ADDIO COMETA, ORA IL CIELO CHI LO GUARDERÀ…
La cometa ci ha abbandonati. È andata ad ammirare (e a farsi ammirare) in altre zone del sistema solare. Non la vedremo più, la nostra Hale-Bopp: e pensare che ci era diventata quasi familiare. Non ci sporgeremo più dal finestrino dell’aereo, o dell’auto o del treno; o dalla finestra di casa per osservarla meglio. Però può andarsene via contenta, Hale-Bopp. Ha riscosso un vero successo di massa. Ha avuto un altissimo indice di gradimento. In qualche città l’amministrazione, confortata dal plauso dei cittadini, ha abbassato le luci, di sera, perché meglio quel corpo celeste risaltasse. E già, perché le nostre città sono così piene di fumi e di vapori, sono talmente abbagliate, stordite dai loro sistemi di illuminazione, che vedere il cielo non è più possibile. Tanto meno ammirarlo. Così si è detto. Così si dice. Questa la lamentela diffusa. Più che giustificata. Ormai non lo vedono più. Non sanno più com’è fatto.
Però mi ricordo anche un’altra cosa, in stridente contraddizione con quanto detto sopra. Chissà se è proprio vero che rimpiangiamo il cielo, e la possibilità di vederlo. Questa cosa discordante si trova in un racconto di José de Queiroz (uno scrittore portoghese noto anche da noi e che per qualche ragione prediligo) che si intitola La civiltà.
Già, che cos’è la civiltà? È forse la vita che conduciamo nelle nostre città: piene di suoni e di frastuoni, e di vapori che impediscono di vedere le stelle? Ma no, naturalmente. La civiltà è la vita semplice della campagna. «Dove puoi contemplare – assicura de Queiroz – il sontuoso cielo d’estate che sembra una polvere di pepite d’oro sospesa sopra le montagne oscure. In città non le guardiamo mai le stelle, a causa dei riverberi che le eclissano: ed ecco perché non entriamo mai in una vera comunione con l’universo».
«Se lo facessimo invece, se guardassimo più assiduamente il cielo stellato, ci renderemmo conto – pacificandoci – che siamo tutt’uno con l’universo. Ci renderemmo conto – consolandoci – che io, che tu, che questa montagna, che questo sole siamo soltanto molecole di un medesimo tutto, governate dalla stessa legge, indirizzate ad uno stesso fine».
Che cosa c’è che non va in questa descrizione così notturna e appassionata? Non va la data. Questo racconto è infatti stato pubblicato nell’anno 1892. Ora nel 1892, dov’erano in Portogallo le grandi metropoli infestate dagli striduli rumori, dai cattivi umori della modernità? Ci sarà stato qualche ansimante trenino che un po’ di fumo certo lo faceva. Ma le automobili? Ma le grandi industrie? Ma le abbaglianti illuminazioni cittadine, dov’erano? Non c’erano ancora. Quindi non potevano impedirci di vedere il cielo, se davvero lo volevamo.
È che non ne avevamo voglia, come non ne abbiamo voglia oggi. Come spiegare altrimenti la mancanza dei Planetari? Una volta ce n’era uno in ogni città. Sono stati lasciati decadere, e poi scomparire. Segno che questa gran voglia di uscir di casa per andare a riveder le stelle, forse non c’è. C’è anzi assai probabilmente la paura di affrontarli tutti insieme, i corpi celesti. Sono tanti. Una cometina – una sola e carina – va bene. Ma le stelle sono troppe. E un po’ troppo grande è anche il nostro universo. Nella Bibbia, il Signore dice ad Abramo: “Guarda il cielo, e conta le stelle, se ne sei capace”. Proprio così: “Suspice coelum et numera stellas si potes”.
No, che non ne siamo capaci. Non è un compito commisurato alle nostre forze. Dopo un po’, ci dà sgomento. Così non si dica che il cielo ci manca, perché non è vero.
Beniamino Placido