Editoriale – Coelum n.178 – 2014

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«Mi chiedono sempre se il mio modo di guardare nel telescopio sia in qualche modo diverso da quello con cui ci guardano loro.

Io li capisco, e so che quando la gente mi chiede questo, in realtà vuole soltanto sapere se il segreto di ciò che dico di vedere nel cielo sta nella mia testa o nel mio strumento.

Perché è chiaro… loro si vestono come me, parlano come me; vengono alle mie conferenze, frequentano le lezioni per molare i vetri, costruiscono strumenti che sembrino il più possibile poveri e sgraziati; poi se li trascinano in giro finché su una vecchia auto scassata non raggiungono un posto abbastanza buio dove piazzarli. Qui si fermano, scendono, fumano una sigaretta (o forse no, perché io non fumo) e alla fine si rassegnano, e drizzano i grossi tubi verso qualcuna di quelle luci che non capiranno mai, cercando però di farsele piacere.

Sono persone simpatiche, intelligenti e buone, così che quando tornano dalle loro serate e mi raccontano di quello che hanno visto, io sto male per loro.

Perché sento che ci hanno provato ma non hanno sentito. Ed ecco che ricominciano con le domande, perché è così evidente che vogliono disperatamente provare quello che provo io; o per lo meno, quello che dico di provare. Da qui in poi, non ricevendo risposte comprensibili, cominciano a pensare che se non è merito dello strumento, dell’atteggiamento e di quel pizzico di devota e beata rassegnazione con cui danno mostra di osservare quelle cose lontane, allora la soluzione di tutto non può che stare nella mia santità.

Avete capito bene: la mia… santità! Nientedimeno…
E si riducono così a pensare che la forza che apprezzano in me, la mia capacità di attirare le persone e di farle sognare per qualcosa che poi non tutti riescono a raggiungere, non possa venire che dal mio passato di monaco, dalla mia veste, dalla mia educazione religiosa. Cosa che un po’ li tranquillizza, perché li convince che osservatori del cielo si nasce, oppure lo si può diventare, ma solo stabilendo un contatto diretto con dio per almeno una ventina d’anni rinchiusi in un monastero. Come è successo a me.

E si convincono così tanto di questo che non c’è verso di fargli capire che lo sguardo che mi permette ora di abbracciare l’intero campo di un oculare con la stessa capacità emotiva di chi penetra la propria amata è lo stesso sguardo di chi per più di 15 anni si è consumato gli occhi su centinaia di libri di astronomia, fortificando il suo passo con la matematica e orientando le sue aspirazioni sulle opere degli astronomi passati.

Ecco, quando parlo così, e cerco di spiegarmi, allora vedo che la mia santità in quel caso non funziona; e che tutti mi guardano con l’espressione di chi si dà di gomito per non passare da sciocco.
Non mi credono, e preferiscono sperare che la conoscenza sia un dono, piuttosto che una conquista».

John Dobson