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Soli e incompresi – intervista a Amedeo Balbi

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Douglas Adams l’aveva messa sul ridere, come sempre:

Niente viaggia più in fretta della velocità della luce, con la possibile eccezione delle cattive notizie, che seguono leggi specifiche

Scriveva in “Praticamente innocuo”, il quinto libro della pentalogia della “Guida galattica per autostoppisti”.

Ma fin quando i presupposti descritti nell’opera dall’autore inglese non saranno dati – leggasi l’invenzione della propulsione d’improbabilità infinita, con possibilità di viaggiare da una parte all’altra dell’universo istantaneamente al prezzo dell’inattesa trasformazione “di interi pianeti in torte alla banana” (sì, è un libro da leggere!), dovremo verosimilmente abituarci a chiacchierare solo tra noi esseri umani. Perché l’universo è grande e la velocità della luce è estremamente bassa a confronto. Tanto che sarebbe scientificamente inutile sperare di vedere già solo le spunte blu su un messaggio inviato al vicino abitante di Vega prima di 50 anni. Immaginate poi se è uno che legge, ma non risponde…

E se anche dovessimo scoprire come aggirare il piccolo problema imposto dalla fisica e se dovessimo in più trovare qualcuno nell’immensità del cosmo con cui scambiare due chiacchiere, non è detto che si riuscirebbe mai a capirsi. Un aspetto che era stato solo marginalmente preso in considerazione dai pionieri del progetto Search for Extra-Terrestrial Intelligence (il SETI), concentratosi per decenni sulla ricerca di trasmissioni radio che potessero dare un indizio sull’esistenza di qualcun altro là fuori. Oggi la ricerca di vita intelligente ha cambiato un po’ prospettiva.

«Il problema del parlare con una civiltà extraterrestre si pone su più livelli», ci fa notare il fisico, professore universitario e divulgatore italiano Amedeo Balbi, autore di numerosi studi scientifici e saggi sul tema, tra cui il libro “Dove sono tutti quanti?”, incentrato proprio su questo tema. La prima cosa da fare sarebbe riuscire a capire se c’è qualcuno con cui scambiare un messaggio. Un’impresa in sé quasi proibitiva, commenta Balbi dall’altra parte della cornetta.

«Iniziamo dalla questione della sincronizzazione, ovvero se c’è in questo momento una civiltà intelligente pronta a comunicare con noi. È un problema serio e sorprendentemente non è mai stato analizzato troppo nei dettagli. Forse perché sembra quasi banale dirlo: per parlarsi deve esserci qualcuno in questo momento. Ma se questo qualcuno ha smesso di trasmettere segnali un miliardo di anni fa, noi non vedremmo nulla».

Il grosso problema è riuscire a capire quanto si possa sperare che vi sia una civiltà contemporanea abbastanza vicina a noi per riuscire a farsi viva. «La galassia è piuttosto grande se misurata su scala umana e anche il tempo trascorso prima del nostro avvento è enorme: sono passati miliardi di anni, che su scala cosmica non è però molto. È quindi del tutto possibile che nella nostra galassia vi siano state civiltà tecnologiche negli ultimi 10 miliardi di anni e che siano scomparse ben prima che noi potessimo rendercene conto».

La questione si complica ulteriormente considerando che dei 106 mila anni luce di diametro della galassia, il raggio utile per captare una trasmissione è di circa «un migliaio di anni luce. Se anche ci fosse qualcuno che sta trasmettendo, ma fuori da questo raggio, non vedremmo comunque nulla».

E allora come se ne esce?

«L’unica via d’uscita per sapere se almeno ci sono state altre civiltà tecnologiche è sperare che abbiano prodotto tracce capaci di durare milioni di anni dopo che la civiltà che le ha prodotte si è estinta – rileva Balbi -. In tal caso potremmo per lo meno sperare di poter fare una sorta di archeologia delle civiltà intelligenti nella galassia».

