Editoriale – Coelum n.135 – Gennaio 2010

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Ero salito a questo osservatorio – che possiede il più potente telescopio del mondo – per chiedere le ultime novità sull’Universo a un astronomo che, in altri tempi, fece a mie spese i suoi studi.
Non l’avevo avvertito e non l’ho trovato. Ho potuto parlare, però, col suo assistente, il dottore Alf Wilkovitz, un giovane di origine polacca che mi è sembrato anche troppo intelligente per il posto subalterno che occupa.
Ieri sera, ad esempio, mentre si fumava e si beveva sopra una delle terrazze dell’osservatorio, sotto un cielo gremito e fitto di stelle come di rado si vede, Alf Wilkovitz, improvvisamente, con mutata voce, mi ha detto:
“Mr Gog, sento il bisogno di confessare a voi quel che non ho confessato, fino a oggi, ai miei maestri. Penso che voi mi potrete comprendere meglio di loro.
L’astronomia, anni fa, mi sembrava la più divina delle scienze ed è stata il mio primo amore intellettuale, appassionato e forte. Oggi, dopo aver conosciuto più davvicino il cielo, sono perplesso, turbato, dubbioso, talora impaurito. L’astronomia mi ha deluso. Comprendetemi bene: l’astronomia, come scienza esatta, è uno dei più meravigliosi edifici innalzati dalla mente umana negli ultimi secoli. Mi ha deluso, invece, il suo oggetto: l’universo siderale.
Provengo da una famiglia religiosa e fin da bambino mi ha risuonato nell’anima il famoso versetto: i cieli narrano della gloria di Dio. Ma ora che conosco meglio il cielo, che conosco da vicino i suoi occupanti e i suoi recessi, mi pare di essere tradito. Il firmamento l’avevo immaginato come un’architettura immutabile e razionale, tutta diversa dal caos terrestre: come una sfera quasi divina al di sopra del troppo umano pianeta. E invece…”.
Alf Wilkovitz buttò con rabbia la sigaretta accesa e alzò una mano verso la volta scintillante.
“Ecco quello che accade lassù. Innumerevoli immensi fuochi che fuggono e si consumano. Perché fuggono? E dove? Noi siamo abituati alle rotazioni regolari dei nostri pianetucoli intorno a quella mediocre stella ch’è il sole. Ma la maggior parte degli astri fuggono vertiginosamente – non sappiamo dove, non sappiamo perché. Le nostre misurazioni sono ridicolmente misere: i nostri telescopi più potenti sono come gli occhi d’insetto che fissano l’eccelse vette dell’Himalaya. Il cielo che noi vediamo non è quello di oggi, di questo momento: in alcune parti è quello di secoli fa, in altre quello di millenni or sono. Sembra che le nebulose più lontane si sforzino di allontanarsi sempre più dalla Via Lattea, ma perché fuggono e dove vanno non lo sapremo mai. Fuggono come disperati gli astri, e fuggendo fiammeggiano, cioè si distruggono. I loro atomi si disgregano a milioni per volta, generando luce e calore. Ma chi è rischiarato da quella luce? Chi è riscaldato da quel calore? È mai possibile che un’intelligenza suprema abbia voluto questa dilapidazione enorme, perenne e ciononostante inutile? A che servono questi innumeri e paurosamente grandi fuochi fuggiaschi, che di continuo nascono e bruciano, destinati a consumarsi invano? La mente umana, a questo pensiero, si confonde, atterrita da quello spettacolo assurdo.
Il cielo è una sterminata incubatrice di fanciulli ma anche uno sterminato cimitero di trapassati. La legge della nascita, della crescenza e della decadenza, che si credeva propria dell’effimera vita terreste, è anche la legge che regna nell’alto dei cieli. V’è una sola differenza; che gli uomini vivono per milioni di secondi e gli astri per milioni di anni.
Voi capirete, ora, il mio smarrimento e la mia angoscia.
Là dove credevo di trovare la perfezione sublime della razionalità, non ho trovato che sperpero inutile, prodigalità pazza, moto e dissolvimento senza scopo e ragione. Là dove credevo di trovare, finalmente, la maestà dell’immutabile, ho trovato la solita vicenda del passeggero e del transitorio, della nascita faticosa, della gioventù sciupata, della decadenza senile, della fine inevitabile.
Così ho deciso. Non appena tornerà il mio maestro lascerò l’osservatorio e l’astronomia. Mi contenterò, come gli altri uomini, di essere un povero insetto affamato che s’aggira tra i fili d’erba delle praterie della terra”.

Così mi ha parlato Alf Wilkovitz e c’era nella sua voce il tremore dell’ira e v’era nei suoi occhi un umido brillio che somigliava al pianto.

Adattato da uno scritto di Giovanni Papini pubblicato nella raccolta “Piccolo Atlante Celeste – Racconti di astronomia”, ed. Einaudi, 2009.