“Quando fui più grande mio padre progettò e costruì per me strumenti di misurazione, micrometri filari, e m’insegnò che tutto quello che si poteva immaginare era trasferibile sulla carta.
M’insegnò anche a sfruttare al massimo le cose che mi circondavano.
Vivevamo vicino a un’università che aveva il suo planetario e un piccolo osservatorio raggiungibile a piedi, e poi qualcos’altro. Una biblioteca.
Così trascorrevo ore tra le scartoffie, passando al vaglio incomprensibili documenti scientifici, riviste inglesi, almanacchi astronomici.
In breve, facevo tutto il possibile per stare vicino alla cosa che amavo di più. Naturalmente i miei genitori e i miei vicini erano convinti
che avrei fatto l’università e sarei diventato un astronomo. Ma le cose non andarono così…
Dopo la scuola superiore avevo davvero intenzione di studiare astronomia, ma poi accadde qualcosa. Non me la sentii più. Abbandonai gli
studi dando la colpa alla matematica superiore che dovevo sorbirmi e alle interminabili lezioni di fisica che mi facevano girare la testa.
Erano tutte scuse. Non fui distolto da una donna né dall’impegno eccessivo, bensì da un libro. “Lo straniero”, di Albert Camus.
Quando l’estate successiva tornai a casa dall’università, avevo già preso la decisione. Volevo diventare uno scrittore.
Potevo percepire la delusione nella voce della gente.
“Pensavo che volessi diventare un astronomo”.
Le aspettative sono investimenti, e nessun investimento è più grande dell’amore che i genitori nutrono per i loro figli, specialmente l’amore
di un padre pratico.
“Come farai a guadagnarti da vivere?”
“Sarò un astronomo scrittore” annunciai. “Farò tutte e due le cose”.
Ripensandoci, quello che dissi a mio padre rispecchiava proprio quello che sentivo. Mi ero sempre immaginato come un astronomo scrittore, o come un astronomo a cui capiti di scrivere, alla pari di Carl Sagan o di Patrick Moore. In fondo l’astronomia e la narrativa si pongono domande simili. Si occupano entrambe delle origini, studiano il filo e l’arco della vita.
Che sia la vita di un personaggio o di una galassia, poco importa. I moti sono gli stessi. La nascita, una turbolenta età di mezzo, la morte.
Le incertezze che offuscano gli occhi e il giudizio degli uomini offuscano anche le galassie.
Anche queste ultime hanno le loro crisi. Alcune si scontrano, si fondono, sono vittime della gravità. Perdono i loro vitali gusci d’idrogeno, alla stregua degli uomini che perdono la mente per via dell’alzheimer.
Le galassie si concentrano, si disperdono, si esauriscono.
Anche gli uomini fanno lo stesso. Il nostro idrogeno è la giovinezza, e la speranza che il domani sarà superiore alle nostre aspettative. Non
va sempre così.
L’abbandono dell’astronomia a una così giovane età mi costrinse a pagare un tributo imprevisto. Smisi di guardare il cielo, e la fantasia
su cui uno scrittore fa affidamento presto svanì. Al primo romanzo ne seguì un secondo, e fu l’ultimo. Le parole cominciarono a trascinarsi,
e alla fine anche la passione su cui contavo si dissolse.
Era necessario un rinnovamento. Era tempo di tornare a guardare le stelle.
Tratto da “Un anno passato a guardare le stelle”,
di Charles Laird Calia. Ed. Ponte Alle Grazie, 2006
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