La sala è avvolta nel buio. Un suono basso, diffuso, penetrante, a metà strada tra il brusio della statica e la vibrazione del basso di un concerto elettronico. Il suono sale, si gonfia, diventa onnipresente. Infine, il buio viene squarciato da un lampo di energia: chiara, tersa, purissima. Poi, la voce: Io sono la Luce.

CREDIT IMMAGINE: ©Daniele Chioetto/G. Inchingolo
Questo è l’inizio dell’esperienza, potente e inaspettata, che si è presentata a chi ha partecipato ad una delle iterazioni della mostra Into the (Un)Known. Ma prima di immergerci in un viaggio nel cosmo con il suo creatore, Giannandrea Inchingolo, facciamo un passo indietro.
Fare divulgazione scientifica vuol dire tante cose, e le modalità sono varie quanto sono diverse le persone che la praticano. Ci sono ricercatori e ricercatrici che, in ossequio alla terza missione degli enti di ricerca e delle università, prestano la loro voce per spiegare i loro studi e i loro risultati. Ci sono giornalisti e giornaliste, che dalle pagine delle riviste e attraverso le frequenze delle trasmissioni, prestano la loro penna per raccontare la scienza, le sue notizie, e le sue scoperte. Ci sono animatori ed animatrici, che all’interno dei festival e delle manifestazioni, prestano il loro entusiasmo per coinvolgere il pubblico nel grande gioco della scienza. E, soprattutto negli ultima anni, c’è una nuova generazione di divulgatori e divulgatrici, che sulle piattaforme di social media e negli spazi ibridi della comunicazione, partecipano ad una grande discussione collettiva sulla scienza, i suoi metodi, e il suo ruolo nella società. In questa rubrica, cercherò quindi di coinvolgere alcuni di questi diversi operatori e operatrici della divulgazione, cogliendone per quanto mi riesce gli aspetti interessanti e innovativi Per questo, la mia prima scelta non poteva che essere il lavoro di chi opera a metà strada tra ricerca scientifica ed espressione artistica, cercando sempre nuovi modi per coinvolgere ed emozionare.
Arte e scienza hanno un rapporto che va all’origine di entrambe, nelle profondità dell’animo umano, e nonostante alcuni insistano nel cercare opposizioni tra le due modalità di pensiero e di espressione, la realtà è che una non può esistere senza l’altra. La “bellezza”, qualunque cosa essa sia, alberga nel cuore di entrambe, e per quanto possano apparire diverse nei modi, sono facce della stessa medaglia. Ma il rapporto può essere delicato, per evitare superficialità e fraintendimenti, e deve essere trattato con rispetto sia dell’una che dell’altra. Lo sa bene Giannandrea Inchingolo, ricercatore scientifico e artista digitale, la mente dietro alla mostra Into the (Un)Known, un progetto realizzato presso l’Università di Bologna in collaborazione con INAF Istituto Nazionale di Astrofisica e CINECA, il consorzio interuniversitario per il calcolo ad alte prestazioni, e in particolare con VisitLab, il dipartimento di visualizzazione scientifica dell’ente.
Ho avuto l’occasione di partecipare alla mostra in più occasioni e in setting diversi, e la fortuna di parlare con Giannandrea più volte. La prima impressione è la straordinaria naturalezza con cui parla di entrambi gli ambiti, espressione artistica e astrofisica dei plasmi, che per lui sono entrambe parti inseparabili della sua esperienza. Pur essendo cresciuto in un ambiente familiare culturalmente stimolante e coltivando diversi interessi artistici, Giannandrea ha intrapreso la carriera accademica in maniera abbastanza tradizionale: laurea in fisica dei plasmi all’Università di Pisa, dottorato di ricerca all’Instituto Superior Técnico di Lisbona, ora post-doc all’Università di Bologna. Ma già qui le cose diventano interessanti, perché la sua qualifica diventa “Creative Scientist”, segno che qualcosa di interessante sta succedendo.

CREDIT IMMAGINE: ©G. Inchingolo/IST Lisboa
Giannandrea la racconta così, con un risata: “Durante il mio dottorato ho passato un anno al MIT, il Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti, e sono stato invitato a tenere una piccola conferenza per non addetti ai lavori. È stata un disastro. O meglio, è stata molto interessante, ma i partecipanti alla fine mi hanno confessato di non averci capito molto, ma di essere rimasti affascinati soprattutto dalle immagini: non tanto i grafici, che per chi mastica di scienza sono un modo efficace e sintetico di presentare i risultati, ma dalle immagini che mostravano il comportamento dei campi magnetici nei plasmi astrofisici che stavo studiando. Allora ho iniziato a pensare che forse in quelle immagini c’era qualcosa, un modo di raccontare la scienza in maniera diversa.” Quello ovviamente è stato solo l’inizio, ma già racchiude una parte del lavoro di Giannandrea, la sua intuizione, che poi ha avuto la capacità di trasformare prima in una parte del suo lavoro di dottorato, e poi in un progetto a sé stante, grazie anche al lavoro di altri ricercatori, professori, e collaboratori.
Un lavoro che, grazie alle tecniche di visualizzazione dei dati astrofisici, li racchiuda in una esperienza da fruire con tutti i sensi: la vista, l’udito, il senso del tempo, il fascino della narrazione. Perché la scienza, pur essendo una disciplina affascinante, è spesso vincolata ad un linguaggio complesso, che non tutti parlano, ma che tutti hanno il diritto di ascoltare: l’emozione dell’esperienza artistica diventa così l’alfabeto con cui la scienza si fa conoscere.
Quello che viene fatto quindi è prendere l’enorme quantità di dati numerici prodotti dalle osservazioni e dalle analisi astrofisiche, e darli in pasto ai software di visualizzazione: per lo scienziato, questo serve a “vedere” i dati, ossia disporli in una maniera che lo aiuti a comprenderne il senso; per l’artista, questo diventa anche uno strumento di espressione, in modo che i dati comunichino non solo con gli addetti ai lavori, ma che grazie alla scelta dei colori, dei suoni, delle dimensioni, dei movimenti, i fenomeni fisici che avvengono al di là delle nostre possibilità di percezione possano essere “sperimentati” anche dal pubblico. Perché, e Giannandrea ci tiene estremamente a questo aspetto, tutto ciò che ci arriva durante l’esperienza è frutto della traduzione del dato fisico: tutte le immagini, tutti i suoni, perfino il racconto, ha un riscontro scientifico rigoroso. Questo sigilla la mostra come una vera forma di comunicazione scientifica, meno didascalica e più coinvolgente, che porti le frontiere della ricerca scientifica a disposizione di un pubblico più ampio possibile.
Scienza come fonte di ispirazione dell’arte, ma anche arte come strumento di intuizione per la scienza, perché queste nuove tecniche di visualizzazione immersiva e multisensoriale possono aiutare i ricercatori a comprendere meglio i propri dati, a far scoccare la scintilla della scoperta scientifica. Occhi per vedere l’universo, al di là dei nostri sensi, oltre le nostre percezioni limitate, seguendo le traiettorie della meraviglia e della passione. Per dire, infine: Io sono la Luce.
L’articolo è pubblicato in Coelum 254
