Home Articoli e Risorse On-Line Astronautica ed Esplorazione Spaziale L’ultima missione del Columbia segna una pietra miliare nell’astronautica

L’ultima missione del Columbia segna una pietra miliare nell’astronautica

Letto 12.678 volte
1
Tempo di lettura: 25 minuti
I frammenti del Columbia producono numerose scie luminose. (CNN)
I frammenti del Columbia producono numerose scie luminose. (CNN)

La navetta Columbia parte per la sua ventottesima ed ultima missione il 16 gennaio 2003. Apparentemente è il solito decollo, identico ai centododici precedenti, e la consueta ansietà per i due booster a propellente solido è ben mitigata dalla fiducia nei correttivi che dal giorno del Challenger sono stati apportati. Ma un fatterello accade, durante l’ascesa, in maniera del tutto silenziosa e inavvertibile, se non fosse che ogni lancio dello shuttle viene seguito con qualcosa come un centinaio di macchine fotografiche e telecamere, da tutte le angolazioni e addirittura su velivoli. A ottantuno secondi dal decollo, alla quota di circa sedici chilometri e ad una velocità ormai due volte supersonica (già superato il momento di max Q, la zona critica della massima sollecitazione dinamica) un grosso frammento di isolante termico si stacca dalla superficie esterna dell’ET (External Tank, il serbatoio dei propellenti liquidi dei tre motori principali dell’Orbiter), apparentemente dalla zona sotto il naso della navetta, cioè dal punto di attacco denominata “bipod”, quell’elemento triangolare costituito da due bracci. Il Bipod è sede di notevoli sollecitazioni meccaniche durante il volo di ascesa, ed altre volte in corrispondenza di esso, negli ultimi due anni, si erano verificati distacchi di materiale isolante, anche se in misura molto minore.

Il grosso frammento di isolante percorre così il tragitto sotto la pancia della navetta, impattando l’ala sinistra in prossimità del bordo d’attacco. A seguito dell’impatto il blocco di isolante si polverizza e passa sotto l’ala sinistra, disperdendosi in minutissimi frammenti.

Dell’accaduto ci si rende conto, a terra, dopo poche ore. La navetta Columbia ha raggiunto tranquillamente la sua orbita programmata, come sempre è accaduto in tutti i voli precedenti. Solo analizzando, come di consueto, le immagini del decollo e dell’ascesa di tutte le telecamere e cineprese che sempre riprendono da ogni angolazione il veicolo, si nota il piccolo incidente. Che tanto piccolo non appare, tanto è vero che comincia un concitato scambio di messaggi tra ingegneri e tecnici all’interno della NASA. Si comincia a considerare l’impatto e a immaginare quali problemi possa avere causato alle strutture della navetta. Il tono degli scambi è piuttosto tecnico e di livello teorico, sembrerebbe un buon esercizio mentale per gli ingegneri che, come è ovvio, si mettono a calcolare forze, velocità, energie, cercando di immaginare i danni potenzialmente causabili alle strutture dell’ala della navetta. Si arriva a ipotizzare anche un danneggiamento critico per il rientro in atmosfera. Ma questi scambi di informazioni, pur estesi, non arrivano ai piani alti della NASA e, per così dire, se non muoiono spontaneamente dopo alcuni giorni, vengono “spenti” con considerazioni di leggerezza fondate sul fatto che simili fatterelli sono già occorsi in passato e non è mai successo nulla di grave. Il fatto viene giudicato “inconsueto” ma non pericoloso. Questo in estrema sintesi. Cerchiamo però di andare un po’ più a fondo.

Perché il grosso frammento di isolante si è staccato dal serbatoio esterno della navetta? E’ un fatto normale, è un incidente previsto oppure del tutto inaspettato? Quante volte è già successo in passato? E quali danni sono stati riscontrati sulle navette a seguito di simili fatti? Esistono registrazioni, statistiche e report di simili piccoli incidenti? La navetta può essere rimasta seriamente danneggiata? Gli astronauti sono in pericolo? L’integrità delle strutture della navetta potrebbe essere compromessa, e causare perdita di pressione della cabina abitata dagli astronauti? Potrebbe capitare un problema al momento del rientro, notoriamente la fase più difficile della missione?

Tutte queste domande sono sorte, da parte di moltissima gente informata del fatto, subito dopo il lancio. Alla Nasa praticamente TUTTI hanno avuto notizia dell’accaduto, e ingegneri, tecnici e controllori hanno avuto ampie possibilità di documentarsi. Perfino la Boeing che unitamente alla North American Aviation forma il consorzio incaricato della gestione e della manutenzione della flotta di navette USA, ha studiato il problema e fornito alcune conclusioni preliminari che, evidentemente, non rivestivano i caratteri dell’urgenza e della pericolosità. Solo dopo la tragedia questi problemi sono stati ripresi ed esaminati molto più a fondo. Sono subito state fatte alcune ipotesi. E queste notizie sono state rese pubbliche, questo è il fatto veramente nuovo, che rende la gestione dell’incidente del Columbia profondamente diversa da quello del Challenger.

