E naturalmente quelle pagine appartenevano, che so, a qualche immaginifico testo di Flammarion datato 1888, cosicché sempre mi vedevo costretto ad alzare gli occhi per perdermi dietro a indefinibili fantasticherie, sospeso tra il tentativo di percepire il sentimento del grande francese mentre scriveva di avvenimenti per lui più lontani di qualsiasi domani e la bizzarra visione di me stesso quasi vecchio arrivato a quel giorno fatidico. Un tranquillo signore che magari nel momento del transito avrebbe pensato al ragazzino di tanti anni prima chino sul libro di Flammarion, come in un continuo e circolare fluire del tempo.
Una vertigine temporale che nel corso della vita si è ripetuta ad intervalli regolari, perché in qualsiasi trattato di astronomia, anche tra le pagine di libercoli da biblioteca popolare, in qualche ricorrente articolo del vecchio Coelvm o nelle prime dispense universitarie, le strane e ipnotiche parole erano sempre in agguato. Sempre meno esotiche però, e sempre più simili alle prosaiche scadenze della vita di tutti i giorni.
Scendo, e a quel ragazzo vorrei poter dire che il viaggio è stato buono, che non deve preoccuparsi. Ma che ora – a dirla con Milosz – non so cosa fosse vero.