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I resti mortali delle prime stelle

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Immagine artistica di una nube di gas distante che contiene diversi elementi chimici. Crediti: ESO/L. Calçada, M. Kornmesser
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Lontano lontano nel tempo, agli albori dell’universo, nacquero le prime stelle. Oggi, come antichi testimoni di una epoca passata, esse ci raccontano la loro storia come fiaccole fatue mormoranti.

Le prime stelle oggi sono deboli e lontane per essere rilevate direttamente, ma ancora, i loro resti gassosi, sono in grado di assorbire la luce delle galassie lontane. E’ come se le antiche vestigia di antichi eroi ci stessero segnalando la loro presenza attraverso il baluginio delle leggendarie armature, sfoggiando con orgoglio la blasonata essenza. Esse portano con sé, infatti, un’impronta chimica distintiva lasciata dall’Universo primordiale.

Gli astronomi sono riusciti a fare un passo indietro nella storia, individuando tre nubi di gas simili, da cui si formarono queste stelle, un paio di centinaia di milioni di anni dopo che l’Universo ebbe inizio.

Esse ebbero origine da nubi composte solamente da idrogeno ed elio con qualche spolverata di litio ed erano molto più massicce delle stelle moderne. Secondo le simulazioni, una singola stella potrebbe equivalere a decine o addirittura centinaia di Soli. La loro mole e l’estrema luminosità gli fecero vivere una vita breve prima di arrivare alla fine. Tuttavia, le prime supernove riuscirono a malapena ad esplodere. Erano deboli e non riuscirono ad espellere tutti i loro strati esterni. In particolare, i gusci più interni, quelli che contenevano gli elementi più pesanti come il ferro, tendevano a ricadere in basso. Questa incapacità di proiettare all’esterno materiale pesante le tramutò in efficaci arricchenti dell’ambiente circostante di carbonio e altri elementi leggeri, gli altri, quelli pesanti, rimasero al loro posto. Di conseguenza la generazione successiva di astri apparve povera di ferro, proprio come la precedente, ma più ricca di carbonio, ossigeno, magnesio, alluminio e silicio.

Diagramma che illustra come gli astronomi possono analizzare la composizione chimica di nubi di gas distanti usando la luce di un oggetto di fondo (come un quasar) come un faro. Crediti: ESO / L. Calçada

Un’impronta digitale che è stata rilevata, dagli astronomi, in molte stelle, fin dai primi anni 1990, all’interno dell’alone della Via Lattea. Come resti leggeri e longevi di un’era passata. E, sulla base della loro esistenza, gli astronomi ritengono che nell’Universo primordiale dovessero esistere nubi con composizione chimica simile.

Ma le nubi sottili e isolate avevano meno probabilità di formare generazioni stellari successive. In questo modo, le firme chimiche delle prime stelle sono rimaste intonse.

L’opportunità di rivelarle è stata offerta da alcuni quasar che, grazie alla potenza del Very Large Telescope dell’Osservatorio Europeo Australe in Cile, hanno assolto il compito di fari nella notte. La loro luce si proietta in tutto l’Universo e qualsiasi nuvola intermedia agisce come una nebbia di fronte ad un proiettore, oscurando la sua luce a determinate lunghezze d’onda.

Le analisi della NASA hanno rivelato che da uno campione di 37 nuvole, 12 erano povere di ferro e di esse tre erano anche relativamente ricche di carbonio e altri elementi leggeri, tutte risalenti a meno di 2 miliardi di anni dopo il Big Bang e con una composizione chimica simile alle stelle di piccola massa nell’alone della Via Lattea. Anche se da molto lontano sappiamo che le nubi individuate contengono i resti delle antiche stelle di prima generazione.