Il materiale di rivestimento dell’ET è una specie di schiuma, spruzzato durante le fasi finali della fabbricazione. L’ET è costruito in lega di alluminio, di fatto è un elemento pesante a vuoto trentacinque tonnellate, costituito dalla sovrapposizione di due enormi serbatoi per l’idrogeno liquido (serbatoio inferiore, più grande) e per l’ossigeno liquido (quello superiore). I due serbatoi sono separati da una sezione, detta “intertank” che contiene i sistemi elettronici, elettrici, di condizionamento ambientale per il controllo delle temperature, e altro. I propellenti liquidi richiedono, prima e durante il lancio, temperature estremamente basse, in special modo l’idrogeno, che deve essere conservato a meno 253 gradi centigradi (per l’ossigeno liquido “bastano” appena meno 178 gradi C); per questo motivo i serbatoi devono garantire un eccellente isolamento termico dall’ambiente circostante. Inoltre il serbatoio è soggetto, nelle fasi intermedie del volo di ascesa, a notevolissime sollecitazioni termiche dovute all’attrito con le porzioni più esterne dell’atmosfera, affrontate ad altissima velocità. Se tutto ciò non fosse abbastanza, l’ET è anche l’elemento del veicolo destinato a supportare gli sforzi propulsivi prodotti dai due enormi booster a propellente solido per i primi due minuti del volo, e dai motori dell’orbiter.

Tra i tre e i cinque centimetri di schiuma isolante rivestono tutto il serbatoio esterno dello shuttle. Ma l’enorme serbatoio non è un elemento rigido, è piuttosto un complicato sistema che deve rispondere a tutta una serie di sollecitazioni statiche e dinamiche per tutto il tempo in cui si trova a terra completamente rifornito e poi per tutti gli otto minuti e mezzo del volo in fase propulsiva, fino al momento del suo distacco dall’orbiter, quando in prossimità delle condizioni orbitali previste, esso cessa la sua funzione. Movimenti torsionali, violenti scuotimenti dei propellenti, deformazioni strutturali dovute alle sollecitazioni propulsive, alle sollecitazioni termiche e meccaniche prodotte dal volo in atmosfera lo rendono un oggetto sottoposto a variazioni della forma e della sua geometria, in tutti gli assi.

In particolare sono quattro le zone soggette a sforzi meccanici notevoli durante l’ascesa: i due punti di attacco dei booster a propellente solido, il punto di attacco superiore dell’orbiter, il famoso “bipod”, e, infine, le strutture inferiori di attacco della navetta, con gli ammortizzatori, i tamponi isolanti e le valvole per l’alimentazione dei motori a idrogeno ed ossigeno. In queste zone si producono notevolissimi sforzi e conseguentemente deformazioni strutturali, che si trasmettono, ovviamente, dalle strutture in alluminio, anche allo strato di materiale isolante.

Il materiale isolante è stato lievemente cambiato nella sua composizione già nel 1997. Un gas molto più “ecologico” del freon fino allora utilizzato è stato sostituito nella composizione della schiuma. Il risultato è che la schiuma di rivestimento che viene spruzzata sulle pareti di alluminio del serbatoio esterno durante la finitura della fabbricazione, una volta solidificata, presenta microbolle di gas (normalmente presenti in tutte le schiume isolanti, questa è una specie di poliuretano espanso) leggermente più grandi di quelle che costituivano la schiuma utilizzata negli anni precedenti.

