In questi giorni ci ho pensato più volte, arrivando a sfogliare le prime annate della rivista nel tentativo di trovare il punto esatto in cui me ne sono venuto fuori con quell’idea di separare Caronte da Plutone.
Dev’essere comunque stato nel 1998, o giù di lì, dieci anni giusti insomma.
E da allora ho sempre cercato di tenere viva la questione riproponendo la sfida ogni volta che la rivista si occupava di tecniche di ripresa ad alta risoluzione o nominava per le più svariate ragioni quella strana coppia ai confini del nostro Sistema.
E quelli erano ancora gli anni (gli ultimi) in cui Plutone segnava davvero il punto limite delle nostre conoscenze planetarie, l’Hic Sunt Leones laddove in seguito si sarebbero scoperte bestie anche più grandi di lui, e intere regioni affollate di sterminate mandrie di oggetti che gli avrebbero rubato la scena.
Plutone aveva però una storia di passioni alle spalle della sua scoperta, Plutone erano gli anni della giovinezza dove il fascino dell’estremo e del confine aveva la meglio sulla banale evidenza dei pianeti più grandi e vicini, era Bob Dylan che cantava: “If you’re traveling in the north country fair, where the winds hit heavy on the borderline…” e all’immagine della ragazza che abitava il Minnesota si sostituiva quella di un mondo al confine del mondo, battuto dal vento e dalla neve; desolato e solo, in definitiva, con i fantasmi di Lowell e Tombaugh a tormentare i nostri cuori innamorati dell’astronomia.
E che cosa ci poteva essere di più appropriato, dunque, per spronare un amatore a misurare le proprie forze su quel confine battuto dal vento, del suggerire l’impresa che avrebbe onorato insieme le passate figure del Flagstaff Observatory e quelle appena più recenti di Christy e Harrington che scoprono Caronte senza mai guardare il cielo in un’afosa estate di 31 anni fa?
Si doveva provare a riscoprire Caronte, allora. Era deciso.
Ma in tutti questi anni, la decisione è rimasta soltanto mia, e mai sono riuscito ad avere da qualcuno un’adesione al progetto che non assomigliasse alla cortesia con cui si liquidano le fissazioni di un noioso perdigiorno.
Mai nessuno; fino al giorno in cui di questa antica fissazione ho messo al corrente Daniele Gasparri, laureando in astronomia a Bologna e prezioso collaboratore, che invece di nascondersi dietro le solite formule di rito mi ha risposto immediatamente: “si può fare”. Lasciandomi sorpreso e incredulo del fatto che avesse davvero capito che gli stavo proponendo di fotografare due oggetti di infima magnitudine separati da nemmeno un secondo d’arco. Un’impresa mai tentata da nessun astronomo dilettante e riuscita con telescopi a Terra solo a pochi Osservatori professionali.
“Si può fare”, mi rispose, e lo ha fatto davvero, coordinando uno staff di osservatori che ha poi trovato in Antonello Medugno la punta di diamante capace di concretizzare tecnicamente le aspirazioni di tutti.
Per quanto le abbia a lungo cercate, non riesco a trovare le parole per esprimere a questi ragazzi la mia riconoscenza.
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