Tra cento anni, quando si festeggerà il 500° anniversario dell’invenzione del telescopio, nessuno di voi lettori sarà qui a leggere l’editoriale di un improbabile direttore di un’ancora più improbabile rivista di astronomia che un tempo si chiamava Coelum, ridotta più sicuramente a pochi esemplari che si venderanno sì e no in una qualche trasformata versione di e-bay.
Non ci sarà nessuno di noi.
Niente potrebbe suonare più definitivo di questa affermazione, eppure la cosa sembra non riguardarci che in minima parte, presi come siamo a considerare inevitabile solo ciò che accade agli altri. Così che capita ogni tanto di riflettere su come il cinismo dell’abitudine ci induca a trattare spesso con molta disinvoltura le vite altrui, quasi fossero banali dati statistici di cui ci servirsi solo per le nostre occupazioni.
Succede spesso anche in questo lavoro, dove ogni tanto mi assale un brivido quando mi accorgo di scrivere senza riflettere di questo o di tal altro astronomo del passato, e mi sorprendo ad annotare con disinvoltura, che so: Edwin Hubble (1889-1953).
Avete mai pensato a quella parentesi? A quelle due date che mettiamo lì, magari preoccupandoci soltanto di non sbagliare il tasto numerico? Alla leggerezza con cui la pedanteria classificatoria prende il sopravvento sull’umana pietà per persone reali (e non figurine liebig di una stereotipata collezione di geni) che pure un tempo non devono aver prodotto soltanto astronomia, ma andavano in bicicletta, fumavano, ridevano e magari pisciavano controvento come tutti noi?
Ecco questa cosa mi prende a tratti, e mi fa vergognare un po’ per l?appartenere invece alla schiera, non troppo numerosa per fortuna, di chi ha sempre cercato in modo maniacale di mandare a memoria date e fatti.
Una perversione, quasi certamente: nel mio caso il tentativo di mettere un sipario di numeri tra “me” e “loro”, tutti ridotti a una sfilza di date ben allineate nelle parentesi, come se quelle vite fossero servite soltanto a formare un compendio di storia dell’astronomia e non nascondessero invece – tutte quante – la pienezza propria di ogni essere umano che si arrabatta nel cercare di vivere, comunque.
Io di qua, ancora vivo, e loro “di là”, trapassati, infilzati negli spilli, interessanti soltanto per avere scoperto qualcosa, per la pietruzza o la conchiglia newtoniana trovata sulla riva del mare? Ecco, credo sia questo il meccanismo.
Certo, poi ci sono le biografie da leggere, gli aneddoti e le coloriture, tutto quanto può servire per alleviare il senso di colpa e per restituire l’illusione che ognuno di loro sia ancora qui ad interessarsi con noi di scienza e astronomia. Come giocatori che continuano a guardare la partita una volta richiamati in panchina.
Non è così purtroppo, lo sappiamo bene.
Semplicemente non ci sono più, se ne sono andati. Scaldano i nostri cuori, ma è come se la vita condensata in quelle due date, simile a quella di qualsiasi altro nonostante il loro genio, ci ammonisse continuamente sull’unica cosa veramente preziosa e irripetibile che abbiamo a nostra disposizione; che non è l’impersonale “puntino azzurro” di cui parlava Carl Sagan (1934-1996) riferendosi alla responsabilità comune di preservare la bellezza di questo pianeta, ma la vita stessa. Quella vita per cui tutti “loro” – ci scommetto – darebbero in cambio tutti gli onori e le pietruzze accumulate per ritornare anche solo per un giorno a respirare.
Vivete e guardate il cielo cari lettori, questo sì, e fate in modo che la vostra naturale propensione a immaginare quei mondi lontanissimi non sia guastata dall’imperativo di misurarvi con le vite dei “giganti” che vi hanno preceduto, ma di considerarli piuttosto per quello che realmente erano: eterni ragazzi che come voi amavano le stelle e tutto il resto.