La schiuma, una volta solidificata, risulta fissata alle strutture in alluminio dell’ET. Un ulteriore sottile rivestimento di colore arancione completa la protezione termica, in alcune zone anche del tipo ablativo, destinato a smaltire il calore prodotto dall’attrito durante le fasi intermedie dell’ascesa.
Il tutto con i propositi di evitare, ad un tempo, l’assorbimento di calore dall’ambiente esterno e la formazione di ghiaccio sulle pareti dell’ET durante il tempo di permanenza sulla rampa di lancio. E, anche, altrettanto ovviamente, di impedire, per quanto possibile, l’assorbimento di acqua e umidità dall’ambiente circostante. La navetta Columbia è rimasta per trentanove giorni sulla rampa di lancio, sottoposta a temporali, alle variazioni di temperatura della Florida e al suo clima umido. E’ molto probabile che al momento del decollo acqua e umidità abbiano fatto parte in misura anche notevole dello strato di isolante dell’ET, penetrandolo lentissimamente durante il lungo tempo di attesa sulla rampa. Durante l’ascesa l’ET si trova a viaggiare in zone dell’atmosfera via via sempre meno dense, con il continuo aumento della quota, evidentemente. La diminuzione della pressione causa l’espansione delle microbolle di gas della schiuma dell’isolante, che così aumenta di volume e perde di consistenza e potrebbe addirittura staccarsi a strati interi dal substrato sottostante. Questo fenomeno è particolarmente suscettibile di verificarsi nelle zone soggette a sforzi strutturali intensi, come è il caso della zona del “bipod” di supporto del naso della navetta. Ed è successo molte altre volte in passato.

In altri otto o dieci lanci delle navette, negli ultimi due anni, si erano riscontrati fatti di distacco di porzioni di isolante termico dell’ET, sebbene mai in misura così massiva come durante il decollo del Columbia del 16 gennaio scorso. E su moltissime piastrelle isolanti degli orbiter si erano registrati microdanneggiamenti con asportazione di parte del rivestimento isolante, alcune volte richiedenti addirittura la sostituzione di intere piastrelle.

Ma le navette sono sempre rientrate senza problemi, in molti casi si procedeva alla riparazione di piastrelle leggermente danneggiate riempiendo i piccoli buchi con materiale refrattario compatibile con la composizione delle diverse piastrelle, a seconda della zona in cui si riscontrasse il danno (le piastrelle di cui è rivestita la navetta hanno diverse caratteristiche per le diverse zone sottoposte a riscaldamento durante il rientro).

L’Atlantis dopo un rientro, montato sull’aeroplano-taxi per il viaggio di trasferimento verso la fabbrica per la manutenzione. Notare i segni di molti impatti visibili sulle piastrelle di carbonio. (CAIB – NASA)
L’Atlantis dopo un rientro, montato sull’aeroplano-taxi per il viaggio di trasferimento verso la fabbrica per la manutenzione. Notare i segni di molti impatti visibili sulle piastrelle di carbonio. (CAIB – NASA)

Quindi la casistica dei fatti di distacco di isolante termico dall’ET era già lunga e conosciuta. Solo che si trattava di fatti di lieve o media entità, e mai veramente sottoposti ad analisi e a sperimentazione per lo sviluppo del veicolo e per lo studio del comportamento delle strutture dell’orbiter, soprattutto per mancanza di fondi da destinare a un simile proposito, come sarebbe stato logico e utile. Ciò significa che lo studio del fenomeno non era mai stato approfondito allo scopo di studiarne le conseguenze e gli eventuali correttivi. C’è da dire che i continui tagli ai bilanci per la gestione delle navette, attuati allo scopo di aumentare le risorse al programma della costruenda stazione orbitale, causavano continue perdite di efficienza e di meticolosità nei controlli pre- e post-volo delle navette. In alcuni casi si segnalarono, da parte dei tecnici preposti alla manutenzione, casi di rapporti di mancanza di attrezzatura tecnica adeguata per l’espletamento dei controlli (addirittura casi di mancanza di lenti di ingrandimento!).

Durante la missione del Columbia, naturalmente, di tutto ciò non si parlava estesamente, perché come al solito durante una missione sono moltissimi i sistemi che attraggono l’attenzione di tecnici e controllori, e tutti richiedenti concentrazione ed attenzione, Quindi il problema segnalato al decollo era semplicemente uno dei tanti che normalmente accadono in una qualunque missione. Durante la missione il piccolo incidente fu più volte rapportato all’equipaggio, ed il comandante fu sempre dell’avviso che il problema riscontrato non fosse grave, esattamente come pareva essere il pensiero di tutti i controllori a terra. Questo fatto è spiegabile soprattutto nella buona fede di tutti i tecnici e di tutti i controllori, che effettivamente credevano ciò in virtù soprattutto di due fatti ben precisi: la mancanza di statistiche e studi in proposito e delle dichiarazioni della Boeing, che in un documento emesso pochi giorni dopo il decollo dichiarava di non ritenere serio il pericolo di danneggiamento dell’ala sinistra, a seguito dell’analisi delle immagini raccolte.

Insomma, si tratta essenzialmente di un problema sottostimato. Certo, qualcuno ne ha la responsabilità, ma non è per nulla facile definire ed identificare questo “qualcuno”, né sarebbe giusto. L’analisi dell’incidente deve servire soprattutto per ricostruire e non per punire, solo in questo modo si renderà giustizia ai sette astronauti.



1 commento