Ed è appunto in questa direzione che sembrano orientati i nuovi ricercatori del SETI: «Inizialmente si cercavano le trasmissioni radio, sull’esempio di quanto stava facendo allora la nostra civiltà ovvero inviare, volontariamente e involontariamente, segnali radiotelevisivi nello spazio. Per decenni la ricerca di vita extraterrestre si è dunque concentrata sulle analisi delle sorgenti radio provenienti dal cielo. Il problema è che oggi, dopo un centinaio di anni, per via dell’evoluzione tecnologica, anche noi stiamo smettendo di trasmettere. Diventeremo quindi invisibili all’esterno da questo punto di vista». Se dunque, come avvenuto sulla Terra, la finestra di visibilità nelle onde radio delle civiltà intelligenti è misurabile in un centinaio di anni, è fondamentale individuare tracce più persistenti per avere qualche speranza di trovarle.

«Negli ultimi dieci anni, con nuove generazioni di scienziati e con nuove scoperte, si è elaborato un piano diverso. Si pensa ad esempio di cercare tracce nell’atmosfera di un pianeta capaci di “tradire” la presenza di vita industriale. Pensiamo ad esempio cosa abbiamo fatto noi negli ultimi 250 anni. Inoltre l’atmosfera potrebbe dire addirittura se un pianeta è pieno di vita ben prima che questa diventi intelligente: un astronomo alieno che avesse osservato la Terra negli ultimi due miliardi di anni, da quando insomma c’è stato l’aumento di ossigeno nell’atmosfera, si sarebbe potuto rendere conto abbastanza facilmente di essere di fronte a un pianeta abitabile e abitato. L’altra possibilità per trovare tracce di vita intelligente presente o passata è ipotizzare che anche altre civiltà abbiano messo in orbita molti satelliti artificiali. Questi, specialmente se parcheggiati su orbite lontane dal pianeta, potrebbero essere individuati quando passano davanti alla loro stella».

Anche queste semplici scoperte indirette, secondo Balbi, sarebbero già un evento straordinario. Soprattutto perché avverrebbero contro ogni probabilità.  «Già solo prendendo in considerazione il problema della sincronizzazione e quello delle distanze ci si accorge che sarà difficilissimo trovare qualcuno – commenta -. Facciamo due calcoli: supponiamo, in maniera esageratamente ottimista, che nella Via Lattea vi siano 10 civiltà tecnologiche in questo momento. Disponendole in modo aleatorio nella galassia, la loro distanza media sarà di circa 10mila anni luce». Quindi ben oltre il limite di rilevabilità attuale.

Tanto basterebbe per spegnere ogni entusiasmo. Ma c’è altro.

Anche ipotizzando di riuscire ad aprire un canale di dialogo, «il problema quasi insormontabile sarebbe poi capirsi, perché non vi sarebbe una base comune semantica e culturale. Già solo sulla Terra vi sono state enormi difficoltà a decifrare linguaggi antichi di cui era andato perso il vocabolario. Difficoltà che sarebbero immensamente superiori con una civiltà evoluta su un altro pianeta, con condizioni di partenza potenzialmente molto diverse da quelle che abbiamo avuto noi sulla Terra». Il risultato potrebbe essere una logica, un’organizzazione del pensiero e una visione dello spazio e del tempo profondamente diversi dai nostri. Tanto diversi da impedirci di capirli. «Gli ottimisti qui – spiega Balbi – si affidano al fatto che una civiltà tecnologica abbia necessariamente avuto a che fare con la stessa fisica e chimica e quindi guardano alla matematica come possibile Stele di Rosetta. Personalmente temo sia una speranza un po’ tirata per i capelli».

Insomma, facciamo notare al nostro interlocutore, siamo destinati a essere soli.

«Non siamo soli, ma sicuramente siamo molto isolati – replica Balbi -.  Se, come è ragionevole credere, le civiltà intelligenti sono un fenomeno raro nell’universo, allora sono diluite nel volume della galassia e nel tempo cosmico.  E non sapremo mai che sono esistite».

Quindi non vale la pena cercare? Ci domandiamo!

«No, al contrario. Il mio non è un discorso disfattista. Sono cosciente che le probabilità siano molto basse, ma se non cerchiamo nemmeno, le probabilità allora saranno sicuramente zero».

Intervista tratta dal n. 273 della rivista “Meridiana” a cura di Luca Berti – Società Astronomica Ticinese