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Recensione: “Il nostro ambiente cosmico” – Martin Rees

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Martin Rees, Astronomo Reale a Greenwich e Research Professor all’Università di Cambridge in Inghilterra è un autore prolifico ma solitamente i suoi libri divulgativi sono di ottima qualità. Non fa eccezione questo volume che raccoglie i suoi interventi alle Scribner Lectures, una serie di lezioni tenute all’Università di Princeton, nelle quali voleva “descrivere a grandi linee una certa attività scientifica di frontiera oggi molto vivace, mettendo in evidenza alcune idee nuove e rendendole accessibili al grande pubblico”.

Il libro prende le mosse da una descrizione del sistema solare e dall’esistenza di altri sistemi planetari, accertata con sicurezza solo nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso.

L’autore pone poi il problema della vita e dell’intelligenza al centro di un’indagine che comprende, come componente primaria, la più onnicomprensiva delle scienze “ambientali”, la cosmologia. Egli è convinto che anche se le forme di vita di tipo primitivo fossero comuni, l’emergere di forme progredite o intelligenti potrebbe non esserlo affatto. Sul nostro pianeta le forme di vita più semplici si sono evolute molto rapidamente, ma ci sono voluti invece circa tre miliardi di anni perché entrassero in scena i più elementari organismi pluricellulari. È lecito supporre che vi siano ostacoli molto gravi alla formazione di organismi complessi: l’intelligenza potrebbe essere estremamente rara anche se la vita ai livelli più primitivi non lo fosse.

A pagina 46 Rees sostiene che “sarebbe per certi versi deludente se la ricerca di un’intelligenza extraterrestre fallisse, ma, in compenso, ciò darebbe all’uomo un pretesto per avere una più alta opinione di sé: se la nostra piccola Terra fosse l’unica dimora dell’intelligenza, il suo significato cosmico sarebbe molto superiore a quello che avrebbe qualora la Galassia pullulasse di vita complessa”. Mi pare che si tratterebbe di una ben grama consolazione a fronte di una assoluta e desolante solitudine cosmica!

Rees dice che per noi la sfida del nuovo millennio è la risposta a questa domanda: “Com’è che 13 miliardi di anni di evoluzione ci hanno portato da condizioni iniziali semplici ad un ambiente complesso, in cui gli atomi si uniscono a formare creature capaci di riflettere sulle proprie origini?”

È indubbiamente vero che una stella è più semplice di un insetto e che i biologi devono affrontare sfide ben più dure di quelle che vengono poste agli astronomi.

Infatti, secondo i cosmologi oggi è possibile descrivere quello che è accaduto nei primi secondi della storia cosmica, con un margine di sicurezza del 99% (almeno così afferma Rees a p. 80) e, soprattutto, che tutto è cominciato con un big bang, le cui proprietà essenziali sono relativamente semplici da descrivere.

Si ritiene che la prova che agli inizi del tempo il cosmo fosse piccolissimo, densissimo e caldissimo sia stata acquisita cinquant’anni fa con la scoperta della radiazione di fondo, l’eco della creazione. Rees mette però le mani avanti quando afferma che anche la teoria dello stato stazionario, che a lungo ha contrastato quella del big bang, potrebbe essere quella giusta, specialmente nella versione del “bang continuo”, messa a punto da Hoyle poco prima di morire. Forse l’errore commesso da Hoyle, Bondi e Gold è di aver attribuito al cosmo delle dimensioni troppo piccole. È infatti possibile che il nostro big bang sia solo uno fra i molti “bang” disseminati in un universo che su di una scala gigantesca permane in un eterno stato stazionario che eternamente si riproduce.

Come ultima chicca voglio riportare sinteticamente quale potrebbe essere il destino della “quintessenza” secondo i moderni cosmologi (tra i quali, naturalmente, lo stesso Rees).

Dice Rees (p. 134): “non sappiamo che fine farebbe quella misteriosa energia dello spazio … come energia residua, potrebbe convertirsi in qualche nuovo tipo di particella. Mentre si degrada, questa energia residua potrebbe invece formare delle bolle … C’è però un’eventualità ancora più sconcertante, ed è che lo spazio vuoto possa subire una trasmutazione catastrofica. Magari l’attuale “vuoto” è metastabile e potrebbe trasformarsi in un universo del tutto diverso…”.

Mi fermo qui per un breve commento: questa non è più scienza, è pura e semplice, ed eccessivamente fantasiosa, speculazione. In almeno un paio di occasioni, nel suo libro, Rees si richiama, per illustrare concetti immaginifici, a quanto scrivono abili autori di fantascienza come Vonnegut e Stapledon e, in effetti, quanto oggi stanno masticando i cosmologi teorici assomiglia molto a science fiction di serie B: straordinari voli di fantasia assolutamente non verificabili attraverso l’osservazione.

Per carità, Rees è un ottimo scienziato in grado di scrivere affascinanti saggi divulgativi, ma non è che questa volta si sia lasciato prendere la mano per venali motivi di cassetta?

[Pubblicato su Coelum n. 85]

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Scheda tecnica

Il nostro ambiente cosmico

Martin Rees

Adelphi, 2004.

Formato 14×22 cm, pp. 227.

Prezzo 18,50 euro