata soprattutto sulla base di evidenze e “riscontri fisici” riguardanti: osservazioni e misurazioni di oggetti e strutture cosmiche, analogie con altri sistemi fisici “minori”, concetti e modelli matematici e geometrici, leggi fisiche ed equazioni riguardanti aspetti “locali” dell’universo, e così via. Però, il cuore epistemologico e, più generalmente filosofico, di quella scelta rimane.
Per giunta, data l’impossibilità di manipolare l’universo, di variarne le condizioni iniziali, di riprodurne le altissime energie protagoniste di alcune sue fasi, di analizzarne l’evoluzione da altre posizioni spaziali e in altre epoche temporali e, quindi, di “vedere” le sue prime fasi o le sue più lontane distanze, insomma data l’impossibilità di rendere la cosmologia una scienza direttamente sperimentale, risulta inevitabile il bisogno di affidarsi a delle scelte filosofiche che se da una parte certo contribuiscono, in maniera più o meno significativa, a dar forma alle nostre teorie cosmologiche e ai loro modelli, dall’altra influenzano anche la “genuinità” della nostra comprensione dell’universo. Si pensi al cosiddetto principio cosmologico, che asserisce l’omogeneità e l’isotropia spaziale del nostro universo a larga scala (cioè l’assenza, rispettivamente, di punti e direzioni particolari), o al principio copernicano, nel quale si sostiene che non siamo osservatori privilegiati (nessun luogo nell’universo è in una posizione “speciale”).
Da questi principi discende una ben precisa metrica per la struttura geometrica a larga scala dell’universo (aperta comunque a configurazioni topologiche diverse). Tali principi sono assunzioni ormai quasi date per scontate nella cosmologia standard, ed è naturale, sia perché i riscontri empirici a loro favore hanno assunto un ruolo consistente con il corpus teorico sottostante ai modelli, sia perché in fondo, senza di essi, l’impresa scientifica cosmologica risulterebbe difficilissima se non impossibile. Si pensi, infatti, al principio copernicano: se non valesse, ossia se noi fossimo in una posizione particolare, come potremmo continuare a fare affermazioni sulla globalità dell’universo sapendo che da altri punti di osservazione (per noi inesplorabili) lo scenario potrebbe drasticamente essere diverso? Eppure, quei principi non sono affatto verità sacrosante, i riscontri empirici e le osservazioni non sono per niente in grado di porre una qualche parola definitiva sulla loro validità, e infatti non è raro trovare dei cosmologi che si cimentano con l’analisi di universi in cui essi non valgono.
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L’articolo è pubblicato in COELUM 273 VERSIONE CARTACEA